SPECIALE
LIVE
05/2016
Milano e ROma
In helsinki
we drink your blood! HAMMER FESTIVALS TICKET
VIP
TO HELL
Guitare En ScEne
T ALPEN FLAIR FES TUSKA OPEN AIR S SUMMER NATIONAL CELTICA
Monsters Of Rock And Birmingham
Hammer Editoriale
Sotto il segno del Live Un’estate, questa, mai così rovente sotto il profilo dei concerti dal vivo, sia che si tratti delle caratteristiche manifestazioni festivaliere, gli Open Air che tanto ci piacciono e che, un poco alla volta, stan prendendo sempre più piede anche da noi, tra eventi per le masse o d’impronta più underground. Oppure gli show in solitaria, così mi piace chiamarli, durante i quali il palco è ad esclusivo appannaggio dell’artista, che può dare tutto se stesso al suo desideroso pubblico; numerose infatti le tournée di prestigio che mentre scrivo questo editoriale stanno passando per lo Stivale, una su tutte quella dei Testament reduci da un devastante trittico di date (Roma, Pisa e Milano), senza tralasciare le prossime calate italiche, a memoria snocciolo Metal Church, Voivod, Abbath (il Gene Simmons del black metal) che incuriosisce parecchio, oppure i concerti estemporanei dei nostrani DGM (aspettatevi il botto con l’imminentissimo nuovo album, ‘The Passage’) e i Lacuna Coil finalmente profeti in Patria. Per dire che, di carne al fuoco, ce n’è sempre abbondante,
e Metal Hammer e la sua crew sono costantemente in allerta, e quello che state ora sfogliando è un numero speciale dedicato praticamente per intero a tutti i più importanti concerti che, dalla metà di giugno alla fine di luglio, hanno maggiormente infiammato le platee nazionali ed internazionali. Già, perché ricchissimo il carnet sul fronte estero, con sugli scudi la data “doppia” dei Rainbow (Metal Hammer si è mosso sia su Stuttgart che Birmingham, per celebrare in pompa magna la rentrée live della band fondata dallo storico Ritchie Blackmore), i Black Sabbath che salutano per l’ultima volta il loro pubblico finlandese, ma soprattutto è il sigillo finale degli imprescindibili Twisted Sister a spianare ogni giudizio, a farci salire il magone poiché, da inguaribili nostalgici quali siamo, facciamo un’estrema fatica ad immaginarci
una scena, la nostra scena, presto orfana di Dee Snider & Co. Il loro show francese, con tanto di j’accuse nei confronti di chi ci sta facendo vivere nel terrore (quella stessa sera, sulla Promenade di Nizza avveniva l’ennesima strage nei confronti di un Occidente che pare quasi far finta di nulla…), è stata un’esperienza forte, fortissima, di quelle che marchiano indelebilmente. Mentre, tra le mura amiche, tutto è stato monopolizzato dall’avvento degli Iron Maiden: tre date, Milano, Roma e Trieste, e la garanzia, inossidabile, che una band di tale portata semplicemente non si batte. Ne avevamo avuto il sentore un mese fa in quel di Vienna, e con la tripletta italiana il concetto è stato ribadito, gli Iron sono gli Iron, punto e basta. Una categoria a parte. Una categoria nobile, alla quale si è certamente avvicinato Alice Cooper (uno spettacolo al fulmicotone il suo, dentro un Alcatraz finalmente gremito), Robert Plant in splendida veste da solista, i Jane’s Addiction alle prese con la celebrazione di ‘Ritual De Lo Habitual’, un quarto di secolo e passa dopo la sua storica pubblicazione. Non c’è che dire, abbiamo tutti fatto gli straordinari quest’ultimo mese… Buona lettura, quindi. Alex Ventriglia
TUTTI I GIORNI NUOVI CONTENUTI vai al sito www.rockandmetalinmyblood.com 4 METALHAMMER.IT
RECENSIONI LIVE REPORT articoli Discografie Complete
Hammer mer Ham ore CHighlights
LIVE Report Robert Plant 36
DIRETTORE EDITORIALE Alex Ventriglia alex.ventriglia@metalhammer.it
Il magistrale singer dei Led Zeppelin a Milano per un concerto solista
Whitesnake 38
DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Taricco
VICEDIRETTORE EDITORIALE Fabio Magliano fabio.magliano@metalhammer.it
David Coverdale e il nostro Michele Luppi al Pistoia Blues Festival
CAPOREDATTORE Stefano Giorgianni steve.giorgianni@metalhammer.it
Alice Cooper 40 Mai domo, torna Alice Coo-
per per uno show all’Alcatraz di Milano
REDAZIONE
Queen 44 La magia degli inglesi con
Andrea Vignati andrea.vignati@metalhammer.it
Summer Nationals
Paky Orrasi paky@metalhammer.it
Adam Lambert incanta Piazzola sul Brenta
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Good Riddance, Pennywise e The Offspring per un gran festival punk
Alessandra Mazzarella alessandra.mazzarella@metalhammer.it
Jane's Addiction 50
Dopo il track-by-track dello scorso numero ora la band parla di “Ashes Of Fate”
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POWERWOLF 6
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Oltre il Metal, ma sempre Metal. Ecco uno degli eventi pagani più amati dell’estate Vino, birra e tanto divertimento per il festival cuneese
RUDERIROCK 67
Roberto Villani roberto.villani@metalhammer.it
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Langhe 66
FOTOGRAFI Alice Ferrero alice.ferrero@metalhammer.it
Kotzen, Sheehan, Portnoy nel concerto milanese al Market Sound
Celtica 64
Angela Volpe angela.volpe@metalhammer.it
LUPI DAL VIVO
Con sei full-length alle spalle, i Powerwolf hanno preso la decisione di rilasciare il celebrativo “The Metal Mass Live”. Scopritelo con noi in questo speciale dedicato.
Tre dei della chitarra per una data all’insegna delle emozioni
Winery Dogs 62
Andrea Schwarz andrea.schwarz@metalhammer.it
I Rezophonic di Mario Riso ospiti all’ultima edizione di Ruderirock
ALPEN FLAIR
TWISTED SISTER
Metal Hammer vi accompagna nel festival dal sapore germanico che si tiene in terra italica. Tanta birra e molta musica, di diversi generi.
Metal Hammer si reca in Francia per il piccolo ma importante Guitare En Scene, dove abbiamo assistito all’ultimo show francese di Dee Snider e soci.
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28 IRON MAIDEN
Metal Rubriche
Live Report
La calata in Italia della Vergine di Ferro seguita passo passo da Milano a Roma. Leggete i resoconti accompagnati dalle foto di Roberto Villani.
RAINBOW Molti aspettavano questo momento, che è finalmente giunto: il ritorno di Ritchie Blackmore coi suoi Rainbow. In esclusiva per voi.
RECENSIONI 52
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BLACK SABBATH
TUSKA OPEN AIR
Il tour d’addio del Sabba Nero, intitolato “The End”, giunge in terra finlandese per l’ultimo show davanti al pubblico di Helsinki.
In Finlandia si tiene uno dei festival più importanti e vari per il mondo del Metal. Vivete il Tuska Open Air attraverso le parole di Paky Orrasi.
Emanuela Giurano GRAFICA Andrea Carlotti PROGETTO GRAFICO Doc Art - Iano Nicolò HANNO COLLABORATO Andrea Lami, Roberto Gallico, Dario Cattaneo, Max Novelli, Elena Arzani PUBBLICITÀ adv@metalhammer.it IN COPERTINA Attila Dorn (ph. Jenny Dorn) Photo courtesy of Napalm Records
DOPO IL GRANDE RISULTATO DI “BLESSED & POSSESSED”, CHE LI HA PORTATI A SCALARE LE CLASSIFICHE EUROPEE, I LUPI TEDESCHI ARRIVANO ALLA PRIMA RELEASE LIVE IN DVD. UN PASSO OBBILIGATO PER CELEBRARE LA CARRIERA DI UNO DEI GRUPPI DI MAGGIOR SUCCESSO DEGLI ULTIMI ANNI NELLA SCENA POWER!
L E D A S S E LA M
METALLO
di Stefano Giorgianni
COVER STORY
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Tutti in piedi, la messa sta per cominciare, e non sarà come tutte le altre. Da oramai tredici anni scorrazzano per il mondo cinque loschi figuri a dispensare il verbo del Power Metal in lungo e in largo, si tratta dei Powerwolf e del loro metallo immerso nel vin santo che sta facendo impazzire l’Europa. Dopo diversi album e innumerevoli concerti suonati per il Continente, il gruppo tedesco è arrivato alla tanto attesa release live, intitolata “The Metal Mass Live”, un cofanetto imperdibile per i fan della band di Saarbrücken. Metal Hammer ne ha parlato con l’irrefrenabile tastierista Falk Maria Schlegel, dispensatore delle immancabili linee d’organo che contraddistinguono il sound della band. “È un piacere presentare questo primo DVD live dei Powerwolf” esordisce il musicista “un progetto che avevamo in mente da tantissimo tempo e che ora siamo riusciti a concretizzare.”. Si passa subito al contenuto della release, assai ricco: “Abbiamo scelto tre show dagli ultimi
tour, quelli che ci sembravano più adatti per fare un regalo ai nostri fans e per introdurre la nostra musica anche a una nuova audience. I concerti inclusi sono quelli al Summer Breeze, al Monsters Of Rock e il concerto di Oberhausen dal Wolfsnächte tour; li abbiamo selezionati per far vedere come si svolgono le serate targate Powerwolf e mostrarne anche le diverse accezioni, ovviamente incentrando sul pubblico gran parte dei filmati.”. Questa è la prima uscita video dopo una carriera più che decennale, difatti Falk Maria puntualizza che “con sei album alle spalle abbiamo pensato che fosse giunto il momento per rilasciare un DVD che dimostrasse la crescita della band e che mostrasse cosa significa assistere a uno spettacolo dei Powerwolf. In aggiunta abbiamo inserito un documentario, intitolato “Kreuzweg”, che riassume la storia della band e che getta uno sguardo privato sulla nostra vita e, a dir la verità, è forse la cosa di cui sono più orgoglioso
di “The Metal Mass Live”. Uno degli show all’interno della release è al Masters Of Rock, grande kermesse musicale che si tiene tutti gli anni in Repubblica Ceca, luogo in cui i Powerwolf hanno subito ottenuto un ampio successo: “Il successo della band in Repubblica Ceca è cresciuto più in fretta che in qualsiasi altro paese” dichiara Falk Maria “anche se non riesco a spiegare il perché in relazione agli altri paesi europei. Sta di fatto che ci hanno chiamato relativamente presto, nella nostra carriera, a giocare il ruolo di headliner per un festival importante come il Masters Of Rock, a quel punto abbiamo deciso di registrare il concerto e di tenerlo da parte per il DVD, quello che potete vedere oggi.”. Chiediamo subito della nostra patria, dove i tedeschi non hanno avuto gran modo di cimentarsi: “L’Italia purtroppo ci manca come paese dal punto di vista degli show, speriamo di rimediare al più presto e di riuscire a portare il verbo dei Powerwolf anche
nel vostro paese. A gennaio torneremo assieme agli Epica per un concerto a Milano, sperando di guadagnare sempre più fan.”. Torniamo un attimo indietro nel tempo per parlare dell’ultimo album, un’uscita che ha dato alla band un sacco di soddisfazione: “”Blessed & Possessed” è stato il più grande successo commerciale dei Powerwolf, raggiungendo importanti posizioni nelle classifiche di vendite di diversi paesi d’Europa, così come successe con “Preachers Of The Night” con il più alto gradino del podio in quella tedesca e non è proprio usuale che un gruppo metal si trovi lì. Questo sicuramente ci ha regalato più possibilità di suonare live in tutto il continente e di farci conoscere anche in luoghi dove in precedenza non ci consideravano molto. “Blessed & Possessed” è anche uno degli album che noi consideriamo più “live”, questo perché il songwriting iniziò subito dopo il termine del Preachers Of The Night Tour e volevamo portare e trasmettere i sentimenti de-
“Preachers Of The Night” del 2013 è balzato subito al numero 1 delle classifiche tedesche. AL momento è il più gran risultato dei tedeschi. Il maggior successo dei POWERWOLF
Abbiamo pensato che fosse giunto il momento per rilasciare un DVD che dimostrasse la crescita della band e che mostrasse cosa significa assistere a uno spettacolo dei Powerwolf.
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“BLessed & POssessed” ha raggiunto la top3 della chart tedesca. Guarda il video di “ARMY OF THE NIGHT” IL CERIMONIERE DEI POWERWOLF gli show che avevamo vissuto all’interno del disco. Per quello credo che nell’album si respiri un’atmosfera da concerto.” In effetti chiunque abbia assistito a uno show dei Powerwolf ne è uscito impressionato, data la presenza scenica della band e lo spettacolo dato dagli effetti, ma chiediamo a Falk Maria come si potrebbe definire la loro musica: “Puro Heavy Metal!” risponde deciso “Questo senza alcun dubbio. Iron Maiden e Running Wild sono stati fra le nostre ispirazioni principali, noi abbiamo poi aggiunto elementi distintivi come i cori di stampo religioso o l’organo. Però, ogni volta che scriviamo un album, quello di cui ci preoccupiamo è l’intrattenimento del pubblico, che i fan possano seguirci cantando le canzoni. È uno stile unico direi, come quello dei Sabaton, conosciuti per i loro riferimenti a grandi battaglie e uomini valorosi.”. Un attestato di stima per la band svedese dunque, da annoverare assieme ai Powerwolf come gruppo-rivelazione degli ultimi anni. Si è
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parlato dell’organo, uno strumento particolare, che Falk Maria registra ogni volta in una vera chiesa, a proposito ci spiega dove e come accade: “Io vivo a Saarbrücken, che si trova vicino al confine francese, una piccola città con un’altrettanto piccola chiesa. È proprio lì che registriamo sempre le tracce d’organo. Come potrete immaginare non è così facile ottenere un permesso per incidere all’interno di un luogo sacro, qui ci hanno ben accolti e credo che questo sia fantastico. Ogni volta che stiamo preparando un nuovo disco, avviso chi di dovere e ci permettono di eseguire le registrazioni senza problemi, un’opportunità fantastica e una caratteristica indispensabile per il sound dei Powerwolf” poi aggiunge “Non userei mai dei samples, in quanto credo che l’organo suoni mistico e aggressivo, oltre a incastrarsi perfettamente con la nostra idea di Metal.”. Altra caratteristica peculiare nella proposta dei Powerwolf è l’approccio alla materia religiosa, trattata con rispetto
Attila Dorn, frontman dei Powerwolf, è nato in Romania e ha studiato all’accademia di musica classica di Bucharest. Proprio nel paese dell’est europeo ha incontrato i due Greywolf.
ma anche in maniera originale: “La religione è una cosa un po’ particolare per noi, poiché ognuno del gruppo ha una direzione e un’opinione diversa rispetto a essa. Per quello che mi riguarda io credo che l’heavy metal stesso sia una religione, se lo si vive con passione e dedizione” e poi “sotto un altro punto di vista siamo molto interessati ai temi religiosi, non per giudicare quello che è giusto o quello che è sbagliato, oppure chi è credente o non lo è, invece per indagare eventi legati alla religione o per scrutarne le dimensioni. Vogliamo solo descrivere e portare alla conoscenza fatti storici o leggende, evitando di apparire come dei fanatici religiosi. Se ad esempio si ascoltano pezzi come ‘Sanctified With Dinamite’ si capice che c’è uno sense of humor legato ad essa, con una connessione a un tema religioso assieme a elementi d’intrattenimento. Credo che sia questo che piaccia alla gente della nostra proposta musicale! Per prima cosa vogliamo
comunque divertire il nostro pubblico e dagli show direi che ci stiamo riuscendo.”. Terza particolarità dei Powerwolf è quella di attingere a misconosciute leggende, spesso bagaglio culturale degli stessi artisti o frutto di ricerche: “Canzoni come ‘Werewolves Of Armenia’ e ‘Armata Strigoi’ non sono connesse ad argomenti religiosi, questo perché siamo affascinati dai paesi dell’est europeo e spesso cerchiamo dei temi poco noti per i nostri brani da portare a conoscenza al pubblico. Credo sia un buon modo di esulare dal soggetto religioso che è contenuto nella maggior parte dei nostri pezzi.”. C’è ancora il makeup del gruppo su cui soffermarsi, sicuramente un tratto che assegna ai Powerwolf un posto particolare nell’universo del power metal: “Dall’inizio volevamo apparire diversi dai gruppi che fanno il nostro stesso genere, quindi abbiamo cominciato a usare il trucco e la gente, nei primi tempi, ci scambiava come un gruppo black metal
e non come uno power. Per fortuna con il tempo il makeup è migliorato e ci ha aiutato a distinguerci dagli altri, questo è confermato dal fatto che molti fan si truccano alla nostra stessa maniera quando vengono ai concerti, il che lo fa diventare un nostro tratto peculiare.”. Un processo di non facile e veloce compimento quello del trucco, di cui Falk Maria racconta: “Ci mettiamo circa due ore ogni sera prima degli show, è qualcosa di più di mettere un po’ di trucco sulla faccia, però è indispensabile perché ci cala nei nostri personaggi. I Powerwolf non potrebbero mai salire sul palco senza il makeup, altrimenti sarebbe un altro gruppo.”. Il tastierista termina la chiacchierata con un’anticipazione: “Quest’anno inizieremo a scrivere qualche nuova canzone, alcune idee ci sono già, ma non so ancora dire quando sarà pronto il prossimo album, anche perché al momento siamo ancora molto occupati con i concerti, di certo sarete i primi a saperlo!”.
La Tigre di Sabrodt Protagonista del pezzo ‘Tiger Of Sabrod’, contenuto nel disco “Lupus Dei”, la tigre di Sabrod era un lupo selvaggio vivente nella regione lusaziana della Germania. L’ultimo esemplare fu ucciso nel 1945. In inglese è definito “Grey Wolf”, come i due chitarristi dei Powerwolf.
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MATTHEW GREYWOLF RICOPRE UN ALTRO RUOLO DI VITALE IMPORTANZA NEI POWERWOLF OLTRE A QUELLO DI CHITARRISTA: È INFATTI L’AUTORE DI QUASI TUTTI GLI ARTWORK DELLA BAND, LA MANO CHE HA DATO VITA AI BLASONATISSIMI E ICONICI LUPI ANTROPOMORFI CHE RAPPRESENTANO IL QUINTETTO TEUTONICO DA PIÙ DI DIECI ANNI.
: f l o w y e r Matthew G I P u L i d e r o t Il Crea
di Alessandra Mazzarella
Return In Bloodred (2005) Sulla copertina del primissimo album dei Powerwolf la minacciosa silhouette di un lupo mannaro si staglia al tramonto su una metropoli affacciata su uno specchio d’acqua, richiamando alla mente film di culto come “Un lupo mannaro americano a Londra”. La palette di colori utilizzati è minimale ma la resa atmosferica è massima grazie alla grande cura impiegata nei dettagli e nella realizzazione dei punti di luce. Ad oggi quello di “Return In Bloodred” è l’unico artwork di stampo moderno di tutta la discografia della band.
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LUPUS DEI (2007) Il “Lupo di Dio” sulla copertina di “Lupus Dei”, realizzata da Niklas Sundin, è presumibilmente un tributo alla location che ha ospitato le registrazioni dell’album: una chiesa francese del dodicesimo secolo. Il lupo, raffigurato su una pala ogivale con indosso un saio e in atteggiamento di preghiera, ricorda, per la posa assunta e per il tratto utilizzato, i santi che adornavano le vetrate delle chiese gotiche, ma mentre queste ultime erano un trionfo di colori brillanti, il lupo dei Powerwolf è una macchia di sangue su uno sfondo grigio e nero.
BIBLE OF THE BEAST (2009) L’artwork di questo album ne rappresenta direttamente il titolo: è la copertina di una Bibbia antica finemente decorata in oro. Ai cardini della croce sono raffigurati i simboli dei quattro evangelisti: in alto l’angelo di Matteo; in basso l’aquila di Giovanni; a sinistra il leone di Marco; a destra il bue di Luca.
Blood OF THe Saints (2011) Il titolo di questo album viene da un passaggio dell’Apocalisse di Giovanni: “L’angelo mi trasportò in spirito nel deserto. Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. La donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, teneva in mano una coppa d’oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: «Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra» . E vidi che quella donna era ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù. Al vederla, fui preso da grande stupore. ” (Giovanni, Apocalisse 17, 3-6 ). A indossare la porpora nell’artwork sono tre lupi, vestiti come alti prelati, sporchi del sangue degli innocenti e impazienti di averne ancora, mentre una chiesa brucia in lontananza. L’immagine si presta a una lettura satirica che punta il dito contro l’avidità e la corruzione del clero, i due fattori che porteranno la Chiesa alla rovina.
PREACHERS OF THE NIGHT(2013) In primo piano, sulla copertina di “Preachers Of The Night”, troviamo un lupo riccamente vestito che brandisce una croce in fiamme mentre alle sue spalle una schiera di suoi simili, incappucciati e armati di torce, purifica la cattedrale con del franchincenso. Lo scenario rituale che viene illustrato calza perfettamente con i contenuti dell’album, che tralasciano il folklore europeo tanto caro all’immaginario dei Powerwolf per dare maggiore spazio a episodi legati alle guerre sante.
Blessed & Possessed(2015) Anche l’artwork di “Blessed & Possessed” è una precisa rappresentazione del concetto espresso dal titolo: come è stato spiegato dallo stesso Matthew Greywolf, la scena da lui illustrata è la cacciata di Lucifero, il “benedictus et affectus” per eccellenza, la figura biblica più adatta ad esprimere la dualità intrinseca dell’album: l’angelo più bello e amato da Dio, condannato e ripudiato, bandito per l’eternità nell’oscurità degli inferi.
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -
di Stefano Giorgianni, Sofi Hakobyan Foto Alpen Flair Official (Arti Van Art e Adrian Busch)
Per la prima volta nella sua storia Metal Hammer Italia si reca al più grande festival musicale del Südtirol, come si qualifica nello slogan della manifestazione. Si tratta dell’Alpen Flair Fest, una tre giorni di musica, birra, e per quanto riguarda quest’anno tanta pioggia. Sì, perché il meteo non è stato favorevole e clemente nei confronti di questo festival altoatesino, cosa che comunque non ha né creato alcun disguido e men che meno ritardato (o annullato) le esibizioni delle band. Quel che si nota percorrendo nella navetta dell’Alpen Flair, che porta dal centro di Bressanone alla location dell’ex-base NATO di Naz-Sciaves, è il paesaggio: un verde percorso che incanta gli occhi e che ti porta a respirare una boccata d’aria fresca, facendo dimenticare persino che si sta per andare ad assistere a un concerto. Fra immensi campi di meleti, i cui frutti sono noti in tutta Europa, e vallate dalla bellezza irresistibile con cime che le sovrastano fiere, si giunge poco distanti dall’area dei palchi, distante circa un minuto a piedi. Mentre percorriamo la strada che costeggia il centro dell’Alpen Flair, anche questa immersa nei frutteti, discutiamo su quanto questo festival sia cresciuto, partendo da una manifestazione regionale fino ad arrivare alla tre giorni che qui raccontiamo (nel 2017 saranno aumentati a quattro, segno del successo guadagnato). Le ultime due edizioni, 2015 e 2016, hanno visto avvicendarsi sul palco grandi nomi del Rock e del Metal. Lo scorso anno difatti si sono potute ammirare le esibizioni di Hämatom, Eisbrecher, Sabaton e Helloween, mentre in questa edizione si sono dati il cambio 9mm, Megaherz, Fiddler’s Green, Doro, Exilia, J.B.O., Amon Amarth e Saxon. C’è da dire che quando si è addirittura a Bressanone, si capisce chi sono le vere star dell’Alpen Flair, ovvero i padroni di casa Frei.Wild, di cui parleremo più tardi, vi basti sapere che l’invasione delle migliaia di persone che sono accorse a Natz avevano per l’80% addosso merchandising di questa band.
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT
Giunti all’interno dell’area del festival, separata da un cordone di perquisizione da quella dei palchi (cordone dal quale è necessario passare ogni volta si voglia entrare/uscire dalla zona-palchi, segno questo dell’attenzione verso la sicurezza dell’autorizzazione), si nota la classica disposizione di stand, con gastronomia, merchandising dei diversi gruppi e ovviamente chioschi di birra ovunque, venduta a prezzi più che abbordabili. Il tempo, per la prima giornata, è stato abbastanza clemente, sfogando la pioggia solamente nelle ore serali, specialmente durante le esibizioni degli headliner.
Giovedi' 16 Giugno
Ad aprire l’Alpen sono i grintosi 9mm, band misconosciuta in Italia (come molte di quelle presenti nel bill), ma dall’energia impagabile. Il gruppo teutonico, fautore di un hard rock mescolato a un heavy classico rappresentante l’immaginario del biker, sprigiona un’energia tale che la musica si può udire a diverse centinaia di metri di distanza dall’area, segno che il festival è cominciato. A guidare la formazione è il nerboruto frontman Rock Rotten, che inizia da subito a spronare il pubblico, ma il personaggio su cui è gettata la maggior parte dell’attenzione del pubblico è il batterista Sebi, bardato e mascherato di tutto punto, come un demone del metallo.
I secondi a salire sul palco sono gli immensi Megaherz, gruppo che raramente scende in terra italica e che siamo contenti di rivedere dopo l’uscita dell’ottimo “Zombieland”. Sono difatti molti i pezzi dall’ultimo album inseriti nella setlist del gruppo di Monaco di Baviera, dall’opener ‘Zombieland’ a ‘Himmelsstürmer’, fino a ‘Für immer’. C’è da dire che la presenza scenica del vocalist, Alexander “Lex” Wohnhaas, assieme al makeup sono quel tocco in più che distingue questa storica band del Neue Deutsche Härte, una chicca che l’Alpen ci regala in questa giornata.
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT -
La terza esibizione è quella degli irish-rocker Fiddler’s Green, che trascinano il pubblico con le loro ballate irlandesi in salsa rock. Il gruppo tedesco, che ha da poco celebrato i 25 anni di attività con un tour e l’uscita della compilation “25 Blarney Roses”, porta una tale ondata di energia e allegria che è difficile resistergli. Il pubblico inizia difatti a scaldarsi, dopo la quiete dell’audience che aveva segnato le esibizioni precedenti, non certo per demerito degli artisti, ma per degli avventori non ancora su di giri. I Fiddler’s Green sono riusciti dunque in quest’arduo compito, grazie a una scaletta che comprende alcuni dei loro più grandi successi e alla musica di stampo irlandese che in fatto di convivialità non deve imparare nulla.
A seguire, sale sul palco la regina del Metal, la mitica Doro. Grintosa più che mai, la vocalist di Düsseldorf scuote subito l’atmosfera, mentre il cielo inizia a oscurarsi, anche se la tregua col meteo tiene ancora. Tra canzoni veloci e aggressive e cover di grandi classici, come la semi-ballad nella quale è stata trasformata la celebre ‘Breaking The Law’ dei Judas Priest, la venere del metallo, accompagnata dalla sua solerte band (nella quale spicca l’axeman italiano Luca Pranciotta), conduce il pubblico alla pausa, durante la quale viene proiettata sui megaschermi la partita degli Europei di calcio de... della Germania, ovviamente.
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT
Tempo che il match termini e che la pioggia inizi a scendere impetuosa che è il turno degli Amon Amarth. Per i vichinghi svedesi è la prima volta all’Alpen Flair, debutto che onorano con il massimo dell’impegno, nonostante le condizioni atmosferiche gli abbiano remato contro. Di certo gli Amon Amarth non temono la pioggia, sul palco sembrano gli Jomsviking del loro ultimo album, temerari più che mai dispensano bordate di Metal incredibili, mescolando pezzi forti e rodati, come ‘Father Of The Wolf’, ‘Guardians Of Asgard’, ‘Deceiver Of The Gods’, l’immancabile ‘Twilight Of The Thunder God’, a brani tratti dalla recente fatica, come ‘First Kill’. Johan Hegg è sempre quel grande arringatore di folle, con il suo corno pieno di birra, il suo mjöllnir e il suo inconfondible growl; un frontman con la F maiuscola e senza dubbio con pochi pari sulla scena internazionale. Nota di merito al batterista Jocke Wallgren, che accompagna gli Amon Amarth in questo tour dopo la defezione di Fredrik Andersson. Qui termina la prima giornata dell’Alpen Flair, quella più infarcita di Metal, che ci ha lasciato soddisfatti, grazie anche all’impeccabile organizzazione.
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Venerdi' 17 Giugno
Il secondo giorno, quello meno metallico (se così vogliamo definirlo), ci vede poco impegnati e attendiamo con impazienza la venuta dei Saxon, entrati nel bill solo qualche giorno prima in sostituzione dei Mando Diao. Ci godiamo così l’atmosfera del festival, che sa sempre più di festa popolare tirolese, fra canti tradizionali, con il divertente duo Die Wildecker Herzbuben, o la disco-pop alcolica di Mickey Krause. Arriva dunque il momento dei monumentali inglesi, che sotto il diluvio offrono una prestazione grandiosa. Biff Byford è un idolo a cui dedicare sacrifici, continua a coinvolgere il pubblico, si vuota continuamente bottiglie d’acqua addosso per essere solidale i ragazzi che lo stanno seguendo da sotto il palco, si rivolge ai fotografi con esperienza navigata, indirizza sguardi verso la tribuna stampa mandandoci il segno cornino. La setlist dei britannici è molto varia, si parte dall’irruenta ‘Battering Ram’, dall’ultimo disco, con dei successivi flashback come ‘Motorcycle Man’ oppure a fatiche più recenti come ‘Sacrifice’. Non possono ovviamente mancare ‘Heavy Metal Thunder’, ‘Wheels Of Steel’ e ‘Crusader’, con ‘747 (Strangers in the Night)’ e ‘Denim And Leather’ come encore. Grandissimo show di tutta la band, su tutti la sezione ritmica, composta dal ristabilito Nigel Glocker e dallo scatenato Nibbs Carter.
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Sabato 18 Giugno
Si arriva così al terzo e ultimo giorno dell’Alpen Flair Fest, con un bill misto, nel quale possiamo annoverare gli Exilia e i J.B.O., band che offrono due spettacoli differenti, i primi molto professionali e i secondi che puntano di più sul divertire l’audience, ma egualmente godibili. Però l’attenzione è tutta puntata sui Frei.Wild, gruppo originario di Bressanone che negli ultimi anni ha riscosso uno straordinario successo nei paesi tedescofoni, riuscendo a riempire teatri e arene e ottenendo numerosi dischi d’oro con le release. Band per lo più ignorata in Italia, forse a causa della lingua tedesca impiegata per le canzoni, e simbolo della terra del Südtirol, si dimostra eccezionale per la resa dal vivo e alza il termometro dell’attesa, mandando in visibilio il pubblico, solamente innalzando lo striscione col simbolo sul palco. Un’atmosfera del genere la si vive solamente quando si aspettano i propri beniamini, o gruppi storici come Black Sabbath, Iron Maiden o Metallica, ma qui sono loro i padroni di casa e la quasi totalità delle persone che è accorsa all’Alpen, non solo in questa edizione, l’ha fatto per loro. Con soli quindici anni di carriera alle spalle, celebrati in questo 2016 con l’uscita del nuovo “15 Jahre” Deutschrock & Skandale (successo preannunciato), il gruppo dà prova della solida esperienza in fatto di live, tanto da farsi attendere per diversi minuti come mai era capitato per alcuna band. L’inizio è reboante, segnato da ‘Wir Reiten in den Untergang’, pezzo che sprigiona tutta l’energia dei Frei.Wild e che introduce la proposta musicale dei brixner: un deutschrock maturo con elementi di punk, metal, alternative e sprazzi di ska. Il pubblico esplode appena i quattro musicisti appaiono e l’assoluta presenza scenica del frontman, Philipp Burger, fa capire dove risiede la magia che ha portato questi ragazzi così in alto. Le seguenti, fra cui ‘Frei.Wild’, ‘LUAA Rock’n Opposition’, ‘Wer nichts weiß, wird alles glauben’, ‘Fühlen mit dem Herzen, sehen mit den Augen’, ‘Hab keine Angst’, ‘Südtirol’, regalano un’emozione dietro l’altra, con la gente che non perde un attimo per cantare assieme ai beniamini. Termina qui l’Alpen Flair 2016 per Metal Hammer Italia, un festival che ci ha donato una nuova prospettiva della nostra musica con l’esempio di come da una piccola realtà, con passione e impegno, ci si possa trasformare in qualcosa di solido, richiamando più di 40mila persone in tre giorni. Noi non mancheremo alla prossima edizione, e voi?
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LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT
@Saint Julien En Genevois
14 Luglio 2016
di Fabio Magliano, Alex Ventriglia Foto di Alice Ferrero
14 luglio. Una data che, per i francesi, è stata da sempre sinonimo di festa, la ricorrenza della presa della Bastiglia da celebrare con il sorriso sulle labbra in un clima disteso di festa. Ma da oggi, grazie al gesto vigliacco di un folle, il 14 luglio in pochi secondi ha visto il suo significato stravolto completamente, stuprato, deturpato da un tir scagliato su bambini e famiglie in vacanza sul lungomare di Nizza. Ecco perché quel dito medio alzato e fatto alzare al cielo al pubblico francese da Dee Snider prima di intonare con rabbia mista a scoramento “We’re not gonna take anymore”...”Non lo accetteremo più” va ad assumere un significato ancora più forte. E dire che quello che ha avuto un epilogo così sofferto era nato per essere un evento da vivere con gioia e trasporto, l’invito ad assistere ad una delle ultime apparizioni live dei Twisted Sister accolto con entusiasmo dalla truppa di Metal Hammer, anche perché lo scenario proposto era alquanto insolito, almeno per chi ha avuto modo di confrontarsi con le realtà festivaliere italiane. Saint Julien En Genevois è infatti una cittadina di 11 mila anime in Alta Savoia, a due ore dall’Italia e a pochi chilometri dalla Svizzera, che da qualche anno a questa parte ospita nel suo campo sportivo Guitare En Scene, un festival su più giorni “intimo”, limitato a 5.000 spettatori che, tra uno stand di fish and chips e uno di hamburger, possono assistere a concerti di prim’ordine. Qualche esempio? Carlos Santana, Status Quo, Europe, Joe Satriani, Dweezil Zappa… giusto per rimanere all’edizione 2016, oltre ovviamente a Steve Vai e Twisted Sister, ovvero il concerto-evento che ci ha spinti a imbarcarci e a viaggiare alla volta della Francia per assistere ad un live che si preannuncia storico, almeno stando a quanto più volte ripetuto da Dee Snider, essendo l’ultimo in terra francese nella storia dei Twisted Sister.
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Ma si sa, le cose più belle sono anche le più sofferte, ed infatti lasciato il caldo sole estivo italiano alle spalle e varcato il tunnel del Frejus, troviamo ad accoglierci Oltr’Alpe una pioggia fastidiosa che sarà nostra compagna per tutta la giornata. Per nostra fortuna arrivati non senza difficoltà a Saint Julien, scopriamo che, se le aree gastronomiche (e sono davvero varie, si va dalla cucina messicana a quella giapponese, dalla brasiliana all’indiana… ma solo in Italia non riusciamo ad andare al di là del panino con la salamella?) sono in balia delle intemperie, il main stage è ospitato sotto un enorme tendone con tanto di posti a sedere e tribuna vip. Una location molto più vicina ad una sagra paesana, con tanto di famigliole, bambini e anziani che, muniti di tappi per le orecchie (offerti a profusione dall’organizzazione) passeggiano allegri zigzagando tra le pozzanghere, che non ad un grande festival europeo. E dire che pochi minuti dopo aver preso parte sotto il palco, sul maxischermo iniziano a scorrere le immagini di “Crossroads (Mississippi Adventure)” a introdurre la tappa francese del “Passion And Warfare Tour” di Steve Vai, non proprio un artista da festa di paese… e dopo una brevissima attesa il virtuoso con cappuccio ben calato sulla fronte, occhiali avveniristici e chitarra luminosa fa il suo ingresso in scena, catalizzando subito su di sè l’attenzione del pubblico.
. Le sue movenze chitarra in mano sono un incrocio tra una bizzarra danza e le contorsioni di un rettile, le sue smorfie che accompagnano ogni pezzo ormai sono un suo marchio di fabbrica, mentre con eccezionale naturalezza sciorina le varie “Bad Horsie”, “RacingThe World”, “Gravity Storm” sino ad arrivare a quella “Answers” eseguita in un duetto virtuale con Joe Satriani, che dal maxischermo interviene per interagire con il suo ex allievo in un botta e risposta a modo suo suggestivo. “The Riddle” e “Ballerina 12/24” anticipano un altro duetto virtuale, e questa volta arriva addirittura John Petrucci per contendere a Vai il predominio su “The Audience Is Listening”. Con “I Would Love To” e “Greasy Kid’s Stuff” ci si avvia verso la fine dello show, uno spettacolo che come da copione viene suggellato dalla sempre emozionante “For The Love Of God”, brano epocale con il quale il chitarrista strappa una standing ovation più che meritata.
Quando usciamo dal tendone per rifiatare Giove Pluvio decide di darci tregua consentendoci di assistere sul palco esterno, infreddoliti ma asciutti, alla prima sorpresa della giornata. Sul second stage sta infatti prendendo posto Sari Schorr con la sua The Engine Room, e non ci mette molto la grintosa cantante statunitense per far capire ai presenti di che pasta è fatta. La vocalist è una delle artiste più interessanti nel panorama blues contemporaneo e, grazie ad una band d’eccezione (fanno parte del gruppo il chitarrista Innes Sibun già con Robert Plant, il tastierista Anders Olinder, al lavoro con Glenn Hughes e Peter Gabriel, il batterita Mike Hellier collaboratore con Mud Morganfield e James Hunter, ed il basssista Kevin Jefferies maturato alla corte di Roger Taylor e Mike Oldfield!) da subito vita ad uno show adrenalinico, carico di feeling, marchiato a fuoco dalla sensazionale voce di Sari, un potente ibrido in grado di fare incontrare Janis Joplin e Tina Turner, con lo spettro di Aretha sempre sulle spalle. E’ un blues viscerale quello che propone la cantante newyorkese presentando il nuovo album “Demolition Man”, che pezzo dopo pezzo penetra nell’anima suscitando una gamma vasta di sensazioni contrastanti ma sempre fortissime. Una sorpresa graditissima che merita un approfondimento…
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Ma è nuovamente tempo di trasferirci all’interno per assistere al clou della giornata. E, seconda sorpresa, ci viene comunicato che avremmo potuto assistere a tutto lo show dal pit, divenendo così spettatori privilegiati dell’evento. Che vede i Twisted Sister prendere posto sul palco sulle note di “It’s a long way to the top (if you wanna rock’n’roll)”, per poi aggredire la platea come da tradizione con la travolgente “What You Don’t Know (Sure Can Hurt You)” azzannata da un Dee Snider in stato di grazia. Non ci sono effetti pirotecnici, non c’è make up, non ci sono effetti speciali sul palco, solo tre musicisti un po’ imbolsiti ma dal grande carisma, un ospite d’eccezione dietro le pelli e un cantante straordinario, e questo basta per tramutare subito lo show in un evento memorabile, uno dei più intensi ed emozionanti ai quali abbiamo avuto modo di assistere nel corso di questi anni. Non c’è sosta, non c’è tregua… “The Kids Are Back” ci tiene a sottolineare il biondo cantante, correndo come un pazzo per il palco, destinato a tingersi di un rosso infernale per “Burn In Hell”. ‘Destroyer’ e ‘Like a Knife In The Back” fanno esplodere il tendone trascinandoci in un’epoca che non c’è e che forse non ci sarà più, quindi dopo aver dedicato un “happy birthday to you” a The Animal Mendoza che proprio oggi compie gli anni, la corsa riprende con “You Can’t Stop Rock’n’Roll”, con la roboante “The Fire Still Burns” e dal primo singolone del gruppo, quella “I Am (I’m Me)” cantata saltando da tutto il parterre.
“Noi non siamo come i Judas Priest che dicono di smettere e poi sono ancora lì che suonano, noi non siamo come i fottuti Scorpions, noi non siamo come Ozzy che sono anni che annuncia il tour d’addio – sputa nel microfono Dee Snider – I Twisted Sister stasera suoneranno per l’ultima volta nella loro storia in Francia, quindi godetevela”. E giù con “We’re Not Gonna Take It” che decolla trascinata dal cantante e non vuole poi saperla di finire, con quel ritornello cantato all’infinito dal pubblico per la gioia di uno Snider visibilmente compiaciuto. Il posto in prima fila ci consente di assistere allo show con un coinvolgimento e un trasporto ancora più intenso, Jay Jay French e Eddie Ojeda ci passano per mano i plettri, Dee Snider ci viene a cantare “The Price” in faccia con il suo ghigno satanico, poi riprende a correre offrendoci in rapida successione su un piatto d’argento “I Believe in Rock’n’Roll” e “Under The Blade”, prima di un altro piatto forte della serata, l’inno “I Wanna Rock” cantato con un tale trasporto che una lacrima non può non scendere al pensiero di ciò che sta per finire.
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Non manca il pensiero a AJ Pero e “...all’unico batterista che avrebbe potuto sostituirlo, Mr. Mike Portnoy”...e l’ex Dream Theater fa ripartire il treno con “Shoot ‘Em Down”, ultimo brano prima del bis. E qui una nuova sorpresa. La platea si fa muta, Dee Snider serio in volto afferma che deve fare un annuncio “Non politico...non religioso… a Nizza, poco fa, un tir guidato da un terrorista ha ucciso decine di persone innocenti. Ma questi bastardi non vinceranno, non ci fermeranno!” e qui, tutti con il dito medio al cielo, a riprendere una “We’re Not Gonna Take It” mai come ora così sentita, mai come stasera così rabbiosa. Da qui solo ringraziamenti, un abbraccio all’unisono tra band e pubblico, lacrime, sorrisi, gioia, malinconia...al pensiero che, se davvero questa è la fine, il mondo del metal ha perso una delle sue band più grandi, sicuramente dei grandi maestri dell’arte dell’entertainment.
I titoli di coda scorrono sul second stage con lo show dei Killcode da New York. La band, attiva dal 2008, da vita ad un concerto onesto e senza fronzoli, pagando a caro prezzo la potenza dello show offerto in precedenza dai Twisted Sister, in grado di sminuire e offuscare chiunque si trovi a suonare dopo di loro. Con coraggio i cinque americani si giocano comunque le loro carte, puntando su un rock anthemico, intriso di burbon, inbastardito da echi sounthern e da un retrogusto bluesy che trova la sua casa nella voce pastosa di Tom Morrissey, un cantante che ben sa come tenere il palco e che non difetta né in carisma, né in energia. Ecco quindi che pezzi come “Anthems For Outlaws”, “Bad Mother”, “The Wrong Side” e “Skitch” fanno la loro porca figura facendo saltare gli ultimi irriducibili e mettendo la parola fine ad un festival unico nel suo genere e per questo assolutamente affascinante. Dopo oggi, il 14 luglio non sarà più lo stesso. Dopo oggi, il mondo del metal senza i Twisted Sister non sarà più lo stesso…
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THE BOOK OF SOULS TOUR pt.1 MIlano (Mediolanum Forum) di Dario Cattaneo 22 luglio 2016 Foto di Roberto Villani
Una seconda giovinezza? Viene forte la tentazione di chiederselo, guardando gli show che gli Iron Maiden stanno tenendo in giro per l’Europa, in questa incostante e movimentata estate 2016. Oramai quasi un anno è passato da quando si sono cominciati ad ascoltare i primi brani che avrebbero poi composto quel discusso lavoro dal titolo ‘The Book Of Souls’; gli animi, amichevoli od ostili che fossero ai tempi, si saranno ormai ben raffreddati, e ci si aspetterebbe quindi un hype contenuto riguardo a questi concerti, ma – basta un’occhiata per accorgersene – vi assicuriamo che non è così. Ed è la band in primis, gli Iron Maiden stessi, a farci capire che di “tirare il fiato” non hanno nessuna intenzione. E’ in effetti la classica “serata bomba” quella messa in piedi dai cinque della Vergine di Ferro al Forum di Assago il 22 di luglio, una serata di quelle che, ne siamo certi, i presenti si ricorderanno volentieri nei tempi. E non è, come si potrebbe pensare, la scaletta a fare la differenza, oppure i suoni o la cristallina prova del cantante, no, non sono questi fattori. E’ tutt’altro. E’ la consapevolezza che anche nel 2016, anche con un disco da supportare che è il complesso e pachidermico ‘The Book Of Souls’ e non il diretto e adrenalinico ‘Powerslave’, è ancora possibile per noi e per la band vivere emozioni e respirare un’aria simile a quella delle arene nel biennio ‘85/’86, quando durante il World Slavery Tour la band inglese si muoveva con la regalità e la supponenza propria dei Re che erano, i Re dell’heavy metal.
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È questa l’impressione che ci è stata comunicata nel corso della serata, fin dal momento in cui i supporter The Raven Age, giovanissima band di melodic metal moderno, finiva di suonare e i presenti, quasi senza soluzione di continuità, cominciavano ad inneggiare ai propri beniamini con le corna alzate e il classico grido sentito ormai ad innumerevoli concerti, ‘Maiden! Maiden!’. E’ anche l’impressione che riceviamo quando vediamo cadere i sipari durante l’intro ‘Doctor, Doctor’, scoprendo una scenografia in stile civiltà precolombiana, ricca di tutti i cliché e soprattutto carica dello stile che hanno reso grandi i Maiden nei mega-tour degli anni ’80.
E, infine, è soprattutto l’impressione che abbiamo quando la band attacca finalmente a suonare e Bruce, dopo i due minuti di introduzione cantata per l’opener ‘If Eternity Should Fail’, entra sul palco con il consueto incredibile salto felino. La canzone, nonostante non abbia veramente il piglio di una opener live, si rivela però subito come un pezzo molto apprezzato dai fan, e nonostante la lunga durata raggiunge la propria conclusione fin troppo in fretta, quando gli applausi iniziali praticamente non sono ancora conclusi. ‘At The Speed Of Light’ ci fornisce adrenalina da vero pezzo di apertura, veloce e frizzante, con poi il classico ‘Children Of The Damned’ ad alzare un po’ il tiro dell’attenzione e a far scapocciare anche i presenti più… in là con l’età.
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L’album in promozione riprende poi il controllo della scaletta con due pezzi piuttosto attesi, ‘Tears Of A Clown’, che con la sua struttura più ragionata e radiofonica si rivela comunque un buon pezzo live, e l’epico ‘The Red And The Black’, che già mesi fa si vociferava sarebbe stato al centro delle esibizioni della Vergine di Ferro grazie al suo ‘oooohhh oooh’ centrale. Ci si rituffa subito nell’infuocato clima della Long Beach Arena di trent’anni fa grazie alla solida accoppiata ‘The Trooper’ e ‘Powerslave’, ma è solo una breve escursione, perché il nuovo album viene poi subito di nuovo omaggiato da un altro brano veloce, ‘Death Or Glory’ e dal suo pezzo forte, la cangiante title-track.
L’alternanza tra vecchio e nuovo ha raccolto di sicuro i propri frutti, tenendo il pubblico sempre sul filo di un’emozione quasi tangibile, e quindi la band opta per mollare i colpi del KO con le solide ‘Hallowed Be Thy Name’, ‘Fear Of The Dark’ e ‘Iron Maiden’. Il palco si anima di più ancora, i fondali richiamano gloriose scene del passato, e un manichino di Eddie alto ben due metri e mezzo si aggira, minaccioso e strafottente, sul palco, interagendo con la band e con la folla tutta. Le ultime note di ‘Iron Maiden’ si spengono sotto gli applausi e sotto lo sguardo severo di un pupazzo di Eddie davvero gigante che, a mezzo busto, si erge dietro il drumkit di Nicko, osservando tutti noi. E non è finita! Con la consueta classe, i cinque mattatori tengono “il grosso” per i bis, e così sia ‘The Number Of The Beast’, sia la poco conosciuta ‘Blood Brothers’ che il classico ‘Wasted Years’ hanno la loro ricca dose di pupazzoni di Satana alti una decina di metri, facce di Eddie che compaiono in mezzo a un cielo stellato ed effetti pirotecnici di gran gusto. Che altro dire? Gli Iron Maiden con questo tour vogliono riportare l’attenzione allo show e all’adrenalina del suonare metal, e, mi ripeto, non è grazie a una scaletta che invece è stata criticata a priori nei mesi precedenti il concerto, né con una prestazione perfetta che gli Iron vogliono farlo. Piuttosto, è il metal che torna a essere quello che è sempre stato: passione, un certo gusto per l’esagerazione e lo scioccare, e tanto, tanto, divertimento!
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THE BOOK OF SOULS TOUR pt.2 Roma (sonisphere) 24 luglio 2016 di Max Novelli
Il sapore dell’evento era palpabile già dall’annuncio: gli Iron Maiden tornano a Roma dopo nove anni e mezzo! Come perdere l’occasione di rivederli e godere di una delle ultime band che coinvolgono tutte le frange degli appassionati di Metal? Infatti non si poteva. La data del Sonisphere 2016 ha avuto luogo nell’ambito del Postepay Rock in Roma, happening estivo che richiama grandi nomi del Rock presso l’Ippodromo delle Capannelle, una location capiente e adatta alla bisogna, che però non ha risparmiato enormi problemi logistici nel deflusso post-concerto delle automobili dai parcheggi limitrofi all’Ippodromo. Il Metallo richiede sacrifici e un’ora per lasciare il piazzale gremito di automobili ci può stare, soprattutto se negli occhi e nelle orecchie ancora riecheggiano gli echi di una giornata che ha mantenuto le enormi aspettative. Bisogna attendere un bel po’ prima che i Maiden giungano sul palco, ma quando alle Ventuno parte “Doctor Doctor” degli UFO ad introdurre la band l’attesa è spasmodica. Si respira adrenalina ed eccitazione quando sui megaschermi a lato del palco parte un filmato realizzato con una brutta CGI che vede lussureggianti giungle infestate dallo spirito di Eddie. L’enorme Ed Force One, il boeing della band pilotato da Dickinson, cerca di liberarsi da un intrico di liane portando al massimo i motori. Una mano lo spinge via come un aereo di carta e il boato del pubblico saluta l’ingresso dei Maiden che esordiscono con “If Eternity should fail”.
”. I volumi sono leggermente più alti rispetto agli Anthrax ma rimangono comunque insufficienti. La band esegue con precisione e partecipazione molti estratti da “The Book of Souls”, i quali funzionano molto meglio dal vivo. Dickinson è un gigione: salta, scherza con gli altri membri e muove a piacimento il pubblico, sovraeccitato dai consueti “Scream for me Roma!”.
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Però la sua voce sembra non assisterlo a pieno, durante le parti alte non si sente alcun suono uscire dall’ugola del cantante e per la prima volta si assiste ad una debacle del vulcanico cantante. E’ già un miracolo che sia in grado di cantare dopo tutto quello che ha passato, fingere che sia tutto come sempre è arduo. Pochi i classici proposti, da una “The Trooper” accolta con un boato ad una “Fear of the Dark” scandita e menadito dai presenti. Fiamme, fuochi artificiali e l’onnipresente Eddie animano uno show che non può più contare sulla fisicità di Harris, concentrato e immobile sul suo strumento. Gers finge di suonare per buona parte del concerto, muovendosi con le sue tipiche mosse da esagitato, ma la vera forza chitarristica risiede nell’accoppiata Smith/ Murray, immarcescibili e coinvolgenti. “Iron Maiden” fa saltare il pubblico prima della solita finta chiusura, poi gli encore. Purtroppo niente “Run to the Hills” o “Running Free”, ma solo una “Blood Brothers” e una rallentatissima “Wasted Years” chiudono una serata comunque memorabile, che lascia il solito interrogativo. Quando smetteranno i Maiden, chi sarà in grado di riempire le arene come facevano loro?
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ock r f o s r e t s n o M @ 18 giugno 2016
Testo e Foto di Roberto Villani Sono passati oltre trentasei anni dal mio primo incontro ravvicinato con i Rainbow in quel di Grenoble e il metallaro incallito di allora, ora giornalista, ha già messo in cascina migliaia di concerti , ma l’attrazione nei confronti dell’arcobaleno di Ritchie Blackmore è rimasta praticamente inalterata , nonostante la pregiata creatura del divino Ritchie si chiami oggi Blackmore’s Night , gradevole progetto pop rinascimentale in compagnia della moglie Candice attivo dal 1998, che però si colloca a distanza siderale dal sound graffiante di album seminali quali “Rising” e “Down To Earth”.
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Questa toccata e fuga di sole tre date del mitico arcobaleno Blackmoriano (le altre due sono a Loreley e Birmingham), celebra proprio i trentasei anni dalla prima edizione del Monsters Of Rock di Donington Park in cui, anche allora, i Rainbow furono acclamatis simi headliner e non è certo un caso che l’evento all’interno del parco di Stoccarda-Bissingen, sia griffato con il marchio del più famoso festival hard rock di tutti i tempi. Sicuramente questione di marketing, certa mente questione di dollari, ma dopo la buon a esibizione della Manfred Mann’s Earth Band e la non entusiasmante performance dei Thin Lizzy , troppo lonta ni dai loro migliori standard qualitativi, nonostante la presenza di due mostri sacri come Tom Hamilton degli Aeros mith al basso e Scott Travis dei Judas Priest alla batteria, l’aspe ttativa per rivedere Blackmore sparare i suoi inconfondibili e inarrivabili riff con la magica Stratocaster color crema, era palpabile e tangibile come i fiumi di birra che scorrevano all’interno del Viadukt.
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Ronnie Romero E’ Anche il vocalist dei Lords Of Black! Scoprili in questo video!
E l’attesa , come era auspicabile ed in parte scontata, è stata ampiamente ripagata da una prestazione a dir poco perfetta della nuova macchina da corsa messa in pista da Ritchie Blackmore. Il nuovo vocalist Ronnie Romero, conferma la tradizione dei grandi vocalist scoperti e portati alla grande ribalta dal chitarrista inglese, da David Coverdale a Ronnie James Dio, da Graham Bonnett a Joe Lynn Turner e Doogie White, interpretando in maniera assolutamente personale e con fare carismatico come prevede il suo ruolo all’interno della band, i grandi classici dei Rainbow e dei Purple, annientando anche le ultime resistenze degli innumerevoli fautori di un ritorno alla base di Lynn Turner.
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Tante le sorprese, a cominciare dalla scaletta del concerto che si è aperto con una versione tiratissima di “Highway Star”, che di Rainbow ha poco o niente, ma che ha tanto di Blackmore dei tempi migliori, da fare impallidire un talento indiscusso come Steve Morse. E da qui in avanti, per quasi due ore di concerto, è iniziato il ping –pong tra i brani dei Rainbow e quelli dei Deep Purple , divisi “chirurgicamente” in egual misura, proprio come aveva annunciato The Man in Black al momento del suo “temporaneo“ ritorno al rock ed è questa intrusione massiccia di tracce color porpora, che ha fatto storcere il naso ai puristi dell’arcobaleno.
Candice Night E’ la cantante dei Blackmore’s Night. Guarda il video di “Will O’ The Whisp”
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Jens Johansson E’ lo storico tastierista degli stratovarius! Guarda il video di “MY Eternal Dream”
La scelta di Blackmore potrà risultare discutibile, indiscutibile è invece il talento vocale di Ronnie Romero, un folletto dalla personalità straripante, che ha reso giustizia a brani storici quali “Stargazer”, “Catch The Rainbow” e “Man On The Silver Mountain” con tanto di dedica a Ronnie James Dio, oltre ad avere deliziato la platea con una versione straripante di “Child In Time”, tanto da avvicinarsi al Gillan dei tempi d’oro. La band messa insieme per l’occasi-
one, tra cui spiccano le tastiere di Jens Johansson degli Stratovarius e la presenza ai cori di Candice Night, viaggia oliata che è un piacere, assecondando in tutto per tutto i continui dictact del chitarrista inglese, fino all’apoteosi di “Long Live Rock’n Roll” e “Smoke On The Water”, che tra effetti pirotecnici vari e fuochi d’artificio, chiudono un concerto d’altissimo livello, da ricordare e tramandare ai posteri, anche perchè, dopo il concerto finale di Birmingham, si ritornerà definitivamente ai Blackmore’s Night.
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@ Genting Arena (Birmingham) 18 giugno 2016 di Alex Ventriglia Alla fine, l’impossibile è diventato possibile. Il Mito si è trasformato nuovamente in qualcosa di tangibile, tingendosi di un intenso color Arcobaleno, virando spesso e volentieri verso un’accesa tonalità Profondo Porpora, alla ricerca della quadratura ideale, dello zenit assoluto. Forse Sua Maestà Ritchie Blackmore, in questo, non sarà riuscito perfettamente, ma come non ringraziarlo per aver incendiato i cuori di tutti noi inguaribili amanti di Rainbow e primi Deep Purple, con una tripletta di date che han forse simboleggiato l’intera stagione concertistica, specie se rivolta ai grandi nomi del tempo che fu, seconda probabilmente solo al Farewell Tour dei Black Sabbath (sempre che i Nostri non ne abbiano in serbo una nuova, delle loro diaboliche trovate…) e che ha obbligato i vacanzieri del rock ad organizzare quelle affascinanti carovane che amiamo tanto, pazienza se a volte la trasferta risulta parecchio impegnativa. Come in parte è stata questa a Birmingham, unica data in Patria dopo le due in Germania, concerto che forse ha visto i Rainbow maggiormente sotto la lente d’ingrandimento, sia
Lo spettacolo, partito con una puntualità estrema, ha ribadito in primis la caratura eccelsa di Ronnie Romero, un vocalist migliore di questo Blackmore forse non poteva trovarlo davvero (Joe Lynn Turner si metta definitivamente il cuore in pace, far polemica per mesi evidentemente gli è giovato ben poco), il quale, con grande nonchalance, si permette di aprire con ‘Highway Star’, di enfatizzare a dovere cavalli di battaglia del blasone di ‘Man On The Silver Mountain’, ‘Catch The Rainbow’, ‘Difficult To Cure’, ma soprattutto ‘Stargazer’ (e qui, lo riconosco, ho quasi pianto…) e ‘Long Live Rock’n’Roll’, penetrando nella profondità del Porpora con gli evergreen ‘Black Night’ (da urlo!), ‘Child In Time’, ‘Perfect Strangers’, ‘Burn’, ‘Soldier Of Fortune’ e il sigillo finale ‘Smoke On The Water’. Un singer che probabilmente e, forse suo malgrado, ha tolto visibilità al leggendario Ritchie, certo meno appariscente di una volta, che sembra quasi sulle sue, il quale però se decide di invertire la tendenza, lo fa ancora sfacciatamente bene, in certi punti ha ribadito la sua nomea, il fatto di essere Blackmore. Ragion per cui il suo valore è difficile metterlo in discussione. Quindi tutto perfetto in quel di Birmingham? Direi fondamentalmente di sì, anche se avrei evitato certi virtuosismi (tipo l’assolo del batterista o i cazzeggi alla chitarra) magari tipici del repertorio, ma che forse stonavano dentro una scaletta orfana di ‘Kill The King’, ‘Run With The Wolf’ e, soprattutto, ‘Tarot Woman’. Ecco, a voler proprio essere pignoli, questa mancanza proprio non gliela perdono, al buon, vecchio Ritchie…
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@Kaisaniemen puisto (Helsinki) 7 Luglio 2016 Testo e Foto di Paky Orrasi
Tutto deve concludersi prima o poi, quando una band decide d’intraprendere il loro tour d’addio i fan sono forzati a elaborare il lutto. Tuttavia, quando si tratta degli archetipi della musica che amiamo, viviamo pensando che quella band sia inesauribile. Con quel senso di ‘non può finire dai...’ mi sono avviata verso Kaisaniemi, un parco in pieno centro che ha ospitato in passato il Tuska Open Air per tantissimi anni, per il concerto di una vita: l’addio dei Black Sabbath. Mentre le band di apertura (Amorphis, Rival Sons e Opeth) si alternavano sul palco, un ventimila fan riempivano la venue. Il pubblico camminava tra eccitazione e commozione, e posso dirvi che se in Finlandia a un concerto vedi pochissimi ubriachi sconvolti vuol dire che la gente per una volta vuole davvero godersi ogni instante di quel concerto ed essere sicuri di ricordarlo per sempre. Ad annunciare che i progenitori dell’heavy metal stavano per salire sul palco, è uno schermo raffigurante la nascita di Satana da un uovo apparentemente alieno e un rombo onnipotente racchiude le urla di tutti noi, sul palco parte il pezzo ‘Black Sabbath’ che apre questo incomparabile spettacolo. La voce di Ozzy è sorprendente, avevo sentito amici in Europa dire che le sue vocalità non fossero in forma, a Helsinki il nonno del metal non si è risparmiato e non ha perso una nota.
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Avevo deciso di non leggere la setlist, perché volevo essere sorpresa, e BOOM!Una dopo l’altra i miei pezzi preferiti arrivano come tre proietti: ‘Fairies Wear Boots’ e se dal palco Ozzy saltella come un diciottenne, tutti noi lo seguiamo, e la sottoscritta entra in un mondo parallelo. Esecuzione spettacolare. ‘After Forever’ dove l’interpretazione di Ozzy scandisce ogni parola con ogni fibra del suo corpo. Durante ‘Into the Void’ non ho occhi che per Iommi, che trita le corde di quella chitarra come uno chef arrivato dagli inferi…bestiale. Durante i pezzi Ozzy si dimostra in tutta la sua comicità interagendo col pubblico come mai prima. Il vocalist non perde occasione di benedirci “Che Dio vi benedica, vi amo”.
Qualcuno vicino a me si accende uno spinello quando ‘snowwhite’ inizia…il che unito alle proiezioni psichedeliche dello schermo rende il tutto ancora più divertente! È a quel punto che Ozzy annuncia ‘War Pigs’, il pubblico esplode! È una celebrazione pazzesca, mentre magari molti come me continuano a pensare: “non li vedremo mai più insieme su un palco…non ci credo”. Seguendo quello che Ozzy vuole sempre dal suo pubblico “let’s get crazy” tutti ci uniamo in un’onda di voci, salti e corna lanciate al cielo. Intorno a me padri con figli, leonati o adolescenti e nonni…generazioni unite, è davvero commovente!
E mentre tutti questi pensieri mi frullano in testa ‘Behind the Wall of Sleep’, ‘N.I.B’ e ‘Hand of Doom’ continuano a far correre questo concerto troppo velocemente. A questo punto, con ‘Rat Salad’ arriva un bel drum solo…è peccato dire che Tommy Clufetos sia stato mostruosamente bravo? Ozzy annuncia la signora di ogni pezzo metal ‘Iron Man’ e ci chiede di impazzire, e noi lo facciamo! A seguire ‘Children of The Grave’, e Ozzy comunica “ancora una”, ‘Paranoid’ ancora una volta, per l’ultima volta in Finlandia, chiude un concerto. Ozzy non ama gli addii, in quando semplicemente ringrazia e ci augura buona notte. Lasciandoci il permesso di sognare, di asciugare le lacrime e negare a noi stessi di leggere la frase scritta in caratteri cubitali sullo schermo ‘The End”.
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Il concerto di Robert Plant, accompagnato dalla Sensational Space Shifters band multietnica fautrice di un’estesa varietà di stili, è in sostanza la migliore e più appropriata risposta a chi ancora si ostina a sperare ad una improbabile reunion dei Led Zeppelin. In una miscellanea di suoni ispirati a tematiche etniche provenienti dal sud e centro America o che attinge alla sterminata cultura musicale delle regioni più remote dell’Africa o dell’India, si sviluppa ormai da decenni il credo artistico di Mr. Plant, abile a proporre vecchie e dimenticate cover quali “ No Place to go” dei pionieri Fleetwood Mac di Peter Green , abbinate ed integrate ai grandi ed indimenticabili classici degli Zeppelin come “ Black Dog” e “ Dazed and Confused”, interpretati in maniera impeccabile, da mettere i brividi.
@Summer arena Assago (MI) 20 luglio 2016
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Testo e Foto di Roberto Villani
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La voce non è certo quella dei tempi migliori, impensabile, ma è maledettamente efficace e rende giustizia alle stravolte ed altrettanto travolgenti “Babe, I’m gonna leave you” e “All the king’s horses” , costruite ed amalgamate in una scaletta che spazia a suo piacimento tra generi, tradizioni e culture, lontane anni luce dal mito dei Led Zeppelin. Dopo circa un’ora e mezza di concerto , Robert Plant saluta la platea di Assago, senza prima averla deliziata ed avvolta con tre perle Zeppeliane quali “Whole Lotta Love” , “Going To California” e “ Rock’n Roll “ , ovviamente incluse in medley di altri brani della tradizione americana, come da copione.
Per chi, come il sottoscritto, ebbe la fortuna di vederlo all’opera nel 1980 a Zurigo in occasione del tour a supporto di “ In Through The Out Door” in compagnia deii suoi storici compagni di viaggio, la nostalgia è comunque tanta.
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di Andrea Lami Foto di Roberto Villani
@Pistoia Blues Fest 15 Luglio 2016 Quella del 2016 è la trentasettesima edizione del Pistoia Blues, un Festival che durante gli anni ha ospitato svariate band non proprio “blues”. Il programma di oggi prevede l’esibizione di ben cinque band dedite alle varie sfumature dell’hard rock. Purtroppo incidenti e code in autostrada ci ritardano a tal punto che quando arriviamo alla piazza sul palco ci sono già gli HARDCORE SUPERSTAR che si stanno esibendo con la loro “Touch The Sky” un brano un po’ diverso rispetto alla loro discografia, ma che ormai è ben conosciuto.L’esibizione della band prosegue come sempre mettendo ben in evidenza quelle che sono le caratteristiche principali del quartetto e cioè canzoni ricche di adrenalina, melodia e voglia di divertimento. Ed ecco susseguirsi “Liberation”, “My Good Reputation” e “Someone Special”. Mentre partono i primi accordi di “Last Call For Alcohol” il pubblico risponde alla grande, segno questo di quanto questo brano sia entrato a far parte dei “classici”, stessa ovazione è riservata per la successiva “We Don’t Celebrate Sunday”. Diventa quasi impossibile pensare ad una setlist degli HCSS senza questi due brani. L’esibizione volge al temine con “Moonshine” nella quale, come ormai di abitudine, il roadie sale sul palco ed inizia a smontare la batteria ad un “finto incredulo” Adde il quale continua a suonare imperterrito con quello che gli rimane. Di solito il roadie viene preso e scagliato in mezzo al pubblico, questa volta ci si ferma allo smontaggio ed infine ai saluti. Rivedremo gli Hardcore Superstar a settembre in una data tutta loro.
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- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Tocca quindi agli headliner. Dopo aver seguito ben quattro date l’anno scorso, e più precisamente Zurigo, Milano, Belfast e Dublino, ma soprattutto dopo il successo che la band ha riscosso nella data italiana, tornano oggi i Whitesnake con due date, una in provincia di Verona e l’altra qui a Pistoia. La scaletta della serata è stata un pochino modificata rispetto all’anno scorso ma quando sentiamo le note di “My Generation” dei The Who, capiamo che la band sta per partire. Piano piano entrano tutti sul palco ed ovviamente quando entra il nostro Michele Luppi il pubblico si lascia andare ad un urlo. Stessa cosa per Mr. Coverdale. La band parte con “Bad Boys” seguita da “Slide It In”, mentre i musicisti confermano il proprio stato di forma, Re David fa sentire che non è proprio al top. Non stiamo parlando di carisma. Quello ne ha da vendere e milioni di singer potrebbero andare a lezione da lui, parliamo di voce. Voci di corridoio ci dicono che anche ieri non era al massimo e se lo paragoniamo alle date viste di recente possiamo confermarlo. Fortunatamente Coverdale sa il fatto suo ed i musicisti che lo accompagnano sono stati scelti anche per le doti canore.
Non a caso nei cori sia Reb Beach che Michael Devin per non parlare di Michele Luppi gli danno una grossa mano. “The Deeper Of Love” e “Fool For Your Loving” sono brani che fanno parte un po’ di tutti noi. È la volta di una toccante “Slow an’ Easy” inserita dopo l’assolo dei due chitarristi e prima di quello del bassista che ci porta a “Crying In The Rain”… proprio mentre qualche goccia inizia a scendere. Fortunatamente il cielo decide di graziarci e le nuvole passano oltre dopo averci solamente rinfrescato un po’.
“Is This Love” ha la capacità di far accendere tutti i cellulari degli spettatori, se prima si accendevano gli accendini, oggi o si fanno i video o si manda il tutto in diretta. Canzone epica. Due brani ci separano dalla fine dello show e più precisamente “Give Me All Your Love” e “Here I Go Again”. La band, dopo le presentazioni, saluta e guadagna i camerini ma, il pubblico ne vuole ancora, richiama i Whitesnake sul palco per l’esecuzione dell’unico bis che prende forma con “Still Of The Night”. Pur essendoci persi i Crazy Rain, i Junkie Dildoz ma soprattutto i The Answer, quello che siamo riusciti a vedere sono stati due concerti intensi e ricchi di emozioni. Gli Hardcore più sanguigni, più rock’n’roll con voglia di far casino, i Whitesnake un hard rock di classe capace di far emozionare tutti i presenti.
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@ Alcatraz (Mi) 14 giugno 2016
di Fabio Magliano Foto di Alice Ferrero
Sono passati oltre trentasei anni dal mio primo incontro ravvicinato con i Rainbow in quel di Grenoble e il metallaro incallito di allora, ora giornalista, ha già messo in cascina migliaia di concerti , ma l’attrazione nei confronti dell’arcobaleno di Ritchie Blackmore è rimasta praticamente inalterata , nonostante la pregiata creatura del divino Ritchie si chiami oggi Blackmore’s Night , gradevole progetto pop rinascimentale in compagnia della moglie Candice attivo dal 1998, che però si colloca a distanza siderale dal sound graffiante di album seminali quali “Rising” e “Down To Earth”.
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Se Glen Sobel dietro la batteria e Chuck Garric al basso dettano i tempi unendo precisione e spettacolarità (il drummer è di suo uno spettacolo nello spettacolo) ed il duo Ryan Roxie/Tommy Henriksen non lesina scorribande e riff a profusione, lo show ha portato alla ribalta la splendida Nina Strauss, un gioiellino che, nella notte milanese ha ammaliato un Alcatraz gremito all’inverosimile, e non solamente con i suoi delicati lineamenti. Un concerto che vede come da tradizione Alice Cooper aggredire i presenti avvolto in un lugubre mantello nero con ‘Black Widow’, prima di tramutarsi in un eccentrico maestro di cerimonie snocciolando in rapida successione i suoi evergreen, da ‘No More Mr. Nice Guy’ a ‘Under My Wheels’, da ‘Public Animal #9’ a ‘Billion Dollar Babies’ con il rituale lancio di “verdoni” sul pubblico. ‘Long Way To Go’ e ‘Woman Of Mass Distraction’ fanno da apripista ad uno dei clou dello show, quella ‘Poison’ figlia del periodo più “radiofonico” del cantante di Detroit, cantata all’unisono dal pubblico.
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Con ‘Halo Of Flies’ Alice Cooper veste i panni dell’altezzoso direttore d’orchestra, ma subito li dismette per interpretare lo scienziato pazzo che, in ‘Feed My Frankenstein’ da vita a un enorme mostro destinato a scorrazzare inquietante sul palco. Il “cuore” dello show viene tenuto a battesimo da ‘Cold Ethyl’ nella quale il cantante sevizia una bambola di pezza dalle sembianze di una ballerina, quella stessa che nella ballata ‘Only Women Bleed’ prende vita danzando al centro della scena. Con ‘Guilty’, ‘Ballad Of Dwight Fry’ e ‘Killer’ cantata con la camicia di forza d’ordinanza si compie un deciso balzo a ritroso nel tempo, andando a toccare il volto più teatrale dell’artista, mentre come da copione su ‘I Love The Dead’ Alice Cooper viene decapitato con la ghigliottina per poi risorgere immediatamente.
il tributo a quattro vità di questo tour, E dare vita alla no aggiati con quatom i, ente scompars r: “amici” prematuram n altrettante cove ma soprattutto co rix, nd He i Jim tro lapidi sul palco r pe re’ r Keith Moon, ‘Fi ‘Pinball Wizard’ pe a furiosa ‘Ace Of r David Bowie e un pe y’ Cit e ‘Suffragett show ritorna in Lo enticato Lemmy. dim l’in r pe ’ es ad Sp ella ‘School’s Out’ Eighteen’ e con qu carreggiata con ‘I’m ico party, prima nt traz in un mastodo un Alice Cooche trasforma l’Alca da ata nt ca ’ ad ‘Elected ’esplosione che il bis affidato un in Sam chiuda la festa per in formato Zio i. nt fila lle di coriandoli e ste
Uno show divertente, coi nvolgente anche se la sca letta ha destato non poche perple ssità, vuoi per una certa ripetitività poco in linea con la pro duzione discografica del l’artista (qualche pezzo estratto da ‘He y Stoopid’, ‘The Last Tem ptation’ ma soprattutto dall’ultim o ‘Welcome 2 My Nightm are’ avrebbe potuto trovare comodame nte spazio), vuoi per la scelta di inserire nel set ben cinque cover (oltre ai quattro trib uti si segnala il classico accenn o ad ‘Another Brick in the Wall’), un po’ troppe per un sim ile contesto. Ma è un cer care il pelo nell’uovo, perchè sono sol o facce sorridenti e espres sioni godute quelle che a fine concerto si aggirano per il locale, incuranti del diluvio che li sta attendendo all’est erno.
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@ Piazzola sul brenta (pd) Testo e Foto di 16 20 no ug gi 25 Roberto Villani Sono trascorsi oltre trentaquattro anni dal 16 aprile 1982, ossia la data del mio ultimo approccio diretto con l’attività live dei “veri” Queen, quando a Zurigo in un Hallenstadion gremito e ridondante di entusiasmo, si realizzò uno dei concerti più spettacolari ed entusiasmanti della band inglese, trainata da un Freddie Mercury in stato di grazia. Di acqua sotto i ponti ne è passata, da quel tour a supporto degli album “Hot Space” e “Flash Gordon” e rivedere oggi Brian May e Roger Taylor accompagnati da Adam Lambert, oltre che da un manipolo di ottimi session men, non è esattamente la stessa cosa di come li lasciai nell’Arena elvetica. Diciamo la verità fino in fondo, i Queen sono morti quell’infausto 24 novembre 1991 in cui il mondo venne privato di uno dei suoi più illustri e geniali personaggi e, preso atto di questo punto di non ritorno, possiamo sgombrare la mente da tutto quello che la storia o meglio, leggenda ci ha consegnato, e gustarci serenamente tutti i vari progetti messi insieme dagli instancabili May e Taylor, tra cui il celebrato e fortunato musical “We Will Rock You”, dal successo mondiale clamoroso, ma anche questo ennesimo ritorno all’attività live, che ha toccato il nostro paese con una data nell’incantevole scenario di Villa Contarini, alle porte di Padova.
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Quasi nulla è cambiato dal concerto dell’anno scorso passato da Milano (e per il sottoscritto da Zurigo), se non una manciata di brani tra cui l’innesto in scaletta di “Flash” e “The Hero ”, tracce che hanno aperto la serata, oltre alla rotazione di “Play The Game” al posto di “Save Me”, entrambe tratte dal monumentale “The Game”. Premesso che il tentativo di avvicinarsi a quello che è stato definito il più grande cantante di tutti i tempi è impresa non titanica, quanto impossibile, ma questo non toglie che, in fondo, la vera nota lieta della serata sia stato proprio Adam Lambert, finalmente padrone della situazione ed a suo agio nell’interpretazione dei brani storici dei Queen, molto più di quanto si accostò un mostro sacro come Paul Rodgers.
curioso di come suonano i Queen con adam lambert? guarda il video di “Don’t Stop me now” dal Rock in rio 2016 METALHAMMER.IT 45
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Capolavori assoluti come “Somebody To Love“, “Killer Queen“ e “Tie Your Mother Down”, sono gemme che brillano di luce propria nello straordinario contesto di Piazza Camerini e dove non arriva il pur talentuoso Adam Lambert, ecco spuntare la Red Special di un Brian May non al massimo delle prestazioni, ma pur sempre un chitarrista con la C maiuscola. Con “Bohemian Rhapsody“ si raggiunge l’apice della serata e si ritorna ad assaporare la voce di Freddie Mercury, che appare in video per un duetto virtuale con Lambert, che l’anno scorso a Zurigo fu impietoso per il giovane cantante di Indianapolis, a differenza di quest’anno dove ne è uscito molto più che dignitosamente . Il gran finale è un frammento di storia del rock, con le epocali “We Will Rock You” e “We Are The Champions”, in un tripudio di effetti pirotecnici e con la netta sensazione che questo gruppo, così composto, potrebbe giocarsi le proprie carte anche con materiale nuovo, grazie all’innato mestiere di Brian May e Roger Taylor unito alla freschezza e alle spiccate doti vocali dell’ex American Idol, Adam Lambert. E con questo di stasera, sono dieci i concerti dei Queen a cui ho assistito, di cui i primi quattro a cavallo del 1978 e 1982, con Lui alla voce.
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Punk^festival
@ Park rock (Rimini) 14 giugno 2016
Testo e Foto di Roberto Villani
w da “California Dreamin”, è quanto si respira e si percepisce in zona fiera a Rimini, in occasione della prima edizione del Rimini Park Rock, un raduno destinato a diventare un appuntamento fisso di inizio estate, nell’indiscussa capitale vacanziera in terra di Romagna, che quest’anno ha ospitato il Punk Rock Summer Nationals Tour, passato il giorno precedente da Milano.
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I nomi in cartellone sono alquanto invitanti per tutti gli appassionati di punk rock americano, a partire dai Good Riddance, quelli meno forti del bill seppur attivi dal 1986, ma non per questo meno efficaci e discretamente conosciuti ed apprezzati nel nostro paese. Il loro set, durato poco più di mezz’ora, ha deliziato gli amanti del melodic hardcore, attraverso brani diretti e di grande presa, tra cui estratti dell’ultimo album “Peace in Our Time” del 2015, oltre ad una manciata di pezzi taglienti come lame di rasoio, urlati a squarciagola da un tarantolato Russ Rankin. Troppo poco, tuttavia, per lasciare il segno, quello che, invece, non hanno certo faticato a tracciare i Pennywise, artefici di una carriera quasi trentennale, spesa a dispensare massicce dosi di straripante punk, sudore e adrenalina in giro per i palchi di tutto il mondo.
Good Riddance
Pennywise
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Pennywise
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Pennywise
The Offspring
Grazie ad estratti di album seminali del melodic punk californiano quali “About Time” e “Full Circle”, proposti con grande veemenza, il live-act di Fletcher Dragge e soci non ha tradito certamente le attese, ponendolo al livello qualitativo di quello che, nel 1999, infiammò l’Arena Parco Nord di Bologna, in occasione del Vans Warped Tour, sempre in compagnia dei Good Riddance. Suggestivo il loro gran finale sulle note dell’inno da stadio “Bro Hymn”, urlato a squarciagola da settemila ugole per almeno un quarto d’ora anche dopo il termine del loro elettrizzante show. L’attesa si sposta verso gli Offspring, band amatissima dalle nostre parti, come dimostrano gli innumerevoli tour italiani che nel corso degli anni, hanno visto la band di Orange County headliner di importanti e referenziati festival ed altrettanti concerti nelle arene.
100% PUNK
L’attesa si sposta verso gli Offspring, band amati ssima dalle nostre parti, come dimostrano gli innum erevoli tour italiani che nel corso degli anni, hanno visto la band di Orange County headliner di importanti e referenziati festiva l ed altrettanti concerti nelle arene. Forti di un patrimonio artistico costituito da oltre trentacinque milioni di album venduti in carrier a ed una serie innumerevole di hit, tra cui le celeberrime “Pretty Fly For a White Guy”, “Why Don’t You Get a Job” e “Original Pranks ter”, veri e propri tormentoni da MTV Generation, fino agli ultimi estratti di “Days Go By”, gli Offspring hanno offerto uno show di prim’ordine, scandagliando in lungo ed in largo un repertorio consolidato e sicuro, terreno fertile per le scorribande chitarristich e e i riff di uno scatenato Noodles e di un più compassato Dexter Holland . Prima il punk socialmente impegnato dei Penny wise, a seguire il punk-pop solare e disincantato degli Offspring, hanno contribuito al successo di questa prima edizione del Park Rock in terra di Romagna, in un tripudio di profum i di gastronomia locale, di invitanti piadine, sognando “sempre” la California .
LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Un tempo trasgressivi e forse anche un po’ scomodi, ora più di maniera e compassati al punto giusto, mentre è impossibile non ritrovare nei californiani la stessa, purissima essenza live che mai ha fatto loro difetto – già alla metà degli Eighties, risale all’epoca il primissimo embrione dei Jane’s Addiction, la band guidata dal frontman Perry Farrell era un tutt’uno con il palcoscenico, selvaggia e dirompente tanto basta per rivoluzionare anche le remore più ottuse e recalcitranti, con uno stile musicale che amava sì le depressioni cosmiche di Joy Division e Velvet Underground, ma senza scordarsi di rendere il tutto frizzante con un piglio sfrontato e strafottente, dall’istinto tagliente e punky. Questi erano i Jane’s Addiction che con un live-album d’esordio e due memorabili dischi, l’innovativo e più radicale ‘Nothing’s Shocking’ e il maggiormente definito ‘Ritual De Lo Habitual’, seppero ricontestualizzare una scena rock losangelena ancora molto aperta e disinvolta, per poi espandersi a livello internazionale. Bruciandosi però istantaneamente, sull’onda di un successo clamoroso ed inaspettato, ma per colpa anche di una pressione forse non gestibile, per un gruppo che quasi viveva di espedienti e che veniva dal ghetto di Los Angeles. Chi scrive fu tra quei fortunati giornalisti che appunto all’epoca incontrarono la band, in tour in Europa per promozionare ‘Ritual…’, il quale ricorda quattro elementi poco a loro agio nello star sotto i riflettori della ribalta (a parte Farrell, istrionico e provocatore, uno che forse aveva già individuato bene la portata storica della propria band e del valore della sua musica), ma sensazionali per carica eversiva e una dimestichezza non indifferente con il palco – che, nell’occasione, fu quello del City Square, storico club di Milano oggi conosciuto come Lime Light, parliamo dell’ottobre del 1990.
@Fabrique (MI) 15 Giugno 2016
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di Alex Ventriglia Foto di Elena Arzani e Alex Ventriglia
- LIVE REPORT - LIVE REPORT - LIVE REPORT Un quarto di secolo dopo, i Jane’s Addiction fanno il loro ritorno nel capoluogo lombardo, con in pratica la line-up originaria (eccezion fatta per il bassista Eric Avery, rimpiazzato da Chris Chaney), gli scazzi di un tempo definitivamente seppelliti e più che mai fieri di una reunion ormai in piedi da anni, ma oggi chiamata alla prova del nove, alla celebrazione del venticinquennale di quello storico album, un assoluto capolavoro di eccentrica versatilità musicale che, a ben vedere, ha cambiato la vita a parecchi degli avventori del Fabrique, locale bello pulsante di gente e di entusiasmo che, entro breve, si farà incandescente. E se l’opener risponde al nome di ‘Stop!’ con tanto di intro in spagnolo, facile che a materializzarsi sia il caos puro, con la bolgia dantesca che scoppia sotto il palco e i primi temerari a volar per aria… I quattro californiani suonano sferzanti e granitici, ma quella lucida classe che li ha sempre contraddistinti straborda e conquista fin dalle primissime avvisaglie, se poi si mettono in fila classici come ‘No One’s Leaving’, ‘Ain’t No Right’e ‘Obvious’, la sensazione che sarà una gran serata si fa netta!
Come detto, si festeggiano i venticinque (ventisei, per la precisione) di ‘Ritual…’ e i brani suonati secondo il suo preciso ordine, ragion per cui, a scuotere il club milanese, ci pensa ora ‘Been Caught Stealing’, che col suo latrare di cani è uno dei pezzi più caratteristici e dinamici dell’album, con la platea che quasi non si tiene, tenuta in pugno da un Perry Farrell carismatico come sempre e un Dave Navarro che, anagraficamente, pare aver fatto il patto col diavolo. Lo spettacolo è un autentico piacere, forse con il tempo c’eravamo scordati della botta di adrenalina griffata Jane’s Addiction, i quali si fanno finalmente perdonare di una latitanza durata più di vent’anni, poco importa se comunque segnata dai vari, notevolissimi progetti di Farrell e Navarro, con in testa Porno For Pyros e Red Hot Chili Peppers, senza dimenticarsi del Lollapalooza Festival del quale il cantante è stato brillante fondatore. La sublime, leggiadra ‘Three Days’, ‘Then She Did’ e ‘Of Course’ introducono al commiato, tra bellissime danzatrici supertatuate che richiamano il burlesque più spinto e rapiscono tutta l’attenzione del Fabrique, e il four-piece autore di una struggente, dilatata versione ‘Classic Girl’, canzone che chiude l’album e, di conseguenza, suggella la prima parte dello show.
E’ la volta quindi degli encore: si parte con ‘Rebel Rebel’ omaggio a David Bowie, niente di che a dire il vero, poi sono ‘Mountain Song’ (tra i miei pezzi preferiti in assoluto, possente brano cardine di ‘Nothing’s Shocking’) e ‘Just Because’ a scuotere l’audience, che non si aspetta minimamente il successivo spettacolo di body suspension con le modelle sospese in aria agganciate a dei ferri che le fanno volteggiare al ritmo di ‘Ted, Just Admit…’, per un colpo d’occhio inquietante e al tempo stesso intrigante! Ultimo break, prima dello sprint finale, con i quattro ad interpretare una ‘Jane Says’ quasi veemente, tribale nei suoni, umorale nella sua essenza più spirituale, un atto d’amore questo, nei confronti di un pubblico incredulo e forse spiazzato da tanta e tale bellezza evocativa. Questi sono i Jane’s Addiction. Prendere o lasciare.
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@Suvilhati (Helsinki) 1-3 Luglio 2016 Testo e Foto di Paky Orrasi Tuska Open air festeggia il suo diciannovesimo compleanno in gran stile, come sempre anche quest’anno Tuska (in finlandese dolore) ha questa particolarissima atmosfera di comunità; l’appuntamento annuale di un popolo metal, non solo finlandese, in un festival relativamente piccolo rispetto a colossi quale Hellfest e soci, ma da sempre rispettato per scegliere band affascinanti e particolari senza basarsi sulle line up trendy dei suoi concorrenti. Il Tuska è sinonimo di metal vero, dove ogni sua sfumatura è rappresentata nella sua stranezza; un festival che non ha bisogno di gran nomi per fare il pienone. Questo era il decimo anno per la sottoscritta e al mio arrivo immediatamente ho visto le stesse persone, naturalmente un tantino stagionate ma ancora lì, e ogni anno è tradizione per noi media lamentarsi dei photopit troppo pieni e stretti, dei promoter che invece di organizzare le interviste sono in vacanza…ma nonostante tutto tra birre, lonkero, foto e interviste il Tuska è quella grassa grossa famiglia che quando si ritrova per il cenone ti fa puntualmente arrabbiare per le stesse motivazioni ma che comunque non sostituiresti mai.
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il VenerdI’ L’apertura dei palchi è stata affidata a Cattle Decapitation, puntuali sul Radio Rock alle 14.00, la band arriva da San Diego, California con il suo Death Metal che cerca di riscrivere le regole del gioco da ormai vent’anni (sei album). Di questa band ho apprezzato specialmente le vocalità del frontman Travis Ryan e al di là di qualche problema tecnico il set brutale di questa band è stato un buon inizio. Mentre nel tendone si cambia totalmente atmosfera con i Delain, Symphonic Metal olandese e per la prima volta in Finlandia. Devo confessare che ho lasciato i symphonic nella mia prima adolescenza e solo la dea Floor Jansen riesce puntualmente a farmi emozionare, risvegliando qualche parte del mio cervello dove è custodito quel genere…quindi ero pronta ad addormentarmi. Tuttavia che seppur non siano nelle mie corde, Charlotte Wessels è una frontwoman diversa dal resto delle “dee” del symphonic, difatti riesce a coinvolgere il pubblico nella sua semplicità senza imporsi come una creatura eterea e intoccabile. Il loro rock rende sicuramente più dal vivo che negli album.
La prima band importante del giorno sono i Swallow The Sun, un Tuska speciale per gli ambasciatori del Doom Metal finlandese! Difatti, l’ultimo sforzo “Songs from the North I, II & III” non è un doppio ma un triplo album, per cui sono saliti sul palco del festival ben tre volte, una volta al giorno, per suonare questo epico lavoro nella sua interezza. Venerdì il sole accecante contrasta con il primo di questi tre show, dove l’atmosfera emotiva e buia della loro musica. Questa viene esasperata dal fatto che oggi sarebbe stato il compleanno della cantante Aleah Stanbridge (partner del chitarrista Juha Raivio), la quale da poco ha perso la sua battaglia contro il cancro. ‘Heartstrings Shattering’ è stato il momento più commovente del concerto, in quanto la voce di Mikko è stata accompagnata a quella registrata di Aleah.
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A tirare su il morale arrivano i Lordi! Non chiedetemi il motivo, ma in Finlandia abbiamo steso quasi un velo sui Lordi. Non so bene spiegare la causa, ma vi posso assicurare che è così. Forse la troppa attenzione dall’estero, perché tutti pensiamo che la Finlandia dovrebbe essere rappresentata da ben altre band, molto più meritevoli, aggressive e meno kitsch. Difatti da molto non riescono a fare un tour decente nella loro terra madre. I Lordi erano quindi attesi molto di più dai turisti che da noi. Ma è bastato vivere questa band per quello che è: uno show dove la musica non deve essere per forza il miglior heavy rock al mondo, poiché come in un circo, le note sono solo uno degli elementi in gioco. Posso sicuramente dirvi che in quel photopit ci siamo divertiti. I Lordi hanno reclamato il loro valore e catturato tutto il pubblico, anche a coloro che storcevano il naso. Probabilmente grazie alla loro performance al Tuska avranno una vita più facile qui. La performance è stata basata sul ”The Arockalypse 2006 Redux Show”, con pezzi appunto tratti dal loro acclamato “The Arockalypse”. Il palco è stato convertito in un cimitero, e tra fuochi, cambi di vestiti e manichini di donne belle che morte, lo show è stato comico ed esilerante! Mr. Lordi e i suoi mostri non hanno perso un colpo e ci hanno intrattenuto con tredici pezzi, tra i quali: ‘Get Heavy’, ‘They Only Come Out at Night’, e naturalmente ‘Hard Rock Hallelujah’…unica domanda: con un sole del genere come fanno a non morire dentro quei costumi?
Passiamo ora dai mostri ai…lupi! Si nelle stranezze e scelte particolari del Tuska vi è anche una band giapponese che indossa maschere di lupi Man With A Mission. Il loro management sostiene che non sono umani, ma appunto animali. La scelta di questa band è al quanto strana in quanto indossano Jens e magliette ma le loro teste sono canine. I loro promoter hanno vietato di scattare foto dove il mento o altre parte del viso umano siano visibili e per questo motivo non posso includere gli scatti più divertenti. La band dice di essere stata creata da Jimi Hendrix…. l’Hard Rock, Metal e Dance Pop di questa band è sicuramente piacevole. Posso dirvi che scherzi a parte questi ragazzi sembrano non necessariamente un prodotto come Baby Metal, posso immaginare questi musicisti nascere in un garage sotto casa e poi divenire un fenomeno in Giappone, mentre Baby Metal è in tutto e per tutto un prodotto confezionato.
Dal fluffy kawaii dei Man With A Mission al distruggente Trash Metal dei re Testament. Avrò visto questa band dal vivo almeno una decina di volte e non mi deludono mai. La formula Testament è ottima, una delle poche band che non ha bisogno di scenografia e grandi sconvolgimenti. In questo caso è la musica la protagonista con i potenti vocalizzi di Chuck Billy, la sua energia e vicinanza col pubblico è come sempre divertente. Si dà tutto senza risparmiarsi. Ancora una volta una band di ragazzotti che non hanno diciotto anni, ma che a energia possono solo dare lezioni alla nuova generazione. La setlist ha compreso dodici pezzi, iniziando con ‘Over the Wall’, passando da ‘D.N.R.’, il nuovo classico ‘Native Blood’ e conclude ‘The Formation of Damnation’.
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E si piomba nell’oscurità dei Behemoth, che hanno suonato nel nuovo tendone, che ha creato un’ottima atmosfera. Nel buio il loro album “The Satanist” è stato eseguito nella sua interezza, alla perfezione. Il maestro di cerimonie Nergal, come sempre ha dato una performance tra grazia e inquietudine e il pubblico era il delirio.
Conclude il primo giorno Avantasia, o meglio Avantasia e tutto il cucuzzaro: Jorn Lande, Eric Martin, Ronnie Atkins, Michael Kiske, Bob Catley, Amanda Somerville e Herbie Langhan, capitanati da Tobias Sammet. WoW! Apre ‘Mystery of a Blood Red Rose’ dal nuovo album “Ghostlights” e da lì il treno epico non si è fermato: ‘Ghostlights’, ‘Avantasia’ (con Michael Kiske), ‘The Great Mystery’ (con Bob Catley), ‘The Scarecrow’, (con Jørn Lande) e così fin alla fine con un fantastico encore di ‘Sign of the Cross’ / ‘The Seven Angel’, feat: TUTTI! La tempra di questi musicisti è palpabile, e han convinto anche chi, come me, ci credeva poco.
IL SABATO
Il secondo giorno, sold out, ci siamo subito concentrati su Turmion Kätilöt, ossia i Rammstein finlandesi, un Techno-Metal comico, che coinvolge tutti, anche coloro che non capiscono una parola. Come sempre hanno attirato un pubblico vastissimo che è letteralmente impazzito. Il set ha visto i pezzi più amati, quali ‘Grand Ball’ , ‘ Pimeyden Morsian’, la classicissima ‘Teurastaja’ mentre Spellgoth e MC Raaka Pee intrattenevano con scenette davvero divertenti.
Con un suono eccezionale arrivano gli Anthrax! Stesso discorso fatto per i Testament, dopo decine di volte visti non deludono mai, sebbene siano un tantino ripetitivi nelle performance, la musica è sempre straordinaria. Joey Belladonna non perde mai un colpo nel coinvolgere il pubblico, e sebbene il temporale regnasse sul festival, gli Anthrax han intrattenuto tutti con un set solido, dove per metà si sono concentrati sugli ultimi due album ma senza dimenticare cavalli come ‘Madhouse’ e ‘Among the Living’ . Da notare che Scott Ian ha concesso anche un’intervista aperta a un pubblico limitato, dove ha parlato non solo della band ma anche di temi caldi quali il Berlusconi americano Donald Trump.
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Finalmente gli bramatissimi Ghost salgono sul palco. Avendo visto la band crescere concerto per concerto, devo dire che questo è lo show con la più grande produzione, e il più ampio pubblico in Finlandia. Non a caso questo giorno era l’unico sold out. La tetra scenografia è stata rimarcata dalle nuvole nere che si sono addensate intorno all’ormai mitico gassometro, simbolo del Tuska. L’adulazione verso i fantasmi è ormai un’epidemia! Tra gli adulatori molte ragazze attempate vestite da pin-up suore (che alla sottoscritta sembra una cretinata). Una scaletta pressoché uguale ai concerti precedenti, con in apertura ‘Spiri’, “From the Pinnacle to the Pit” passando per la amatissima ‘Cirice’ e il cavallo ‘Ear Zero’; tra cambi di costumi e dollari lanciati al pubblico con la faccia di Papa Emeritus. I Ghost hanno intrattenuto senza perdere un colpo, Papa Emeritus è visibilmente più a suo agio col pubblico che intrattiene ora maggiormente con la sua comicità. Tra tuoni e temporali la chiesa diabolica dei Ghost ha fatto da perfetta soundtrack.
Il terzo giorno ci siamo concentrati immediatamente sulla band che ha scaturito più disaccordi e discussioni nell’area vip/press: Myrkur. Si sa il popolo Black Metal non è prettamente conosciuto per l’elasticità delle proprie vedute, tra di loro tantissime le animosità contro la danese Amalie Bruun, da modella e musicista indie pop a strega incantatrice della sua band Myrkur. Avendo avuto la possibilità di avere una lunga intervista, devo dirvi che ho ben compreso la sua visione, ma capisco anche delle critiche, o forse fraintendimenti che potrebbero essere risolti se solo ci si informasse sulla biografia di questa artista e visione artistica. Insomma la sua presenza incanta, la sua voce è sicuramente evocatrice e la sua presenza scenica rievoca una straga… forse perseguitata, appunto da un popolo che non vuole accettarla, ma che a me personalmente non dispiace.
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Il pit dei fantastici Katatonia è stato il più pieno di questo weekend. Impossibile muoversi e scattare. Un delirio. Mentre il mondo li ha finalmente scoperti, la Finlandia li ha sempre amati. E tutti i loro fan sono uniti da un orgoglio enorme dinanzi il successo di questa band. Ad aprire due pezzi tratti dall’album “The Great Cold Distance”, ‘July’ e ‘Deliberation’, ma la band svedese regala anche ‘Serein’ e ‘Old Heart Falls’ tratti dal loro ultimo album “The Fall of Hearts”. La setlist ha percorso in dodici pezzi le tappe più significative di questa salita al successo e ha incluso ad esempio pezzi ormai famosissimi come ‘My Twin’ e ‘Forsaken’. La performance è stata impeccabile, il suono limpidissimo. I Katatonia sono al loro top e si nota anche nel body language di Jonas Renkse che appare più sicuro di sé.
Il Tuska termina con i patrioti Children of Bodom, scenografia alquanto originale con quattro fusti gialli di olio enormi e una bandiera enorme con scritto “I Worship Chaos”. “Follow The Reaper” accende i fuochi ed è subito delirio! Mr. Laiho e company appaiono di ottimo umore, pronti a donarci una set list da invidia. Laiho è in ottima salute, e da una performance egregia. Il nuovo chitarrista Daniel Freyberg si dimostra capace di tenere il tiro, un grande esordio. Laiho non sfoggia solo il suo mostruoso talento, ma anche un buon senso dell’umorismo, intrattenendo il pubblico tra il loro solidissimo Death. Il pezzo ‘Lake Bodom’ naturalmente non poteva mancare, ma a scuotere il tutto è Netta Skog, (Ensiferum, ex-Turisas) conosciuta in Finlandia per la sua fisarmonica folk metal. Naturalmente un moshpit nel fango era di dovere e i fuochii sprigionati dal palco ricalcano l’atmosfera. Ad arricchire la setlist anche nuovi brani: ‘Morrigan’, ‘I Hate’ e ‘I Worship Chaos’. Il concerto si chiude con tre cover: ‘Lookin’ Out My Back Door’ (Creedence Clearwater Revival), ‘Somebody Put Something in My Drink’ (Ramones ) e ‘Ghost Riders in the Sky’ (Stan Jones). Con il sole che non tramonta, salutiamo anche questa edizione del Tuska, dandoci l’appuntamento al prossimo anno, per festeggiare venti anni di musica, moshpit, troppe birre e jallu shots! Nähdään Tuska!
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G3 Grande serata quella tenutasi in quel di Grugliasco (To) per la quarta data del tour italiano dei G3 che ha visto coinvolti autentiche star della sei corde come Joe Satriani, Steve Vai e Gothrie Govan con i suoi The Aristocrats come supporting act. Detto ciò, leggendo solo i nomi di questi musicisti, si potrebbe pensare di chiudere qui l’articolo e di lanciare qualche anatema contro coloro che non hanno assistito ad un concerto intenso musicalmente ed emotivamente. Ma qui a Metal Hammer siamo abituati a essere magnanimi. Scherzi a parte, più di tre intensissime ore di musica, di strumentisti che nonostante una tecnica ed una padronanza dello strumento fuori dal comune riescono con tanta umiltà e maestria ad incantare lo spettatore, anche tra un cambio palco e l’altro poiché in quei frangenti si ripercorre mentalmente lo spettacolo appena terminato.
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@Gruvillage (To) 5 luglio 2016 di Andrea Schwarz Foto di Roberto Gallico
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L’unico protagonista (e non poteva essere altrimenti) incontrastato della serata è stata la musica suonata e interpretata su un palco dalle dimensioni degne dei migliori festival europei così com’è da sottolineare come l’impianto audio ed i suoni siano state 2 note liete: in qualsiasi parte della venue ci si mettesse, il suono veniva percepito in maniera ottimale. Quella di Grugliasco (To) è il quarto show italiano che ha visto protagonisti G3 a Roma (02/07) + Sogliano al Rubicone/FC (03/07) e Ascoli Piceno (04/07), un vero e proprio evento al limite del rito pagano al quale molti chitarristi (e musicisti) provetti non si sono certo lasciati scappare. Qui a Grugliasco fin da quando si entra nel parterre c’è aria di festa, quell’aria che si respira quando si sta per assistere ad un evento con la E maiuscola. E i musicisti che sono saliti sul palco non si sono certo risparmiati, soddisfacendo con le loro performance le aspettative dei presenti. Gli Aristocrats hanno suonato per primi, 45 minuti circa dove il trio formato da Marco Minnemann (batteria), Guthrie Govan (chitarra) e Bryan Beller (basso) si è esibito con il meglio del loro repertorio, il pubblico li ha accolti con molto calore e curiosità nel vedere all’opera tre musicisti che per due terzi non sono altro che la band di supporto di Joe Satriani. Il loro rock non è “a presa rapida”, complici le intricate strutture musicali dei loro brani, ma il pubblico tutto sommato ha gradito impaziente, pur di ascoltare i veri protagonisti della serata.
E sono stati accontentati alle ore 22.00, quando le luci si sono spente per accogliere Mr. Steve Vai: già in tour per festeggiare il 25ennale di un disco fondamentale e seminale come “Passion And Warfare”. Vai si presenta sul palco con la sua classica Ibanez 7 corde con i capotasti illuminati, occhiali da sole e cappuccio, quasi a volersi nascondere. Ed il pubblico va letteralmente in visibilio, il suo stile inconfondibile lo si percepisce fin dalle prime note di “Bad Horsie”, brano scelto come apripista. Mr. Vai è un fiume in piena, ipnotizza il pubblico senza risparmiarsi, suonando pezzi quali “Gravity Storm” da “The Story Of Light” così come “Erotic Nightmares” e “Ballerina 12/24” da “Passion & Warfare”. Il momento culmine della sua performance rimane indubbiamente “For The Love Of God”, un brano dove riesce ad emozionare tutto il pubblico presente.
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A seguire questa stupenda esibizione, dopo un veloce cambio palco, troviamo l’altra stella della serata, quel Joe Satriani accompagnato da Beller e Minnemann che si butta a capofitto con brani tratti dalla sua intera discografia: apre le danze “Shockwave Supernova” passando per l’emozionante “Flying In A Blue Dream” e “Cool #9” (da “Crystal Planet”) e non disdegnando di “saccheggiare” un album seminale come “Surfing with the Alien” proponendo i brani “Always with Me, Always with You” + “Satch Boogie” e la title track, quella “Surfing with the Alien” che potrebbe essere il suo autentico manifesto.
L’esibizione come G3 ha visto come protagonisti il trio Satriani/Vai/Govan affiancati da Mike Kenelly alle tastiere/voce/seconda chitarra, Bryan Beller al basso e Marco Minnemann alla batteria, esibendosi in extended versions di brani quali “Message in a Bottle” dei The Police, “Little Wings” di Hendrix ed il curioso medley formato da “Smells Like Ten Spirits/Rocking in A Free World” condite da “infinite” parti strumentali dove il terzetto sembra divertirsi nell’improvvisare scale e note. Vai e Satriani in questa veste si trovano perfettamente a loro agio, la loro pluriennale esperienza rende le loro performance come solisti e come G3 fluide e senza sbavature mentre si nota quasi un timore reverenziale da parte di un Govan attento a seguire le indicazioni del duo, trovandosi quindi forse un po’ impacciato in una situazione non proprio abituale. Ma questi sono dettagli che non scalfiscono uno show assolutamente stellare, energico, ipnotico dove anche coloro che non si autodefiniscono musicisti, ma semplicemente amanti della Musica (con la M maiuscola), hanno potuto sentire vibrazioni positive ed estremamente emozionanti.
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@Market Sound (mi) 14 Giugno 2016
Testo e Foto di Andrea Lami Dopo la trasferta a Roma fatta ad inizio anno (12 febbraio) per andare ad assistere a quella che doveva essere l’unica tappa italiana dei The Winery Dogs, oggi siamo di nuovo in macchina per andare a ri-assistere ad un loro concerto questa volta decisamente più vicino. L’unica incognita della giornata è il tempo inteso come meteo, ma qualche goccia non potrà fermare la nostra voglia di rock.
Ad aprire la serata troviamo i Be The Wolf provenienti da Torino. Siamo di fronte ad un trio ben assemblato, che ci spara in faccia la bellezza sette brani di produzione propria. I primi tre sono inediti ed usciranno a breve nel loro prossimo lavoro, seguono “Si(g)ns”, “24” e “One Man Solfpack”. Quello che più conosciamo è “24” semplicemente perché recentemente è stato registrato un videoclip che sta girando in rete e che quindi ci è risultato più facile da seguire/cantare. La cosa che colpisce di più, oltre alle qualità musicali del trio, è la semplicità con cui questi ragazzi sanno stare sul palco e l’umiltà del cantante/chitarrista Federico che con poche parole, ma giuste, riesce a catturare l’attenzione del pubblico.
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I Winery Dogs non fanno tempo a salire sul palco che il pubblico impazzisce ed inizia a saltare cantare e ballare sulle note di “Oblivion” un brano tiratissimo dove i tre fenomeni possono mettere in mostra tutte le loro qualità. Segue “Captain Love” che contiene un intro molto purpleiano ricordandoci la prima parte di “Perfect Stranger”, anch’essa acclamata e cantata da tutti, entrambe le canzoni sono contenute nell’ultimo album “Hot Streak”. Con “We Are One” si fa un passo indietro al primo album ma il concetto di fondo non cambia, i presenti sono preparatissimi e non sbagliano un passaggio. Questo il pubblico, immaginatevi cosa hanno potuto fare i musicisti in questione. Sono solo in tre, ma riempiono il palco con semplicità e capacità. Quella che era l’unica incognita prevista è iniziata a realizzarsi… qualche goccia ha iniziato a scendere, ma la quantità d’acqua caduta non ferma né la band (ovviamente coperta) ma soprattutto non fa scappare nessuno tra il pubblico. Kotzen nota la pioggia e spende due parole per l’introduzione di “Hot Streak”, sperando che il calore/hot in questione possa aiutare i presenti, ma purtroppo non basta, anzi la pioggia inizia a diventare temporale. Anche le parole di Portnoy un po’ ci aiutano a resistere “Rain or not rain we’ll make a great show” ed infatti così sarà. Il loro show è stato come sempre pazzesco per intensità, qualità, tecnica, cuore. Si prosegue con “Empire”, “Fire” ma nulla cambia, pubblico fradicio che canta tutto e terzetto che ci prende a schiaffi con esecuzioni perfette. Si passa per l’assolo di Portnoy, non più una dimostrazione di cosa sa fare, ma una voglia di divertirsi e far divertire, visto che Mike si è alzato dal suo sgabello per andare a suonare un po’ tutto sul palco, dalla batteria al contrario, agli strumenti di Kotzen, dalle aste al microfono stesso, fino ad arrivare a bordo palco allungando una mano per verificare la situazione pioggia.
Ogni tanto la pioggia ci dà un po’ di tregua, ma si tratta di piccole pause che finiscono quasi immediatamente tanto che non si ha tempo di scrollarsi via di dosso l’acqua che ne scende ancora. I Winery Dogs premiano la nostra costanza proseguendo dritti e regalandoci gemme come “The Other Side” prima dell’assolo di Billy Sheehan, sicuramente interessante per i bassisti, ma un pochino soporifero per il sottoscritto. Difficile eguagliare/superare la simpatia di un Portnoy in sede di assolo. La tiratissima “Ghost Town” con un Sheehan stellare e contenente un assolo che vagamente ricorda Joe Satriani, prima dell’esecuzione della dolce “I’m No Angel” e della chiusura del set con l’acclamatissima “Elevate”. Il terzetto abbandona il palco ma per pochissimo tempo ed ecco spuntare Richie che ci chiede se vogliamo un altro brano. Ma domanda fu migliore. Tacitamente tutti d’accordo ci accontentiamo di “Regret”, finito il quale, dopo i doverosi saluti, possiamo guadagnare l’uscita alla ricerca di qualcosa di asciutto nelle macchine per poterci riscaldarci un pochino. Siamo testimoni ancora una volta di un grande concerto di questa band, tecnicamente inattaccabile. La tecnica è al servizio delle canzoni, come sempre si dovrebbe fare, quindi senza nessuna mania di esibizione.
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Celtica
@Courmayeur 7-10 Luglio 2016 di Fabio Magliano Foto di Alice Ferrero
M
agia. Si spreca questa parola ogni qualvolta ci si trova a parlare di Celtica, il più importante festival italiano dedicato alla musica, alla cultura e alla tradizione celtica. Un termine pretenzioso, che ben si spende (per ragioni di marketing) con il “tema” della festa, però… però è innegabile che qualcosa di “magico” in questo festival che dal 1996 porta ai 1.600 metri della Val Veny, in Valle d’Aosta, migliaia di appassionati c’è realmente. Come si varca il ponte del Purtud e ci si addentra nel bosco del Peuterey, teatro principale dell’evento, come per incanto pensieri e preoccupazioni vengono lasciati alle spalle, sostituiti da una crescente armonia e da una energia destinata a protrarsi per mesi dopo la fine dell’evento. Perchè Celtica è più di un festival, è un’idea, un luogo, una dimensione nella quale “non esistono estranei ma solo amici che non abbiamo ancora incontrato”, dove i dissapori vengono appianati, dove nessuno trova strano aggirarsi tra bancarelle che vendono bacchette magiche e lacrime di fata, magari brandendo spade e asce o indossando tuniche e orecchie da elfo, per poi ritrovarsi tutti ai piedi del grande palco alle pendici del Mont Noir du Peuterey dove da vent’anni si danno appuntamento artisti provenienti da tutto il mondo pronti a proporre il loro folk celtico in ogni sua declinazione.
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Ecco quindi che le melodie tratte dal repertorio tradizionale popolare scozzese, irlandese e bretone suonate dall’arpa di Katia Zunino fanno da contraltare al celtic folk rock dei Boira Fusca, che i balli irlandesi della Dominic Graham School of Irish Dance si intrecciano con il folk canonico degli scozzesi Dosca, senza una minima continuità stilistica ma sempre e comunque in grado di catturare la simpatia e l’attenzione di un pubblico che nel 2016, con 13.000 presenze, ha fatto segnare il massimo storico.
Un pubblico nel quale la componente “metallara” è sempre rilevante almeno a giudicare dalle t-shirt di Amon Amarth, Korpiklaani o Epica sfoggiate dai presenti, magari in abbinamento ad un tradizionale kilt, complice un bill che, negli anni, è andato via via imbastardendosi con band dalle spiccate inclinazioni hard rock, come nel caso dei francesi Celkilt, bravissimi a sposare strumenti tradizionali come il violino, la cornamusa scozzese, il whistles, il bodhràn ed il banjo con quelli tipici della rock band, per dare vita, tra scariche di energia e sane dosi di ironia, ad uno spettacolo nel quale pezzi inediti si rincorrono con versioni rivisitate di classici irlandesi, tra i quali fanno capolino persino gli Ac/Dc che, riletti in chiave folk rock, fanno la loro porca figura. Ma il clou del programma musicale lo si raggiunge con gli sloveni Happy Ol’McWeasel, una band che sin da subito dimostra di avere imparato alla perfezione la lezione impartita da Dropkick Muphys e Flogging Molly, riversando sul pubblico tra scariche di violino e scorribande di accordion, un folk punk estremamente efficace, nel quale le riletture di classici tune come ‘Irish Rover’, ‘Whiskey In The Jar’ e ‘The Foggy Dew’ si intersecano con brani originali tratti dall’album ‘No Offence’, impreziositi dalla performance esplosiva del singer Gregor Jancic che, tra salti e birre lanciate sul pubblico, ha dimostrato di essere un signor frontman. Qui finisce la kermesse sonora, ed inizia Celtica.
Perchè come abbiamo detto all’inizio, Celtica è più di un festival musicale, è il crescendo inarrestabile di Greenlands, l’inno delle nazioni celtiche eseguito da tutti gli artisti all’unisono, cantato a squarciagola dai presenti in un vortice emozionale difficilmente descrivibile se non vissuto in prima persona; è l’escursione in quota al Lago del Miage dove, sulle note dell’arpa di Vincenzo Zitello si celebra il rito dei cristalli dei sogni; è la cerimonia di accensione del fuoco sacro, con tutti i clan pronti ad accogliere i fuchi provenienti dal nord, dal sud, dall’est e dall’ovest per confluire sulla grande pira in un rito arcaico che vedrà poi tutti i presenti danzare attorno al fuoco per raccogliere un calore che tanto sa di benaugurale carezza. Ed è il saluto finale attorno al menhir, dove su suadenti note d’arpa viene tracciato il bilancio dell’evento che va concludendosi, per poi abbandonarsi tutti ad un reciproco abbraccio carico di emozione dal quale le lacrime sgorgano sincere, a suggellare una magia andata facendosi negli anni sempre più forte, sempre più intensa.
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@Santo stefano Belbo (CN) 18 Giugno 2016
Il prossimo passo lo facciamo con i Mr. RIOT, provenienti da Novara, i quali, con un goccio di fantasia, ci fanno volare indietro negli anni Ottanta quando l’hard rock melodico la faceva da padrone. Canzoni come “America”, ma anche “Rock’n’Roll” infiammano i presenti di una esibizione piena di adrenalina che vola via. Si prosegue ed è la volta dei milanesi SIXTY MILES AHEAD, visti molte volte su svariati palchi. Le sonorità mescolano hard rock/alternative metal/post grunge strizzando un po’ l’occhio a band come Black Stone Cherry, Alter Bridge e Shinedown. Un’ulteriore conferma per la band ed una nota di merito per il cantante Sandro Casali anche oggi sopra alle righe. Penultima band in scaletta, co-headliner del festival, salgono sul palco gli HELL IN THE CLUB. Forti delle recentissime date nelle quali hanno letteralmente infiammato i palchi di Geraadsbergen (Belgio) e di Vercelli, la band parte a mille con “Le Cirque Des Horreurs” una canzone che è impossibile non ballare. “Proud”, “On The Road”, “No Appreciation” sono alcuni dei brani che vengono eseguiti e che riscuotono un ottimo successo in termine di divertimento e di risposta da parte del pubblico, letteralmente travolto da queste sonorità.
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Testo e Foto di Andrea Lami
Come tutte le cose belle torna anche quest’anno il Langhe Rock Festival a Santo Stefano Belbo (CN). Ben conoscendo il clima che si respira in questa giornata, alle 16.00 noi siamo già arrivati e senza far passare troppo tempo si inizia con gli ODD, un trio che ci propone musica strumentale. I brani proposti spaziano tra i vari generi ricordando un po’ i Pantera per cattiveria, i Rage Against The Machine ma a ben ascoltare le influenze sono davvero molte e probabilmente il pubblico ne ha scoperte delle altre. Buon inizio. Cambio palco alla velocità della luce ed ecco pronti i BULLET-PROOF, una band proveniente dalla lontanissima Bolzano che ci sparano in faccia il loro thrash metal senza troppi fronzoli. Canzoni tirate, riff violenti, questo quartetto ci ha preparato un bel set al quale è realmente difficile rimanere indifferenti. La band ha all’attivo un album e sta lavorando alla realizzazione del secondo. Non c’è assolutamente tempo da perdere, bisogna rispettare la tabella di marcia ed ecco pronti sul palco i DRUNKEN ROLLERS, una band toscana, già attiva da otto anni ma che solo di recente ha pubblicato il primo album “Boogie Generation”. Lorenzo Braus, cantante-chitarrista prende possesso del palco e, complici le canzoni in un attimo si inizia a far festa. Avevo già sentito la band in un altro festival a Prato, quindi è stato molto piacevole ritrovarli. Chi si ferma è perduto ed ecco pronti i BLACKHOLEDREAM, una band formatasi solamente l’anno scorso ma che si sta facendo ascoltare ed apprezzare. La loro proposta gira intorno al rock moderno e pur essendo -giustamente- un po’ acerbi ed avendo un po’ troppi riferimenti ad altre band più blasonate, il quintetto fa una buona figura.
Chiudono un festival riuscito in ogni sua parte i FOLKSTONE una band che ormai è conosciutissima e non solo dagli amanti del folk metal. L’idea di unire hard rock/metal alla musica tradizionale con strumenti a fiato come cornamuse, trombe, arpe, cittern, flauti è risultata vincente e molto apprezzata. Sono molte le manifestazioni di gioia e di divertimento, cantando e ballando su praticamente ogni brano. Ennesima dimostrazione che la band si è ritagliata un posto nel cuore di molti fan con la musica e l’atmosfera che riesce a creare ogni qual volta sale sul palco, a chiudere un festival riuscito in ogni suo aspetto.
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@Villafalletto (CN) 18 Giugno 2016
Il rock più forte anche di Giove Pluvio. Non è bastata infatti una bomba d’acqua caduta sul Cuneese sabato 18 giugno per fermare il carrozzone di Ruderirock, giunto nel 2016 alla seconda edizione. E poco importa se il diluvio ha costretto gli organizzatori ad abbandonare il palco ai piedi dei suggestivi ruderi del castello di Villafalletto per “migrare” sotto un algido tendone: il pubblico ha risposto “presente” in massa, venendo ricompensato con uno show carico di adrenalina.
di Fabio Magliano Foto di Alice Ferrero
A scaldare gli animi una serie di band piemontesi dalla differente estrazione stilistica, dal metal classico dei Firestorm al blues acido della John Holland Experience, dallo space rock dei Wicked Expectation all’hard rock dei No Chrome, bravissimi a preparare il terreno per i big della serata. Rappresentati dai mascherati Monaci del Surf che per un’ora hanno intrattenuto i presenti con straordinarie rivisitazioni di colonne sonore di celebri film rilette in chiave “surf”, e soprattutto dal progetto Rezophonic, nato per volontà del batterista Mario Riso per raccogliere fondi da devolvere per la costruzione di pozzi d’acqua in Africa e in grado in questi 10 anni di contribuire alla realizzazione di 166 pozzi d’acqua salvando la vita a 30.000 persone.
I Rezophonic arrivano a Villafalletto con, insieme a Mario Riso, Max Zanotti dei Deasonika, Gianluca Battaglion, Ivan Lodini e Giovanni Frigo dei Movida, Sasha Torrisi dei Timoria, Federico Malandrino, Giuseppe Fiori, il rapper KG Man, la cantante, deejay, veejay Ketty Passa e la “stella” della serata, l’annunciatissima Cristina Scabbia dei Lacuna Coil. I Rezophonic hanno dato vita ad uno show trasversale, tra rock, rap, reggae, metal, pop, canzoni originali e cover, sino all’assoluto coinvolgimento del pubblico. Che a fine show ha potuto ancora godere della selezione musicale di Dj Aladyn da Radio DeeJay, protagonista del gran finale di uno festival che neppure il meteo avverso ha potuto fermare.
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Powerwolf The Metal mass Live
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(Napalm/Audioglobe) Parlando dei Powerwolf con l’audience metallica si scopre subito che o sono amati alla follia od odiati a morte. Questo è, come spesso accade nel Metal, lo spartiacque che non ha ancora concesso alla band tedesca di fare il passo decisivo, di sfondare definitivamente e affermarsi come i portabandiera del Power odierno. In entrambi i casi non si può evitare di considerare l’originalità del gruppo, considerato dai detrattori troppo anthemico e commerciale, il loro trattare con leggerezza un tema scottante come la religione, il look distante dal genere suonato più vicino all’estremo e senza dubbio la presenza e le doti di Attila Dorn, il valore aggiunto dei teutonici. Dopo questa premessa passiamo a “The Metal Mass Live”, la prima release video della band di Saarbrücken che va a officiare una carriera colma di successi, soprattutto con gli ultimi “Preacher Of The
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Night” e “Blessed & Possessed”. Quest’uscita rappresenta l’ostensione dell’arte dei Powerwolf e, come per tutti i live album celebrativi, può essere sia l’occasione di aggiungere un prezioso tassello alla propria collezione, sia l’opportunità di scoprire uno dei gruppi più osannati degli ultimi anni. In “The Metal Mass Live” sono racchiusi praticamente tutti i successi del combo tedesco, come ‘Amen & Attack’, ‘Army Of The Night’, ‘Armata Strigoi’, ‘Werewolves Of Armenia’, ‘We Drink Your Blood’, ‘Sanctified With Dinamite’, ‘All We Need Is Blood’, questo per quel che riguarda soltanto la release audio. Molto più gustosa, con una grande produzione è quella video (in formato DVD o Bluray), dove si possono ammirare i lupi di Saarbrücken in ben tre show, al Masters Of Rock, al Summer Breeze e quello della data di Oberhausen del Wolfsnächte tour. Non contenti, i Powerwolf hanno inserito
un documentario che è forse la vera perla del cofanetto. “Kreuzweg - Of Wolves And Men”, la “via della Croce”, un sguardo intimo sulla storia del gruppo della durata di cinquanta minuti che sazierà la vostra curiosità. Che dire dei concerti inclusi? Beh, Attila Dorn si dimostra un frontman eccezionale, con una voce impressionate e capace di tenere il palco come pochi altri. Il resto del gruppo è preciso e partecipa nelle coreografie che accompagnano la musica. Altro membro imprescindibile dei Powerwolf è Falk Maria, l’organista, che quando non è occupato alle tastiere, arringa le folle dando man forte a Dorn. In conclusione, per gli amanti dei Powerwolf e del Power questa release è sicuramente una di quelle da non farsi mancare, per qualità e ricchezza nei contenuti. Amen! Stefano Giorgianni
88 Trick Or Treat Rabbit’s Hill pt. 2 (Frontiers)
Inutile negarlo, “Rabbit’s Hill Pt.2”, secondo capitolo della trasposizione musicale dei Trick Or Treat de “La Collina Dei Conigli” di Richard Adams, è probabilmente uno degli album Power più attesi di questo 2016, Perché tutte queste aspettative, diranno i meno avvezzi al genere? Il motivo è semplice, “Rabbit’s Hill Pt. 1” è stata una delle uscite fondamentali per il Power almeno degli ultimi dieci anni, e chi ha amato quel disco ha pazientato per un tempo che è sembrato esser lunghissimo. Tenendo ben presente, come bel fardello da poggiare sin dall’inizio di questo discorso sulle spalle del gruppo, che i Trick Or Treat sono fra i migliori gruppi attualmente in circolazione, era lecito attendersi una prova che confermasse ciò che era già stato detto all’uscita della precedente fatica. Da subito si può affermare che “Rabbit’s Hill Pt.2” fuga ogni dubbio sul valore della band, che si erge fra gli alfieri del genere, e sulla totalità del concept, di una qualità rara da trovare nel mare magnum delle release che oggigiorno affollano il mercato. Il songwriting si dimostra brillantemente curato in ogni dettaglio, la splendida voce
di Alessandro Conti, cantante anche dei Luca Turilli’s Rhapsody, stupisce ancora una volta per grinta e raffinatezza, accompagnando la precisione della sezione ritmica, su cui spicca il sempre ottimo lavoro di basso di Villani Conti, e la fantasia delle due asce, Luca Venturelli e Guido Benedetti. Ci sarebbe tanto, troppo da dire su un disco bramato per quattro anni (un periodo in realtà quasi standard per il concepimento di album di qualità), che sono sembrati interminabili. Per prima cosa è necessario dire che i Trick Or Treat sono stati bravi a mantenere il sapore dei pezzi e l’atmosfera immutata fra i due full-length; il secondo è, anche a livello musicale, continuazione del primo, e questa era la cosa più importante da accertare, poiché in molti casi i successori non sono stati al livello dell’opera primigenia, arrivando talvolta a stonare e a rendere vani gli elogi spesi in precedenza. Dai momenti più veloci, come l’opener ‘Inle’ (The Black Rabbit Of Death)’, a quelli più curiosi e poetici come ‘Cloudrider’ (forse il vero capolavoro di “Rabbit’s Hill Pt.2”), passando per le ballad
strappalacrime (‘Never Say Goodbye’, dove i modenesi vantano la presenza della voce degli Ancient Bards, la brava Sara Squadrani), fino ai mid-tempo squisiti (‘Efrafa’) e alla poesia di ‘United’, la band italica non fa calare l’attenzione per un attimo, ripercorrendo la fiabesca strada tracciata nel primo capitolo. In aggiunta, bisogna ricordare il grande apporto fornito dagli ospiti, oltre alla già nominata Squadrani, fra cui si citano Tim Owens e Tony Kakko, bravi a svelare le dimensioni nascoste della narrazione con le loro ugole. Giunti alla conclusione è necessario arrivare a un giudizio, ed è forse l’impresa più ardua. Scindendo i due capitoli, come è corretto fare trattandosi di due dischi diversi pur facenti parte dello stesso progetto, questo secondo è leggermente (si parla comunque di centesimi) inferiore alla prima parte, che meritava quasi il massimo dei voti. Osservando invece il concept nella sua totalità, l’agognato 100 i Trick Or Treat lo raggiungerebbero eccome, plasmando un’opera che difficilmente avremo la possibilità di riassaporare a breve. Stefano Giorgianni
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Witherscape The Northern Sanctuary (CENTURY MEDIA/SONY)
85 Jorn Heavy Rock Radio (Frontiers) 70
Eccoci arrivati al secondo capitolo della discografia degli Witherscape, duo scandinavo composto dal geniale Dan Swanö e dal chitarrista Ragnar Widerberg. Il debutto era avvenuto nel 2013 con “The Inheritance”, disco che aveva stupito un po’ tutti per la qualità della proposta e questo seguito ricalca ciò che era stato improntato col predecessore, senza deludere le aspettative. “The Northern Sanctuary”, questo il titolo dell’album, giova di uno stile maturo, dato dagli anni d’esperienza del mastermind, con una commistione di generi ben bilanciata, dove la melodia prevale comunque sul lato estremo e con il prog che trova sempre maggior spazio a scapito delle sfumature death. Mai come in questo caso sarebbe corretto dire che gli Witherscape fanno un passo in avanti nella concezione dei pezzi, un progetto che può accontentare un’audience eterogenea, trovando il giusto equilibrio generale. Nove brani che come quantità possono sembrare pochi, ma che in realtà sono così colmi di linfa da figurare come più di venti. Le emozioni che scaturiscono durante l’ascolto sono difatti molteplici, stratificate e si manifestano già con l’opener ‘Wake Of Infinity’, nella quale, tra arpeggi melancolici, trame melodiche complesse ma accattivanti e scatti d’aggressività con sfoghi di growl, ci si perde fra negli scoscesi picchi della musica degli Witherscape. Così come nell’immediata ‘The Eye Of Idols’, nella progressiva ‘Rapture Ballet’, nella superba ‘Marionette’ (canzone che da sola vale l’acquisto del disco), o nella lunga titletrack (quasi quattordici minuti di durata), la band svedese riesce a incastrare una struttura complessa a chorus da rotazione radio senza alcuna difficoltà. Se non è genio questo. Stefano Giorgianni
Nuovo lavoro per Jorn Lande, cantante norvegese già all’opera con Millenium, Masterplan, Jorn, Allen/Lande, Lande/Holter, The Snake. Siamo di fronte ad uno dei migliori singer della scena hard&heavy dalla produzione discografica davvero vasta. Si passa da album inediti, a tributi, da collaborazioni ad album come questi di rivisitazione di alcuni classici hard rock. Dodici sono i brani compongono questo album e che, a quanto ci viene detto, hanno un legame stretto con Jorn stesso. Alcune scelte sembrano praticamente obbligate. Vengono omaggiate band come i Queen, i Foreigner, i Journey, i Deep Purple, i Black Sabbath, gli Iron Maiden, gli Eagles e Dio. Insomma pietre miliari della storia del rock. Nulla da dire se non per le scelte delle canzoni, alcune fin troppo scontate come “Hotel California” o “Don’t Stop Believin’”, altre che proprio non si capiscono “The Final Frontier” o “Live To Win” rubata al disco solista di Paul Stanley, brani che con la storia non c’entrano nulla se non per chi li ha registrati. Dal rock si passa al pop di Kate Bush, John Farnham, accuratamente rivisti e corretti. Se vogliamo pensare a chi comprerà materialmente il cd, si tratta dei
superfan di Jorn, che non leggeranno la recensione e compreranno tutto a scatola chiusa. Quindi queste mie poche righe servono ai curiosi che hanno voglia di ascoltare una versione dei alcuni classici rifatti per l’occasione. Non abbiate pregiudizi e vi divertirete. Andrea Lami
Wolf Hoffmann Headbangers Simphony (Nuclear Blast/ Warner) 70 Spesso, metal e musica classica vanno di pari passo, tra progetti estemporanei, geniali intuizioni od esperimenti improbabili, magari il risultato non sempre è all’altezza dell’ambizione di partenza, ma come non pagar dazio al fascino di un tal connubio? Riesce brillantemente nell’intento Wolf Hoffmann, chitarrista ed anima storica degli Accept, che getta il cuore oltre l’ostacolo nella fedele riproposizione di alcuni classici senza tempo, tra quelli più celebri e maggiormente conosciuti. ‘Lo Scherzo’ di Beethoven è lo scintillante biglietto da visita con cui il vulcanico Wolf si presenta, il quale, affiancato da una fidata orchestra, fa il bello e cattivo tempo, netta e prevalente infatti è la componente metal che governa ‘Headbangers Symphony’. Tra i cui highlights spicca ‘La Notte sul Monte Calvo’ (Mussorgsky),
la ‘Madame Butterfly’, l’immancabile ‘Il Lago dei Cigni’ di Ciaikovsky, anche se personalmente mi ha colpito la “ruvida” delicatezza con la quale l’axeman originario di Mainz interpreta sia ‘L’Adagio’ di Albinoni, sia la ‘Sinfonia N.40’ di Mozart, due esecuzioni che realmente fanno la differenza. Certo è che in un contesto dove sicuramente non è facilissimo addentrarsi, l’artista in questione riesce invece a bilanciare benissimo fruibilità e sostanza, regalando una concretezza speciale che non possiamo che applaudire a scena aperta. Wolf è uno che le cose non le fa tanto per fare, e anche stavolta le sue regole le osserva, puntigliosamente. Alex Ventriglia
Bolgia di Malacoda La Forza Vindice Della Ragione (Autoprodotto) 74 I Bolgia di Malacoda non sono un gruppo che passa inosservato per diversi motivi. I grossetani sfoggiano una proposta musicale non banale, un ferale post-rock che mette i brividi per sublimazione, con uno stile che si instilla nella mente non dandogli pace. Già autori di “A Un Metro Da Decebalo”, che aveva stupito parte degli addetti ai lavori, tornano con “La Forza Vindice Della Ragione”, un full-length robusto, colmo di sfumature e ben ricamato. I più at-
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tenti si saranno accorti dell’uscita del video di ‘Inno A Satana’, opener del disco che altro non è che la messa in musica della poesia di Giosuè Carducci, dove troneggia incontrastata la voce di Ferus, col suo particolare timbro. Nello stile dei Bolgia di Malacoda (sì, lo so che vi torna in mente il diavolo dantesco) c’è un po’ di tutto, una commistione di Metal e Rock, dal Teatro degli Orrori ai Litfiba, per azzardare un influsso dal metallo estremo o da mostri sacri come gli Slayer, per un risultato che sfocia in una rappresentazione teatrale lisergicamente diabolica. Sì, perché è l’oscurità che domina, tra ‘Nel Dubbio Vedo Nero’ a ‘Malacoda’ si colgono profonde tonalità di nero e lampi di sana pazzia (soprattutto in ‘Adreimonda’ e ‘Attent’al Prete’). Una release succulenta per i palati più fini. Lasciatevi trasportare dalla follia dei Bolgia di Malacoda. Stefano Giorgianni
Rage The Devil Strikes Again (Nuclear Blast/ Warner) 85 Con ancora negli occhi la dirompente prova offerta dai Rage in qualità di headliner del recentissimo Metal For Emergency di Cenate Sotto, con la band finalmente ripagata da un pubblico numeroso e caloroso, bisogna ammettere che i teutonici stiano vivendo una nuova stagione
d’oro, giunta tra l’altro, paradosso dei paradossi, dopo aver paventato uno split-up clamoroso e pressoché dato per garantito. Un periodo aureo inaugurato con la release di ‘The Devil Strikes Again’, che non soltanto rafforza il legame con la potente Nuclear Blast, ma che scongiura con forza ed orgoglio il pericolo che il glorioso monicker Rage vada definitivamente in pensione. Il mammasantissima Peavy Wagner, assoldati i nuovi Vassilios Maniatopoulos (batteria) e il funambolico chitarrista Marcos Rodriguez (i quali, per una ragione o nell’altra, in verità gravitavano già nell’orbita Rage), sfoggia infatti l’estro e l’entusiasmo dei suoi giorni migliori, consegnandoci un album dal devastante impatto killer, eruttante power metal roccioso e classicamente teutonico. Perfettamente in linea con i capolavori del passato, tanto può ricordare album del calibro di ‘End Of All Days’, ‘XIII’ e soprattutto ‘Black In Mind’, con il quale il nuovo full-length ha molti punti in comune, a partire dal suo mood livido e coriaceo, di cui sono impregnati i dieci, ficcanti brani di ‘The Devil Strikes Again’. Qui, è l’aristocrazia metal a farla da padrona, con i Rage che si rendon protagonisti di un album che ha ben pochi rivali, tra gli assoluti top dell’anno. Alex Ventriglia
Fates Warning Theories Of Fight (INSIDE OUT/SONY)
90 Barb wire Dolls Desperate (Motorhead Music/ UDR/Warner)
80
Della serie: non conta da dove arrivi, bensì cosa vali. Forse è questo il personale mantra di tali Barb Wire Dolls che, muovendosi nientepopòdimeno che dall’isola di Creta, si sono ritrovati a Los Angeles, scarrozzando su e giù per il Sunset Boulevard e facendo molto parlare di sé, con frementi esibizioni live dentro i rock club più rinomati di West Hollywood. Al punto tale che han richiamato l’attenzione di chi, nel rock’n’roll più sfrontato ed irriverente, sa il fatto suo, non ultimo il compianto Lemmy che li ha voluti scritturare per la Motorhead Music, sua etichetta personale nonché fucina di nuovi, intraprendenti gruppi. Oggi il leggendario bassista non è più tra noi, ma immagino il suo ghigno se potesse ascoltare i suoi “discepoli” greci, i quali con ‘Desperate’ bagnano sia l’esordio sulla sua label, sia segnalandosi come una delle novità più interessanti del music stardom losangeleno. Capitanati dalla procace Isis Queen (una che somiglia parecchio a Blondie, e non solo per lo stile vocale…), frontgirl che mescola carica erotica e capacità canore con sapiente tattica, il quintetto dei Barb Wire Dolls ci sa fare sul serio, rovistando tra schiamazzi punky old-school,
C’era una volta una pubblicità che recitava: “ed è subito festa!”. Ecco, in sintesi questo è l’effetto che ogni nuova release dei Fates Warning suscita sul sottoscritto, è meglio dichiararlo subito. Detto questo, bisogna fare un passo indietro e pensare a questo disco con un certo distacco ed obiettività. 12esimo disco in studio, “Theories of Flight” sancisce il ritorno sulle scene dopo 3 anni dal precedente “Darkness in a Different Light” ed è finalmente un album degno della tradizione di questa band che ha scritto pagine indimenticabili in campo prog metal. “Darkness….” rappresentava il ritorno del quintetto a stelle e strisce dopo un lunghissimo periodo di inattività (9 anni), il primo con alle pelli Jarzombek al posto del dimissionario Zonder. Quello fu un disco contraddittorio, un album che vedeva un gruppo ancora in fase di rodaggio vista la lunga inattività ed il cambio non di poco conto in seno alla line up. Complice il tour di supporto all’album ed il tempo (che è sempre galantuomo checchè se ne dica), il materiale presente su “Theories of Flight” ci presenta feeling molto positivi, un songwriting più fluido ed ispirato con un ritorno alla ruvidità di “Disconnected” unito alle trame melodiche di “Inside Out”. I Fates Warning tornano con il loro miglior disco da Disconnected ad oggi grazie a grandi brani come “White Flag, “Seven Stars” e “Like Stars Our Eyes Have Seen”. Per niente intimoriti di fronte ai loro passati fasti sciorinano innanzitutto canzoni dalla struttura intricata ma con un impianto melodico (a modo loro, s’intende) ben definito e mai banale con un Jim Matheos che ha superato se stesso in fase compositiva ed esecutiva, un Ray Alder nuovamente protagonista ed una sezione ritmica Vera / Jarzombek mai doma, vera e propria base sulla quale poggia il lavoro del resto della band. Se qualcuno aveva nutrito qualche dubbio sullo stato di forma (creativo) della band di Jim Matheos, “Theories of Flight” li fuga tutti regalandoci un altro masterpiece della loro trentennale carriera. Andrea Schwarz
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una salace spruzzatina di grunge, ma è per il buon gusto compositivo e l’energia sprigionata che ‘Desperate’ si becca la promozione. Album che sarà presentato in pompa magna al prossimo Wacken, il che è tutto dire… Protest and survive! Alex Ventriglia
Dan Reed Network Fight Another Day (Frontiers)
75
Non voglio nascondermi dietro ad un dito, i Dan Reed Network non li ho mai ascoltati, quindi quando mi è arrivato questo nuovo album, non ho fatto altro che andarmeli a studiare un pochino per conoscerli e capirli meglio. Dopo un giro tra i loro video, ho preso atto che la band è diventata famosa negli anni 80 proponendo un mix tra soul, funk, pop e rock, ne sono un esempio i singoli “Ritual”, “Rainbow Child” o “Tiger In a Dress”. Chi come me è cresciuto in quegli anni, non potrà non apprezzare queste sonorità, molto melodiche e ricche di sfumature, merito anche delle differenti origini (musicali e non) di ogni musicista, caratteristica questa che è sempre stata un trademark della band. Il basso è lo strumento che la fa letteralmente da padrone per tutta la lunghezza dell’album con un lavoro sopra le righe, vi consigliamo di ascoltare l’album ad un volume sostenuto
perché altrimenti tende a sparire e vi perdereste davvero molto. Con un buco temporale di 25 anni, ci ritroviamo ad apprezzare il nuovo lavoro e proprio grazie a questo album, andremo a riscoprire tutta la discografia che pare molto interessante. Fossimo negli anni 80 vi direi che ogni brano potrebbe essere un potenziale singolo, così non è, quindi vi segnalo l’omonima canzone “Fight Another Day”, “Divided” e “Give It Love” la più rock del lotto. Stiamo parlando di un genere distante da ciò che produce Frontiers e questo un po’ stupisce/spiazza ma il lavoro è sicuramente ben fatto. Ben (ri)scoperti e bentornati. Andrea Lami
Dunsmuir Dunsmuir (Hall Of Records)
80 A volte qualche collega può passarti la dritta giusta, ragion per cui ringrazio chi già sa, per avermi indirizzato sulle tracce dei Dunsmuir, una band che non poteva non colpire la mia immaginazione se nel proprio organico può vantare il bassista Brad Davis (Fu Manchu), il chitarrista Dave Bone (The Company Band), ma soprattutto Neil Fallon, frontman dei Clutch, e Vinny Appice, noto per i suoi trascorsi nei Black Sabbath e nella storica line-up originale di Dio! A guidare un gruppo che ha in dotazione pezzi
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estremamente coinvolgenti, il cui stile distilla sapientemente le radici musicali dei quattro, Vinny era da tempo che non lo ascoltavo così ispirato e divertito (sparatevi a palla l’opener ‘Hung On The Rocks’, ‘Our Only Master’, ‘…And Madness’ e ‘Deceiver’), con il suo drumming secco ed essenziale, mentre l’arcigno Fallon è forse l’autentico deus ex machina del progetto Dunsmuir, per quanto canta trascinante e coinvolto . I Sabbath fanno più volte l’occhiolino, magari fugacemente, ma qui dentro ciò che detta legge è un hard rock forse non trascendentale, però maledettamente efficace, bello corposo e burbero il giusto, se ad agitarlo ci son personaggi del genere, tutta sostanza e zero fronzoli, i quali mica si tirano indietro, nel fare quello che riesce loro meglio. Ovverossia suonare heavy metal. Di quello che, dal sangue, non te lo cavi mai più… Ragion per cui li iscriviamo tra i migliori del lotto, nonché una delle rivelazioni dell’anno. Alex Ventriglia
Withem The Unforgiven Road (Frontiers)
70
Nuova scommessa targata Frontiers nel campo del prog metal d’autore ed infatti la band prende ispirazione dai migliori di questo genere, band come Symphony X, Pagan’s Mind, Circus Maximus, ma soprattutto
i Dream Theater. L’intro tastieroso e poi cantato vola via velocemente e si parte con “Exit” che già dai primi accordi ci fa tornare in mente i Dream Theater più “cattivi”, quelli di “Awake” per intenderci. Paragone questo, soprattutto se si parla del periodo d’oro del teatro dei sogni, che è un ottimo punto di partenza per ogni band. Per fare del bel prog-metal c’è bisogno di tanta tecnica, moltissima melodia altrimenti il rischio di far sbadigliare gli ascoltatori è dietro l’angolo. In questo caso ci troviamo di fronte ad undici brani piacevoli (compresi intro ed outro) che si lasciano ascoltare senza cadere nella noia. Il singer Wagenius (con all’attivo già due album a suo nome sempre con Frontiers) ci mette molto del suo nelle interpretazioni dei brani egregiamente suonati dal resto della band. Come sempre accade in questo genere, ci vogliono più ascolti per riuscire a farsi conquistare, cosa che accade più facilmente con “The Pain I Collected” o “The Eye In The Sky” le quali già dal secondo terzo ascolto diventano più semplici e dirette. Lo spettro di band più blasonate è spesso dietro l’angolo, spettro che verrà scacciato aumentando l’esperienza. Questa è una strada dimenticata, che una volta percorsa, solo se siete amanti di queste sonorità, potrebbe diventare una delle vostre strade preferite. Andrea Lami
Hellyeah Unden!able (Eleven Seven)
67
Con “Unden!able” gli Hellyeah raggiungono la quota dei cinque titoli pubblicati. I contenuti di questo album sono quanto di più stereotipico ci si possa aspettare da una band che affonda le radici nei Pantera e nei Mudvayne: parole dure, riff cattivi, batteria in prima linea, frenetica e pesante. Questo stile, perpetrato dagli Hellyeah sin dai tempi dell’omonimo album di debutto, ha riscontrato molti consensi per l’immediatezza e l’esplosività della proposta. Paragonando “Unden!able” al resto della scena musicale alternativa il risultato è catastrofico: ci sono letteralmente decine di band che possono garantire maggiore qualità in termini di composizione musicale e testuale senza il minimo sforzo; inquadrando invece gli Hellyeah unicamente nella scena groove e più moderna del metal, “Unden!able” è un lavoro onesto, che rientra perfettamente negli standard del suo genere e che quindi soddisfa appieno chi è orientato su questo stile, e vanta notevoli variazioni stilistiche in pezzi come la ballad “Love Falls” o la cover di “I Don’t Care Anymore” di Phil Collins. “Unden!able” è un altro mattone nel muro della storia degli Hellyeah, quasi rassicurante nella sua prevedibilità. Alessandra Mazzarella