Fabrizio Silei
vietato l’ingresso Illustrazioni Cinzia Ghigliano
Il Quaderno quadrone
Fabrizio Silei
vietato l’ingresso Illustrazioni Cinzia Ghigliano
Un pallone dall’America
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scuola non ci andavamo, perché la scuola è per i ricchi. Badavamo le pecore o portavamo i muli. Ma alla sera, nella piazza sterrata del paese, ci piaceva giocare a pallone. Quest’idea del calcio c’era venuta a forza di ascoltare le partite alla radio di Rosario, il barbiere del paese. Lui sapeva tutto sul calcio, aveva anche le foto e i calendarietti con i campioni e ci istruiva sulle regole. Scalzi, passavamo serate intere a sudare e a correre tutti dietro a una palla di stracci o di carta di giornale, in un nuvolone di polvere, come pulcini dietro alla chioccia quando il falco li adocchia e lei li chiama. Il gioco del pallone – il calcio – ci piaceva più d’ogni altro gioco. Cavolo se ci piaceva! Saremmo diventati dei campioni!
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Al paese non c’era lavoro e gli uomini partivano a manciate per andare in Germania, in Belgio e in America. Anche zio Salvatore, il fratello di mio padre, decise di partire per Nuova Yorke, in America. Diceva che lì avevamo già dei parenti e che questi erano diventati ricchi o, se non proprio ricchi, signori, o, se non proprio signori, mangiavano comunque due volte al giorno. Prima di partire, zio Salvatore passò a salutarci. Aveva un’aria strana strana, un poco di malinconia, ma in fondo era contento. Mi disse: «Rocco, che vuoi che ti mandi dall’America?». Io non ci pensai nemmeno un attimo: «Un pallone! Un pallone vero! Un pallone americano!». Poi me ne dimenticai. E invece, un anno dopo, una mattina, ecco che arriva un pacco con i regali di zio Salvatore. C’era pure una lettera. Un paio di calze per mia sorella, e mio padre ci disse subito che se s’azzardava a metterle l’accideva; un orologio per la mamma; un succhiotto di gomma
per Fefè; una cravatta coloratissima per mio padre. E basta. E arrivederci pallone. Se n’era scordato. Mio padre disse: «Guarda questo fetuso, è appena arrivato in America e ha già fatto i soldi. Debbo andarci anch’io un giorno o l’altro in quest’America». E io dissi: «Al diavolo zio Salvatore!». Era il mio zio preferito, ma s’era scordato di me. Non ci crederete, passa una settimana e arriva una scatola. L’apriamo e dentro c’è un pallone bello nuovo, un po’ rovinato dal viaggio, ma bello che più bello non si può. E c’è anche una lettera. Prendo la scatola e corro da Rosario, il barbiere. Lui guarda il pallone e dice: «Santa Rosalia, che meraviglia, è tutto di cuoio, peccato che s’è un po’ rovinato nel viaggio, ma non importa che ci penso io». Poi apre la lettera e legge. Perché lui e il prete, insieme al maestro e al segretario comunale, sono gli unici che sanno leggere in paese. «Caro Rocco, ti mando un pallone proprio americano, qui il calcio lo chiamano futbol! Divertiti. Zio Salvatore». Naturalmente la lettera non l’ha scritta lui, ma se l’è fatta scrivere da qualcuno. Come si sparge la notizia arrivano tutti i ragazzi e anche gli adulti del paese e il pallone passa di mano in mano e se lo carezzano e don Raffaele, che è benestante, mi dice: «Rocco, se me lo vendi ti do dieci lire!». Dieci lire io non l’ho mai viste e se ci fosse mio padre l’affare sarebbe fatto, ma mio padre non c’è e io non so cosa fare. Poi dico: «Non posso, è un regalo di zio Salvatore» e tutti applaudono e allora qualcuno dice: «Ragazzi, non scherziamo, non vorrete mica prenderla a calci una cosa così bella?». Infatti non ci pensiamo nemmeno e continuiamo a giocare con le nostre palle di stracci e di carta legate con lo spago.
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A casa abbiamo messo il pallone sopra un orcio di terracotta. Le donne e anche i vecchi che non l’hanno ancora visto vengono da mio padre e domandano di poter vedere il pallone. Rimangono a bocca aperta. Qualcuno chiede anche di toccarlo. Altri dicono: «Ah! È fatto così?». Ringraziano e se ne vanno. «È un po’ rovinato per via del viaggio» spiega con aria professionale mio padre. «Ma è sempre un bellissimo pallone».
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Rosario ha provato ad aggiustarlo, ma non c’è riuscito. Alla fine tutti l’hanno visto e si sono dimenticati di lui. Poi a Rosario è venuta l’idea del campionato e così lo facciamo: noi contro quelli di Roccapelata, che un pallone nemmeno l’hanno mai visto, ma hanno le canottiere tinte di nero. Sulla piazza, la domenica, sono state segnate le righe con il gesso e tutti gli abitanti dei due paesi stavano a guardare. Abbiamo costruito le porte e Rosario farà l’arbitro perché è l’unico che conosce le regole. Dice che sembra proprio uno stadio vero, e sorride. Per l’occasione è stata fatta una colletta e hanno portato dieci lire a mio padre. Non si può fare una partita vera senza un pallone vero. Così per un giorno giocheremo con il pallone. Mio padre ha la cravatta colorata, mia madre sfoggia l’orologio tenendo il polso sollevato di fronte a sé, Fefè succhia a tutto spiano, ma mia sorella niente calze, però. «Tirate piano!» si raccomanda mio padre. Siamo tutti scalzi, tranne uno di Roccapelata che ha le scarpe del matrimonio del fratello. Rosario gliele fa togliere, porta la palla al centro, tira la monetina “professionale” e fischia. Tutti prendono a tirare calci, tutti sulla palla, anche i portieri escono dalle porte e corrono. Non si vede nulla, solo un nuvolone di polvere. Mio padre urla: «Piano, piano! Calciate piano! Lo rovinate, fetusi!». Poi il gioco si raddrizza, ma la palla dispettosa non va mai dove vorresti tirarla. Se la colpisci male ti spacchi il piede e cadi a terra dolorante, se
rimbalza non si sa dove andrà a finire, ma è la nostra palla e la prendiamo a calci per tutta la partita e, non so come, alla fine riusciamo anche a infilarla in rete. Uno a zero per noi! «Manco un pallone avete! Pecorai!». Nel pubblico cominciano le ingiurie e presto la partita viene sospesa perché fra i due paesi volano le botte, il campo viene invaso e così finisce tutto. Rosario impreca, dice che non si può giocare con questi villani, e se ne va. La sera, a casa, lavo il pallone dello zio, non ha nemmeno un graffio. Peccato che si sia appena appena rovinato nel viaggio, il mio pallone americano. Però è bellissimo lo stesso, e rimango a guardarlo insieme a mio padre, che ha un occhio nero. «Cavolo che partita!» mi dice. «Già» dico io. «Gliel’abbiamo fatto vedere a quei cosi chi siamo!». «Già!» dico io. «Che vuoi...» dice mio padre «sono dei poveretti, nemmeno un pallone hanno!».
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Il paese più bello del mondo
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n po’ di arancio filtra dalle tende dei finestrini e illumina il piccolo scompartimento dove stiamo tutti ammassati. Fa freddo, c’è una gran puzza. In braccio a mamma, che dorme con la testa poggiata al vetro appannato, sento le vibrazioni del treno e mi ci cullo. Qualche volta mi sveglio perché il collo mi fa male o una gamba mi si addormenta e provo a cambiare posizione. Vedo il posto di papà vuoto: ha saltato le valigie e un paio di gambe, ha aperto zitto zitto lo scompartimento e ora sta fumando nel corridoio, stringendosi il bavero del cappotto. Guarda fuori dal finestrino, anzi no, guarda se stesso riflesso nel vetro, e si liscia i baffi con la punta delle dita. Somiglia a Domenico Modugno. Non si respira quasi. Un grosso signore di Catania, che ha parlato per ore di suo figlio che studia Legge a Torino, russa da far paura con la bocca aperta e la testa reclinata all’indietro. Vicino a lui un giovane dai capelli ricci si è tolto le scarpe e dorme con le gambe stese in avanti. È il treno del Sole, questo. L’abbiamo preso al binario 18 per tornare a casa. È lo stesso treno sul quale salimmo io e mamma la prima volta per raggiungere papà a Torino, e anche allora scendemmo al binario 18. Sono un bambino di Torino adesso, un cittadino. Papà ha detto che non devo dimenticarmelo mai. Che Torino è il paese più bello del mondo. Chiudo ancora gli occhi e li riapro due ore dopo, quando mio padre mi scuote. «Siamo arrivati?» domanda mamma. «Manca poco, svegliatevi che ci dobbiamo sistemare!» spiega, e ha la faccia di uno che non ha dormito abbastanza, con la testa piena di pensieri. È la prima volta che torna da quando è partito, non vede l’ora per questo Natale di rivedere nonna e nonno e le zie e gli zii e gli amici del paese.
Ultimi titoli pubblicati devo scegliere chi sognerà per me di Romana Petri Illustrazioni Fabio Delvò Introduzione Massimo De Nardo Pagine 40 | Euro 14,00 Settembre 2018
la prima cosa fu l'odore del ferro di Sonia Maria Luce Possentini Introduzione Maurizio Landini Pagine 40 | Euro 14,00 Gennaio 2018
orfeo, la ninfa siringa e le percussioni pazze dei coribanti di Franco Lorenzoni Illustrazioni Federico Maggioni Introduzione Andrea Satta Pagine 40 | Euro 14,00 Maggio 2017
portami con te di Stefania Scateni Illustrazioni Arianna Papini Introduzione Ascanio Celestini Pagine 40 | Euro 14,00 Luglio 2016
“Devo scegliere chi sognerà per me” lo dice Buck, un cane che il piccolo Jack, un ragazzo ribelle, affettuoso, sensibile e determinato, sogna quasi tutte le notti. Si incontrano nei sogni, ma poi, come accade nei desideri e nelle belle storie, il fantastico si trasforma in realtà. Jack diventerà il famoso scrittore Jack London.
Sonia Possentini ha lavorato per alcuni anni in una fonderia, un luogo che «si nutre di ferro e di corpi». Le sue giornate, grazie a una scrittura poetica e con immagini tra pittura e graphic novel, si trasformano in uno straordinario racconto, non più privato, ma condiviso. Un giorno arriva un cane, e accade qualcosa di magico.
All’origine della musica c’è una relazione intima e totale con la natura e gli spiriti che la abitano. Paura, amore, ricerca di armonia trovano nel canto e nel suono il loro primo linguaggio e, forse, la loro origine remota. Appena nato, Orfeo non piange ma si mette a cantare. La ninfa Siringa si trasforma in canne mosse dal vento per sfuggire a Pan, il dio dei boschi innamorato di lei. I Coribanti, battendo bastoni, pietre e metalli, coprono il pianto del piccolo Zeus e gli salvano la vita.
Nel divertimento della lettura e nella meraviglia delle illustrazioni, i protagonisti di questi dolci e fantastici racconti – Pablo il cane, Annia l’anatra muta, Quintina la puledra, Concetta paperina – ci insegnano che non dobbiamo fermarci alle apparenze. Occorre scavare in profondità, partecipare della complessità del mondo. Abbiamo bisogno di cercare e sentire l’invisibile ai nostri occhi.
la neve non è cemento di Pino Pace Illustrazioni Fabio Visintin Introduzione Fabio Stassi Pagine 32 | Euro 13,00 Aprile 2018
patagonio e la compagnia dei randagi del sud di Bruno Tecci Introduzione Marco Albino Ferrari Copertina Andrea Tentori Montalto Pagine 144 | Euro 13,00 Maggio 2018
stati d'animo (nuova edizione) di Beniamino Sidoti Introduzione Marco Dallari Lettering Paolo Rinaldi Pagine 128 | Euro 13,00 Ottobre 2018
se dici parole, 16 parole di Massimo De Nardo Introduzione Adrián N. Bravi Lettering Paolo Rinaldi Pagine 128 | Euro 13,00 Dicembre 2017
I muri sono trincee inutili e spaventose. Zaki gioca con il pallone, ma un tiro troppo alto lo manda dall’altra parte del muro, che divide il territorio. Nessuno lo restituisce, perché – pensa Zaki – al di là non ci abita nessuno. Una sera, qualcuno restituisce il pallone. I bambini, anche quando parlano lingue diverse, sanno capirsi.
Come ci è finito un cane lupo italiano a El Chaltén, villaggio argentino alla base di vette famose, quali il Cerro Torre e il Fitz Roy? Al cane lupo (che poi si chiamerà Patagonio) El Chaltén sembra un vero paradiso per randagi. Ma scoprirà la diffidenza che molti nutrono nei confronti dello straniero. Una storia di avventura e di coraggio che ha per protagonisti dei cani randagi dai grandi sentimenti.
Le nostre emozioni si trasformano in geografie interiori da attraversare con il gusto della scoperta e dell’avventura. Viaggiatori curiosi, ci spostiamo da un luogo all’altro, da uno Stato d’animo all’altro. Durante il viaggio ascolteremo le storie di altri viaggiatori, molti simili a noi.
Quando il professor Niccolò trova le parole doppie (gli omografi) nei libri che legge le fa scrivere alla sua classe in un Quaderno quadrone. E da una parola uguale nasce una storia che ha a che fare con l’etimologia, i significati, i sentimenti, l’amicizia, la fantasia, l’immaginazione. Le parole parlano di noi, perché noi, come le parole, siamo differenti e al tempo stesso uguali. A raccontarcelo è un alunno vivace e anche un po’ spiritoso, che vorremmo come vicino di banco.
Stampato nel mese di gennaio 2019 dalla Tipografia San Giuseppe, Pollenza (Mc)
Quando i migranti eravamo noi. Tre storie raccontate con emozione, ma senza retorica, con una scrittura piena di ritmo e con splendide illustrazioni. Un pallone dall’America è un racconto divertente, con finale a sorpresa. È arrivato il regalo dello zio che ora sta a Nuova York, uno strano pallone da futbol, che fa giocare in piazza tutti i ragazzi del paese. Il paese più bello del mondo è l’Italia con i treni affollati di migranti provenienti dal Sud, diretti a Torino (perché lì c’è la Fiat). Una volta l’anno si ritorna a casa e si racconta un po’ da sbruffoni com’è la vita dell’operaio a Torino. Ma è tutta un’altra storia. Vietato l’ingresso è la scritta sulla porta di un ristorante dove vanno a mangiare gli odiatissimi operai italiani che lavorano alla Volkswagen. Un’alluvione distrugge il ristorante. Saranno gli italiani a ricostruirlo, spontaneamente. Così almeno immagina il figlio dei proprietari del ristorante. Tre storie coinvolgenti e attuali, per capire il nostro presente.
ISBN 978-88-85534-05-6
€ 14,00