Thomas e le gemelle Ovvero la strana faccenda del mostro con gli occhi di luce gialla

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Il Quaderno quadrone di Carlo Lucarelli con illustrazioni di Mauro Cicarè Introduzione di Grazia Verasani

thomas e le gemelle

ovvero la strana faccenda del mostro con gli occhi di luce gialla


thomas e le gemelle ovvero la strana faccenda del mostro con gli occhi di luce gialla Il Quaderno quadrone di Carlo Lucarelli con illustrazioni di Mauro Cicarè Introduzione di Grazia Verasani © 2015 by Carlo Lucarelli / Agenzia Santachiara 2015 Rrose Sélavy Editore Tolentino


Il Quaderno quadrone di Carlo Lucarelli con illustrazioni di Mauro Cicarè Introduzione di Grazia Verasani

thomas e le gemelle ovvero la strana faccenda del mostro con gli occhi di luce gialla


una nuova agenzia di investigazioni Il primo libro che ho letto di Carlo Lucarelli è stato Almost Blue. Ma chi non ha letto Almost Blue? Con pennellate precise e sanguigne, alla stregua di Guccini, in quelle pagine dipingeva Bologna, non solo quella universitaria, con suspense e intensa musicalità. Un connubio inedito, il nero e l’immaginario pop fusi insieme, materiali creativi che confluivano in una scrittura espressiva e magistralmente lineare. Un romanzo cult, punto di riferimento per molti. Essendo della mia generazione, Lucarelli ha rappresentato per me il noir contemporaneo, un genere letterario che amavo, e che cominciava a mescolare più generi insieme, a contaminarsi, e a essere ribelle, denunciatario. Ha scritto molti romanzi di successo, ha firmato regie, drammaturgie, e belle e coraggiose trasmissioni televisive, diventate anch’esse dei veri e propri programmi di culto. Come scrittore e come uomo, avendolo poi conosciuto, devo dire che Lucarelli resta essenzialmente un indomito, caparbio e appassionato amante delle sfide, per il cruccio etico, più che politico, forse, di rimestare nella verità, quella umana e sociale che riguarda il nostro Paese. Non l’ho mai visto arrestarsi o indietreggiare di fronte allo scavo meticoloso di una storia o di una ferita che ci riguarda tutti. È uno dei pochi, a mio parere, a mettersi completamente al servizio di ciò che racconta, che si tratti di fiction o di un pezzo importante della nostra Storia, e lo fa con precisione clinica, intuito femminile e il polso fermo dell’inchiodatore. La verità, dicevo. Esserne testimoni, esserne interpreti, osservare il mondo da vicino, senza preconcetti ideologici, anche nelle sue pieghe più amare, nei suoi scandalosi scrigni chiusi,

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nei suoi segreti. Fino a raggiungere uno scorcio di luce, una chiarezza. È uno scrittore che fa ricerche accurate, che ha l’aria di ponderare a lungo sulle storie che sceglie di raccontare, e poi mette tutto su carta con la semplicità delle vocazioni autentiche, in una prosa scorrevole, limpida e di un umorismo irresistibile. È uno scrittore che sembra non fare mai fatica, a cui apparentemente tutto viene facile: intrattiene, avvince, ma fa pure pensare. Anche quando i suoi investigatori non sono l’ispettrice Grazia Negro o il commissario De Luca, ma Angelica e Giuliana, due geniali gemelline di tre anni, che parlano poco ma ragionano molto, e il loro amico Thomas, che di anni ne ha solo dieci, ma si dimostra coraggioso e determinato nel voler scoprire cos’è quel mostro con gli occhi di luce gialla che la notte non lo fa dormire. Un consiglio: leggete Thomas e le gemelle a voce alta, perché è anche una questione di respiro, di pause, di cadenze, di attese. Ecco, già mi frulla nella testa una colonna sonora in sottofondo. Grazia Verasani

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thomas e le gemelle ovvero la strana faccenda del mostro con gli occhi di luce gialla

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’era una cacca proprio in cima al vialetto che passava davanti alla porta di casa. Le gemelle la notarono subito perché la mamma era fissata con le scarpe pulite e quando avevano quelle nuove guardavano più per terra che per aria. Quella mattina, poi, era il primo giorno di scuola materna e se avessero pestato una cacca la mamma sarebbe impazzita. Però c’era qualcosa di strano in quella cacca. La mamma era tornata in casa un momento per prendere le chiavi della macchina che aveva dimenticato, così le gemelle ne approfittarono per esaminarla meglio. «Cacca palline» disse Giuliana, togliendosi il ciuccio. «Cacca di bau» disse Angelica, togliendosi il suo. Si scambiarono un’occhiata, annuendo lentamente. Si capivano al volo anche senza dire niente, e questo era uno dei motivi per cui parlavano meno bene di quanto avrebbero potuto fare a tre anni. In ogni caso, non c’era molto da dire. Avevano riconosciuto la cacca e sapevano benissimo che era di Congo, il cane che viveva nella grande villa in fondo al viale. Lo sapevano perché il padrone di Congo non la raccoglieva mai, la cacca del suo cane incontinente, e loro erano costrette a fare lo slalom tutte le volte che uscivano per andare al parco. Il padrone di Congo. Picco Piccano.

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Ma c’erano altre due cose, due cose strane, che le gemelle si scambiarono rapidamente con gli occhi prima che la mamma le facesse salire sulla macchina per andare alla scuolina. La prima cosa strana era che c’erano altre cacche di Congo, naturalmente, ma invece di risalire il vialetto dalla grande villa venivano dal bordo del giardino, dove si alzava una staccionata di legno altissima, che sbarrava la vista come un muro. La seconda era Thomas. Anche per Thomas era il primo giorno di scuola, ma non la materna, la quinta elementare, perché aveva dieci anni. Anche lui aveva un problema. Non le scarpe, la mamma neanche gliele guardava e avrebbe potuto uscire con uno stivale e una ciabatta che non se ne sarebbe accorta, impegnata com’era a non far tardi in ufficio. Il suo problema era il mostro che soffiava fuori dalla sua finestra. Ogni notte – non da tanto, da poco più di una settimana – qualcosa si metteva a soffiare così forte da far vibrare i vetri della sua cameretta. Veniva da fuori, dal retro della casa, da oltre la siepe che delimitava il giardino e ancora più in là, dietro quella staccionata alta e compatta come un muro che correva per un pezzo lungo il vialetto. Non sapeva cosa fosse, non aveva mai avuto il coraggio di affacciarsi alla finestra e una volta che ci aveva provato due lame di luce gialla avevano appannato i vetri, saettando rapide fino al soffitto, per poi lasciare la sua stanza di nuovo nel buio più profondo, perché anche se l’oscurità gli faceva paura suo padre non voleva che tenesse nessuna luce accesa, perché non era da veri uomini. Dalla prima notte che quel soffio misterioso lo aveva svegliato non era più riuscito a dormire. Non poteva parlarne con i suoi, che non gli avrebbero dato retta, e se lo avessero fatto lo avrebbero sgridato: alla tua età fai ancora questi sogni da bambino! Così Thomas serrava gli occhi, nascondeva la testa sotto il lenzuolo e aspettava la mattina, quando quel soffio, all’improvviso, scompariva.

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Però andava a scuola come uno zombie, gli occhi rossi e sbarrati dal sonno, trascinando i piedi come se lo zainetto che aveva sulle spalle fosse pieno di piombo. Così quella mattina le gemelle lo notarono e cominciarono a squittire come scoiattoli finché la mamma non fermò la macchina e dette un passaggio anche a Thomas, visto che scuola materna e scuola elementare stavano tutte e due nello stesso complesso. Seduto dietro tra i seggiolini imbrigliati dalle cintura di sicurezza, Thomas intercettò lo sguardo torvo delle gemelle – Angelica si era tolta anche gli occhiali, oltre al ciuccio – e capì subito qual era il problema. Picco Piccano. In realtà Picco Piccano si chiamava Bertaccini, o meglio Bertaccini ingegner Valentino, come riportato dalla targhetta d’ottone sopra il campanello della grande villa in fondo al viale. Thomas ci passava davanti tutti i giorni per andare a scuola e ormai si era abituato a quel grosso cane nero che si slanciava verso di lui con la bocca spalancata per spiaccicarsi inevitabilmente contro le sbarre del cancello. Congo era un cane molto stupido, ma la prima volta Thomas non se l’aspettava e, quando si era fermato per guardare il giardino della grande villa e quel mostro nero gli si era avventato contro abbaiando come un pazzo, aveva fatto un salto indietro fin quasi in mezzo alla strada e per poco non era andato sotto una macchina. Picco Piccano era un piccoletto con il naso a punta e un paio di occhialini dalla montatura sottile. Lo avevano chiamato così le gemelle una delle rare volte che avevano sentito il bisogno di dire qualcosa, non si sa perché. Parlava con una voce flautata che allungava sempre la fine delle frasi, come se gli dispiacesse aver finito il discorso. Tutte le volte che Thomas passava davanti al cancello lo vedeva seduto ad un tavolino assieme ad altri due signori che fumavano corti sigari neri e annuivano a tutto quello che diceva. Riusciva a sentire solo poche parole prima che quel diavolo di cane si schiantasse contro

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il cancello e di solito erano numeri che indicavano soldi, e tanti, centomila euro, duecentomila euro, un milione di euro. Ma gli ultimi giorni Picco Piccano diceva anche qualcos’altro. Aveva detto: no camion, furgoncini e poi bum! Congo contro il cancello. Aveva detto: no ruspe, bobcat, bum! Aveva detto: di notte, di notte, di notte, e bum! Quella volta Congo aveva battuto una musata così forte che se Thomas non si fosse protetto con lo zainetto la bava gli sarebbe arrivata sul vestito. Negli ultimi giorni, però, non sentiva più niente. Picco Piccano era sempre lì a parlare con i signori con i sigaretti neri, ma Thomas era troppo stordito dalle sue notti senza sonno per poter ascoltare qualcosa. Il mostro soffiante, con i suoi occhi che saettavano gialli sul soffitto, non lo lasciava dormire. La staccionata di legno alta come un muro correva lungo quasi tutto il viale, dietro le case. Chiudeva un cantiere in cui si stava costruendo un grande palazzo di cinque piani, Thomas lo sapeva perché i suoi genitori avevano versato un acconto per comprarsi un appartamento quando sarebbe stato finito, e a lui non dispiaceva, perché così non avrebbe dovuto lasciare il quartiere. Anche il palazzo non era male, lo si poteva vedere sul disegno che stava sul cartellone accanto all’ingresso del cantiere, con sopra la scritta Residence Paradise e sotto la firma del direttore dei lavori: Bertaccini ingegner Valentino. Insomma, Picco Piccano. Di giorno c’erano ruspe, camion e operai che lavoravano e facevano un baccano infernale, ma appena arrivava la sera se ne andavano tutti e il cantiere piombava nel silenzio più assoluto, protetto da quel muro di staccionata. Poi, però, arrivava anche la notte, e col buio ecco il soffiare del mostro. La staccionata correva anche vicino al parco, proprio dietro lo scivolo, e Thomas si arrampicò lassù, sporgendosi sulle punte dei piedi, ma era sempre troppo basso e riusciva appena ad intravedere gli operai che lavoravano alle fondamenta del palazzo.




Poi si accorse che una delle gemelle lo stava chiamando. Era Giuliana, la riconosceva dai capelli ricci, quella con i capelli lisci e gli occhiali era Angelica. Giuliana lo portò fin dietro le altalene, dove c’era già Angelica in ginocchio per terra, a guardare qualcosa in mezzo all’erba. Una cacca. «Cacca palline. Cacca di bau. Picco Piccano» disse Giuliana, e Angelica aggiunse: «Ancona». Thomas aveva imparato il linguaggio delle gemelle, ancona voleva dire ancora e infatti Angelica stava indicando un altro gruppo di escrementi piccoli e rotondi ai piedi della staccionata, quasi sotto. Anzi, proprio sotto. Con la punta delle dita Angelica smosse la terra, scoprendo un buco che si apriva sotto le assi. Poi porse a Thomas le mani sporche di polvere ed erba, perché gliele pulisse. «Manine pòcche, mamma ghida» spiegò Giuliana. La mamma delle gemelle era proprio fissata con la pulizia, e se le avesse trovate con le mani sporche le avrebbe sgridate. Thomas si chinò anche lui nell’erba e vide che in effetti c’era un tunnel sotto la staccionata, un buco che portava dall’altra parte. E grande, anche; l’asse che ci stava sopra si era perfino abbassato. Sembrava uno di quei buchi che scavano i cani. Si sedette con le gambe incrociate. Le gemelle fecero lo stesso, davanti a lui. Era il segnale che si stavano riunendo per riflettere. Prima di conoscere le gemelle Thomas lo faceva da solo: si sedeva con le gambe incrociate come un indiano e ripensava a qualcosa che lo aveva incuriosito, qualcosa che non capiva. Un mistero. Lo avrebbe fatto con i suoi genitori, ma erano sempre troppo impegnati. Lo avrebbe fatto con i suoi compagni di classe, ma a loro non piaceva restare seduti a ragionare, piaceva giocare a qualcosa di più attivo, calcio, basket, cowboy, supereroi, macchinine o playstation. Poteva farlo con

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Icio, il suo migliore amico, ma lui si addormentava tutte le volte, le mani conserte sulla pancia e un filo di bava tra le labbra, e non era divertente. Soprattutto avrebbe voluto farlo con Jasmine, quella del primo banco, ma si sentiva male solo al pensiero di rivolgerle la parola e quando lei si voltava di scatto e vedeva che la stava guardando diventava subito rosso come se gli avesse preso fuoco la faccia.

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Poi, un giorno che stava al parco, seduto così, le gemelle si erano sedute davanti a lui, silenziose, e quando Thomas aveva cominciato a parlargli, per scherzo – perché figurati se due bambine piccole riescono a seguire i suoi ragionamenti – aveva notato invece che non solo lo seguivano, ma anzi capivano le cose anche meglio di lui. Perché avevano solo tre anni, le gemelle, e parlavano poco e male, ma praticamente erano dei geni. «Ragioniamo» disse Thomas. «Congo, il cane di Picco Piccano, scava un buco sotto la staccionata, scappa nel parco e da quel cagone che è la fa tutta in giro fino a casa vostra, giusto?». Le gemelle annuirono e fecero anche schioccare il ciuccio, in segno di assenso. «Non mi sembra un granché come mistero. Ne abbiamo esaminati di migliori nella nostra carriera. Chi se ne frega di un cane che fa la popò?». Angelica scosse la testa, poi lanciò un’occhiata a Giuliana che scosse la testa anche lei. Sospirarono con aria di compatimento e Thomas strinse le labbra, seccato. «Sentiamo» disse. Angelica alzò una mano. Voleva contare sulle dita ma non sapeva farlo bene, così la rimise giù e lo fece Giuliana, che era più brava. Tanto volevano dire la stessa cosa. «Ieri cacca no. Oggi cacca sì. Sera cacca no, mattina cacca sì». «Ho capito» disse Thomas. «Congo ha fatto i suoi bisogni di notte. Stava là dentro» indicò la staccionata, «di notte, col buio, poi è scappato fuori. Va bene, questo è un bel mistero». Thomas si aggiustò meglio con le gambe. «Perché Congo è nel cantiere quando è chiuso e non c’è nessuno?».



«Picco Piccano» disse Angelica, ma aveva parlato col ciuccio e non si era capito niente, così Giuliana dovette ripeterlo: Picco Piccano. Thomas annuì. Giusto: Congo non se ne andava in giro da solo, stava chiuso nella villa e lo portava a spasso l’ingegnere, per cui la domanda vera era un’altra. «Cosa ci fa Picco Piccano nel cantiere chiuso, di notte?». Con il mostro soffiante, avrebbe voluto aggiungere, ma non ne aveva mai parlato con le gemelle, in fondo avevano solo tre anni e avrebbero potuto spaventarsi. Quello restava un mistero suo.

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L’unico modo per sapere cosa succedeva dietro la staccionata di notte era andare a vedere. Di notte, appunto. Cosa difficile. Non impossibile, perché la sua camera da letto stava proprio al piano terra, i suoi dormivano dall’altra parte della casa e non l’avrebbero sentito uscire dalla finestra. Però difficile, molto difficile, perché c’era tutto il viale da fare al buio fino al parchetto e a quel buco sotto la staccionata in cui poteva infilarsi per passare dall’altra parte. E se anche avesse trovato il coraggio di farlo poi ci voleva quello di avventurarsi nel regno del mostro soffiante, e non era poco, anzi. Certo, sarebbe stato più facile se non fosse stato da solo. Ma su chi poteva contare? Non certo sulle gemelle, ci mancherebbe, due bambine di tre anni che alle otto e mezzo erano già a nanna. E neanche su Icio, che più o meno alla stessa ora cominciava a ciondolare di sonno. Però Icio in qualche modo faceva parte della banda e per di più dormiva al piano terra anche lui, nell’appartamento di fianco al suo. Lo aveva già fatto di svegliarlo tirandogli i sassi contro la finestra. Va bene, era pomeriggio e Icio non si voleva svegliare dal sonnellino del dopopranzo, ora invece era notte, però aveva bisogno di lui e quindi tanto valeva provare. Ci riuscì al quinto sassolino, che poi era quasi un pietrone e a momenti sfondava il vetro. Icio si affacciò con gli occhi ancora schiacciati dal


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