La prima cosa fu

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Sonia Maria Luce Possentini

la prima cosa fu l’odore del ferro Introduzione Maurizio Landini

Il Quaderno quadrone



la prima cosa fu l’odore del ferro Testo e illustrazioni Sonia Maria Luce Possentini Introduzione Maurizio Landini



Dedico questo libro a Davide CalĂŹ per avermi ascoltata, spronata nella paura di scriverla, seguita nei primi passi e non averla mai dimenticata. E ai miei cani, fedeli amici della mia vita.

Ringrazio Rrose SĂŠlavy che ha amato questa storia.


un posto in cui si può capire meglio come va il mondo Una fonderia non è un luogo lieve o allegro: come dice Sonia Maria Luce Possentini “si nutre di ferro e di corpi di uomini”. Ma la fonderia di cui si parla in questo racconto non è nemmeno un luogo estremo o estraneo alla vita di tutti noi: è una fabbrica come tante altre, solo un po’ più aspra di altre, popolata da persone che per vivere hanno bisogno di lavorare; e anche se la gran parte di noi non ci è mai stata e mai ci entrerà, ha parecchio a che fare con la vita di tutti noi. Perché le fabbriche hanno fatto la storia e la civiltà degli ultimi due secoli determinando in larga parte i nostri stili di vita. Perché ancora oggi, nell’era digitale, vi si producono cose che sono alla base delle nostre automobili e persino dei nostri smartphone. La protagonista del libro in quella fabbrica ci entra “per fame e per voglia di capire”. E in queste motivazioni c’è tutto: perché quasi mai andare a lavorare in fabbrica è una libera scelta, tantomeno si sceglie in quale fabbrica andare e che tipo di lavoro fare. È il bisogno che forma l’operaio, l’impiegato, il tecnico. È sempre stato così. Lo è tanto più in questi nostri tempi pieni di disoccupazione e precarietà, quando ai giovani non viene offerta alcuna sicurezza: studiano per professioni che non riescono a praticare e si formano aspettative che spesso vanno deluse, sono costretti ad accettare contratti saltuari o momentanei a causa di leggi che li costringono alla precarietà. Magari vorrebbero fare gli architetti, i medici, gli insegnanti, i ricercatori scientifici e si ritrovano a fare gli operai in affitto, i fattorini pagati a consegna, i camerieri all’estero. Perché la crisi economica oggi complica la vita di tutti, anche se giustamente l’autrice del libro dice di avere la sensazione che “la crisi economica in questo Paese ci sia sempre stata”; almeno per alcuni, oggi per tanti. C’è il bisogno, quindi, che abita la fabbrica, il bisogno che non è solo quello di guadagnarsi il pane ma – con il pane – l’autonomia, l’indipendenza, la possibilità di decidere almeno qualcosa della propria vita e del proprio futuro, un briciolo di libertà.

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Ma Sonia Maria Luce Possentini dice che in fabbrica c’è anche “la voglia di capire”, racconta di essere andata a lavorare in fonderia per comprendere qualcosa. Lei, unica donna in un mondo tipicamente maschile, grazie anche a un punto di vista tutto femminile considera la fabbrica un luogo di ricerca, dove soddisfare delle curiosità talmente importanti per cui vale la pena affrontare un lavoro duro, faticoso e che non ama. C’è, quindi, oltre alla costrizione del bisogno, una parte di libera scelta nel suo entrare in quella fonderia: “capire”. Il lavoro e le sue mansioni, le tecniche da apprendere, il senso della fatica e del sudore, i suoi compagni così culturalmente distanti che poi diventano così vicini nella quotidianità dell’officina. Forse soprattutto queste ultime cose: perché oltre all’odore del ferro, dovunque e sempre è accompagnata dall’odore del lavoro, cioè dall’umanità messa al lavoro. Anche questo sono le fabbriche: luoghi di verità, in cui si capiscono le relazioni tra gli uomini, tra chi decide e chi esegue, tra coloro che fanno insieme una stessa cosa, tra chi si apre agli altri e chi no. Il lavoro, quello industriale con le sue relazioni di potere, è un banco di prova per le persone, ne svela il lato profondo. Un posto in cui si può capire meglio come va il mondo. Per bisogno e per scelta la fonderia diventa un luogo totalizzante e, come spesso accade sul lavoro, finisce per “imprigionare” i suoi abitanti in comportamenti ripetitivi, in ruoli indiscutibili. Per uscire dalla routine serve qualcosa di “magico”. Sonia questa magia la trova in un cane che appare all’improvviso e che con la sua natura – così distante dalle scintille e dalle colate della fonderia – la spinge ad andare via, verso un’altra vita. A quelli che restano in fabbrica non rimane che trovare la “magia” di un fare comune per affrontare e risolvere i problemi ed evitare la rassegnazione. Un altro bisogno e un’altra verità che si possono trovare nelle fabbriche e nelle persone che ci lavorano. Maurizio Landini 5



la prima cosa fu l’odore del ferro

L

a prima cosa che vidi fu il grigio. La prima cosa che sentii fu il freddo. La prima cosa che odorai, ancora assonnata e distratta, fu il ferro.

Poi ci furono i giorni e le ore a farmi compagnia. E quel ferro che non se ne andava dalla mia pelle, come un tatuaggio. Un segno di riconoscimento. Mansueta. Innocua. Accartocciata e sottile senza fare rumore. Curva nelle stanze umide dell’officina. Lavoravo otto ore. Cinque giorni alla settimana. Come tutta la classe operaia. Timbravo all’entrata. Timbravo all’uscita. Ritmi lenti. Uguali. Cercavo la bellezza. Scintille di ferro come stelle dentro la polvere. Chiamavo a raccolta la forza. Stavo sola a pranzo, ero l’unica donna, e l’unica che veniva da lontano, “da Canossa”, un paese che solo per il nome era già un pesante fardello da portarsi addosso. Un piccolo paese della comunità montana di Reggio Emilia, ma niente da spartire con la montagna vera né con la campagna emiliana. Un paese con una storia medioevale e di partigiani, sfruttato da una cartiera puzzolente e amato da un fiume di una bellezza struggente. Un paese di provincia. Un paese dal quale scappavo. 7




Avevo trent’anni e tanti sogni che mi premevano il cuore. Mangiavo in silenzio. Una pasta e una fetta di pane nello stanzino che puzzava di muffa e di ferro. E disegnavo. Disegnavo di tutto. La porta, la muffa, la fabbrica vuota. Il ferro. Disegnavo tra una pausa e lo stacco del pranzo. Disegnavo mondi possibili. Indugiavo a passi storti in quel mondo sognato. Ma muovevo i passi. Non volevo arrendermi. Uscivo a fumare durante le pause, anche se a quel tempo ancora si poteva fumare in mezzo al ferro. Mi appoggiavo al muro della fabbrica e cercavo di vedere l’Oltre. Anche se il paesaggio che avevo davanti erano la ferrovia e la fabbrica di fronte. Tutto era di ferro. Ferro e cemento. Poi rientravo, e mi fissavo nel riflesso delle finestre rotte, rotte come le mie ossa alla fine della giornata. Vedevo solo il cielo, la luce e il buio. Partivo al mattino con il buio, rientravo la sera con il buio. La luce a tratti. Come ore d’aria. Né più né meno. Imparavo un mestiere. Mi dicevo che mi sarebbe servito. La mattina mi svegliavo all’alba, mi lavavo la faccia e mettevo un po’ di rimmel pensandomi idiota. Bevevo un caffè e mangiavo una fetta di pane. Salivo in macchina e partivo. Un’ora di strada dentro “quell’incubatrice” a motore che conosceva i miei pianti e i miei canti a squarciagola. Poi arrivavo alla fabbrica, parcheggiavo e scendevo come un automa, mi svegliavo per bene solo al suono della prima sirena. Prendevo il camice che lasciavo appeso a degli ingranaggi di ferro (ornamenti da officina). Me lo infilavo e aveva già l’odore della fatica. Impregnato di sudore e di ferro. Quell’odore mi grattava la gola. Mi grattava i pensieri. “Che schifo” mi dicevo a bassa voce; era il mio buongiorno a me stessa. 10




E poi giù a testa bassa fino alla prossima sirena. Partivano pensieri grandi, ambiziosi e di rivalsa. Disegni da fare, storie da raccontare. Mentre intorno a me scendeva il rumore più assordante. Macchinari, fresatrici, bombole di ossigeno, scintille di ferro, saldatrici, luci blu, bianche, luci patibolari e polvere, sudiciume e sudore. Una fonderia non ha mezze misure. Una fonderia si nutre di ferro. Ferro e corpi di uomini. Ferro che ogni sera rincasando cercavo di cancellare. Mi grattavo sotto la doccia con le spugne, come se stessi pulendo una pentola bruciata. Cercavo di togliermi tutto, il giorno, le urla, i rumori e quel ferro. Ma lui, quel ferro, lo sentivo sempre. Sempre. Nemmeno le essenze più profumate mi rendevano indietro il mio corpo. Prima di chiudere gli occhi e dormire ripetevo a me stessa, come una preghiera: “Non smetterò di credere nel domani, nella possibilità di una felicità”. Ogni giorno, per tre anni. Andavo, tornavo. La casa, la fabbrica, i sogni. Poi, come i cani alla catena, ci si abitua a tutto. Al rumore, al freddo che spacca le ossa d’inverno, e al caldo soffocante d’estate. Ci si abitua anche a un nuovo vocabolario, perché più è sgomenta la sofferenza di ogni uomo, più il suo linguaggio diventa disprezzo, inchiostro nero senza sfumature e senza poesia. Tiriamo noi stessi come elastici. Fino a scoppiare. Una collisione umana. Di cui rimangono solo le smorfie.

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A volte mi domandavo cosa ci facevo in quel luogo. Cosa mi ci avesse portato e, soprattutto, dove stavo andando. Due erano le risposte che riuscivo a darmi: la voglia di capire e la necessità di mangiare. Quale fosse la ragione più importante l’ho scoperto solo dopo. Ero sempre stata una studentessa curiosa e affamata di vita. Dopo gli studi artistici, il mio primo impiego era stata la ceramica industriale. Non c’era altro. La crisi economica, da quel che ricordo, in questo Paese strano – l’Italia – c’è sempre stata. Oppure era destino che le attraversassi tutte. O quasi. Così è arrivata la fonderia, la “grande madre di ferro e fuoco”, come la chiamavo io. Tra una crisi e la voglia di capire. E poi c’era il ferro. Ferro e altre leghe lucenti che si trasformavano in fiumi di specchio e scorrevano sugli stampi per poi diventare duri come la roccia per la destinazione finale, matrici per piastrelle. Pavimenti calpestabili come le nostre schiene a fine di giornata. C’erano giorni che non sapevo dove rifugiarmi. Il rumore era assordante e urlare per parlare era l’unica possibilità. Anche per scappare in bagno solo per pochi minuti, per tirare fiato, occorreva un coraggio da leone. Il bagno era per tutti, maschi e femmine. Non c’era la figurina con gonna o pantalone. Il bagno era uno solo, un buco. Una cloaca indifesa che non badava al sesso di chi la usava. Un buco nero, una catena e una porta rotta. 14






Tutt’intorno, il ferro. Depositi di ferro pronti per essere sciolti. Non c’era spazio per la carne, solo per il ferro. C’era spazio per i giochi, però. In quel luogo scuro e sporco, c’era spazio per la goliardia. Quella fabbrica ci rendeva tutti uguali, senza gerarchie. Ognuno stava al suo posto perché altri posti non c’erano. Le loro battute sulle serate dopo il lavoro. I calendari con le donne nude, ogni operaio aveva il suo attaccato alla fresatrice. E le battute sul sesso, sulle donne, sulle coppie. Le partite di calcio e le mangiate da scoppiare. Ero l’unica donna e ridevo perché ero dalla parte opposta. Io leggevo poesie e disegnavo nelle pause, loro parlavano di tette e bestemmiavano. Ridevo. Ridevo per la bellezza della nostra umanità, diversa ma unita nella fatica. E poi imparavo a fischiare. Non era cosa da poco, mi sarebbe servito anche questo! Fare di necessità virtù, dicevano i miei genitori che di fonderia non hanno mai visto l’ombra. Ti stai facendo la “gavetta”, dicevano gli amici che erano fuori corso massimo all’università o avevano già il loro posto di lavoro nella ditta di papà. Io rispondevo vaffanculo. Vaffanculo alla vostra virtù e alla vostra gavetta. Vaffanculo.

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