Giacomo il signor bambino

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Paolo Di Paolo

giacomo il signor bambino Illustrazioni Gianni De Conno

Introduzione Mario Martone

Il Quaderno quadrone



Paolo Di Paolo

giacomo il signor bambino Illustrazioni Gianni De Conno Introduzione Mario Martone


un magico palcoscenico retroilluminato

I

l romanzo di quando era bambino è uno, forse il più bello, dei romanzi che compongono come tante scatole cinesi la vita di Giacomo Leopardi. Paolo Di Paolo lo ha trasfigurato con ispirazione e col suo poetico racconto ci conduce per mano, grandi e piccoli, prima attraverso le stanze della grande casa di Recanati e poi, via via, sempre più a fondo, nei meandri del cuore turbato di Giacomo. Di Paolo scrive il suo testo cogliendo la spinta alla recita che muoveva Leopardi da bambino e che segretamente (forse anche a se stesso) lo muoverà tutta la vita, una scoperta che per me fu decisiva quando decisi di mettere in scena le Operette morali. Il poeta che si voleva triste e depresso (ma per fortuna questo luogo comune, duro a morire, comincia a mostrare crepe profonde sotto i colpi dei tanti che Giacomo lo amano per la sua fame di vita), quel poeta da bambino era in realtà un eccitatissimo regista e attore. Il racconto di Paolo Di Paolo si ispira sia alla sua vena precocissima di drammaturgo "classico" autore di drammi in versi, sia all'amore per il teatro dei burattini: ancora oggi a Recanati è possibile vedere quei magici palcoscenici retroilluminati che incantavano i piccoli Leopardi, un'immagine bergmaniana. Non manca, e non poteva essere altrimenti, la ribellione in versi contro la minestra! 2


"I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli adulti il nulla nel tutto" è una famosa frase di Leopardi: la ribellione di Giacomo contro gli "adulti" sarà a tappeto, la faccia della medaglia che ride (l'altra è quella malinconica, tratteggiata con uguale finezza da Di Paolo), nulla sfuggirà alla furia vitale del suo sguardo privo di ipocrisie. Coglierla da bambino è l'occasione imperdibile per cominciare ad amare il favoloso poeta. Mario Martone



prima di cominciare I fanciulli trovano il tutto anche nel niente. Giacomo Leopardi

E

ro a Salamanca, Spagna, in un bellissimo sabato di agosto dell’anno 2000. Avevo da poco compiuto diciassette anni. In un’edicola trovo il “Corriere della Sera”, lo apro alle pagine culturali. Il titolo dice: “Leopardi, le poesie infantili alla nonna e al maestro”. Ho ancora con me il ritaglio. La sorpresa più grande, per me, fu quella di una poesia scritta dal bambino Giacomo a undici anni: “Contro la minestra”: “Ora tu sei, Minestra, de’ miei versi l’oggetto / E dir di abbominarti mi apporta un gran diletto…”. Questa storia è partita da quei versi, da un’allegra complicità che ho sentito: odiavo anche io le minestre – e non le amo ancora. Tutto il resto è fantasia, puntellato però da pensieri e visioni pescate nell’opera di Leopardi, da dettagli della sua biografia. I giochi e i giocattoli della sua infanzia, la passione per il volo degli uccelli, le considerazioni sulla felicità. Pochi autori ho amato come Leopardi. Non solo il poeta (Le ricordanze, su tutto), ma più ancora lo straordinario prosatore-filosofo. Le Operette morali, certo. Ma direi anche le lettere, e perfino gli abbozzi: quando prende appunti per scritti futuri. “Ho amato te sola, O mio core ec.”, “Passerà la gioventù e il bollore ec.”, “E come piacerò a te senza grandi fatti? ec. ec. ec.”. “Eccetera”, che sulle nostre bocche ha qualcosa di approssimativo, nelle pagine di Leopardi diventa un luogo di possibilità. Dove mi piace tornare di continuo. Paolo Di Paolo



Giacomo il signor bambino

Q

uesto bambino, tanto per cominciare, ha sei nomi. Quando gli dite buongiorno non basta dire: buongiorno signorino Giacomo. Bisogna dire: buongiorno signorino Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro. Anzi, è più giusto così: buongiorno Giacomo, buongiorno Taldegardo, buongiorno Francesco, buongiorno Salesio, buongiorno Saverio e buongiorno Pietro. Così, c’è un nome per ogni giorno della settimana, dal lunedì al sabato. Dal sabato sera si può stare senza nome. Quando arriva la sera del sabato si sente questa strana dolcezza, questa gioia piccola, quest’allegria che sembra una musica, c’è chi corre ridendo, c’è chi canta, chi fischietta. Restare senza nome è un po’ come togliersi la camicia per correre sotto al sole nei pomeriggi d’estate, è un modo di sentirsi più leggeri. A quel punto, al signor bambino, bisognerà dire solo: buongiorno, buongiornoooooooooo con una o lunghissima, perché arrivi alle sue orecchie mentre sta correndo. Possono servire anche più di dieci o: buongiornoooooooooooooo. Queste, per esempio, sono già quattordici, ma lui non ha sentito lo stesso. Senza nome è tutto più facile, si può fare finta di non essere più un bambino e di essere qualcos’altro. Vediamo.

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Stamattina vuole essere un eroe, un eroe greco. Uno che comanda gli eserciti e non ha paura di niente e di nessuno. Uno che ha molti muscoli e un’armatura di metallo che niente può distruggere. Nemmeno i temporali o gli incendi. Per essere un eroe bisogna diventare prepotenti, agguantare il proprio fratello o sorella per il vestito e costringerli a essere loro il cavallo. Un eroe non può andare in giro senza cavallo! Se fratelli o sorelle si ribellano, bisogna ricordargli che si trovano di fronte a un vero eroe e non sta bene lamentarsi. Domattina vuole essere un pastore. Come quello dipinto sul soffitto della stanza, circondato dalle sue pecorelle e protetto da un grosso cane. Un pastore che cammina e cammina e cammina e cammina, non smette mai di camminare. Qui è necessario prendere una grande carta geografica e decidere il punto in cui il pastore comincia a camminare e il punto del suo arrivo. Ovviamente non bisogna far stancare troppo le pecore e lasciare che abbiano il tempo di mangiare. Bisogna anche parlare con loro? No, loro amano il silenzio. E non si annoiano. Come fanno a non annoiarsi? Questo è un vero mistero. «Oh pecorelle, sembrate così calme e contente! Non vi annoiate proprio mai mai? Mi piacerebbe essere come voi, allora ho deciso che domattina non sarò più un pastore ma sarò come voi, voglio proprio vedere che effetto fa e se non mi annoio sul serio». Dopodomani mattina vuole essere una civetta, o un fringuello. Forse, quando si resta senza nome, è la cosa più bella che si possa essere. Lui ne è convinto. Spesso corre alla finestra, interrompendo altri giochi o le ore di studio, e passa lunghissimi minuti a osservarli. Sembrano così festosi, così contenti nel loro volo! E poi cantano, cantano di continuo. Chiudono il becco soltanto quando piove, quando il tempo è brutto e si prepara una tempesta. E quando la tempesta comincia, quando si

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scatenano la pioggia e i fulmini e i tuoni fanno un rumore come se il cielo rotolasse giù, allora loro scompaiono alla vista, non volano più, non giocano, si rintanano nei loro nidi ad attendere che tutto si calmi. Così fa anche il bambino, i temporali lo spaventano un po’ come lo spaventano i fantasmi e qualunque cosa che arriva all’improvviso e non si può controllare. Quando sente il ticchettio delle gocce sul soffitto e sulle finestre farsi più forte, sempre più forte, corre a nascondersi sotto le coperte, da lì il mondo sembra meno minaccioso, il ruggito del temporale arriva meno feroce. Anche da lì, dal buio sotto le coperte torna a pensare alla contentezza degli uccelli, ai loro fischi allegri la mattina presto, quando annunciano una bella giornata. Ciò che sembra bello a noi – i prati verdi, le acque trasparenti e luminose, il cielo sereno – sembra bello anche a loro.

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Intanto il temporale si è calmato, e il signor bambino può tornare a giocare. Adesso dice: «Sono Achille, il grande eroe!». Urla per i corridoi: «Sono Achille, il grande eroeeeeeeee!». Lancia le seggiole per aria, salta, sfida il fratello e la sorella con un bastone, il fratello e la sorella si mettono a correre finché non crollano esausti e sudati. Arriva così il momento di raccontarsi, a turno, una favola. «Comincio io» dice il bambino prepotente. Vediamo, vediamo. «Vi racconto la morte in battaglia dell’eroe Ettore per mano del grande eroe Achille. Ecco, guardate, Achille il forte si avvicina, ha gli occhi rossi e crudeli, pieni di furore e di vendetta. Ettore non si accorge del nemico alle spalle, lui è tutto concentrato sulla nuova sfida che lo attende. Alza la spada, che brilla di luce… Achille si avvicina, sferra il colpo, Ettore lo supplica di fermarsi… Tutto intorno tace…». Il bambino a questo punto si agita, rotea gli occhi, urla e si butta a




terra, i fratelli lo guardano ipnotizzati, se prima stavano per ridere, ora diventano seri, serissimi; lui, come un attore esperto, si rialza, prende gli applausi, esce di scena ripetendo a voce alta «Ahi Morte, Morte! Ahi Morte, Morte! Ahi Morte, Morte!». Finché i fratelli non cominciano a protestare, a dirgli di smetterla. Ma lui insiste: «Ahi Morte! Ahi Morte, Morte!» grida saltando come un grillo da una stanza all’altra del grande palazzo. «Ahi Morte, Morte!». «Ora basta! Tocca a me» dice il fratello Carlo. «No, ora tocca a me» dice la sorella Paolina. «No, tocca di nuovo a me» dice il bambino più prepotente. Riesce a convincerli quando sussurra alle loro orecchie che li aspetta una grande impresa. Tutti e tre insieme dovranno ingaggiare una battaglia molto difficile e importante, ne va del loro destino, anzi del destino dei pranzi e delle cene. Una fondamentale, eroica guerra contro la minestra. L’insopportabile minestra che rattrista la tavola, quella poltiglia giallastra e fumante che metterebbe di pessimo umore anche un pagliaccio, un saltimbanco. Brodaglia vaporosa, la guerra è dichiarata! Il signor bambino si schiarisce la voce, sale su una seggiola e scandisce i versi che ha appena composto. Sono la dichiarazione di guerra: Ora tu sei, Minestra, de’ miei versi l’oggetto E dir di abbominarti mi apporta un gran diletto. Ah se potessi escluderti da tutti i regni interi… Si dice che risusciti quando sei buona i morti, Ma, oh, detto degno d’uomini invero poco accorti!

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«Nonna» la chiama «vieni qui, vieni a sentire anche tu». La nonna si siede su una poltrona, entra a far parte della piccola platea. «Nonna» la scuote il signor bambino diventato condottiero «sarai anche tu dei nostri?». Lei sorride. I fratelli hanno un piano: rubare il semolino dalle dispense, trafugarlo nottetempo. Il cuoco cercherà nei cassetti della dispensa, sarà impossibile trovarlo, perché nel frattempo i topi saranno già stati chiamati a raccolta e del semolino non resterà che un vago ricordo. La nonna sorride ancora, approva. Il patto è sancito: stanotte, quando l’orologio segnerà le tre dopo mezzanotte, bisognerà ritrovarsi tutti – Giacomo, Carlo e Paolina – nello stanzino accanto alla cucina. Da lì muoversi di soppiatto verso la cucina, senza fare un solo rumore. A quel punto il gioco sarà fatto: basterà vuotare in un grande sacco il semolino stipato nella dispensa. Chiamare a raccolta i topi per liberarsene non sarà difficile. Così, per almeno una settimana i tre fratelli saranno liberi dalle minestre. Il cuoco sarà costretto a cucinare frittelle, pasticcini di maccheroni, paste frolle e zucche fritte, uova, dolci e dolcetti. Altro che minestre, mio caro signor cuoco! Vogliamo mangiare soltanto dolci di ricotta questa settimana! «Nonna, qual è la ricetta di quegli specialissimi dolci di ricotta, tu la sai?». «Cosa dovete farci?». «Ah, niente. Solo per sapere…». «La ricotta, lo zucchero, le gocce di cioccolato, un liquore, i tuorli d’uovo, dieci gherigli di noci, i canditi… cedro e scorzette d’arancia… Vi basta?». «Sì, molto bene, grazie, siamo molto soddisfatti». 14



Nella stanza da letto il signor bambino non riesce a prendere sonno. È troppo agitato, l’appuntamento delle tre dopo mezzanotte lo tiene con il cuore in gola. Nel buio a volte si disorienta, non sa più dove siano le cose. Gli viene un po’ di paura e di solitudine. Allora chiede ai suoi giocattoli di farsi vivi, di dargli segnali. «Ehi, soldatini, siete lì?». Loro sparano un piccolo colpo di fucile, leggero come uno schiocco di dita. «Ehi, tarocchi, voi ci siete?». «Sì, siamo qui» rispondono, ma non a parole, emettono invece un fruscio. «E tu, tombola, ci sei?». «Eccomi» risponde anche lei, ma non a parole, si sente invece un tamburellare di numeri sulla tavola. Il teatro dei burattini resta il più silenzioso di tutti. D’altra parte occorre svegliare uno a uno i burattini che, come sanno tutti, sono pigri e dormiglioni. «Ehi, primo burattino, dico a te, mi senti?». «Uhm» si lagna lui «lasciami dormire». «Ehi, secondo burattino, tu sei sveglio?». «No, non vedi, sto dormendo». Il terzo burattino si nasconde dietro al quarto burattino, sperando di non essere chiamato in causa. Il quinto si fa avanti da solo, dice: «Sono qui, sono qui, dormi tranquillo, bambino». «Ma non posso dormire! Avete sentito? Fra poco io, Carlo e Paolina saremo impegnati in una grande grandissima impresa. Volete forse lasciarci soli e non essere della partita?». Il burattino numero 5 si stropiccia gli occhi. «Non ho capito bene» dice. «Hai capito benissimo» risponde il signor bambino «hai capito proprio bene».

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