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2.2. Divario digitale e didattica a distanza

Filippo Tantillo

Concentrerei il mio intervento su un tema su cui stiamo ragionando. In questa sede parlerò soprattutto di un’attività che abbiamo seguito e che ci ha permesso in questi anni di mettere a fuoco anche le disuguaglianze territoriali sul tema della didattica e della scuola. Ho seguito come coordinatore scientifico quella che si chiama “Strategia nazionale aree interne”, lanciata nel 2013 dall’allora Ministro della Coesione Fabrizio Barca; in questi anni noi abbiamo lavorato su 72 aree pilota del Paese, complessivamente un paio di milioni di abitanti, cercando di mettere a fuoco dei progetti di rilancio per delle aree del Paese che oggi perdono popolazione.

Quando parliamo del 60% del territorio nazionale, non parliamo di una parte marginale del Paese: si tratta di circa 13 milioni di abitanti che oggi sono sostanzialmente dei cittadini di serie B, nel senso che ne dà l’articolo 3 della Costituzione, che impone a noi come istituzioni di lavorare e garantire il libero e uguale accesso ai servizi, che in queste aree non è garantito. Soprattutto nell’ambito di tre servizi particolari che sono: istruzione sanità e trasporti.

Questa Strategia Nazionale Aree Interne è stata una politica che è partita individuando 72 aree pilota, circa quattro aree per regione, non potendo lavorare su tutto il territorio nazionale. È intervenuta mettendo a disposizione un finanziamento nazionale, vale a dire da Legge di stabilità. Fondi quindi destinati a investimenti permanenti, non come avviene con i fondi strutturali europei, che sono per loro natura “aggiuntivi”, e basati su progetti su sei anni. Quindi si è ragionato su una politica di investimenti indirizzata a dei servizi in aree che hanno carenza di servizi, cosa che è all’origine del loro fenomeno di spopolamento. Queste aree interne sono state individuate in base alla lontananza dai servizi considerati di base: mi riferisco a un set di indicatori molto complessi, una novantina, che ci ha permesso di dire ai sindaci se erano dentro o fuori delle aree interne in maniera inequivocabile. Questi 90 indicatori riguardavano i servizi essenziali: ad esempio, sulla sanità, il tempo medio di percorrenza delle ambulanze in codice rosso o la presenza di servizi di ostetricia, eccetera; così sulla scuola c’era una serie di indicatori come la presenza di pluriclassi, il turn over dei docenti e via così.

Ci ha permesso di cogliere sul territorio quali fossero le distanze fra le scuole di città e le scuole di fuori città. Una innovazione forte di questa indagine-intervento è stata quella di andare a conoscere questi luoghi e di andarli a conoscere di persona e soprattutto fare un passo indietro come istituzioni, che non veniva ad insegnare come fare, ma apprendere dalle pratiche di territorio.

È stato firmato un accordo di partenariato tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che era capofila, il MIUR, il MiBACT, il Ministero del Lavoro, il Ministero della Sanità, quello dei Trasporti e tutte le regioni, con l’esclusione della provincia di Bolzano, per sperimentare delle iniziative sui territori, nella convinzione che, purtroppo, per quanto noi abbiamo fatto dagli uffici centrali, nei nostri uffici, non è stato sufficiente a invertire un trend di spopolamento. Ossia, tutti gli interventi che sono stati fatti per sostenere e in qualche maniera sono ricaduti sui territori, però, non sono stati sufficienti a invertire dei processi di degenerazione dei servizi e anche della scuola.

Abbiamo mandato sul territorio un gruppo di ricercatori giovani che è stato su questi 72 territori a cercare, a grattare, a fare scouting, insomma a individuare quali fossero le pratiche migliori in tutti gli aspetti, spesso inerenti la sopravvivenza semplice.

Per quanto riguarda le scuole, siamo andati a cercare, ad esempio, insegnanti che avevano trovato una maniera curiosa, forse per necessità, di fare fiorire la LIM oppure inven29

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tando progetti col Comune che copriva le spese di una scuola esterna ai muri scolastici, gestita sui territori, connessa con le attività produttive e via così.

Abbiamo raccolto alcuni di questi progetti e abbiamo cercato, da un lato, prima che finanziarli in accordo sempre con il MIUR e gli Uffici regionali competenti, una volta individuato il problema specifico di rimuovere gli ostacoli che impedivano l’esprimersi di una nuova scuola. La considerazione un po’ amara è che i tagli orizzontali hanno colpito molto duramente sul territorio nazionale in maniera diversa fra le città e queste aree che sono state fortemente penalizzate. I 400 alunni come numero minimo per formare un plesso, ad esempio, a Roma, si mettono insieme in pochi edifici; nelle valli friulane bisogna pescare quattro valli, che parlano quattro lingue diverse peraltro, quindi diciamo che diventa molto meno gestibile la situazione.

Siamo stati più attenti a metter in moto delle strategie di attacco e quindi non è stato finanziato semplicemente il mantenimento della scuola che sta perdendo abitanti e anche, quindi, studenti ma sostanzialmente abbiamo riflettuto invece sull’idea di una nuova scuola: che tipo di scuola facciamo in un’area di bassa intensità abitativa? Ed ecco che abbiamo incontrato, chiaramente, il problema della didattica a distanza che già era stato colto e sperimentato in queste aree prima del Covid-19; poi il Covid-19 è stato esplosivo, come si diceva prima con i dati presentati dalla dottoressa Cozzolino.

Già prima della pandemia esistevano nelle aree interne varie tipologie di sperimentazione su didattica a distanza, e non solamente digitale.

Poi, con il Covid-19 il tema esplode sostanzialmente su tre filoni: il primo, quello delle competenze digitali, che sono basse, sono basse al sud in riferimento ai giovani, e lo sono anche rispetto agli insegnanti, indubbiamente, e sono più forti nelle aree interne che nelle aree urbane.

Le aree interne non sono soltanto le aree rurali del Paese; le aree interne sono, appunto, carenti di servizi. Abbiamo anche aree fortemente industrializzate: i distretti industriali italiani sono di fatto lontani dai servizi essenziali per una questione di densità di popolazione.

Per esempio una grande quantità di stranieri, famiglie e quindi studenti, in Italia è spesso concentrata nelle aree interne; lì c’è stato uno specifico problema proprio per la didattica a distanza relativa alle famiglie dei lavoratori stranieri, parliamo di quattro milioni di persone, con i loro figli.

Terzo tema è quello della banda larga, su cui noi non siamo intervenuti direttamente poiché esiste un Piano nazionale per la banda larga e banda ultra larga ed è quello che punta a connettere le città italiane portando la connessione a un gigabyte, teoricamente entro il 2020, e nelle aree a fallimento di mercato, ossia le aree poco popolate.

Questo piano è molto in ritardo e si parte, oltre tutto, da una situazione difficile. Una mappa della diffusione ci fa capire che oltre il 60% del territorio nazionale, più del 50% degli studenti, cioè la metà degli studenti, ha una connessione internet sotto i due megabyte per secondo.

Abbiamo fatto qualche conto in base alle esperienze fatte su 72 territori con cui abbiamo contatti diretti che ci permettono di cogliere, aldilà dei numeri, cosa è successo nelle case, come hanno vissuto i singoli insegnanti questo momento. Ciò ci ha permesso di capire che con quei due mega bytes al secondo si può, al limite, provare a non far sentire soli i ragazzi a casa. Quello che sono riusciti a fare gli insegnanti non è stato più di tanto. Peraltro, appunto, la connessione contemporanea di più soggetti è pressoché impossibile, impraticabile: abbiamo considerato che occorrono almeno 30 megabyte per secondo per riuscire ad avere almeno un minimo di attività didattica, almeno questo ci è stato segnalato dai territori, e vasti pezzi del territorio nazionale non arrivano a questi 30 megabyte.

Tra le aree particolarmente critiche: l’area dell’Appennino tosco-emiliano, anzi ligureemiliano, un’area con una connessione che raramente supera i 2 megabyte, così come la provincia di Cuneo, così come le Alpi Orientali a cavallo tra Veneto e Friuli Venezia-Giulia, una buona parte dell’Appennino centrale dell’Abruzzo e dell’Umbria centrale e una buona parte delle Calabria.

In queste zone si è reagito in maniera differente perché, appunto, abbiamo visto sui territori che le reazioni sono state differenti: nella zona dell’Appennino ligure-emiliano (soprattutto la provincia Piacenza Parma) era già presente il problema e diciamo che la tradizionale buona organizzazione dell’Amministrazione pubblica di quelle zone ha, in qualche maniera, permesso di supplire alla mancanza di connessione immaginando operazioni che hanno messo in mezzo anche il telefono, le visite di persona, tutto un sistema scolastico che ha saputo fare fronte in maniera più compatta al problema e malgrado ciò, comunque, il 30% dei ragazzi non è stato in grado di seguire con continuità le lezioni in una zona, non dimentichiamolo, tra le più sviluppate del Paese.

Così come, invece, nelle altre aree, per esempio delle Alpi occidentali, soprattutto nell’area della "provincia granda", della provincia di Torino, la difficoltà è stata insormontabile anche per i professori anche a causa della stagione invernale per cui tutto ciò che era all’aperto era precluso: ci sono state raccontate storie da cui è emerso il grande volontarismo e il sacrificio molti docenti che si sono messi a parlare quotidianamente, telefonicamente, spesso per non far sentire soli gli studenti, per non abbandonarli.

Infine nella zona delle Alpi orientali, dove c’è una concentrazione industriale molto forte e una concentrazione di stranieri molto alta, lì c’è stato un problema, legato soprattutto al terzo aspetto; oltre le competenze digitali abbastanza scarse e la mancanza di una buona connessione, c’era anche la questione della disponibilità di dispositivi a casa. I ragazzi spesso avevano un solo telefonino per connettersi a scuola e per fare un minimo di attività.

La verità è che in alcune situazioni il vantaggio di essere nelle aree interne, lì dove c’è la connessione, è stato un precedente molto utile; lo è stato e lo è per i ragazzi più grandi che sono tornati dalle Università nelle quali studiavano, per esempio nell’Irpinia e nelle aree interne della Puglia, dove hanno un livello di connessione discreto almeno dal punto di vista della banda, e dove hanno potuto continuare a fare attività a distanza anche con beneficio di tutto il Paese che si è rivisto ripopolato di giovani che altrimenti erano fuori.

Per concludere: il piano sulla diffusione della banda larga è centrale per le differenze territoriali del nostro territorio. La nostra indagine ci ha fatto guardare a un Paese che è profondamente diverso al suo interno, più di tutti gli altri Paesi europei.

La nostra rugosità, il fatto di essere un Paese di montagna con valli e coltivi e culture diverse fa sì che siamo veramente un caso unico europeo è una questione cha va tenuta in considerazione, date le dimensioni delle diversità nella legislazione ordinaria.

Esiste, infatti, un ufficio presso il MIUR che si occupa di aree interne, che ha affiancato e validato tutta questa serie di operazioni che noi abbiamo fatto.

Perché gli interventi sulle aree interne non debbono essere eccezioni o interventi compensativi sulle scuole ma interventi e investimenti per i giovani, perché stiamo parlando, appunto del 60% di del territorio nazionale e di una fetta consistente di giovani.

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