La ricerca n. 29

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La ricerca

I QUADERNI

Quaderni della Ricerca: proposte metodologiche e aggiornamento didattico.

I libri pubblicati nella collana sono reperibili in libreria o presso le agenzie di zona. Indice e prime pagine sono disponibili sul sito de «La ricerca».

laricerca.loescher.it/quaderni

Dalla parte del torto

Ho insegnato per dieci anni al liceo, negli anni Novanta del secolo scorso. Era il periodo in cui, su dipartimenti impegnati a pareggiare il quadrato della progettazione con il cerchio della classe, era calata, imprevista e sgradita, la check list efficientista del Progetto Qualità, con la sua etica della trasparenza e della rendicontazione. Insomma: sono entrato nel corpo docenti proprio negli anni in cui alla scuola si chiedeva un salto di qualità importante, che aveva il suo perno nell’idea che tutto (o il più possibile) di ciò che passava nel dialogo educativo dovesse avere la sua logica, e che questa logica dovesse essere condivisa tra gli attori del processo. Ci credevo allora, e ci credo ancora. Fermamente.

“ Obbligati da una logica ferrea a condividere una visione del mondo, non resta alle giovani generazioni che un’unica alternativa: accettarla o ribaltare il tavolo.„

Anche se... Il confronto con i patti educativi che le scuole stringono con studenti e famiglie; le griglie valutative che quotano la minuteria didattica; la personalizzazione dei curricoli; la vigilanza pervasiva di registri elettronici e classi virtuali; l’autocontrollo imposto da una buona educazione istituzionale… segni tangibili del progresso cui ho dato un contributo convinto, mi paiono sempre più le maglie di una rete stretta intorno allo studente per costringerlo a condividere il metodo, ad accettare il giudizio, a espungere l’errore… Quando io ero studente avevo un rapporto con la scuola naturalmente conflittuale: senza necessariamente essere dei rivoluzionari, noi studenti eravamo noi, e ci sentivamo ontologicamente e orgogliosamente diversi dai loro che incarnavano l’istituzione.

In aula e nei corridoi, nelle interrogazioni e nelle chiacchiere, nei temi in classe come nelle arringhe assembleari, affermavamo con convinzione le nostre idee e le nostre conoscenze. I giudizi che ci investivano, sul rendimento come sulla condotta, ci apparivano (e spesso erano) talmente aleatori e arbitrari da non richiedere la nostra complicità. C’erano i margini, insomma, per rimpallarci la responsabilità dell’errore e noi ne approfittavamo per rivendicare orgogliosamente il diritto a stare “dalla parte del torto”.

L’errore – anche l’errore – in qualche modo ci definiva.

Oggi quei margini mi sembrano estremamente sottili. L’ipernormatività scolastica (di cui parla bene Vigilante più avanti), amplificata dalla pervasività tecnologica e giustificata da implacabili griglie docimologiche, sembra non lasciare spazio al dissenso. Obbligati da una logica ferrea a condividere una visione del mondo, mi sembra che ai miei figli e ai loro coetanei non resti che un’unica alternativa: accettare in blocco l’idea di realtà che proponiamo o ribaltare il tavolo.

Così, non mi sorprende il fatto che la fragilità e l’ansia sembrino il tratto distintivo di queste generazioni. Mi preoccupa semmai la prospettiva della loro prossima evoluzione in rabbia.

Perché non succeda, sarà sufficiente che i miei figli accettino il rischio di fare la cosa sbagliata.

Sandro Invidia, direttore editoriale di Lœscher.

La ricerca

Periodico semestrale

Anno 12, Numero 29 Nuova Serie, dicembre 2025 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 iscrizione al ROC n. 1480

Editore

Lœscher Editore

Direttore responsabile

Mauro Reali

Direttore editoriale

Ubaldo Nicola

Direzione e coordinamento

Alessandra Nesti - PhP

Impaginazione

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Copertina

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Redazione

Beatrice Bosso, Simone Giusti, Sandro Invidia, Francesca Nicola, Ubaldo Nicola, Mauro Reali.

Hanno scritto su questo numero

Silvia Capodivacca, Cristiano Corsini, Valentina Felici, Simone Giusti, Anna Horolets, Matteo Largaiolli, Simona Marchesini, Francesca Nicola, Matteo Luigi Piricò, Elena Rausa, Mauro Reali, Paola Rocchi, Silvia Sbaragli, team CORRIGE, M. Carmen Usai,Antonio Vigilante, Samuel West.

© Lœscher Editore

via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino

https://laricerca.loescher.it/

ISSN: 2282-2836 (cartaceo)

ISSN: 2282-2852 (online)

L’immagine in copertina riproduce una pagina completa del Gronchi Rosa, il celebre francobollo italiano emesso il 3 aprile 1961 per celebrare il viaggio in Sud America dellʹallora presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. La stampa prevedeva una serie di tre valori, ciascuno dedicato a uno degli Stati visitati, ma il Rosa (dedicato al Perù) conteneva un errore geografico cruciale: la mappa del Perù era errata, poiché escludeva unʹarea amazzonica già contesa con lʹEcuador ma annessa dal Perù nel 1942.A seguito delle immediate proteste del governo peruviano, il francobollo fu ritirato dalla circolazione dopo un solo giorno e rapidamente sostituito da una versione corretta di colore grigio (il Gronchi Grigio). I pochi esemplari del Gronchi Rosa sfuggiti al ritiro lo hanno reso uno dei pezzi più rari e ricercati della filatelia italiana.

Sommario

Humanum est. Indagine sull

saperi

Elogio dellʹerrore per sopravvivere

alla cultura della performance

Silvia Capodivacca

Incerti, ruvidi, appassionanti sentieri

Elena Rausa

Il suono che inciampa: estetica, filosofia e pedagogia dellʹerrore musicale

Matteo Luigi Piricò

Errori e filologia

Matteo Largaiolli

Errare Romanum est (ma non solo)

Mauro Reali

scuola

Chi sbaglia paga

Antonio Vigilante

Cogito ergo... erro!

Valentina Felici, Cristiano Corsini

Insegnami a fare errori!

Silvia Sbaragli

Le ragioni dellʹerrore

Paola Rocchi

CORRIGE, un progetto europeo sugli errori di scrittura

Simona Marchesini, M. Carmen Usai, il team CORRIGE

Elogio dell’errore per sopravvivere alla cultura della performance

Tratto distintivo dell’umano, l’errore si rivela chiave per la creatività, l’innovazione e la resilienza, soprattutto nell’era della tecnologia e della perfezione. Un manifesto per un futuro più umano.

di Silvia Capodivacca

Errore. La scritta che appare sullo schermo per un istante ci lascia interdetti: esitiamo, mentre le nostre emozioni stanno appese tra due estremi contraddittori. Da un lato, l’ideale di perfezione incarnato dalla tecnologia – con i suoi algoritmi efficienti, le diagnosi impeccabili, i calcoli di precisione assoluta – si erge a modello inarrivabile. Il mito dell’infallibilità, illustrato attraverso interfacce accattivanti e le procedure ottimizzate che ci restituiscono le macchine, si riverbera nelle nostre vite, generando un non trascurabile senso di inadeguatezza: in rapporto a software sempre più affidabili, ci sentiamo imperfetti,lenti,discontinui.Eppure – qui sta il paradosso – non possiamo resistere alla tentazione di cercare la crepa nel cristallo e scopriamo di provare un certo piacere, per esempio, nel sottoporre gli oracoli digitali a stress test improvvisati, interrogandoli con domande capziose o assurde. La soddisfazione – quella che proviamo quando un’intelligenza artificiale si inceppa, si muove maldestramente sul piano metonimico o fornisce una risposta grottesca – è un fenomeno rivelatore, che non va derubricato a mera goliardia. Emerge infatti, in contesti simili, un’intima Schadenfreude, gioia (per la quale la lingua tedesca ha trovato una collocazione lessicale ineccepibile) che sviluppiamo nei confronti del malanno altrui e che tradisce un bisogno umano profondo. È un altro nome che diamo al sollievo, balsamico benché effimero, di quando smascheriamo i piedi d’argilla del gigante. Allo stesso modo, il momento di imbarazzo algoritmico,minuscola falla nel sistema (che tipicamente viene corretta al successivo aggiornamento dell’applicazione), ristabilisce, per qualche momento, l’equilibrio con l’umanità dell’utente che sta utilizzando la tec-

Un vaso rotto e riparato con la tecnica ceramica del kintsugi, che mette in evidenza le fratture ricoprendole con foglia dʹoro. L'idea che fonda questa tendenza estetica, ben radicata nella cultura giapponese, è che gli errori, le ferite e le impefezioni non vanno nascoste ma valorizzate, perché possono diventare fonte di bellezza e di valore, rivelando la dignità della fragilità e la forza della rinascita. (© iStockphoto).

nologia. L’errore della macchina funziona quindi come uno specchio: in esso ci rappresentiamo e, per contrasto, riconosciamo i tratti che ci rendono unici – dall’intuizione al senso del contesto, fino alla capacità di comprendere (e commettere) errori creativi. È l’imperfezione che, paradossalmente, ci fa sentire meno fragili, perché ci rammenta che la nostra intelligenza non è un insieme di dati da ordinare e analizzare, bensì un fenomeno complesso, in cui l’esperienza inevitabilmente si intreccia con livelli non binari di ambiguità.

L’errore come eredità biologica e culturale

Se di fronte all’errore della macchina proviamo un sollievo quasi infantile, la nostra proposta parte da un tentativo di rovesciamento della prospettiva comune: piuttosto che guardare allo sbaglio come a un difetto da estirpare, bisogna riconoscerlo come una forma di resistenza e resilienza specificamente umane. L’imperfezione strutturale è il tratto che, per ora, ci distingue irrevocabilmente dall’artificiale e configura la nostra architettura di base. Siamo, per nostra natura, sistemi aperti e, a differenza dei software compartimentati nei rispettivi codici, veniamo attraversati da un flusso continuo di contaminazioni biologiche, animati da contraddizioni esistenziali, abitati da impulsi irrazionali e istinti destabilizzanti – ma è proprio tale instabilità a renderci adattivi e creativi. Quando incontra un bug incoerente con la sua programmazione, la macchina va in tilt, si blocca, restituisce un messaggio di errore irreversibile. Il sistema umano, invece, possiede una straordinaria capacità di trasformare l’equivoco: lo accoglie, lo elabora, lo metabolizza e spesso riesce persino a trarne energia per compiere un salto in avanti. Ugualmente, se un virus informatico può paralizzare un’intera rete, un parassita biologico, pur potendosi dimostrare letale, in milioni di anni di co-evoluzione ha spesso finito per integrarsi, diventando parte di un equilibrio più complesso. Al pari degli altri animali, gli umani sono organismi hackerati per natura: il genoma di ciascuno è il risultato di mutazioni casuali (errori di copiatura nel DNA) che,invece di cancellare il sistema,hanno aperto la strada a un’infinita biodiversità.

La logica dell’integrazione dell’errore è dunque presente in modo lampante in biologia: il corpo umano può essere letto come un ecosistema di “errori integrati” e di collaborazioni forzate divenute simbiosi, al punto che c’è chi corregge il termine individuo con simbionte o, arrotondando per eccesso, olobionte, facendo intendere che esiste una relazione profonda e strutturale con l’ambiente che ci circonda e determina1. All’interno di questo quadro, il microbioma, un multiverso di batteri, funghi e virus che abita il nostro intestino, la no -

stra pelle e le nostre mucose, rappresenta la prova (letteralmente) vivente che l’ideale di perfezione legato all’autosufficienza è poco più di una sterile illusione. In contrasto con le narrazioni semplificate che elaboriamo per comodità descrittoria, nessuno di noi può ritenere di essere un’entità pura e autarchica; formiamo, piuttosto, un super-organismo2, all’interno del quale vige un patto collettivo stretto con milioni di altre forme di vita, molte delle quali sono state un tempo nemiche. La nostra salute non è data dall’assenza di agenti estranei, ma è frutto dell’equilibrio dinamico e negoziato con essi.

Sulla medesima lunghezza d’onda, possiamo considerare il sistema immunitario come esempio di apprendimento attraverso l’errore, di intelligenza biologica fluida, che si affina sbagliando. Quando un patogeno sconosciuto all’ordinario funzionamento del corpo fa fallo e ci invade, il sistema può inizialmente non farcela, permettendo l’insorgere della malattia. Tuttavia, molto spesso da quel fallimento la struttura vivente impara, ovvero, attraverso quell’inciampo, produce anticorpi, aggiorna le sue difese e memorizza la soluzione per il futuro. La resilienza immunitaria nasce, quindi, dalla sconfitta più che dall’invulnerabilità.

Roberto Esposito mette bene in luce la dialettica tra apertura e chiusura dei sistemi, evidenziando che un’eccessiva protezione (immunitaria) può trasformarsi in qualcosa che danneggia inesorabilmente la vita della communitas a cui si applica: emblematico è il caso dell’autoimmunità, noto fenomeno in cui il sistema immunitario, per eccesso di difesa, finisce per attaccare cellule e tessuti dell’organismo stesso, generando malattie croniche e debilitanti3. È un processo di continuo aggiustamento, ben lontano dall’ideale di perfetta previsione. In questa luce, l’errore rappresenta il meccanismo attraverso cui la vita si è sofisticata e rafforzata.

Il principio biologico richiamato trova corrispondenza anche nel regno della cultura e del pensiero, dove l’innovazione, artistica o scientifica che sia, raramente è il risultato di un piano lineare e impeccabile. Molto più frequentemente, si tratta del frutto di un happy accident, una deviazione imprevista, di un “errore” che apre una prospettiva inedita: è risaputo che la penicillina fu scoperta per una coltura di batteri lasciata incustodita4 e che il forno a microonde nacque dall’osservazione che un magnetron “fallato” scioglieva una barretta di cioccolato nella tasca di un ingegnere5. Entrambi gli episodi, e se ne potrebbero citare molti altri6, non vanno relegati nel range delle mere coincidenze, poiché ci permettono di rilevare dati significativi sulla natura intima della nostra cognizione. Funzioniamo all’opposto di come si articola una logica binaria: la nostra intelligenza non elimina il rumore di fondo per cercare un segnale puro

– essa si nutre attivamente di caos, è immersa nell’ambiguità e viene fomentata dalle contraddizioni. L’intuizione artistica, il pensiero laterale, le soluzioni non lineari – tutto ciò che la macchina ancora non possiede e forse non possiederà mai – nascono proprio da questo fruttuoso intreccio di razionale e irrazionale, di ordine e disordine. L’artista, al pari dello scienziato geniale (che non a caso la vulgata addita come “pazzo”), colloca la sua opera proprio nella zona grigia dove un errore cessa di essere tale e diventa il seme di una nuova grammatica: se per l’algoritmo l’errore rappresenta la resistenza all’efficienza dell’impianto, nel sistema umano uno schizzo mal riuscito suggerisce una forma nuova e un’ipotesi scientifica sbagliata può indirizzare la mente verso percorsi alternativi ancora inesplorati, ma potenzialmente innovativi. Qualcuno si spinge a identificare nell’imperfezione il quid dell’evoluzione, principio e motore della storia naturale in quanto tale. Tra costoro, senza dubbio Telmo Pievani, che scrive:

In principio fu l’imperfezione. Una disobbedienza all’ordine precostituito, una ribellione senza testimoni, nel cuore della più buia delle notti. Qualcosa si ruppe nella simmetria, 13,82 miliardi di anni fa. Si alzò un soffio impercettibile, e la grande matita dell’universo cadde rovinosamente da una parte e non dall’altra. Una piccola, infinitesimale anomalia divenne scaturigine d’ogni cosa 7

La sua riflessione incide un epitaffio sull’ideale armonico di perfezione che abbiamo problematizzato: ci spiega l’autore, che fu una piccola incrinatura nella simmetria a spalancare la strada alla complessità, alla diversità e, infine, alla possibilità stessa del darsi di vita e pensiero.

Dalla competizione al coworking

Se l’errore, come abbiamo provato a mostrare, è uno dei nostri tratti distintivi ed esso fa tutt’uno con la creatività, ne consegue che tentare di competere con le macchine sul loro terreno – della velocità di calcolo, dell’accuratezza implacabile, della coerenza logica senza sbavature – ci ingaggia in una battaglia persa in partenza, oltre a rappresentare un tragico fraintendimento della nostra natura. Come se chiedessimo a un essere umano di gareggiare in velocità con un aeroplano: non solo perderebbe,ma sprecherebbe la sua energia in una prova che non valorizza alcuna delle sue reali capacità.

L’unica prospettiva feconda, allora, è un ribaltamento del paradigma: si tratta di abbandonare la logica della sostituzione per abbracciare quella dell’integrazione proficua, del coworking consapevole, in forza del quale perde senso chiederci come possiamo essere più simili a una macchina, essendo molto più utile concentrarci su un altro

quesito, ovvero: cosa sanno fare le macchine che può favorire il nostro essere (ancora più) umani? Il vero potenziale dell’attuale tecnologia sta nella simbiosi tra umano e macchinico, perché il fatto che i dispositivi ci sollevino facilmente dal peso del puro calcolo e dell’elaborazione di big data ci permette di dedicarci a ciò che ci contraddistingue: la formulazione delle domande giuste (a cui non deve corrispondere sempre la ricerca di una risposta esatta), la navigazione nell’ambiguità di contesti reali, la gestione delle contraddizioni emotive, l’interpretazione dei significati profondi, l’atto della creazione che parte dal caos.

In questo modello, l’umano e la macchina diventano componenti di un unico sistema cognitivo esteso, dove la macchina funziona come una potentissima protesi della ragione, capace di modellizzare, ottimizzare e prevedere, con una precisione per noi inarrivabile, mentre l’umano fornisce al sistema l’intenzione, l’etica, la curiosità disinteressata,la sensibilità estetica e la capacità di giudizio in condizioni di incertezza – una sorta di collaborazione tra il cervello e la mano, ma su scala epistemologica. Come scriveva il filosofo André Leroi-Gourhan, l’evoluzione umana è una storia di esternalizzazione di funzioni in strumenti tecnici:

La specie umana si modifica un po’ ogni volta che mutano gli utensili e le istituzioni. Sebbene propria dell’uomo, la coerenza delle trasformazioni che toccano tutta la struttura dell’organismo collettivo è dello stesso ordine di quella delle trasformazioni che riguardano tutti gli individui di una collettività animale. I rapporti sociali assumono un carattere nuovo a partire dall’esteriorizzazione illimitata dalla forza motrice; un osservatore non umano e in grado di restare estraneo alle spiegazioni cui la storia e la filosofia ci hanno abituati distinguerebbe l’uomo del secolo XVIII da quello del XX come noi distinguiamo il leone e la tigre, il lupo e il cane 8

L’IA è l’ultimo capitolo di questa storia: stiamo esternalizzando parti della nostra ragione per potenziarla e continuare così il nostro percorso evolutivo.

Piccolo manifesto per l’imperfezione

In coda al ragionamento, e in esplicito contrasto con l’ossessione contemporanea per l’ottimizzazione e l’infallibilità, ci permettiamo di proporre un decalogo per una riconquista dell’umano, attraverso il valore fondativo dell’imperfezione. Questo piccolo manifesto celebra la negligenza come atto di resistenza consapevole verso ogni forma di tecno-determinismo che intenda appiattire la complessità dell’esperienza umana.

1. Coltivare l’ error literacy come palestra della

mente: educare all’errore significa trasformarlo da colpa inopportuna a strumento di indagine. Promuovere un’alfabetizzazione all’errore è l’atto fondativo di una didattica che valorizza il processo prima del risultato, liberando l’apprendimento dall’ansia controproducente della prestazione perfetta. Nelle pieghe dell’incertezza forgiamo il pensiero critico, la resilienza e la capacità di confrontarci con l’ignoto.

2. Progettare tecnologie porose: abbandoniamo l’ideale della macchina ermetica e inviolabile, ispirandoci, nella programmazione, ai sistemi biologici, resilienti perché adattivi e imperfetti. Favoriamo lo sviluppo di algoritmi che incorporano un margine di fallibilità e la vulnerabilità come risorsa progettuale.

3. Abbracciare un’etica della fragilità: riconosciamo il valore della debolezza. Inaffidabilità, lentezza, necessità di relazione non sono limiti, ma anticorpi contro l’utopia dell’ottimizzazione. Queste imperfezioni ci costringono alla negoziazione, ma anche all’empatia, in vista della costruzione di un sentire condiviso.

4. Praticare l’arte come esercizio di liberazione dall’utile: nell’arte, l’errore diventa scoperta. È il regno del non pianificato, dell’happy accident che sovverte il calcolo. Valorizzare la pratica artistica significa custodire uno spazio in cui l’imperfezione viene celebrata come canale d’accesso all’originalità.

5. Costruire comunità accoglienti: una società che accoglie l’imperfezione investe sulla comunità, sulla mutualità, sulla capacità di prendersi cura di chi è in difficoltà. È un ecosistema che trae forza dalla diversità e dalla fragilità dei suoi componenti.

6. Riscoprire il tempo profondo: in un mondo ossessionato dalla velocità, la lentezza diventa un atto di resistenza. Rallentare significa concedersi il tempo di sbagliare, di ponderare, di ascoltare, vuol dire rifiutare la tirannia dell’efficientamento per riscoprire il valore della cura attenta.

7. Esercitare l’umiltà epistemica: riconosciamo i limiti della nostra conoscenza. L’umiltà epistemica è di chi sa di non sapere, rimanendo aperto al dubbio e alla revisione. È l’atteggiamento opposto alla presunzione di un sapere algoritmico totale e chiuso – e guarda alla comprensione come a un processo mai concluso.

8. Adottare un pensiero ecologico: la natura non produce scarti né perfezioni assolute, ma sistemi in equilibrio dinamico. Pensare ecologicamente significa accettare la complessità, le relazioni e le imperfezioni degli ambienti come modello per la nostra vita sociale, economica e tecnologica.

9. Valorizzare la noia: difendiamo il diritto al tedio, all’ozio, al non essere sempre produttivi. È in questi spazi vuoti, in questi errori nel sistema dell’attività efficace, che fioriscono l’introspezione e le connessioni impreviste. La noia è un terreno

fertile che la cultura della performance sta sterilizzando.

10. Rivendicare la legittimità della disconnessione: affermiamo il diritto all’inattualità, a non essere sempre raggiungibili, reattivi e connessi. La disconnessione è un atto di sovranità sulla propria attenzione e sul proprio tempo. È la scelta consapevole di sottrarsi al circuito iper-performativo della prestazione per riconquistare uno sguardo, magari imperfetto, ma autentico, sul mondo.

NOTE

1. S.F. Gilbert, J. Sapp, A.I. Tauber, A symbiotic view of life: We have never been individuals, in «The Quarterly Review of Biology», 87/4, 2021, pp. 325-341.

2. Di superorganismo hanno parlato innanzitutto B. Hölldobler e E.O. Wilson in Il superorganismo. Bellezza, eleganza e stranezza delle società degli insetti (trad. it di I. C. Blum), Adelphi, Milano 2011, benché in relazione alle comunità di insetti. L’idea di un insieme di individui che si fa organismo collettivo è biunivoca e vale anche per l’altra direzione prospettica: tanto quanto è organica la società di api consorziate nello spazio dell’alveare, ugualmente, dell’organismo singolarmente inteso vanno considerate le componenti apparentemente esogene che collaborano alla definizione della sua identità.

3. Queste riflessioni sono state raccolte nell’arco di un ventennio di ricerca del filosofo, a partire da Communitas. Origine e destino della comunità (R. Esposito, Einaudi, Torino 1998) e Immunitas. Protezione e negazione della vita (Id., Einaudi, Torino 2002), fino a giungere, più recentemente, a Immunità comune. Biopolitica all’epoca della pandemia (Id., Einaudi, Torino 2022), dove la crisi sanitaria globale ha offerto un nuovo terreno di riflessione e attualizzazione dell’argomento.

4. Cfr. R. Gaynes, The Discovery of Penicillin. New Insights After More Than 75 Years of Clinical Use,in «Emerg Infect Dis» 23/5 (maggio 2017), pp. 849-53.

5. Cfr. Percy Spencer. Microwave Oven, in «LemelsonMIT», https://lemelson.mit.edu/resources/ percy-spencer (ultimo accesso 13 settembre 2025).

6. Si veda il godibilissimo M. Livio, Brilliant Blunders: From Darwin to Einstein. Colossal Mistakes by Great Scientists That Changed Our Understanding of Life and the Universe, Simon & Schuster, New York 2013.

7. T. Pievani, Imperfezione. Una storia naturale, Raffaello Cortina, Milano 2019, p. 9.

8.A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, in 2 voll., trad. it di F. Zannino, Einaudi, Torino 1977, vol. II, p. 291.

Silvia Capodivacca

ha studiato Filosofia e Storia tra Padova, Bologna e New York. Attualmente è Ricercatrice in tenure track in Estetica all’Università Pegaso e collabora con la casa editrice Lœscher come autrice e formatrice didattica. Il suo sito personale è www.silviacapodivacca.com.

Incerti, ruvidi, appassionanti sentieri

Mettere al centro del discorso educativo l’estetica e l’etica dell’imperfezione aiuta a scoprire un tratto distintivo dell’umano.

Ben rappresentato da alcuni casi letterari, classici e contemporanei.

Impossibile affrontare il tema dell’errore senza partire da Francesco Petrarca, che sulla consonanza dell’errore e dell’errare ha costruito il nucleo fondante della sua poesia. In effetti, senza il “giovanile errore” dell’innamoramento per Laura non avremmo la raccolta che ha rappresentato per secoli l’archetipo della lirica amorosa.

Errore ed erranza di Francesco Petrarca

Petrarca è un uomo che ha votato sé stesso ai più alti ideali. Il suo concetto di erranza parte certamente dall’illegittimità dell’amore profano, ma interessa anche la conflittualità tra questi suoi ideali: dalla guerra delle passioni discendono l’ossimorica dolcezza dell’errore che alimenta l’accidia, il vano desiderio di una gloria terrena che toglie spazio al perseguimento di quella celeste, la consapevolezza di un’inquietudine che è lotta interiore prima che conflitto tra sé stesso e gli altri. Le rime sparse sono il diario di un uomo che aspira alla perfezione e si scopre invece molteplice e pieno di contraddizioni: proprio quelle contraddizioni e quei conflitti sono la radice della sua arte.

Nella celebre Familiare IV,1 a Dionigi da Borgo San Sepolcro,che racconta l’ascesa simultanea al Monte Ventoso del poeta e del fratello Gerardo, l’artificio letterario inscena l’arte del perdersi secondo un modello già agostiniano: la via della santità non è per chi è già santo, ma per chi sperimenta nella propria imperfezione una nostalgia e un’inquietudine irrisolta che mettono l’animo in cammino. La digressione alpinistica ha dunque un valore evidentemente metaforico: perdere la strada è una grazia, anche se comporta fatica e danno, perché l’erranza è esperienza di sé, del proprio limite e del proprio desiderio.

L’oracolo di Delfi, con il celebre monito «Conosci te stesso», trova nella lettera una nuova articolazione nel precetto agostiniano (Confessioni, X, 8, 15) che Petrarca così ripropone a Dionigi:

E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi e lʹimmensità dellʹoceano, il corso degli astri, e trascurano se stessi.

Quando

a perdersi

è un eroe

La digressione dell’eroe è un topos ricorrente, tappa essenziale del suo viaggio. Spesso chiama in causa tre pronomi: l’io che l’eroe è, gli altri che da lui si attendono qualcosa e infine il noi a cui tutti aspirano. Il racconto di Ulisse sin dall’incipit avverte che l’eroe, mentre si sottrae alla sua missione e dilaziona (non solo forzatamente) il ritorno, deludendo chi lo attende, conquista una conoscenza non altrimenti perseguibile e un’esperienza che include il dolore.

Vengono meno al compito assegnato anche i guerrieri dell’età moderna e contemporanea, come l’Orlando di Boiardo e Ariosto, i compagni erranti del Tasso e anche il giovane Milton di Fenoglio, che accantona la lotta partigiana per inseguire la sua personale guerra privata (e con quali involontarie e terribili conseguenze per i due ragazzini fucilati dai fascisti). A ben vedere, proprio il sottrarsi dell’eroe alla missione assegnata è ciò che innesca la storia e rende la sua avventura umana interessante e bella (di fama e di sventura, si intende).

Non c’è vero spazio letterario per i personaggi troppo risolti, perché più di chi sa come vivere ci cattura chi dubita e affronta scelte in cui è a rischio la vita stessa o la salvezza. La posta è dunque altissima, né potrebbe avvenire altrimenti l’evoluzione del personaggio e anche la nostra, se, terminata

la lettura, non avremo rovesciato un pregiudizio iniziale su chi vince e chi perde, chi è adatto e chi no. Che i nostri sciagurati eroi ed eroine trovino o non trovino infine una strada che permetta loro di risolvere l’enigma dei tre pronomi, comunque la loro vicenda testimonia che dubbio, errore, fatica e sofferenza sono parte dell’esistenza.Potremmo dire che l’intelligenza letteraria ama le crepe, gli spigoli, i sentieri tortuosi, più delle superfici levigate che dominano l’estetica degli ultimi anni.

Homer Simpson, tra Lego e realtà

Nell’episodio chiamato “Un mattoncino come me”, Homer [Simpson] si risveglia in un universo alternativo come soggetto di una Springfield utopica fatta di mattoncini di Lego dove “tutto si incastra e nessuno si fa male”. Inizialmente, si sente perfettamente a casa in questa città di plastica lucente senza rischi o conseguenze dove, senza alcun danno permanente, un elicottero Lego poteva tranquillamente precipitare e le teste delle persone potevano essere divelte facilmente dai loro torsi arrotondati – questi eventi suscitavano solo qualche condiscendente alzata di spalle. Le cose crollano, ma è molto facile rimetterle a posto. In quel mondo, ognuno aveva il suo posto, ogni articolazione nasceva dall’incastro di un mattoncino Lego nello schema programmato. Non c’era spazio per l’erranza. Quando Homer inizia ad avere visioni perturbanti di un mondo carnale – dove il dito affonda nella pelle e dove le mani si articolano in molli articolazioni tentacolari (chiamate dita) invece che in efficienti pinze meccaniche e dove un “mostro di carne” gli appare improvvisamente nello specchio al posto di quel piatto disegno in serie che è la sua faccia – ha un momento di panico e decide di chiedere aiuto. Impara che esiste un mondo parallelo che in realtà pare irrompere nella sua psiche, specialmente in momenti di flashback dissociativi e imbarazzanti situazioni sociali, un mondo dove le cose molto spesso vanno storte. Quando capisce che può scegliere il mondo in cui vuole vivere e quale realtà considerare definitiva, Homer ragiona su cosa implichi la scelta di un reame molliccio, confuso e mostruoso invece del suo rassicurante paradiso di plastica. Nel mondo di pelle e sangue e membrane dovrà invecchiare, potrebbe perdere il suo lavoro in fabbrica e, peggio ancora, rischiare di perdere l’affetto e l’attenzione di sua figlia Lisa. Ma quando Homer in un momento di illuminazione si rende conto che “il fatto che i figli crescano è ciò che rende speciale il nostro tempo con loro”, e che la ricompensa per una vita ben vissuta “è il sonno gentile della morte”, abbandona il paradiso Lego.

A scrivere della straordinaria avventura di Homer è Bayo Akomolafe in Queste terre selvagge oltre lo steccato. Lettere a mia figlia per far casa sul pianeta2. Akomolafe, filosofo di origine nigeriana, intellettuale transnazionale e poeta, scrive alla figlia Alethea

lettere nelle quali si delinea una concezione antropologica che attinge alle principali autorità del pensiero occidentale non meno che alla tradizione culturale del suo popolo: la sintesi offre un punto di vista originale sul mondo in cui viviamo, ordinato secondo criteri alfabetici e classificatori e fondato sulla convinzione antropocentrica che sia sempre possibile addomesticare e perfino dominare la materia. Parlando alla figlia, Akomolafe pone al centro del discorso sulla modernità e sull’Antropocene la radicale dissociazione tra noi stessi e il mondo in cui viviamo, ne riconosce l’origine di ogni sofferenza e ipotizza che proprio dalle crepe si possa sviluppare un diverso modo di stare al mondo e di trovare la propria “casa”.Il racconto di Homer (come già l’analogo dilemma di Ulisse che infine rinuncia alla dea Calipso per l’incerto viaggio, Itaca petrosa e Penelope non più giovane) evidenzia una grande contraddizione: se la paura della morte è la ragione del vagheggiamento di un mondo perfetto, in cui tutto ciò che si rompe torna uguale e non esistono il tempo, la malattia e la morte, la perfezione che quel mondo realizza è paradossalmente mortifera, perché sopprime tutto ciò che è proprio della vita.

Jeff Koons o della levigatezza

In un certo senso Homer compie una scelta controcorrente.Il filosofo Byung-Chul Han ha aperto il suo saggio La salvezza del bello con un capitolo dedicato alla levigatezza, tratto distintivo del nostro tempo:

Perché oggi troviamo bello ciò che è levigato? Al di là dell’effetto estetico, esso rispecchia un generale imperativo sociale, incarna cioè l’attuale società della positività. La levigatezza non ferisce, e neppure offre alcuna resistenza. Chiede solo un like. L’oggetto (Gegenstand) levigato elimina la propria oppositività (Gegen). Rimuove cosí ogni negatività.3

L’emblema artistico di questa tendenza sono per Han le creazioni dello scultore Jeff Koons, maestro delle superfici levigate.

Il Balloon Dog non è un cavallo di Troia: non nasconde nulla. Nessuna interiorità si nasconderebbe dietro la sua superficie levigata. Come per lo smartphone, di fronte alla lucentezza delle sculture levigate non s’incontra l’altro ma solo se stessi. L’insegna della sua arte dice: “Il punto è sempre lo stesso: aver fiducia in te stesso e nella tua storia. Ed è questo che voglio comunicare anche a chi guarda le mie opere: deve avvertire la propria gioia di vivere”. L’arte inaugura uno spazio d’eco in cui mi rendo sicuro di me stesso e della mia esistenza. Così viene completamente eliminata l’alterità o la negatività dell’altro e dell’estraneo. L’arte di Jeff Koons presenta una dimensione soteriologica: promette una redenzione [...] promuove una sacralizzazione della levigatezza.

Mette in scena una religione della levigatezza, del banale, una religione del consumo, e per questo ogni negatività deve essere eliminata.4

Evidentemente la religione del consumo ha un orrore per la materia non dissimile da quello degli avversari di Galileo, padre della scienza moderna, accusato di aver corrotto, nominando le macchie lunari, la levigatezza del corpo celeste, che per la creazione divina si pretendeva levigato e perfetto.

Fragilità e desiderio di perfezione

Pur da diversa prospettiva, Akomolafe e Han pongono una riflessione sociologica e politica che può far bene a chi ha un ruolo educativo e oggi si trova a esercitarlo tra due sollecitazioni ugualmente urgenti: una profonda e diffusa fragilità (che non necessariamente deriva dalla scuola ma che nell’ambiente scolastico può e deve trovare ascolto) e un delirante desiderio di perfezione, che non ammette alcun tipo di attrito (corpi perfetti,prestazioni sportive perfette, carriere scolastiche perfette).

Spesso si dice che verifiche e valutazioni appaiono ostacoli insormontabili perché le ultime generazioni sono meno allenate alla frustrazione, così ci si muove tra due estremi: la rimozione e la banalizzazione dell’ostacolo o il rafforzamento del limite che esso rappresenta e che (si dice) tempra le ossa, educa al sacrificio e dunque alla vita, infonde il senso del giusto e del vero – anche se ciascuno di noi sa per esperienza diretta quanto soggettiva possa essere una valutazione e quanto aleatorio il senso del giusto e del vero appreso per quella via. Mi pare tuttavia che la questione della perfezione e della levigatezza sia più profonda e non priva di implicazioni politiche. Se, per esempio, restando nell’ambito dell’arte contemporanea, decidiamo di accostare al Balloon Dog di Koons il Grande Cretto che Alberto Burri costruì a Gibellina, città distrutta nel terremoto del Belice del 1968, oppure se scegliamo di leggere la storia del XX secolo sull’enorme tela picassiana di Guernica, compiamo una scelta precisa, che è anche un gesto politico. Infatti, attraverso il filtro di icone meno levigate, più irregolari, ricche di crepe o cariche di pathos, stiamo dando dignità culturale e civile alla compassione: alleniamo così le coscienze a prendersi cura delle macerie altrui, almeno sul piano dell'immaginazione, e anche di quelle proprie, magari invisibili. Allo stesso modo (senza cedere alla retorica delle ginocchia sbucciate), ogni volta che favoriamo un apprendimento immersivo nella natura (che si esprime con una libertà tutt’altro che levigata) ritroviamo esperienze tattili che i più giovani frequentano meno di quanto sia capitato alla nostra generazione. Con il corpo si impara e, forse, dovremmo tornare a immaginare ascese al monte Ventoso che non siano soltanto esperienze letterarie.

Un’umanità in cammino, tra un errore e l’altro

Sappiamo che la scuola non può sopperire a tutto ciò che manca: da sola non salva, non cura e non è neppure impermeabile al mondo che la circonda, però quasi ogni disciplina è il distillato di un cammino umano plurimillenario, e questo è di per sé preziosa testimonianza.

La ricostruzione filologica di un testo antico passa per la critica dell’errore: sono gli errori a costruire una mappa di familiarità tra i manoscritti superstiti e a guidare la scelta della variante autentica. Più in generale, in ogni disciplina i progressi dell’umanità sono stati spesso frutto del caso, conquiste di chi trasgrediva la regola del “si è sempre fatto così” o scoperte in cui la scienza si è imbattuta cercando altro,come quell’esploratore in rotta verso le Indie che, senza saperlo, scoprì l’America. Non solo ai grandi del passato è concesso trasgredire e sbagliare, ma per chi è venuto dopo la grandezza di molti di loro sta proprio nella loro digressione. O nella pazienza di ricominciare ogni volta, tornando sui propri passi, senza perdere il filo.

Si è detto che il viaggio dell’eroe passa per la foresta, include molte cadute, talvolta anche fatali, ma l’apprendimento finale, per chi legge, è la virtù più alta che uomini e donne possano raggiungere, quella compassione che ricompone la frattura tra noi stessi e il mondo e regala a chi sbaglia la percezione di essere sempre in cammino. Insomma, se vogliamo prestare fede all’oracolo delfico dobbiamo riconoscere che dal disorientamento discendono una maggiore esperienza di sé e apprendimenti non meno importanti di quelli che derivano dall’aver seguito le istruzioni o l’esempio. Ciascuno conosce sé stesso anche smarrendo il sentiero o la rotta. Non solo errare è umano, ma è realmente in cammino proprio chi può permettersi di sbagliare.

NOTE

1. Ben documentato da G. Billanovich, Petrarca e il Ventoso, in «Italia medioevale e umanistica», 9, 1966, pp. 389-401; ristampato in Id., Petrarca e il primo umanesimo, Antenore, Padova 1996, pp. 168-184.

2.B.Akomolafe,Queste terre selvagge oltre lo steccato. Lettere a mia figlia per far casa sul pianeta, trad. e cura di F. O. Dubosc, Exorma, Roma 2017, pp. 55-56.

3. B.-C. Han, La salvezza del bello, trad. it. di V. Tamaro, Nottetempo, Milano 2016, p. 9.

4. Ivi, pp.14-15.

Elena Rausa

è docente di Lettere nei Licei e Dottoressa di Ricerca in Italianistica. Ha pubblicato tre romanzi: Le invisibili (2024), Ognuno riconosce i suoi (2018), Marta nella corrente (2014), tutti editi da Neri Pozza, Vicenza.

Il suono che inciampa: estetica, filosofia e pedagogia dell’errore musicale

L’errore musicale tra storia, filosofia e psicologia: prospettive per una didattica della complessità.

di Matteo Luigi Piricò

Non lo si può negare: un errore in musica può ferire più di un lapsus ortografico o persino di un rigore calciato alle stelle. Pensate alla stecca di un cantante lirico o un violinista che deraglia dall’intonazione prefissata. Per il musicista è tormento intimo: indimenticabile il trombettista di Prova d’orchestra di Fellini (1979), che confessa: «Una stecca con la tromba è la fine del mondo! Ci sono malato, non dormo più… vivo sempre con questa angoscia di sbagliare». Perché questo dolore così acuto? Come le unghie sull’ardesia, i suoni “sbagliati” graffiano nervi primordiali, trasformando l’ascolto in un terreno minato. Ma se esplorato con discernimento, l’errore può rivelarsi una soglia generativa: basti pensare alle note “erranti” di Miles Davis, alle provocazioni di John Cage, ai glitch di Aphex Twin o ai live perfettamente imperfetti dei Grateful Dead. In questi casi, la crepa si fa varco: l’imprevisto si trasforma in risorsa creativa, un compagno silenzioso che suggerisce slanci inattesi e libera l’immaginazione dal perfezionismo talvolta opprimente. A condizione, però, che non diventi alibi per il pressapochismo tecnico che tradirebbe l’essenza rigorosa della musica.

Storia ed estetica dell’errore

Il dilemma dell’errore in musica affonda le sue origini nella riflessione ellenica, segnatamente nelle dottrine pitagoriche e platoniche, che vorrebbero la musica come manifestazione delle leggi cosmiche: se l’anima umana riflette l’ordine delle sfere celesti, allora l’arte di Euterpe assume un ruolo educativo cruciale, forgiando i cittadini del domani e arginando le passioni giovanili con la sua armonia divina. Questa fusione tra suono, cosmo e psyché impone una vigilanza estrema sul materiale acustico, capace di generare sia elevazioni celesti sia deviazioni corruttrici, foriere di caos morale. Pur attenuata dalle prospettive più sensibili di Aristotele e Aristosseno, che celebrano il potenziale estetico ed emozionale della musica, tale corrispondenza cosmologica riecheggia nel Medioevo, collocando la musica nel quadrivium accanto ad aritmetica, geometria e astronomia, un assetto che sottolinea ancor di più il ruolo protagonista della disciplina musicale nel contesto formativo. Tuttavia, i teorici medievali si confrontano pure con una realtà sonora ribelle: l’intervallo di tre toni interi, noto come tritono, tradisce l’ideale trinitario con un’asprezza diabolica, dando vita al marchio infamante di diabolus in musica, un epiteto

che evoca con efficacia il pericolo insito nel suono non domato (Bonds, 2014).

Tra il Cinquecento e il Seicento, la Camerata de’ Bardi e la seconda pratica monteverdiana sfidano lo stigma accademico, rimodelleranno le regole in favore di una rinnovata dignità espressiva, avviando una graduale emancipazione del linguaggio musicale: nei madrigali del compositore cremonese, le audacie compositive legittimano la trasgressione dai precetti come efficace mezzo espressivo. Dal Romanticismo ottocentesco, la personalità del compositore piega ancor più le norme, sondando abissi sonori che sfoceranno poi nella crisi della tonalità e nell’esplosione avanguardistica del Novecento.

Ma questa narrazione non si esaurisce nella teoria o nella composizione, né si confina al refuso emendabile con la penna: nella performance, la fallibilità si erge a sfida da affrontare, specie nell’Ottocento, quando il virtuosismo mira a travalicare i limiti fisici di strumento e strumentisti, aspirando a un’estetica che trascende l’immanente. Allora assistiamo a un paradosso: se da una parte la sperimentazione compositiva spinge verso nuove grammatiche sonore che scompaginano l’ordito sonoro, il guizzo del solista vira verso l’anelito della perfezione tecnica. Non si tratta di mera esibizione di acrobazie per stupire il pubblico, ma l’aspirazione di librarsi in volo verso l’assoluto e oltre.

Non sorprende che Liszt, nel 1834, dichiari con fierezza: «il virtuosismo non è un’escrescenza, ma un elemento costitutivo della musica», un credo che ammette scarsa tolleranza per esitazioni o imprecisioni, riecheggiando ciclicamente nei decenni successivi. E, per paradosso, codificato proprio dalla razionalità positivista, con il suo diluvio di manuali che esaltano meccanica e meticolosità, relegando la fantasia a un ruolo subordinato (Bottero, 2004).

Le rivoluzioni del Novecento sono alle porte: tuttavia il mondo del concertismo non sembra deflettere da quella stasi in cui la conservazione del retaggio classico pretende canoni esecutivi ineccepibili, costringendo ancora oggi gli interpreti a misurarsi con i fantasmi del virtuosismo ottocentesco.

L’errore come categoria filosofica

Se l’errore in musica è “dolore”, fin dalla speculazione filosofica antica emerge come una condizione intrinseca alla libertà umana, un nodo esistenziale inevitabile che prelude a redenzione e crescita spirituale. Si pensi all’hamartía tragica di Sofocle, che trasforma la mancanza in catalizzatore di catarsi, un momento di rivelazione che mette a nudo e insieme riscatta la fragilità dell’umano. Nietzsche, ne La nascita della tragedia, concepisce

l’arte come un’illusione apollinea che trasfigura il caos dionisiaco dell’esistenza, trasformandolo in una vitalità estetica capace di trasfigurare poeticamente l’imperfezione e il dolore insiti nella vita stessa. Per Kant, la libertà implica anche la possibilità di deviare dalla legge morale: senza questa possibilità, l’autonomia non avrebbe senso. Lo “sbaglio” diventa dunque il rovescio necessario della nostra dignità morale. Heidegger, con la sua concezione della verità come aletheia, mostra che ogni rivelazione implica al tempo stesso un velamento: l’errore non è una caduta esterna, ma una modalità costitutiva del nostro rapporto con l’essere. Lo smarrimento (Die Irre) diventa allora una possibilità intrinseca all’apertura dell’uomo al mondo, una deviazione necessaria che ci riconduce, proprio attraverso il rischio, all’autenticità dell’esistenza.

Nella prospettiva musicale, questa struttura si traduce nel fatto che anche la “stecca”, lungi dall’essere mero incidente tecnico, può diventare rivelazione: un segno imprevisto che apre nuove possibilità di ascolto e interpretazione. Così come la verità heideggeriana vive nella tensione tra disvelamento e nascondimento, anche l’inciampo musicale diventa occasione di senso, un invito a danzare con l’imprevisto piuttosto che a respingerlo.

Psicologia dell’errore musicale

Ma lo stridore dell’errore in musica si lega intimamente alla dimensione della temporalità che governa il discorso sonoro. La trama musicale, nel suo farsi nel tempo, si rivela imprevedibile, mentre le nostre strutture percettive si affannano a costruire ancoraggi, a inscrivere sequenze in schemi e regole, a generare attese. Ogni istante d’ascolto, così, germina grappoli di possibilità, che si proiettano in catene di aspettative sugli istanti successivi del discorso musicale.

Queste previsioni possono essere confermate o disattese, in misura sempre variabile, dando luogo a emozioni a esse correlate (Huron, 2006). La distorsione del codice – che incrina l’intelligibilità del meccanismo dell’aspettativa o ne determina la trasgressione – si manifesta allora come “schiaf-

↑ La notazione musicale del tritono, il diabolus in musica (Wikipedia).

fo” sensoriale: lo sbaglio del musicista, la stecca, la dissonanza imprevista e aspra. Ciò è tanto più evidente se lo si rapporta all’elaborazione del segnale acustico a livello neurobiologico, che sembra privilegiare la consonanza rispetto alla dissonanza (Ball, 2010), pur riconoscendo la sua legittimazione culturale.

A completare il quadro, occorre ricordare come la sensibilità al suono improvviso o estraneo al contesto – soprattutto se acuto – abbia rappresentato per il genere Homo un vantaggio evolutivo, in quanto in grado di modificare repentinamente gli stati fisiologici. Ecco perché, al di là delle nostre volontà, non possiamo non dirci vulnerabili ai suoni: tanto più se minacciosi, distorti, stridenti, equivoci.A livello esecutivo, inoltre, il cervello sembra calibrato alla correzione: l’errore viene intercettato quasi istantaneamente da specifici circuiti di controllo – tra cui spicca la corteccia cingolata anteriore – incaricati di rilevare e compensare lo scarto motorio, anche in modo automatico e inconsapevole (Proverbio, 2019).

Ma l’inesattezza non è solo caduta da evitare, bensì componente fisiologica che accompagna l’azione creativa. Vygotskij, con il concetto di zona di sviluppo prossimale, suggeriva che l’errore, ben lontano dall’essere un vicolo cieco, è un segnale prezioso: l’indicatore di uno spazio in cui, grazie alla mediazione del docente, l’allievo può oltrepassare i propri limiti attuali ed espandere le proprie capacità cognitive.

Educazione e didattica

Questo discorso ci conduce a individuare due direttrici didattiche che, pur distinte sul piano logico, non devono contrapporsi, ma piuttosto integrarsi nel quadro metodologico che intendiamo proporre. La prima riguarda l’uso dell’errore come risorsa didattica: non più soltanto in termini di correzione, ma nella sua accezione non rimediabile e dunque inscritta nella dimensione della temporalità tipica del linguaggio musicale, capace di trasformarsi in sfida e stimolo per lo studente. La seconda invita invece a stemperare la rigidità del binomio “giusto/sbagliato” nelle arti e nella musica, integrando un paradigma interpretativo più aperto, capace di valorizzare le individualità dei discenti e le molteplici forme di espressione creativa. Entrambe le accezioni si offrono come palestra metacognitiva per riflettere non solo sul prodotto finale ma sul processo stesso, in linea con le competenze trasversali che orientano l’educazione contemporanea (Lamanna, 2020). Strategie come l’improvvisazione, la composizione collettiva o l’esplorazione sonora si rivelano strumenti privilegiati, integrando il concetto di productive failure di Manu Kapur, che propone di impostare intenzionalmente situazioni di fallimento iniziale

per favorire un apprendimento profondo e duraturo. Come ad esempio in attività dove gli allievi affrontano composizioni complesse senza guida preliminare, consolidandosi poi attraverso una riflessione mediata, approccio che può contribuire a mitigare il rischio di irrigidire l’istinto esecutivo e creativo (Kapur, 2024). Un esempio illuminante è il case study di Jennifer Blackwell: l’insegnante trasforma l’imprecisione in «just information» e ricorda agli studenti che «mistakes are just a way to learn where we need to grow», valorizzandolo dunque come indicatore di crescita e non come marchio di fallimento (Blackwell, 2022).

Tuttavia, l’elogio dell’errore non deve trasformarsi in permissività indiscriminata: la musica richiede rigore per dispiegarsi compiutamente, ma proprio per questo la riduzione della paura di sbagliare, per i novizi ma non solo, può preparare il terreno a un potenziale formativo straordinario.

In questo senso, il paradigma OPERA di Patel (2011) – Overlap, Precision, Emotion, Repetition, Attention – svela come la pratica musicale favorisca la plasticità cerebrale. In particolare, la dimensione della precisione e quella dell’attenzione implicano un costante confronto con la fallibilità e con la necessità di considerarla, rivelando come l’esposizione controllata all’errore, unita a una pratica rigorosa, possa rafforzare e riorganizzare le connessioni neurali, favorendo un apprendimento profondo. Per la seconda direttrice – quella che problematizza il binomio “giusto/sbagliato” – proponiamo qui una lettura pedagogica del circuito comunicativo di Nattiez (1987). In questo quadro, l’interazione musicale si fonda sulla dialettica tra autore/ esecutore, da un lato, e fruitore, dall’altro, i cui ruoli si intrecciano intorno a un livello neutro coincidente con l’opera stessa. Nell’autore/esecutore si sviluppa un processo poietico, volto a dare forma all’oggetto artistico; il fruitore, invece, attiva un processo estesico che non si limita alla ricezione passiva del prodotto, ma apre alla possibilità di una sua ricreazione: una sorta di contropoiesi che si traduce in ciascuna possibile interpretazione innescata dall’ascolto, anche in aperto contrasto con le volontà dell’autore.

In altre parole, il fruitore non subisce passivamente l’opera musicale ma vi proietta significati personali e assolutamente legittimi, anche molto differenti da quelli ipotizzati dall’autore, rivitalizzandola e riattualizzandola attraverso le diverse possibilità ermeneutiche offerte dal contesto e dall’opera stessa, modulata pure per mezzo di un’esecuzione che è a sua volta portatrice di ulteriori interpretanti possibili (Piricò, 2018; Volli, 2008). Questo principio, pertanto, contribuisce quantomeno a edulcorare il processo di attribuzione di conformità o inosservanza di un dettame interpretativo, ritenuto magari irrefutabile dalla tradizione.

Ma consideriamo anche la prospettiva della musicoterapia: qui la “macchia” sonora si dissolve, perché la musica non è misura di performance né di correttezza estetica, bensì spazio espressivo e relazionale in cui ogni suono è legittimo in quanto portatore di senso e di vissuto. Non esiste la “nota sbagliata”, ma la traccia sonora di un’emozione che trova voce. Questa derubricazione della categoria di imprecisione formale, attestata dalla letteratura musicoterapica (Bunt & Stige, 2014), rivela la sua natura convenzionale e suggerisce alla didattica la necessità di spazi che, accanto al rispetto esecutivo, valorizzino espressione e benessere come dimensioni inscindibili dell’esperienza musicale.

Dialogo con le altre

arti

L’errore musicale, lungi dall’essere un isolato accidente sonoro, dialoga in modo fecondo con le altre arti, tessendo un arazzo di pattern trasversali che arricchiscono la pedagogia interdisciplinare offrendo rimandi analogici e simbolici. In pittura, la casualità controllata dei dripping di Pollock o le asimmetrie programmate di Klee mostrano come l’imprevisto possa farsi cifra stilistica, elevando lo scarto rispetto alla norma a principio creativo. In letteratura, i lapsus freudiani o le “belle infedeltà”

della traduzione – come ricordava Eco – aprono spiragli di senso plurivoci, mentre l’ellissi poetica, con la parola apparentemente “stonata”, dischiude abissi semantici profondi, come nelle liriche di Montale. Nel cinema, la tensione tra perfezione tecnica e residui impercettibili – dal piano sequenza wellesiano all’estetica del cinéma vérité – trasforma la minima incrinatura in segno di autenticità. Questo intreccio invita a concepire laboratori didattici ibridi, in cui l’errore sonoro incontra il visivo o il narrativo, nutrendo un approccio olistico che stimola la complessità cognitiva, emotiva e immaginativa dell’allievo e amplifica la comprensione dell’arte nella sua totalità.

L’etica dell’errore: cura, accoglienza, possibilità

Se l’errore si configura come apertura a possibilità inattese o a più feconde sintonie educative, un potenziale che si rivela nella deviazione, diviene imperativo interrogarsi su come accoglierlo senza il fardello della vergogna o della paura, specialmente in musica, dove la dimensione pubblica e corporea rende ogni inciampo immediatamente esposto: immaginiamo un bambino che stecca una nota davanti a un pubblico di pari, un adolescente che

filosofia e pedagogia dell ʹ errore musicale

↑ (© iStockphoto).

Approfondire

• P. Ball, The Music Instinct: How Music Works and Why We Canʹt Do Without It, Oxford University Press, Oxford 2010.

• M. Biasutti, Elementi di didattica della musica. Strumenti per la scuola dell’infanzia e primaria, Carocci, Roma 2015.

• J. Blackwell, “Mistakes are just information”: A case study of a highly successful violin pedagogue, in «International Journal of Music Education», 40(1), 2022, pp. 78-89.

•M.E. Bonds, Absolute Music: The History of an Idea, Oxford University Press, Oxford 2014.

• E. Bottero, Educazione musicale. Orientamenti, proposte didattiche, curricoli dalla scuola dell’infanzia alla media inferiore, FrancoAngeli, Milano 2004.

• L. Bunt, B. Stige, Music Therapy: An Art Beyond Words (2nd ed.), Routledge, London 2014.

• D. Huron, Sweet Anticipation: Music and the Psychology of Expectation, MIT Press, Cambridge 2006.

• M. Kapur, Productive Failure: Unlocking Deeper Learning Through the Science of Failing, Wiley, Hoboken 2024.

• N. Irie, Y. Morijiri, M. Yoshie, Symptoms of and coping strategies for music performance anxiety through different time periods, in «Frontiers in Psychology», 14, 2023, https://doi. org/10.3389/fpsyg.2023.1138922.

• M. Lamanna, Musica e linguaggio: sviluppare competenze comunicative attraverso la musica, in S. Ferrarese (a cura di), Didattica della musica. Fare e insegnare musica nella scuola di oggi, Mondadori Università, Milano 2020, pp. 202-248.

•E. Morin, Scienza con coscienza, a cura di P. Quattrocchi, FrancoAngeli, Milano 1987.

•J.-J. Nattiez, Musicologia generale e semiologia, trad. it di F. Magnani, EDT, Torino 1987.

• A. D. Patel, Language, music, and the brain: A resource-sharing framework, in P. Rebuschat et al. (a cura di), Language and Music as Cognitive Systems, Oxford University Press, Oxford 2011.

• M. L. Piricò, Diabolus in musica. L’errore come sfida e come risorsa per un apprendimento autentico, in «Scuola ticinese» 333, 2018, pp. 37-42, consultabile all’indirizzo https://aris. supsi.ch/entities/publication/db201a1b-9e45-4e56-ab6e-d08176d4a66a.

•A. M. Proverbio, Neuroscienze cognitive della musica. Il cervello musicale tra arte e scienza, Zanichelli, Bologna 2019.

• U. Volli, Manuale di semiotica, Laterza, Roma-Bari 2008.

si blocca in un assolo vocale, o un adulto professionista che dimentica un passaggio in concerto. In ciascuno di questi momenti, accanto al suono distorto, emerge la vulnerabilità dell’esposizione, eco di una fragilità profondamente umana. Compito etico dell’educazione è allora predisporre contesti protetti in cui gli errori non vengano percepiti come colpa o disonore, invitando a riprovare con fiducia, ad esempio ricalibrando le proprie attese su concezioni più tolleranti dell’errore (Irie, Morijiri, & Yoshie, 2023). Risuona qui Hannah Arendt, che in La condizione umana ricorda la precarietà dell’agire umano e la funzione del perdono e della promessa nel trasformare la caduta in crescita condivisa. Significa quindi garantire la dignità dell’apprendente, evitando che gli errori si incistino in una memoria di paura e sfiducia, generando rigidità e rinuncia, scorgendo invece nellʹerrore una promessa di crescita formativa. Se in ambito concertistico questa prospettiva può apparire utopica, nei contesti educativi – e anche in quelli accademici – resta un orizzonte che merita di essere perseguito.

Conclusione

Richiamando Morin, l’imprecisione segna il passaggio da una logica tautologica, fondata su sillogismi rigidi e deduzioni lineari, a una logica organizzativa-abduttiva che «progredisce attraverso l’erranza e l’errore, fa dei salti a partire dai quali appaiono nuovi sviluppi, perfino nuove strutture organizzative» (Morin, 1987). Da qui l’invito a un’educazione musicale che non si limiti a correggere l’inesattezza, ma lo assuma come parte essenziale del processo formativo, emancipando l’allievo in un paradigma di competenza che richiede apertura mentale e disponibilità ad abitare la complessità. Questo equilibrio tra rigore e libertà, reso possibile da approcci che mirano a dissipare le paure, consente agli studenti di accedere a possibilità formative preziose (Biasutti, 2015), trasformando l’errore in occasione di crescita strutturata. In un orizzonte performativo che spesso persegue l’eccellenza a tutti i costi, accogliere l’errore, metaforicamente il diabolus in musica,significa innovare la didattica con coraggio e restituire all’apprendimento la sua natura più autentica: un’arte di abitare l’imperfezione come varco verso il possibile.

Matteo Luigi Piricò

è professore associato in Didattica generale e Didattica della musica alla SUPSI, Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, Dipartimento formazione e apprendimento / Alta scuola pedagogica.

Errori e filologia

Oltre il refuso: lungi dall’essere semplici sviste, gli errori svelano i processi di trasmissione testuale e le dinamiche culturali che plasmano i testi. Un invito a coltivare un approccio critico che riconosca la storicità del testo e il ruolo attivo del lettore nella sua interpretazione.

di Matteo Largaiolli

Quando copiamo un testo, è quasi inevitabile introdurre qualche modifica rispetto all’originale. Le ragioni possono essere molte: una lettura frettolosa, una parola travisata, la tendenza a scrivere ciò che pensiamo invece di ciò che leggiamo, o il suo contrario, come bianco anziché nero. Oppure, distrazioni che ci portano a ripetere o dimenticare una sillaba, saltare un sintagma o una riga. Lo stesso accade quando siamo dall’altro lato della pagina: leggendo un giornale,un libro,un sito web,è facile imbattersi in quei piccoli errori che chiamiamo “refusi”. Di solito, li correggiamo mentalmente senza troppa fatica, e anzi, a volte, sfuggono alla nostra attenzione. Se leggo, per esempio, “senza il mimo dubbio”, un’istintiva competenza filologica mi fa capire che in realtà il testo intendeva dire: “senza il minimo dubbio”. Alcune condizioni rendono l’errore più probabile: la lunghezza del testo, la stanchezza di chi copia, la poca familiarità con la lingua o con l’argomento. E se il testo di partenza contiene già degli errori, è probabile che chi copia non li noti e li trasmetta – e ne introduca di nuovi. Così, di copia in copia, gli errori si accumulano e si stratificano.

Tradizione e innovazioni

Il lavoro del filologo parte da questa situazione1 Nel tentativo di ricostruire un testo, secondo il metodo stemmatico – che è spesso indicato, con una semplificazione, come “di Lachmann” – il concetto di errore assume un ruolo centrale. Il lavoro di edizione mira a ricostruire la storia della trasmissione di un testo. Punto di partenza è l’analisi di tutti i testimoni noti di un testo, cioè di tutti i documenti materiali che lo tramandano: manoscritti, edizioni a stampa, e oggi, anche se sono un po’ meno “materialmente” presenti, i file

digitali. Questi documenti possono essere molto diversi, per qualità e quantità. Alcuni testi sono giunti in un solo o in pochi testimoni; altri, come la Commedia di Dante, in centinaia.Alcuni sono trascritti da copisti distratti o inclini a modificare il testo; altri sono autografi o controllati dall’autore, e così via. Dalla lettura e, quando è possibile, dal confronto di questi testimoni si riescono di solito a individuare degli errori.Proprio sulla base di questi errori, il filologo cerca di ricostruire i rapporti tra i testimoni che ci sono arrivati.

Ogni copia, infatti, porta con sé delle innovazioni. Gli errori sono come delle “tare genetiche”: nel processo di copiatura si possono trasmettere da un testimone all’altro, diventando segni riconoscibili di una parentela (non sempre: alcuni restano isolati in un testimone). È un aspetto interessante, dal punto di vista della conoscenza: i luoghi in cui il testo è “corretto”, privo di errore, non ci dicono nulla sulle relazioni tra i testimoni. Al contrario, è nei punti in cui emerge l’errore che suona il campanello d’allarme: sono gli errori gli indizi che permettono di capire quello che è successo,che aprono uno spiraglio sulla storia della trasmissione.

Usare gli errori

Non tutti gli errori, tuttavia, hanno lo stesso valore, e non tutti sono funzionali al lavoro filologico. Errori banali, che possono essere facilmente corretti o che più copisti possono commettere indipendentemente, non offrono appigli per la ricostruzione. Solo quelli “significativi”, gli “errori-guida”, possono dare informazioni sul processo di copia e tracciare le linee della tradizione. Alcuni accomunano due o più testimoni; altri ne separano uno dagli altri. Semplificando di molto, si può dire che la filologia procede con un metodo logico, quasi poliziesco2. In alcuni casi, gli indizi sono in positivo: quando uno stesso errore si ritrova in due o

più testimoni,e non sembra plausibile che sia stato commesso da più copisti indipendentemente, si può dedurre che quei testimoni siano collegati tra loro: ad esempio, che uno sia stato copiato dall’altro,o che entrambi derivino da un unico testimone. In altri casi si deve invece ragionare al contrario: se un errore compare in un testimone e manca in un altro, si può ritenere, in certe circostanze, che questo testimone “pulito”, senza errore, non discenda direttamente dal primo, perché se derivasse da quello, avrebbe ereditato anche l’errore. Perché questo sia vero, l’errore deve essere un po’ insidioso, difficile da correggere: se l’errore è evidente, un copista attento può sanarlo facilmente (ad esempio, correggendo “senza il mimo dubbio” in “senza il minimo dubbio”)3

Definire l’errore

Se è relativamente semplice pensare in modo intuitivo che cosa sia un errore, definirlo e decidere di essere di fronte a un errore, non è sempre facile. Alcune indicazioni al riguardo, ad esempio, ci dicono che l’autore «non può avere scritto una cosa apertamente assurda e contraria alla logica e al buon senso» e che «non può, in linea di principio, avere scritto una frase che violi le leggi della lingua che parlava»4. In alcuni casi la valutazione è relativamente sicura: se in Dante incontriamo un endecasillabo metricamente sbagliato, è molto probabile (possiamo dire: “certo”) che l’errore non sia di Dante,ma del copista.L’esperienza sul campo, inoltre, ha permesso di elaborare una tipologia di errori comuni (dittologie, aplografie, salto da uguale a uguale, lapsus e così via) con indicazioni sul loro valore filologico, che orientano la valutazione. Il procedimento filologico è complesso e richiede competenze in molti campi: anche per dare un giudizio sull’errore è necessario fare ricorso a paleografia, storia della stampa, storia della lingua e della letteratura, storia culturale. Alla fine, il giudizio resta in capo al filologo e «risulta quindi inevitabilmente (e pericolosamente) soggettivo»5, tanto è vero che diverse edizioni possono individuare o valutare gli errori in modo diverso. È questo un altro dei requisiti della filologia: l’assunzione di responsabilità di fronte alle proprie scelte.

Errori e varianti

Il quadro è ulteriormente complicato perché in filologia non ci sono soltanto gli errori, ma anche le varianti. In linea teorica, tutto quello che si trova in un testimone e non è stato scritto dall’autore è una innovazione,e può essere considerato un errore.C’è però una distinzione un po’ più sottile: «L’errore è una lezione che rende inaccettabile un passo nella sostanza o nella forma; le varianti sono lezioni alternative, tutte in linea di principio accettabili,

anche se, in genere, non tutte allo stesso modo e allo stesso grado»6. Se l’errore intacca effettivamente il testo, la variante no. In questo senso molto specifico – di varianti intese come «deviazioni dall’originale o dall’esemplare che non infirmano la correttezza formale del dettato»7 – si ammette che la variante «non è un errore, perché non guasta il testo»8. Da un’analisi serrata, dalla valutazione di tutti gli errori che è riuscito a trovare, il filologo, alla fine, propone un’ipotesi per spiegare come sia stato trasmesso il testo, l’albero genealogico che descriva la sua tradizione. Sulla base di questa ricostruzione, elaborata a partire dagli errori, potrà poi decidere che cosa pubblicare, scegliendo la lezione da mettere a testo tra le “varianti” che non sono “errori”, e che restano in sospeso, in attesa della sua valutazione9.

Filologia a scuola

Antologie e manuali scolastici, giustamente, non propongono edizioni critiche, con le note che spiegano gli errori e con gli apparati di varianti. Però, la filologia intesa non soltanto come disciplina settoriale, ma come attitudine all’analisi, può trovare spazio anche nella didattica del testo letterario. Non si tratta di trasmettere un repertorio di tecniche, che raggiungono livelli di alta formalizzazione, quanto piuttosto di favorire un habitus critico, un atteggiamento di consapevolezza: un approccio che rivela una sensibilità recente per la filologia integrata nella didattica, e che si ritrova ad esempio nelle riflessioni di filologi come Giuseppe Noto e Pasquale Stoppelli10

Introdurre in classe concetti complessi, che se vengono semplificati rischiano di essere fuorvianti non è immediato. Tuttavia, un’alfabetizzazione filologica di base può rivelarsi utile come orientamento alla lettura consapevole. Rendere familiari a una classe minimi spunti filologici consente infatti di aprire nuove possibilità di discussione critica. Così, leggendo l’Inferno, al canto VIII, 63, in presenza di Filippo Argenti, il «fiorentino spirito bizzarro» che «in sé medesmo si volgea coi denti», alcuni codici, anziché volgea, leggono mordea: Dante avrà scritto l’una o l’altra lezione, mentre l’alternativa si è prodotta nel tempo – e si ritiene, per lo più, che mordea sia probabilmente una «glossa passata a testo»11. In altri casi, quale sia l’errore e quale la lezione “giusta”, resta una questione più aperta e discussa: ma anche questa è interpretazione.

Il valore dell’errore

Capiamo così che il testo che leggiamo non è un monumento immutabile, bensì il prodotto di una storia, e che è determinato dalle persone che l’hanno letto e copiato, oltre che dalle scelte operate da chi l’ha allestito. L’interpretazione stessa è un’i-

potesi, e in quanto tale deve essere argomentata e fondata su dati ricostruibili. Per questo, la filologia ha sviluppato definizioni e categorie capaci di offrire strumenti di ordine e interpretazione anche per indagare l’errore: comprenderne le forme e le funzioni in prospettiva ecdotica significa interrogarsi su che cosa esso sia, sul ruolo che svolge nella trasmissione dei testi e nella ricerca. L’edizione critica, infatti, nasce da scelte ragionate e giustificate, che mirano a restituire un testo nella forma ritenuta più autentica, uscita dalla penna dell’autore. D’altro canto, una volta pubblicato, un testo così stabilito acquista autorevolezza, ma rischia, al tempo stesso, di far dimenticare tutto ciò che lo circonda: gli errori, le varianti non accettate. La filologia, e con essa la scoperta dell’errore, insegna a riconoscere la centralità e la storicità del testo12, ma anche dell’edizione, e dunque del modo in cui noi, oggi, lo leggiamo. È un esercizio di «acquisizione di competenza storico-culturale» che affina la capacità di mettere in relazione i dati, di comprendere i processi di ricezione dei testi (i meccanismi di trasmissione, ma anche le alterazioni intervenute nel tempo), di migliorare l’interpretazione13 e in generale di essere consapevoli delle criticità, delle difficoltà che presenta. In questo senso, acquista valore euristico anche l’errore, che ha sempre una motivazione che deve essere capita.

Tutti fanno errori

Vi è infine un aspetto ulteriore che riguarda l’errore: anche l’autore può sbagliare. Si parla allora di “errore d’autore”.Esempi noti sono Machiavelli che cita a memoria Dante, o Montale che nell’Elegia di Pico Farnese (Le occasioni, 1939) per indicare i cachi usa la parola diàsperi anziché la corretta diòsperi14 . Sul piano filologico, oggi si distingue: se un errore è un mero errore di copiatura, come spesso si trova in Boccaccio copista di sé stesso, si può decidere di intervenire e correggere. Ma se il testo rivela un problema che va più in profondità – un difetto di conoscenza o di memoria dell’autore – il filologo lo riconosce, lo segnala, ma non lo corregge, perché quell’errore è parte del testo e della sua storia. Questa prospettiva trasmette un messaggio didatticamente rilevante: ci dice che tutti sbagliano, anche i poeti, i filosofi, e, probabilmente, anche i filologi. E ci dice che la coscienza dell’errore e il riconoscimento della natura ipotetica di ogni valutazione critica invitano alla cautela, al coraggio delle scelte e all’assunzione di responsabilità.

NOTE

1. Per un’introduzione alla filologia ci sono molti ottimi manuali: vedi ad es. A. Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, Sesta edizione, il Mulino, Bologna 2025; B. Bentivogli, F. Florimbii, P. Vecchi Galli, Filologia italiana,

Seconda edizione, Pearson, Milano-Torino 2021; e il collettivo Filologia della letteratura italiana, a c. di G. Ruozzi, G. Tellini, Le Monnier università, Firenze 2024.

2. Paolo di Stefano ha messo in atto proprio la logica filologica nei gialli che ha firmato con lo pseudonimo di Nino Motta, La parrucchiera di Pizzuta (2017) e Ragazze troppo curiose (2022). Osservazioni al riguardo anche in C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1986, pp. 158-209.

3. Nella pratica questi due principi (gli errori congiuntivi e gli errori separativi) coesistono; uno stesso errore può essere congiuntivo per due (o più) testimoni, e separativo per altri.

4. F. Ageno, L’edizione critica dei testi volgari, Antenore, Padova 1975, pp. 51-59; vedi anche A. Balduino, Manuale di filologia italiana, Sansoni, Firenze 2001, pp. 136-144.

5. A. Varvaro, Prima lezione di filologia, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 78-79.

6.F.Bausi,La filologia italiana,il Mulino,Bologna 2022,p.32.

7. d’A. S. Avalle, Principî di critica testuale, Antenore, Padova 1978, p. 43.

8. Bausi, La filologia italiana, p. 43; la questione è molto complessa e ben descritta da Bausi, a cui si rinvia.

9. La scelta segue criteri consolidati ben descritti in tutti i manuali, anche per l’allestimento dell’apparato che rende conto della selezione operata in sede di costituzione del testo.

10. G. Noto, Filologia e sistema formativo nella contemporaneità, in «Critica del testo», 23 (2020), pp. 57-71 e Competenze filologiche nella scuola e per la scuola , in «Radici digitali» (2021), consultabile all’indirizzo https://radicidigitali.eu/2021/04/30/competenze-filologiche-nella-scuola-e-per-la-scuola/; P. Stoppelli, La filologia a scuola. Per una didattica filologica della letteratura, in Id., L’arte del filologo, a c. di A. Carocci e V. Guarna, Viella, Roma 2024, pp. 115-128. Rispondono a questa sensibilità anche le attività della sezione Didattica della SFLI-Società dei filologi della letteratura italiana: http://www.sfli.it/sfli-didattica/.

11. D. Alighieri, Commedia. Inferno, vol. I. Edizione critica a c. di E. Tonello, P. Trovato, Libreriauniversitaria, Limena (PD), 2022, p. 84.

12. Si veda Stoppelli, La filologia a scuola cit. 13. Cfr. Noto, Competenze filologiche cit.

14. Vedi ad es. Bausi, La filologia italiana cit., pp. 34-39. Un bel contributo sull’errore d’autore è C. Lagomarsini, Il testo come un noir. Sul tabù degli errori d’autore, consultabile in https://claudiogiunta.it/2013/11/il-testo-come-un-noir-sul-tabu-degli-errori-dautore/.

Matteo Largaiolli

è ricercatore a tempo determinato in Linguistica italiana alla Libera Università di Bolzano. Si è occupato di testi popolari e autori del Quattro- e Cinquecento (Marco Businello, Calmeta, Minturno), di lingua politica del Novecento, di didattica della letteratura. Ha collaborato al manuale delle scuole superiori a cura di Claudio Giunta, Cuori intelligenti.

Errare Romanum est (ma non solo)

Un breve, asistematico viaggio attraverso alcune manifestazioni di errore del mondo romano: due di ambito letterario, una di ambito epigrafico.

Cosa significava davvero sbagliare per un romano? In questo breve excursus proverò a mostrare come il concetto di error si declinasse in una varietà di sfumature, dall’involontaria svista all’azione deliberata, e diverse fossero le conseguenze dell’errore, sia sul piano personale sia su quello sociale e politico. Innanzitutto, vediamo cosa diceva la legge.

Il diritto romano e l’errore

Il diritto romano si serviva di termini diversi per indicare un’azione commessa al di fuori del perimetro della correttezza o della legalità1.

A livello più basso troviamo infatti l’error, che si collega all’etimologia del verbo errare (cioè «sbandare, vagabondare»); si presume dunque che chi commetta questo «errore» lo faccia involontariamente, magari per una scarsa conoscenza del contesto in cui agisce. L’error può comunque provocare la nullità di atti giuridicamente rilevanti, e accresce la sua gravità qualora si tratti di error iuris, cioè di un’inammissibile «ignoranza della legge».

raggiri e artifici, di un soggetto nei confronti di un altro.

Quando poi l’illiceità dei comportamenti diventa lesiva degli interessi della comunità si parla apertamente di crimen, che in latino può avere il doppio significato di «crimine» e di «accusa»; a questo si affianca scelus, termine di origine religiosa che – pur non avendo un significato tecnico – evoca anche un’infrazione della volontà divina2

Ovidio: l’errore produce poesia

Non mi sarei addentrato in tecnicismi giuridici se non mi avesse spinto a farlo l’uso ripetuto di molte di queste parole (error, crimen, culpa, scelus) nella produzione poetica di Ovidio (43 a.C. – 18 d.C.) successiva alla sua relegatio a Tomi, sul Mar Nero, nell’8 d.C., cioè i Tristia e le Epistulae ex Ponto

Fin troppo noti, infatti, sono i versi ( Tristia 2, vv. 207 ss.) con i quali prova a spiegare ai lettori le ragioni del suo esilio voluto da Augusto:

↑ Ritratto immaginario di Ovidio, incisione settecentesca (Wikipedia).

È invece evidente la responsabilità di chi commette un’azione riprovevole se si usano altri due termini, cioè culpa e dolus. I giuristi definiscono la culpa «un comportamento volontario tenuto in spregio delle elementari norme di diligenza, prudenza e perizia», specificando gli ambiti nei quali può manifestarsi. Non troppo diverso (ci sono infatti parziali sovrapposizioni semantiche) è poi dolus, termine che – se seguito dall’aggettivo malus – descrive un comportamento malizioso, fatto di

Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error, / alterius facti culpa silenda mihi: / nam non sum tanti, renovem ut tua vulnera, Caesar, / quem nimio plus est indoluisse semel.

[Poiché due colpe mi hanno rovinato, la poesia e un errore, deve essere da me taciuta la seconda accusa: non sono capace di riaprire le tue ferite, o Cesare; è già troppo che tu abbia provato dolore una volta]. (trad. A. Della Casa).3

Il poeta sente il peso delle accuse del princeps nei suoi confronti, e in primo luogo denuncia un

carmen che lo avrebbe rovinato: si tratta dell’Ars amatoria («Arte di amare»), un poemetto edito tra l’1 a.C. e l’1 d.C. che lo storico Lorenzo Braccesi ha definito «contro la morale in quanto morale di regime»4. Era ovvio che l’imperatore che con le sue leggi (come la Lex Iulia de adulteriis coercendis, emanata tra il 18 e il 16 a.C.) aveva sottratto l’adulterio femminile alla sfera privata trasformandolo in un reato non avrebbe gradito un carmen che esaltasse esplicitamente il reciproco corteggiamento tra i due sessi; eppure Ovidio – forte delle sue buone amicizie a corte o forse considerando l’arte una sorta di “zona franca” – non si lasciò intimidire dal moralismo imperante. E non vi è dubbio che questa fu una culpa, poiché è del poeta la responsabilità oggettiva di temi e toni dei suoi versi.

C’è poi l’error, che – afferma Ovidio (qui e altrove) – è bene non rivelare. È impossibile qui ricordare tutte le ipotesi formulate in merito dagli studiosi5, anche se è probabile che il poeta sia stato spettatore (o protagonista?) di qualche scandalo di corte. Egli infatti era stato amico (amante?) di Giulia, figlia di Augusto, già relegata a Ventotene nel 2 a.C. con accuse di adulterio; ed era forse al corrente di una relazione adulterina della omonima figlia di lei – Giulia minore – che il nonno confinò alle Tremiti nel 9 d.C., un anno dopo Ovidio.

Il poeta di Sulmona già aveva, nei versi precedenti, alluso all’involontarietà di quell’errore, frutto di imprudenza e non di dolo; e qualcosa ha visto che non avrebbe dovuto vedere, come già capitò al povero Atteone:

Perché ho guardato? Perché ho reso colpevoli gli occhi? Perché nella mia imprudenza ho percepito una colpa? Atteone vide involontariamente Diana spogliata delle sue vesti: fu preda ciò nondimeno dei suoi cani. (Tristia 2,vv.105 ss.,trad.A.Della Casa)

Così la sua esperienza individuale assurge, attraverso il paragone con il mito, a una dimensione universale ed eterna, ulteriormente accentuata dalla genericità e reticenza – quasi misteriosità - delle sue parole. Pertanto, come ha scritto assai bene Nicola Gardini:

nelle elegie dell’esilio la poetica dell’error […] diventa un’altra declinazione dell’incertezza, una sorta di tabù, l’indicibile per eccellenza che, sembrando inteso a proteggere la sensibilità già maltrattata del principe o anche assolvere il poeta per lo spazio di una temporanea sospensione, assegna allo stesso poeta il privilegio di un segreto supremo, e ne conferma, alla fine, la vocazione dissidente e inconciliante. […] L’omertà gli conferisce potere; e ricatta l’altro potere, quello del principe.6

Insomma, come già è avvenuto per la rischiosa scelta di scrivere l’Ars amatoria, anche questi crip -

tici avvertimenti al principe (che sintetizzerei in «guarda che se parlo…») sono costati cari al poeta, il quale non è più tornato a Roma. Sono stati gravi errori, senza dubbio, se li guardiamo dal punto di vista dell’esiliato. Se invece, egoisticamente, li guardiamo con i nostri occhi, potremmo usare per queste azioni l’espressione ossimorica adoperata dai Padri della Chiesa per definire il peccato originale: felix culpa («colpa felice»). Infatti come la trasgressione di Adamo ed Eva ha aperto la strada alla salvifica venuta di Cristo sulla Terra, le trasgressioni ovidiane ci hanno consegnato alcune delle più originali opere della Latinità, che senza errores, culpae, crimina etc. non sarebbero mai venute alla luce.

Seneca e il colpevole errore di Edipo

Senza dubbio la saga di Edipo e dei suoi, soprattutto per merito delle tragedie di Sofocle Edipo re (429 a.C.) e Edipo a Colono (406 a.C.), rappresenta una delle più profonde manifestazioni del mito come «scatola nera dell’umanità», come amava dire il grande Marcel Detienne. È infatti al re tebano che il buon Freud deve gran parte delle sue fortune… I drammi sofoclei, però, sembrano insistere sull’involontarietà e la fatalità degli spaventosi «errori» di Edipo, parricidio e incesto su tutti, i quali sarebbero esito di ἁμαρτία ( amartía, «sbaglio») e non di ἀδίκημα ( adíkema , «azione ingiusta»); nonché proporci il Nostro come esempio di buongoverno: nell’Edipo a Colono, prima di scomparire, egli diventa addirittura il consigliere politico dell’ateniese Teseo.

Non così avviene nel recupero della saga tebana che Seneca (4 a.C. – 65 d.C.) fece secoli dopo soprattutto in due tragedie, l’Oedipus («Edipo») e le Phoenissae («Fenicie»), nelle quali secondo Guido Paduano «la trasgressione di Edipo non registra più la discordanza tra l’innocenza personale e l’inesorabile e intoccabile regime del divino»7 : infatti, come ha mostrato uno studio di Giancarlo Mazzoli, nelle tragedie senecane l’idea di culpa sembra spesso prevalere su quella di error, e anche quest’ultimo concetto si colorisce di profonda negatività8 .

È come se Seneca nelle tragedie abbandonasse quell’indulgenza verso sé stesso e il prossimo propria delle sue opere filosofiche per ripristinare il paradosso attribuito a Zenone di Cizio (IV-III sec. a.C.), fondatore della scuola stoica: omnia peccata paria sunt («tutte le colpe sono pari»)9. Troviamo così un altro termine – cioè peccatum – usato per definire un errore, una mancanza, una colpa non tanto in chiave giuridica quanto in prospettiva etica: ed è per questo che il cristianesimo se ne è appropriato per indicare il «peccato».

Molti attribuiscono questa involuzione senecana al clima sempre più oppressivo del regime neroniano, alla cui costruzione, però, egli stesso

aveva precedentemente contribuito. A mio avviso non sbagliano, perché il concetto di «errore» è indubbiamente condizionato dal contesto storico-politico di un’epoca: così come l’anticonformismo ovidiano era un «errore» davanti al moralismo augusteo, i princìpi filosofici senecani confliggevano ormai con i disvalori della tirannide neroniana, portando Seneca addirittura a una rilettura retrospettiva del mito.

Nessuna indulgenza, dunque, per il parricida Edipo, lontana prefigurazione del matricida Nerone!

Gli errori nelle iscrizioni latine

Dopo l’esilio di Ovidio e le sciagure di Edipo vorrei chiudere con un tocco di leggerezza, parlando degli «errori» – invero frequentissimi – che troviamo nei testi delle iscrizioni latine. Leggerezza, però, accompagnata da un velo di malinconia, pensando a un convegno che il mio compianto Maestro Antonio Sartori organizzò nel 2018 dal titolo L’errore in epigrafia10. Allora parlai degli «errori» (non sempre involontari: dunque spesso culpae?) che gli studiosi nel corso dei secoli hanno commesso trascrivendo e interpretando le epigrafi latine; ora,invece,voglio ricordare come nel mondo romano l’alfabetizzazione incerta e precaria anche dei lapicidi – in certi ambiti, epoche o aree geografiche – fosse causa di numerose imprecisioni fonetiche, morfologiche o sintattiche nei testi epigrafici11. Può comunque darsi che a noi appaia come «errore» qualcosa che tale del tutto forse non era.Ad esempio il frequente scambio tra V e B (bixit per vixit, anzitutto) corrispondeva a varianti di pronuncia locale; oppure l’uso della formula pagana D(is) M(anibus) anche

nelle iscrizioni cristiane era l’esito della trasformazione di quella sigla in una sorta di “logo” funerario, privo di connotazioni religiose: ottimo esempio ne è la stele di Licinia Amias (III sec. d.C.), trovata nei pressi della Necropoli Vaticana, dove l’abbreviazione DM convive con la formula greca ἰχθὺς ζώντων («il pesce dei viventi») – che allude a Cristo – e con i simboli cristiani dei pesci, dell’ancora e della corona12.

Diverso il caso di un’iscrizione bilingue greca e latina da Palermo (CIL 10, 7296 = IG 14, 297 = EDR140617)13, incisa su una tabella marmorea (cm. 15, 5 x 24, 5 x 3), che fungeva da insegna di una bottega lapidaria. Si conserva ora al Museo “A. Salinas”. Questo è il testo greco:

Στῆλαι / ἐνθάδε / τυποῦνται καὶ / χαράσσονται / ναοῖς ἱεροῖς / σὺν ἐνεργείαις / δημοσίαις.

Questa è la sua traduzione in latino:

Tituli / heic / ordinantur et / sculpuntur / aidibus sacreis / cum operum / publicorum. [Qui si compongono e incidono iscrizioni, per edifici sacri e opere pubbliche].

In relazione al testo latino, notiamo alcuni consueti arcaismi (heic = hic, aidibus sacreis = aedibus sacris, qum = cum) che potrebbero essere un vezzo o un uso locale,ma soprattutto un’espressione chiaramente scorretta – un vero «errore» dunque – e cioè il cum con il genitivo presente nella formula cum operum / publicorum

Qualunque docente di liceo userebbe, in questo caso, il matitone blu; evidentemente, invece, in un’area trilingue come la Sicilia (ove si parlava

→ William Turner, Ovidio bandito da Roma (1838), olio su tela, Collezione privata (© Alamy).

greco, latino e punico) la cosa fu tollerata e non si procedette a rettifiche: altro esempio, questo, di quel relativismo nel considerare l’«errore» di cui già si è detto.

Errori contemporanei

Certo, il web allora non esisteva e non aveva ancora esposto alla pubblica riprovazione cartelli stradali come quelli recentissimi (per conoscerne l’ubicazione basta una “googlata”…) che recavano la scritta contrata per «contrada» o che associavano la via Mentana non alla battaglia risorgimentale del 1867 ma al noto giornalista televisivo Enrico. Né è andata molto meglio agli scalpellini che, incidendo la lapide del sepolcro di Papa Francesco, hanno sbagliato la distanza tra le varie lettere; «errore» in verità quasi impercettibile, ma amplificato dall’esposizione mediatica mondiale dovuta alla celebrità del defunto.

Insomma, oggi siamo tutti sotto una costante lente di ingrandimento, anche se noi insegnanti in qualche modo lo siamo da sempre, controllati da vigili occhi e orecchi dei nostri studenti, non meno attenti ai nostri «errori» di quanto non lo siamo noi nel correggere quelli contenuti nei loro compiti. Ma forse, più che «correggere», davanti agli «errori» nostri e altrui sarebbe bene usare il verbo «comprendere», che non significa ignorarli (la o le verità esistono…) ma provare a capirne l’origine e – se necessario – adottare strategie per evitare che si ripetano. Tolleranza illuminata, dunque, verso gli errores, senza considerarli subito culpae, ma deviazioni rispetto al percorso abituale che potrebbero anche aprire nuove strade. D’altronde Voltaire sosteneva che «siamo tutti figli della fragilità: fallibili e inclini all'errore; non resta, dunque, che perdonarci vicendevolmente le nostre follie», e Karl Popper invitava all’intolleranza solo verso chi pensa di non sbagliare mai, cioè gli intolleranti14. Confido allora che la menzione finale di questi due “mostri sacri” porti i lettori a essere indulgenti davanti al mio articolo che, pur muovendo da rigorose premesse giuridiche, è divenuto strada facendo quasi un errare tra un argomento e l’altro. Ennesima dimostrazione, questa – parafrasando un’espressione solitamente attribuita a Sant’Agostino15 – che errare humanum est, non tantum Romanum: diabolicum, infatti, spero proprio di non esserlo stato.

NOTE

1. Utile la consultazione di F. Del Giudice (cur.) Dizionario giuridico romano, Simone editore, Roma 2017: da qui ho tratto alcune definizioni, integrate con i lemmi dei sempre fondamentali Thesaurus Linguae Latinae, Leipzig-München 1900… e Oxford Latin Dictionary , Oxford University Press 1982. Chi volesse approfondire, può farlo attingendo alla vastissima bibliografia romanistica

citata in R. Cardilli, Philip Lotmar e la dottrina dell’errore, in «Tesserae Iuris» 1.1 (2020), pp. 135-151.

2. Per la specificità religiosa di scelus si veda: S. Lazzarini, s.v. scelus, in Enciclopedia virgiliana, IV, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1988, p. 698.

3. La traduzione dei Tristia, qui è dopo, è tratta da Ovidio, Opere vol. 1 (cur. A. Della Casa), Utet, Torino 1982.

4. L. Braccesi, Giulia, la figlia di Augusto, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 107. Il volume contiene un’eccellente ricostruzione delle frequentazioni di corte da parte di Ovidio.

5. Sulla formula carmen et error la bibliografia è sterminata; una buona sintesi in A. Luisi, N.F. Berrino, Carmen et error nel bimillenario dell’esilio di Ovidio, Edipuglia, Bari 2008.

6. N. Gardini, Con Ovidio. La felicità di leggere un classico, Garzanti, Milano 2017, p. 106. Si tratta di una delle più originali pubblicazioni dedicate al poeta di Sulmona.

7. G. Paduano, Edipo. Storia di un mito, Carocci, Roma 2012, p. 88. Il libro rappresenta un fondamentale strumento per la comprensione della saga di Edipo.

8. G. Mazzoli, Error e culpa nelle tragedie di Seneca, in «Aevum Antiquum» N.S.10 (2010), pp. 321-331.

9. Su questo concetto: F.R. Berno, Omnia peccata paria. Intorno a un paradosso stoico tra Cicerone, Seneca, Petronio, in «Ormos» 9 (2017), pp. 499-517.

10. Gli atti sono editi in A. Sartori, F. Gallo (curr.), L’errore in epigrafia, collana «Ambrosiana Graecolatina», Milano 2019.

11.AE 1997, 166 = AE 1999, 247 = AE 2000, 186; si conserva al Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

12. Sull’alfabetizzazione nella Roma antica ho scritto in M. Reali, Leggere e scrivere nella Roma antica, in «La ricerca» 28 (2025), pp. 26-30, utile spec. per la bibliografia.

13. Sul possibile utilizzo didattico di questa iscrizione si veda: M. Reali, G. Turazza, Parole di pietra: epigrafia e didattica del Latino, in A. Balbo, M. Ricucci, Prospettive per l’insegnamento del Latino , «Quaderni della Ricerca», 16 (2015), pp. 55-57.

14. Voltaire affermò queste idee spec. nel Trattato sulla tolleranza, edito nel 1763; Popper invece sostenne il «paradosso della tolleranza» nel suo La società aperta e i suoi nemici, pubblicato nel 1945. Troviamo un’assai più recente rivalutazione dell’errore come «allegra celebrazione della nostra umanità» in G. Carofiglio, Elogio dell’ignoranza e dell’errore, Einaudi, Torino 2024.

15. In realtà l’espressione Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere (Agostino, Sermones, 164, 14) riprende formule già usate – tra gli altri – da Cicerone, Seneca e San Gerolamo.

Mauro Reali

docente di liceo, dottore di ricerca in Storia Antica, è autore di testi Lœscher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e direttore responsabile de «La ricerca».

Fail fast!

La cultura del fallimento nella Silicon Valley.

Oggi negli Stati Uniti è comune imbattersi in poster e slogan che celebrano il principio del fail fast, un approccio diffuso soprattutto nell’ambiente delle startup. L’idea è quella di sperimentare rapidamente, accettando l’errore come tappa inevitabile del processo creativo: fallire in fretta permette di imparare in fretta. Questa visione positiva del fallimento, che lo interpreta come fonte di apprendimento e innovazione, è diventata parte integrante della cultura americana contemporanea. Si tratta però di una conquista recente, legata all’evoluzione del capitalismo e a un profondo mutamento nella percezione sociale dell’insuccesso.

Lo storico Scott A. Sandage, nel volume Born Losers: A History of Failure in America (2005), ha mostrato come tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il fallimento fosse percepito come una vera e propria colpa morale. Agenzie private come Dun & Bradstreet, antesignane delle moderne società di rating, non si limitavano a valutare la solidità economica delle imprese: raccoglievano informazioni dettagliate anche sulla condotta personale dei debitori, redigendo vere e proprie “pagelle morali”. Chi non riusciva a restituire un prestito non veniva considerato soltanto un cattivo imprenditore, ma un individuo privo di carattere e integrità.

Sandage cita numerose lettere inviate a John D. Rockefeller da debitori in rovina, nelle quali emergeva la dimensione emotiva e sociale del fallimento. Molti non chiedevano semplicemente aiuto economico, ma cercavano di difendere la propria rispettabilità.Temendo l’emarginazione, spiegavano che le loro difficoltà non erano dovute a disonestà o incompetenza, ma alla sfortuna o a circostanze fuori dal loro controllo. In una società fondata sull’etica protestante del lavoro e sull’idea di responsabilità individuale, fallire significava essere giudicati come moralmente difettosi, incapaci di autodisciplina e indegni di fiducia.

È in questo contesto che si affermò la contrapposizione tra il self-made man,capace di costruire autonomamente il proprio successo grazie a talento e intrapren-

Nel 1912 il Titanic, la celebre “nave inaffondabile”, naufragò durante il suo viaggio inaugurale causando la morte di oltre 1.500 persone. I progettisti avevano usato rivetti di qualità inferiore in alcune parti dello scafo, soprattutto nelle sezioni soggette a forti sollecitazioni, e le lastre di acciaio non erano del tutto adatte a resistere alle basse temperature dell’Atlantico. Inoltre, la suddivisione interna in compartimenti stagni era insufficiente: l’acqua che penetrava in un compartimento si riversava rapidamente in quelli vicini.

È forse questo il caso più celebre fra quelli documentati nel Museo dei fallimenti (vedi articolo a pagina 37), cui sono dedicati tutti i box in questo Dossier. (© iStockphoto).

denza, e il born loser , percepito come destinato a rimanere ai margini della società.Non era un singolo insuccesso a definirlo, ma una condizione permanente di inaffidabilità e mancanza delle virtù ritenute necessarie per emergere. La figura del born loser divenne un archetipo culturale: racconti popolari, articoli di giornale, giudizi delle agenzie commerciali e pratiche sociali diffondevano l’idea che la mancanza di successo derivasse più dal carattere personale che dalle circostanze esterne, fungendo da monito morale e rafforzando le ideologie meritocratiche e le norme sociali.

Il fallimento, dunque, non era solo un evento economico, ma una caduta morale e identitaria.

La Silicon Valley e la cultura del fallimento

Questo rovesciamento di prospettiva gettò le basi per quella che, molti decenni dopo, sarebbe diventata una delle caratteristiche distintive della Silicon Valley, la regione californiana che si impose come epicentro mondiale dell’innovazione tecnologica e dell’imprenditorialità digitale. Qui, dove si concentravano aziende high-tech, incubatori, investitori e professionisti dello sviluppo di nuove tecnologie, l’errore non venne più vissuto come una macchia o una colpa, ma come una tappa necessaria del processo creativo.

Negli anni Novanta prese piede il motto fail fast, fail often (“sbaglia in fretta, sbaglia spesso”), attribuito a Carol Bartz, ex CEO di Yahoo!, che divenne un vero e proprio mantra della cultura imprenditoriale locale. L’invito a fallire rapidamente esprimeva una logica di sperimentazione continua: testare presto e spesso idee e progetti per individuarne i limiti, correggere la rotta e ottimizzare tempo e risorse. In questo approccio, il fallimento cessava di essere la fine di un percorso e diventava

un passaggio operativo verso il miglioramento.

Espressioni come embrace failure (“abbraccia il fallimento”) o learn fast, fail faster (“impara in fretta, sbaglia ancora più velocemente”) contribuirono a costruire un linguaggio comune e un vero e proprio ethos del lavoro, fondato sulla sperimentazione, sulla rapidità e sulla resilienza. Questi slogan non erano semplici formule motivazionali, ma segni di appartenenza a una comunità che condivideva valori e pratiche precise: l’accettazione dell’incertezza, la curiosità verso l’errore e la fiducia nel miglioramento continuo.

Come ogni cultura, anche quella della Silicon Valley assunse una forma materiale, visibile negli oggetti, negli spazi e nei rituali quotidiani. Nei corridoi e negli uffici comparvero poster ironici che ricordavano come gli insuccessi fossero parte integrante del processo creativo; lavagne colme di annotazioni e correzioni documentavano i tentativi precedenti, rendendo visibile la logica dell’apprendimento per iterazioni; stanze dedicate ai prototipi difettosi o ai progetti abortiti raccontavano la storia concreta degli esperimenti falliti. Perfino i gadget aziendali – magliette, tazze, block notes – celebrarono l’errore in chiave ironica, con riferimenti a bug, crash o prototipi malfunzionanti.Tutto contribuiva a materializzare una nuova ideologia del lavoro: quella in cui fallire non significava più perdere, ma partecipare attivamente al ciclo dell’innovazione.

Il mitico garage di

La celebrazione del fallimento e della sperimentazione continua nella Silicon Valley non si limitava a slogan o pratiche di lavoro: come ogni cultura consolidata, essa costruì i propri miti fondativi, narrazioni esemplari capaci di incarnare i

valori e i comportamenti ideali della comunità. Il più celebre di questi miti è quello del garage di Hewlett-Packard, a Palo Alto, considerato la “culla” simbolica della Silicon Valley.

Nel 1938, Bill Hewlett e Dave Packard iniziarono in quel piccolo spazio a progettare strumenti elettronici – oscillatori audio, amplificatori, apparecchi di misura – con risorse limitate e un forte spirito di sperimentazione. Il loro primo prodotto, un oscillatore audio poi utilizzato dalla Disney per il film Fantasia , rappresentò un successo commerciale, perché permise di sincronizzare musica e immagini in modo innovativo.Tuttavia, la strada che condusse a quel risultato fu tutt’altro che lineare: molte idee iniziali non trovarono mercato, diversi prototipi fallirono i test, e alcuni progetti vennero abbandonati perché troppo costosi o difficili da produrre in serie.

Invece di essere nascosti o dimenticati, questi insuccessi divennero parte integrante della narrazione fondativa dell’azienda. Gli errori tecnici permisero di migliorare i materiali, affinare i circuiti, ottimizzare i processi produttivi: il fallimento si trasformò così in un elemento generativo, indispensabile alla costruzione del successo. Il garage, più che un semplice luogo fisico, assunse il valore di simbolo culturale – il laboratorio primordiale in cui l’ingegno, la perseveranza e la libertà di sperimentare diedero origine a un modello imprenditoriale destinato a influenzare generazioni di innovatori.

Gli eroi del fallimento

Dal mito fondativo del garage di Hewlett-Packard alla celebrazione dei suoi protagonisti contemporanei, la Silicon Valley ha continuato a costruire la propria identità attraverso figure simboliche che incarnano la capacità di apprendere dagli errori e

di trasformarli in opportunità. Ogni cultura ha i propri eroi, e nella valle dell’innovazione questo ruolo è occupato da imprenditori come Steve Jobs ed Elon Musk, elevati a icone della resilienza e del rischio calcolato.

Nella biografia di Walter Isaacson (2011) e nel film Steve Jobs di Danny Boyle (2015), il fondatore di Apple è rappresentato non come un imprenditore dal successo lineare, ma come un visionario che ha saputo fallire, cadere e rinascere. Il momento cruciale della sua carriera risale al 1985, quando fu allontanato dalla propria azienda dopo il lancio del Macintosh. Lontano da Apple, Jobs fondò NeXT e acquisì Pixar, due avventure segnate da incertezze e insuccessi iniziali: NeXT non riuscì a imporsi sul mercato, mentre Pixar rischiò più volte il collasso prima del trionfo di Toy Story nel 1995. Eppure, nella narrazione successiva, questi fallimenti vennero reinterpretati come esperienze formative, indispensabili per affinare la visione e la capacità imprenditoriale che avrebbero reso possibile il suo ritorno in Apple e la rinascita dell’azienda.

Un destino analogo, anche se in un contesto più recente, ha assunto la figura di Elon Musk, fondatore di PayPal, SpaceX, Tesla e Neuralink. Nelle sue dichiarazioni pubbliche, Musk ha più volte presentato i fallimenti come tappe necessarie del processo innovativo: dai lanci esplosivi dei primi razzi di SpaceX alle difficoltà produttive e finanziarie dei primi anni di Tesla. Ogni errore, nella sua visione, rappresentava un esperimento utile per individuare difetti strutturali e colmare lacune progettuali. Non a caso, uno dei motti a lui attribuiti sintetizza perfettamente l’etica del fallimento tipica della Silicon Valley: If things are not failing, you are not innovating enough – «Se le cose non stanno fallendo, significa che non stai innovando abbastanza».

Tecnologie fallimentari

L’industria tecnologica è spesso associata a successi rivoluzionari e a invenzioni che hanno cambiato il mondo, ma la storia dell’innovazione è anche costellata di errori, illusioni e clamorosi passi falsi. Persino le aziende più visionarie hanno sperimentato quanto sottile possa essere il confine tra genialità e disastro.

Nel 2012 Google concepì Google Sony, visibile nella immagine soprastante: un telecomando per rivoluzionare l’uso della televisione che divenne il simbolo di un eccesso di complessità. Con i suoi ottantotto pulsanti, sembrava più una tastiera da astronave che un accessorio domestico. L’Apple Vision Pro (2024–2025), presentato come l’inizio dell’“era dello spatial computing”, avrebbe dovuto fondere il mondo reale e quello virtuale in un unico spazio digitale. Invece si trasformò rapidamente in un costoso soprammobile: poche app, un prezzo inaccessibile e utenti delusi che lo lasciarono a prendere polvere.

Motorola Iridium (1998–1999) tentò di creare una rete satellitare globale investendo quasi dieci miliardi di dollari; ma al lancio i telefoni erano già obsoleti, ingombranti e inutilizzabili in città. Dopo solo un anno, il progetto collassò in una delle bancarotte più costose della storia americana. Anche BlackBerry cercò di reagire all’ascesa dell’iPhone con lo Storm (2008), un dispositivo difettoso e instabile che segnò l’inizio della fine per il marchio, un tempo sinonimo di efficienza. Nella robotica sociale, Jibo (2018) e Anki Vector (2019) furono due tra i primi tentativi di portare nelle case robot dotati di personalità e capacità di interazione emotiva. Jibo, sviluppato dall’omonima startup fondata dal MIT Media Lab di Boston, era progettato come un assistente domestico capace di riconoscere i volti, conversare e muoversi con gesti espressivi, quasi umani. Vector, prodotto dall’azienda californiana Anki, univa intelligenza artificiale e gioco: reagiva alla voce, esplorava l’ambiente e mostrava “emozioni” attraverso uno schermo che fungeva da volto. Entrambi promettevano una nuova forma di compagnia domestica, più empatica e interattiva degli assistenti vocali tradizionali, ma il sogno si infranse rapidamente. Costi elevati, funzioni limitate e la difficoltà di mantenere aggiornamenti software sostenibili portarono al fallimento di entrambe le aziende, lasciando molti utenti con un robot muto e “senza vita”.

Quando gli algoritmi sbagliano

Negli ultimi anni l’intelligenza artificiale ha permeato ogni settore, dall’educazione alla sanità, dal commercio alla ricerca scientifica, promettendo innovazione e maggiore efficienza. Tuttavia, numerosi progetti hanno dimostrato che il potenziale dell’IA non sempre si traduce in risultati positivi: alcuni sistemi hanno prodotto errori grotteschi, conseguenze pericolose o paradossali. Molti sono documentati nel Museo dei fallimenti, e qui ne riportiamo solo alcuni.

Google AI Overviews, ad esempio. Era concepito per sintetizzare in modo chiaro e affidabile le informazioni disponibili online, evitando la lettura di articoli lunghi o complessi. In teoria, il sistema avrebbe dovuto leggere, analizzare e condensare grandi quantità di dati, restituendo sintesi utili e precise. Nella pratica, però, produsse consigli assurdi come “mangiare pietre per il fabbisogno minerale” o “aggiungere colla alla pizza”.

Anche nel settore automobilistico e tecnologico le promesse dell’automazione si sono scontrate con la realtà. Tesla Autopilot, presentato come guida autonoma, richiedeva costante supervisione e causò diversi incidenti mortali. Allo stesso modo, i negozi Amazon Just Walk Out, pubblicizzati come completamente privi di cassieri, in realtà si reggevano sul lavoro di oltre mille operatori in India, incaricati di monitorare le transazioni e correggere errori dei sensori.

Anche i sistemi di ordinazione automatica nei drive-thru di McDonald’s sono falliti di fronte a accenti diversi o a richieste complesse.

Gli errori dell’IA si sono manifestati anche in ambito scientifico: nel 2024 la rivista Frontiers in Cell and Developmental Biology pubblicò un articolo scientifico che conteneva immagini generate da IA, ritraenti un ratto con genitali sproporzionati e diagrammi con parole senza senso. Le illustrazioni, create con Midjourney, non avevano alcun fondamento scientifico e furono pubblicate senza adeguati controlli da parte dei revisori. L’articolo fu ritirato subito dopo.

Alcuni fallimenti hanno avuto conseguenze etiche e sociali gravi. Nel 2023, Tessa, chatbot destinato a supportare persone con disturbi alimentari, fornì indicazioni dannose, come ridurre drasticamente le calorie o monitorare ossessivamente il peso corporeo, aggravando le difficoltà degli utenti e portando alla chiusura immediata del progetto.

Riti collettivi: FailCon e Fuckup Nights

Come ogni cultura, anche quella del fallimento si consolida attraverso riti collettivi. Nella Silicon Valley la celebrazione dell’errore assume forme pubbliche e ritualizzate in eventi come FailCon, nata a San Francisco nel 2009 e oggi diffusa in tutto il mondo, e le Fuckup Nights, avviate a Città del Messico nel 2012.

FailCon è una conferenza rivolta a imprenditori, innovatori e professionisti del mondo delle startup, che invita a rielaborare gli insuccessi come tappe necessarie del successo. Sotto il motto

Embrace your mistakes. Build your success (“Abbraccia i tuoi errori. Costruisci il tuo successo”), gli speaker raccontano esperienze

Dal 2012 le Fuckup Nights si diffondono in oltre 300 città di più di 90 paesi, diventando un vero e proprio rito globale del fallimento. A queste esperienze si affiancano format analoghi, come le Fail Nights e le Engineering Failures promosse in ambito universitario, fino a iniziative museali come il Museum of Failure in Svezia, che espone prodotti e idee commerciali naufragate per ricordare come l’errore sia parte costitutiva di ogni processo innovativo (vedi articolo a pagina 37).

Il fallimento accademico: normalizzare i rifiuti

di fallimento, traendone lezioni manageriali e strategie per il futuro.

Le Fuckup Nights, più informali, nascono dall’iniziativa di cinque amici messicani desiderosi di ribaltare la connotazione negativa del fallimento e proporlo come strumento di apprendimento condiviso. Nel corso di serate pubbliche, tre o quattro relatori ripercorrono in pochi minuti un proprio errore – professionale o personale –spiegando cosa sia andato storto e quale trasformazione ne sia scaturita. L’obiettivo è normalizzare l’errore, mostrare che dietro un momento di crisi può celarsi l’occasione di cambiare direzione, e costruire una comunità fondata sulla trasparenza e sull’apprendimento reciproco.

La cultura del fallimento ha progressivamente superato i confini dell’innovazione tecnologica per radicarsi anche nel mondo accademico. Negli ultimi anni, sempre più università hanno adottato strategie volte a trasformare gli insuccessi in strumenti di apprendimento,riconoscendo che gli errori costituiscono una componente essenziale del percorso scientifico e professionale. Un esempio emblematico è il CV of Failures, proposto nel 2010 dalla ricercatrice in neurobiologia Melanie Stefan sulle pagine di Nature. L’idea, semplice ma dirompente, consiste nel compilare un “curriculum degli insuccessi” accanto a quello tradizionale: un elenco di articoli respinti, borse di studio non ottenute e candidature fallite. Rendere pubblici questi episodi significava sottrarli alla vergogna individuale e trasformarli in occasioni di apprendimento condiviso. L’iniziativa ebbe una forte risonanza nella comunità scientifica: studiosi come Johannes Haushofer, docente di psicologia e affari pubblici a Princeton,pubblicarono online i propri CV of Failures, contribuendo a rendere visibile la dimensione invisibile della carriera accademica e a incoraggiare una maggiore trasparenza nel sistema della ricerca.

Sulla stessa linea si colloca la Rejection Collection , promossa presso l’Università della California–Irvine. Come racconta la giornalista Rhaina Cohen in un articolo su The Atlantic (A Toast to All the Rejects , 2022), il laboratorio di scienze cognitive diretto da Barbara Sarnecka raccoglie e celebra collettivamente i rifiuti accademici: ogni cento respinte, il gruppo organizza un rejection party. L’obiettivo non è l’autocommiserazione, ma la costruzione di una cultura della normalità del fallimento, capace di contrastare la sindrome dell’impostore e di rafforzare il senso di comunità tra ricercatori. Come afferma la stessa Sarnecka sul suo profilo LinkedIn, I think a lot about scientific writing and about how to be happy in academia («Rifletto molto sulla scrittura scientifica e su come poter essere felici nel mondo accademico»).

I Critical Failure Studies

La cultura del fallimento, nata come strumento di emancipazione e apprendimento, ha avuto indubbi effetti positivi: ha contribuito a ridurre lo stigma dell’insuccesso, a promuovere la resilienza individuale e a creare reti di sostegno tra chi affronta

Approfondire

esperienze simili. Tuttavia, come hanno messo in luce i Critical Failure Studies (studi critici del fallimento), un filone di ricerca interdisciplinare che indaga il fallimento come fenomeno sociale, economico e culturale – la sua celebrazione pubblica nasconde anche contraddizioni profonde. Questi studiosi mostrano come il discorso del “fallire per crescere” non sia neutro né universalmente accessibile: funziona solo per chi dispone di capitale sociale, risorse economiche e reti di sostegno. In una società diseguale, non tutti possono permettersi di fallire.

In questo senso, la cultura del fallimento rischia di trasformarsi in una ideologia meritocratica che legittima la vulnerabilità come valore solo quando è reversibile. Chi possiede i mezzi per ripartire può “fallire in alto”, convertendo gli errori in reputazione, esperienza e visibilità; chi invece parte da posizioni svantaggiate rischia di “fallire in basso”, subendo conseguenze materiali come indebitamento, precarietà o esclusione sociale. Ciò che per alcuni è raccontato come esperienza formativa o eroica, per altri può tradursi in perdita definitiva.

Come osservano Arjun Appadurai (celebre antropologo,

•A. Appadurai, N. Alexander, Failure, Cambridge, Polity Press, 2019, trad.it. Fallimento, traduzione di F. Peri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020.

• R. Cohen, A Toast to All the Rejects, in «The Atlantic», 20 giugno 2022.

• W. Isaacson, Steve Jobs, Simon & Schuster, New York 2011.

• S.A. Sandage, Born Losers: A History of Failure in America, Harvard University Press, Cambridge 2005.

• M. Stefan, The CV of Failures, in «Nature» n. 468, 467, 2010.

statunitense per storia accademica e indiano tamil di nascita e formazione) e Neta Alexander (esperta di Nuovi media, cinema e Rete) nel loro libro Failure (2019), nel capitalismo contemporaneo il fallimento è un fenomeno gestito in modo selettivo e strategico. Alcuni errori vengono rapidamente dimenticati o occultati,mentre altri vengono enfatizzati e trasformati in narrazioni di successo. Un esempio emblematico è la crisi finanziaria del 2008: nonostante le enormi perdite accumulate,le grandi banche furono salvate dallo Stato secondo la logica del too big to fail, riuscendo a rafforzare la propria posizione nel sistema economico. Si trattò di un caso evidente di “fallimento verso l’alto”, in cui l’errore sistemico si tradusse in consolidamento del potere.

Lo stesso meccanismo si riproduce nei contesti digitali e tecnologici. Fenomeni come il blocco dei software, la batteria scarica, il buffering o l’obsolescenza programmata vengono reinterpretati non come difetti, ma come occasioni di profitto: spingono l’utente ad acquistare aggiornamenti, servizi aggiuntivi o nuovi dispositivi. Chi dispone di risorse può adattarsi facilmente a questo ciclo di innovazione forzata, mentre chi è escluso da tali opportunità ne subisce gli effetti senza benefici; un altro modo, meno visibile ma altrettanto concreto, di “fallire in basso”.

In questo quadro, i Critical Failure Studies invitano a spostare lo sguardo: dal fallimento come esperienza individuale da valorizzare al fallimento come processo sociale diseguale, prodotto da strutture economiche, culturali e politiche che determinano chi può permettersi di sbagliare e chi no.

Francesca Nicola antropologa culturale, vive a New York e si occupa di Stati Uniti.

I Critical Failure Studies

Gli studi critici sul fallimento sono un approccio accademico recente che studia il fallimento non come semplice errore o evento negativo, ma come fenomeno sociale, culturale e politico. Non si chiedono solo cos’è andato storto, ma perché alcune cose vengono considerate fallimenti, chi ne subisce le conseguenze e come possiamo reinterpretarle per creare società più resilienti.

Anna Horolets

Eventi recenti come la crisi finanziaria del 2008, la crisi dei rifugiati in Europa nel 2015 e la pandemia da Covid 19 alla fine del 2019 hanno stimolato un interesse crescente per lo studio del fallimento nelle scienze sociali. La letteratura esistente è vasta e diversificata, ma tende più a classificare i tipi di fallimento e i casi concreti che a proporre una teoria unificante. In altre parole, una conoscenza cumulativa sul fallimento è ancora in costruzione, e gli studi sistematici stanno iniziando solo ora a strutturarsi attorno a concetti chiave e figure autorevoli.

Oggi l’attenzione si concentra non solo sull’evento fallimentare in sé, ma sulle regole e norme sociali che ne definiscono l’esistenza. Alcuni esempi di questo approccio includono i “regimi del fallimento” (Kurunmäki e Miller, 2011), le culture del fallimento (Lambert, 2018), l’etica del fallimento e le logiche di identificazione e valutazione del fallimento (Bovens, 2016).

Questi studi mostrano che ciò che viene definito fallimento non è universale né naturale: dipende da norme sociali, istituzionali e culturali.

Per le scienze sociali il fallimento non è mai un fatto neutro o oggettivo. È definito da convenzioni e regole sociali che stabiliscono chi viene considerato in errore, in quale contesto e secondo quali criteri, orientando sia il riconoscimento del fallimento sia le modalità con cui vi si risponde. Così, un’istituzione che attraversa una crisi può scegliere se attribuire la responsabilità a singoli individui oppure intervenire in modo strutturale, rivedendo procedure e processi per prevenire errori futuri.

Hirschman e la politica del fallimento

Questa prospettiva richiama gli studi di Albert O. Hirschman, che aveva già elaborato concetti chiave per comprendere il ruolo del fallimento nella vita pubblica. Nel saggio Fracasomania (1973), Hirschman definiva questa espressione come una vera e propria “ossessione per i fallimenti”: una tendenza diffusa nella società e nella politica a concentrarsi più sugli insuccessi che sui successi. Egli osservava come i media, ad esempio, tendessero a enfatizzare crisi e scandali, trascurando ciò che funziona. Questa attenzione sproporzionata, sosteneva, influenza sia l’opinione pubblica sia le decisioni politiche, alimentando una cultura della negatività.

Nel volume La retorica della reazione (1991), Hirschman mostrava inoltre che le risposte ai fallimenti non sono mai neutrali né puramente razionali. Al contrario, vengono spesso usate da chi detiene il potere per giustificare decisioni politiche, difendere interessi particolari o consolidare posizioni di forza. Un programma governativo fallito, ad esempio, può essere strumentalizzato per screditare gli avversari, modificare regole istituzionali o rafforzare il controllo politico.

L’approccio critico

Il fallimento non va inteso come un episodio isolato, ma come un fenomeno regolato da norme sociali – le cosiddette “regole del gioco” (North, 1994) – che definiscono chi può fallire, chi può essere perdonato e chi invece viene stigmatizzato. Non si tratta semplicemente di errori, ma di un sistema complesso di riconoscimento sociale, intrecciato a relazioni di potere, logiche economiche e valori culturali, che rivela tanto le opportunità individuali quanto le fragilità delle strutture politiche, economiche e sociali.

Per indagare tale complessità, numerosi studi adottano un approccio genealogico (Foucault, 1977b), capace di considerare non solo l’evento fallimentare, ma anche il contesto storico, le dinamiche sociali, i discorsi che lo circondano e le sue proiezioni future. Questo metodo risulta particolarmente efficace nell’analisi dei fallimenti legati al neoliberismo, dove norme e strutture determinano i confini tra successo e insuccesso.

Le ricerche più recenti non si limitano a stabilire se un evento costituisca un fallimento o a valutarne la prevedibilità: si concentrano invece sui processi attraverso cui tale etichetta viene attribuita e sui fattori sociali, culturali e politici che la modellano. L’analisi si estende inoltre agli immaginari collettivi e alle visioni del futuro, influenzati da variabili come classe, genere, razza, età e relazioni neocoloniali. Comprendere il fallimento significa, in ultima analisi, mettere in discussione i modelli politici, economici e culturali che stabiliscono cosa significhi riuscire o fallire.

Smantellare il fallimento

Un esempio significativo di approccio critico al tema del fallimento è offerto da Arjun Appadurai e Neta Alexander in Failure

(2020), dove i due autori propongono uno «smantellamento critico del fallimento» (Lavinas, 2020). L’obiettivo è superare il tradizionale modello binario successo/fallimento – definito da Alexander come «modello del rifiuto» (Erkan,2020) – e considerare il fallire non come semplice contrario del riuscire, ma come strumento di analisi,reinterpretazione e trasformazione sociale. Gli autori si interrogano su come, da chi e in quali condizioni un evento venga etichettato come fallimento, e su quali dinamiche sociali producano tale attribuzione.

Appadurai e Alexander mostrano che, nella Silicon Valley, il fallimento viene spesso celebrato come tappa necessaria dell’innovazione. Tuttavia, questa narrativa meritocratica tende a occultare le disuguaglianze strutturali e le vulnerabilità sociali,spostando la responsabilità degli insuccessi sugli individui e ignorando le cause sistemiche che li generano.

Il volume critica anche la retorica dell’efficienza tecnologica, che attribuisce ai singoli utenti la colpa dei malfunzionamenti, trascurando le disparità di accesso e di competenza digitale. Le istituzioni finanziarie e tecnologiche, sostengono gli autori, contribuiscono a normalizzare il fallimento e a trasformarlo in una risorsa economica. Un esempio emblematico è l’obsolescenza programmata, che obbliga i consumatori a sostituire continuamente i dispositivi, generando profitto per le imprese e spostando su di loro la responsabilità delle inefficienze del sistema.

Ispirandosi agli studi queer e alle teorie critiche, Appadurai e Alexander invitano a riconoscere nel fallimento un potenziale di trasformazione. Invece di accettarlo come destino inevitabile, propongono di “smontarlo” concettualmente e di utilizzarlo come leva per mettere in discussione e rielaborare le strutture

Fallimenti alimentari

Una sezione specifica del Museo dei fallimenti è dedicata all’industria alimentare, le cui sperimentazioni, nonostante le buone intenzioni, spesso non hanno avuto un successo commerciale.

Fra i casi più curiosi spiccano i Gerber Singles, omogeneizzati per adulti single proposti negli anni Settanta, e le bottiglie di acqua per i cani (nella foto). Fra quelli più sfortunati vi sono AYDS, caramelle popolari fino agli anni Ottanta, quando l’epidemia di AIDS rese il nome del marchio del tutto inappropriato.

Vi è poi il Juicero (2016–2017), spremiagrumi “intelligente” da 700 euro. Funzionava solo con delle sacche di frutta già pronta, vendute separatamente dall’azienda. Tuttavia, dopo poco tempo, un utente pubblicò su YouTube un video che mostrava come fosse possibile spremere il contenuto delle sacche semplicemente a mano, ottenendo lo stesso risultato senza usare il costoso macchinario.

Anche le grandi compagnie sperimentano fallimenti facilmente evitabili. È il caso della Coca Cola: nel 1985 cambiò formula per competere con Pepsi, che stava conquistando una grande fetta del mercato grazie a campagne di marketing particolarmente intriganti. Ma la New Coke (1985–2004) fu percepita come un tradimento dai consumatori, che si organizzarono perfino in una class-action. Appena 79 giorni dopo il suo annuncio, il 15 luglio 1985 la Coca-Cola ripristinò senza tante cerimonie la sua bevanda di punta alla formula originale. Pur non abbandonando completamente la New Coke, lʹazienda ribattezzò la formula originale come Coca-Cola Classic.

Disastri in medicina

La storia della medicina è segnata da innovazioni fallite o tragiche.

Il più celebre fra questi fallimenti, per rimanere nell’epoca contemporanea, è stato il Thalidomide, un sedativo prescritto anche alle donne incinte, che negli anni Cinquanta provocò gravi malformazioni in oltre 24.000 neonati. Un errore però che, come accade a volte, ebbe anche un effetto positivo, poiché stimolò la creazione di regolamentazioni farmaceutiche a livello internazionale. Non è questo il caso della trachea sintetica di Paolo Macchiarini, visibile nella figura soprastante, una delle più gravi frodi della medicina moderna (2011–2013). All’Istituto Karolinska, a Stoccolma, questo chirurgo impiantava trachee ingegnerizzate con cellule staminali, promettendo rigenerazioni rapide. In realtà le trachee non si integravano, molti pazienti morirono e altri subirono gravi sofferenze. La frode consisteva nel presentare procedure sperimentali come sicure, nonostante mancanza di evidenze scientifiche, e lo scandalo rivelò gravi violazioni etiche e negligenza dei comitati di controllo, documentata nella serie Netflix Bad Surgeon Altrettanto fraudolente sono state la IBM Watson for Health (2014–2018), che prometteva cure oncologiche personalizzate leggendo cartelle cliniche digitali, ma fornì diagnosi imprecise e pericolose, e la Theranos (2013–2015), fondata da Elizabeth Holmes, che prometteva analisi del sangue rivoluzionarie con una sola goccia. Ma la tecnologia era inaffidabile: molti risultati erano falsi o imprecisi, mettendo a rischio i pazienti e truffando gli investitori per centinaia di milioni di dollari. Il Museo dei fallimenti presenta comunque numerose schede di curiose innovazioni mediche recenti rivelatesi poi fallimentari. Vi è il preservativo spray (2006–2008), concepito in Germania per adattarsi a ogni misura, che si dimostrò doloroso e poco sicuro. Vi è il Rely Tampon (1978–1980), un super-assorbente interno, che causò numerosi casi di shock tossico, tanto da determinare l’introduzione di norme più rigorose in questo settore: materiali più sicuri, test clinici obbligatori, etichettatura chiara e monitoraggio post-marketing.

esistenti, aprendo la strada a forme di organizzazione più giuste, inclusive e creative.

Disuguaglianza e invisibilità

Negli studi contemporanei,il fallimento viene sempre più analizzato alla luce dei rapporti di potere che ne determinano il significato. Il linguaggio dei rischi, delle crisi e delle emergenze si intreccia con quello dell’insuccesso, influenzando la formulazione delle politiche pubbliche e le pratiche di governance.

Nel campo delle politiche pubbliche, il fallimento non è inteso solo come mancato raggiungimento di obiettivi, ma anche come incapacità di apprendere dagli errori e di trasformarli in strumenti di miglioramento (Howlett, 2015; Dunlop, 2020). A livello economico e politico globale, le crisi mostrano come molte vulnerabilità siano strutturali e non riconducibili a responsabilità individuali (Scott, 1998; Stiglitz, 2010).

Anche le scienze organizzative e tecnologiche hanno distinto diverse forme di fallimento, dai disastri industriali agli incidenti sistemici (Vaughan, 1996; Perrow,1999), mentre la sociologia economica ha rivolto l’attenzione ai fallimenti del mercato e del capitalismo stesso (Cassidy, 2010; Streeck, 2016).

In tutti questi ambiti, l’insuccesso non viene più concepito come qualcosa da evitare, ma come elemento costitutivo della resilienza e della capacità di adattamento. Da questa prospettiva nasce il concetto di “fallimento di successo”: un errore che, anziché segnare un punto di arresto, diventa occasione di apprendimento e di miglioramento per le decisioni e le strategie future.

La licenza di fallire

Un’ulteriore dimensione del fallimento riguarda le disugua-

glianze e le forme di invisibilità sociale. In questo caso, non si tratta tanto di mancato raggiungimento di obiettivi, quanto di impossibilità di agire, di accedere a risorse o opportunità, e di partecipare pienamente alla vita collettiva. Il fallimento assume così la forma di una condizione strutturale di esclusione: assenza di reti di sicurezza, distribuzione iniqua delle risorse, vulnerabilità ai danni collaterali e invisibilità sociale (Sassen, 2016; McGoey, 2012). In tali contesti, esso non rappresenta più un’occasione di apprendimento, ma diventa segno di subordinazione e marginalità.

Appadurai e Alexander (2020) descrivono questa realtà attraverso il concetto di “licenza di fallire”: in società profondamente diseguali, solo alcuni possono permettersi di sbagliare senza subirne le conseguenze. Chi dispone di potere o risorse può “fallire verso l’alto”, trasformando l’errore in opportunità; chi invece occupa posizioni fragili – come donne o gruppi socialmente marginalizzati –tende a “fallire verso il basso”, pagando un prezzo elevato,spesso in termini di perdita del lavoro o di esposizione pubblica. Il fallimento, in questo senso, si rivela un privilegio riservato a chi gode di riconoscimento e sicurezza sociale.

Il fallimento come strumento di previsione

La dimensione temporale ha assunto un ruolo centrale nell’analisi del fallimento. Non è più considerato esclusivamente come un errore già accaduto o un evento passato da spiegare: oggi può essere osservato e interpretato lungo diverse prospettive temporali. In alcuni casi, il fallimento viene analizzato retrospettivamente, per identificare segnali o dinamiche che avrebbero potuto farlo prevedere; in altri casi, viene anticipato e gestito proattivamente, attraver-

so strumenti di pianificazione, monitoraggio e problem-solving, in linea con la logica dei cosiddetti “cigni neri” di Taleb (2007), eventi rari e imprevedibili ma capaci di produrre conseguenze di grande portata.

Nell’ambito delle politiche pubbliche, questa prospettiva temporale trasforma il fallimento in uno strumento strategico. Le narrazioni sugli insuccessi non servono più solo a spiegare cosa è andato storto, ma diventano strumenti per progettare politiche più resilienti e per preparare risposte efficaci in contesti caratterizzati da incertezza e complessità. Attraverso l’analisi dei fallimenti, i decisori politici possono anticipare crisi future, individuare vulnerabilità nei sistemi e introdurre misure preventive o correttive.

Il fallimento può assumere anche una funzione politica più diretta e deliberata. Secondo Boin, Hart e McConnell (2009), può essere sfruttato come occasione per implementare nuove politiche e innovazioni,un fenomeno definito crisis exploitation: le situazioni critiche offrono infatti opportunità per cambiare decisioni o introdurre riforme che in tempi ordinari sarebbero difficili da attuare. Allo stesso tempo, il fallimento può essere strumentalizzato in modi meno trasparenti e talvolta controversi, diventando un elemento della cosiddetta “politica del lato oscuro”, in cui errori o crisi vengono utilizzati per manipolare opinioni, giustificare scelte impopolari o consolidare potere (Howlett, 2022).

Quando il fallimento guida il futuro

La proiezione futura del fallimento è strettamente legata all’instabilità e alla contingenza: pianificare resilienza ed efficacia significa confrontarsi con l’incertezza e con circostanze imprevedibili (Capano e Woo, 2017). Da questa prospettiva

nasce lo studio degli “immaginari del fallimento”, ossia delle narrazioni, rappresentazioni e aspettative che guidano la preparazione agli eventi futuri e alle emergenze (Eriksson e McConnell, 2011). Il fallimento, in questo contesto, non è più visto semplicemente come un limite o un ostacolo, ma diventa una risorsa creativa: serve a orientare decisioni, progettare politiche e costruire sistemi più resilienti e adattabili.

Sebbene la ricerca sugli immaginari del fallimento non sia ancora completamente autonoma, alcuni studi mostrano come la preparazione politica e tecnica agli eventi futuri generi pratiche concrete e discorsi specifici. Collier e Lakoff (2021) indicano, ad esempio, come negli Stati Uniti la gestione delle emergenze sia stata tradotta in azioni politiche tangibili: dalla metà del XX secolo, esperti e funzionari hanno sviluppato una nuova visione della nazione come complesso di sistemi vitali ma vulnerabili. Questo approccio ha portato alla creazione di strumenti amministrativi e tecniche per mitigare rischi e vulnerabilità, dando vita a una forma specifica di governo delle emergenze, basata sulla previsione e sulla gestione del rischio. Parallelamente, la sociologia del fallimento e l’immaginazione sociologica (Yazell, 2020; Paterson, 2016) analizzano come il fallimento possa servire a pensare scenari futuri complessi, come quelli legati alla migrazione o ai cambiamenti climatici. Questi studi si intrecciano con teorie critiche che evidenziano le dimensioni affettive, morali e di disuguaglianza legate al futuro. Ad esempio, Berlant (2011) parla di “crudele ottimismo”, cioè la speranza in un futuro migliore anche quando le condizioni rendono improbabile il suo raggiungimento, mentre Ahmed (2010) analizza la “promessa della felicità”, mostrando come i modelli di felicità impo -

sti dalla società escludano chi non rientra nei criteri di genere, background etnico (nel testo originale race, razza, N.d.T.), classe o produttività.Approcci simili mettono in luce vulnerabilità, disuguaglianze e “futuri perduti” (Frantzen, 2019; Fisher, 2014), cioè le possibilità negate o limitate per alcune persone o gruppi di costruire il proprio futuro a causa di strutture sociali ingiuste o condizioni di esclusione.

In questa prospettiva, il fallimento non è più un evento esclusivamente individuale: assume una dimensione strutturale. Le persone che non hanno accesso a risorse, opportunità o sostegno sociale sperimentano il fallimento non solo come errore personale, ma come una sospensione del futuro. Le norme sociali che privilegiano certi corpi, abilità o livelli di produttività impediscono a molte persone di “fallire verso l’alto”, cioè di trasformare un errore in opportunità di apprendimento e crescita. Per chi è escluso, il fallimento diventa una forma di privazione: limita la possibilità di realizzare sé stessi e di costruire un futuro coerente con le proprie aspirazioni (Edelman, 2004).

Il fallimento e le logiche neoliberali

Il fallimento non è più considerato un semplice errore individuale, ma un fenomeno sociale e politico strettamente legato alle logiche del neoliberismo. I cosiddetti “regimi di fallimento” definiscono ciò che viene considerato successo o insuccesso, mostrando che le categorie di vittoria e sconfitta non sono neutre, ma determinate da norme, pratiche e dispositivi culturali e istituzionali. In un sistema neoliberale, basato su produttività, efficienza e competizione individuale, vengono privilegiati certi profili sociali – soggetti produttivi, maschili, eterosessuali e normodotati –

mentre chi non corrisponde a questi standard rischia di essere marginalizzato. Il fallimento diventa così uno strumento di regolazione sociale: etichetta, stigmatizza e rende invisibili chi non riesce a conformarsi, consolidando vulnerabilità, esclusione e disuguaglianze strutturali.

Da stigma a risorsa

Gli studi recenti propongono una visione alternativa, che trasforma il fallimento da stigma a risorsa creativa: l’insuccesso può diventare uno spazio di possibilità, che permette di valorizzare percorsi divergenti, identità minoritarie e pratiche non convenzionali, costruendo regimi di fallimento più inclusivi e democratici. Questa rilettura si manifesta in ambito accademico e culturale, come nella teoria queer ( Queer art of failure, Halberstam, 2011) e negli studi sulla disabilità ( Crip epistemologies , Mitchell, Snyder e Ware, 2014), che reinterpretano deviazioni e differenze come strumenti critici per leggere la società. Anche pratiche artistiche, performative e architettoniche evidenziano che cadere e rialzarsi non è solo metafora di resilienza, ma metodo concreto di apprendimento e creazione di valore (O’Shea, 2018; Albright, 2019; Easterling, 2019). Eventi pubblici e workshop, come le Fuckup Nights, pur essendo criticate da molti per il loro elitismo (sono riservate per lo più a imprenditori, N.d.T.) trasformano l’errore in occasione di riflessione e immaginazione alternativa.

Su queste basi poggiano i Critical Failure Studies, un approccio che considera il fallimento non come semplice errore individuale, ma come processo sociale complesso, prodotto dall’interazione tra regimi di potere, norme culturali e strutture istituzionali. In altre parole, ciò che viene definito “fallimento” non

dipende solo dall’azione di una persona o di un’organizzazione, ma anche dalle condizioni sociali, politiche ed economiche che ne determinano il significato. L’analisi, quindi, non si limita a osservare gli errori in sé, ma studia le circostanze che li rendono possibili, i meccanismi attraverso cui vengono percepiti e le modalità con cui vengono gestiti, rappresentati o persino riutilizzati come risorsa.

Un esempio concreto di questa prospettiva è la pandemia da Covid 19, spesso definita “virus della disuguaglianza”. La crisi ha evidenziato come i fallimenti delle istituzioni non siano eventi isolati o casuali, ma siano strettamente legati a dinamiche sociali preesistenti: disuguaglianze economiche, differenze di accesso alla sanità, vulnerabilità dei gruppi marginalizzati. In questo contesto, il fallimento assume un ruolo duplice: da un lato permette di analizzare retrospettivamente gli errori, comprendendo perché alcune decisioni o politiche abbiano prodotto effetti negativi; dall’altro apre la possibilità di immaginare alternative future, suggerendo nuovi modi di organizzare le politiche pubbliche, le pratiche sociali e i sistemi di governance per ridurre vulnerabilità e disuguaglianze.

Traduzione di Francesca Nicola. Tratto da: A. Horollets, FAIL! Are We Headed towards Critical Failure Studies? , in A. Mica, M. Pawlak, A. Horolets, P. Kubicki, The Routledge International Handbook of Failure, Routledge, Londra 2023. La bibliografia di questo articolo sarà pubblicata online sul sito de La ricerca. Anna Horolets

è Professoressa Associata presso l’Institute of Ethnology and Cultural Anthropology, University of Warsaw.

Il Museo dei fallimenti

Un museo che documenta i fallimenti, in particolare quelli delle grandi aziende: un viaggio tra invenzioni curiose, idee visionarie e prodotti ai confini della realtà.

Intervista a Samuel West a cura di Francesca Nicola

Il Museum of Failure raccoglie gli esperimenti commerciali più clamorosamente falliti della storia recente. Prodotti che, almeno sulla carta, promettevano di rivoluzionare il mercato o la vita quotidiana, ma che si sono rivelati disastri tecnologici, strategici o comunicativi.

Fondato dallo psicologo clinico statunitense Samuel West,

il museo nasce da un’intuizione semplice ma potente: il fallimento è parte integrante del processo di innovazione. West concepì l’idea dopo aver visitato nel 2016 il Museo delle relazioni interrotte di Zagabria, spiegando di essersi «stancato di leggere solo storie di successo» e di voler mostrare come «non esista innovazione senza rischio». Il museo debuttò nel 2017 a

Helsingborg, in Svezia, e contemporaneamente a Los Angeles, per poi trasformarsi in una mostra itinerante che ha toccato città come New York, Budapest, Washington DC, Calgary, Taipei, Minneapolis, Saint-Étienne, Parigi e Shanghai. Attualmente si trova a Parigi, ospitato al Musée des Arts et Métiers, e nel 2026 sarà prima a Vienna e poi a Londra.

Una sala del Museo dei fallimenti. Il vascello in primo piano è il Vasa, il galeone dotato di ben 64 cannoni che avrebbe dovuto essere lʹorgoglio della matrina svedese. Varato nel 1628 alla presenza del re Gustavo Adolfo II, naufragò dopo aver percorso poco più di un miglio. I cannoni, infatti, erano disposti su due file e questa disposizione dei pesi rendeva la nave molto instabile, tanto che si piegò su un lato alla prima folata di vento.

Giocattoli assurdi

Quanti bambini si metterebbero a giocare con questa bambola scalza, vestita di stracci rattoppati, con una lacrima ben visibile e uno sguardo depresso? Eppure nel 1965 questo modello fu lanciato dalla Hasbro, una azienda importante in questo campo, che non mancò di peggiorare l’iniziativa privandola addirittura di un nome proprio, dato che fu commercializzata come Little Miss No Name. Era pensata per insegnare l’empatia; invece terrorizzò i bambini e fu rapidamente ritirata, rimanendo oggi un raro pezzo da collezione. L’industria dei giocattoli ha spesso puntato all’innovazione, ma alcuni prodotti si sono rivelati controversi o pericolosi. Nel 1975, Mattel lanciò Growing Up Skipper, la sorellina di Barbie che, ruotando il braccio, cresceva e sviluppava il seno. La sessualizzazione di una bambola scatenò proteste e il prodotto fu rapidamente ritirato.

La filosofia del museo è chiara: il fallimento non va demonizzato, ma compreso. Gli errori – aziendali, tecnologici o scientifici –raccontano quanto la creatività possa spingersi oltre i limiti, e come da ogni errore possano nascere nuovi apprendimenti. Le installazioni interattive invitano i visitatori a riflettere sul proprio rapporto con l’insuccesso: emblematico è lo Share Your Failure Wall, dove chiunque può lasciare un post-it con un proprio fallimento personale, trasformandolo in un atto di condivisione e resilienza.

Il percorso espositivo è suddiviso in aree tematiche: Failure in Motion, Digital Disasters, Medical Mishaps, Science Failure, Financial Failure, Idea Failure e altre ancora. Ciascuna racconta, attraverso oggetti reali e materiali multimediali, come le ambizioni dell’innovazione possano scontrarsi con la realtà del mercato, dell’etica o della tecnologia.

Abbiamo rivolto a Samuel West alcune domande.

D: Come le è venuta l’idea di fondare il museo?

R: L’idea del Museo del Fallimento è nata dal mio lavoro come psicologo e ricercatore sull’innovazione. Ero stanco delle storie di successo unilaterali che dominano il mondo aziendale. Veneriamo il successo, ma ci nascondiamo dal fallimento, e trovo questo assurdo. Come psicologo, so che imparare e progredire è impossibili senza fallire. Ho visitato il Museo delle Relazioni Interrotte in Croazia, è stato molto interessante, con tutte le storie che stanno dietro le relazioni fallite. E ho pensato che se loro erano riusciti a creare un intero museo sulle relazioni interrotte, io avrei potuto creare un museo sul fallimento!

D: Qual è il fallimento più sorprendente o insolito esposto nel museo?

R: Abbiamo molti articoli sor-

prendenti. È impossibile per me selezionare il mio preferito o il più sorprendente... ma trovo il caso delle patatine senza grassi Olestra interessante. «100% di soddisfazione, 0% di sensi di colpa». Con questo slogan furono lanciate delle patatine “senza grassi” contenenti Olestra, un sostituto dei grassi sviluppato durante la moda delle diete ipocaloriche degli anni Novanta. L’idea sembrava perfetta: poter mangiare snack croccanti e gustosi senza preoccuparsi delle calorie. Tuttavia, l’entusiasmo svanì presto quando si scoprì che l’Olestra non veniva assorbita dall’organismo e poteva provocare fastidiosi effetti collaterali, come crampi addominali e disturbi intestinali. Il prodotto divenne tristemente famoso per causare, in alcuni casi, vere e proprie “perdite” indesiderate, trasformandosi in uno dei fallimenti alimentari più discussi del decennio. La cosa sorprendente è che il prodotto è stato lanciato da un’azienda molto grande e competente,e come non abbiano previsto quello che è successo è per me sorprendente.

D: Quale sezione o tipologia di oggetto tende a suscitare la reazione più forte nei visitatori?

R: Le reazioni più forti online provengono dalla comunità dei videogiocatori: abbiamo diversi videogiochi falliti nel museo, e se ne discute intensamente online. E Trump, la nostra sezione dedicata a Trump, con i suoi terribili fallimenti, fa infuriare i repubblicani americani.

Tra i visitatori del Museo, invece, le reazioni più forti avvengono quando le persone vedono oggetti che avevano, cose che gli piacevano o con cui sono cresciuti. Quando li vedono in un museo, o si rallegrano o vorrebbero dire: “L’avevo da bambino, mi piaceva, non è un fallimento”. Il Nokia N-gage è un esempio, ma anche il profumo Harley-Davidson.

L’N-Gage non fu un fallimento d’idee, ma di realizzazione. All’inizio degli anni 2000 molte persone possedevano sia un telefono cellulare sia una console portatile, e Nokia ebbe un’intuizione brillante: unire le due funzioni in un unico dispositivo. In teoria, un’idea rivoluzionaria. In pratica, molto meno. Per cambiare gioco bisognava smontare il telefono, e il catalogo offriva pochissimi titoli di qualità. Nonostante il flop commerciale, lo sviluppo dell’N-Gage contribuì a far nascere la vivace industria finlandese dei videogiochi per dispositivi mobili – la stessa da cui sarebbe poi emerso Angry Birds, uno dei più grandi successi del settore.

D: Nota differenze culturali nel modo in cui le società percepiscono il fallimento? Ad esempio, come si confronta l’approccio della Svezia con quello degli Stati Uniti o dell’Asia?

R: La paura del fallimento è un tratto umano universale, ma assume forme molto diverse da una cultura all’altra. Negli Stati Uniti, soprattutto nella Silicon Valley, prevale l’idea del fail fast, fail forward: il fallimento è considerato una tappa necessaria del percorso verso l’innovazione. In Svezia, invece – dove il museo è nato – la cultura del consenso e l’avversione al rischio rendono il fallimento più stigmatizzato e difficile da accettare. In molte società asiatiche, la pressione per il successo è ancora più intensa, e fallire può rappresentare una vergogna non solo personale,ma anche familiare.Queste differenze culturali incidono profondamente sul modo in cui le persone innovano e sul livello di rischio che sono disposte ad affrontare.

D: Pensa che il fallimento continuerà a giocare lo stesso ruolo nell’innovazione in un’epoca di intelligenza artificiale e automazione?

R: Anche i sistemi di intelligenza artificiale “falliscono” – e lo fanno in modi affascinanti: producono allucinazioni, mostrano pregiudizi o commettono errori di valutazione. La vera questione è come utilizziamo questi fallimenti come forma di feedback. L’innovazione senza fallimenti resta impossibile, indipendentemente da quanto sofisticati diventino i nostri strumenti. La differenza, oggi, è la velocità con cui possiamo fallire. L’intelligenza artificiale accelera enormemente il processo di tentativi ed errori: può progettare e “testare” milioni di varianti di un prodotto in poche ore, sperimentando così milioni di fallimenti virtuali a costi e rischi minimi. In questo senso, l’AI rende il fallimento più rapido, più economico e più produttivo. Il principio rimane lo stesso – il progresso nasce dal fallimento – ma cambiano la scala e il ritmo con cui possiamo imparare da esso.

D: Le è mai capitato di rifiutare un fallimento perché non “abbastanza fallimentare”?

R: Sì, sempre. Per entrare nel museo, un fallimento deve avere una buona storia da raccontare. Un prodotto semplicemente mediocre o con poche vendite non è interessante. Quello che cerco sono fallimenti ambiziosi: progetti nati da grandi aziende, con grandi aspettative, che però sono crollati per motivi affascinanti. Un telefono economico e mal progettato, ad esempio, non avrebbe posto qui. Il Samsung Galaxy Note 7, ad esempio, non è esposto: non si è trattato di un fallimento dell’innovazione, ma di un errore di produzione. E la semplice negligenza non ha nulla a che vedere con il tipo di fallimento creativo che il museo vuole raccontare.

Ma è esposto l’Amazon Fire Phone: un investimento enorme da parte di un colosso tecnologico che ha completamente frainteso ciò che volevano gli

Pensarci prima!

Molti prodotti delle grandi aziende sembravano idee geniali sulla carta, ma si sono rivelati flop clamorosi. Il detersivo Persil Power (1994) prometteva lavaggi ultra-efficienti, ma la formula era così aggressiva che danneggiava i tessuti delicati, scolorendo i vestiti e consumando le fibre. Fu ritirato immediatamente dal mercato.

Le BIC for Her (2011), penne “per donne” con colori pastello e impugnature più sottili, furono presentate come pensate appositamente per il pubblico femminile, ma suscitarono indignazione perché implicavano che le donne avessero bisogno di strumenti speciali per scrivere, cosa riduttiva e offensiva. Negli anni Cinquanta Lionel provò a conquistare le bambine con i “Lady Lionel”, trenini pastello che trasportavano mobili in miniatura invece del carbone: un flop clamoroso. Le bambine non volevano treni “carini”, ma realistici come quelli dei maschi.

Il famoso designer Philippe Starck disegnò il bollitore Hot Bertaa (1989–1997) per Alessi. Bellissimo ma poco pratico: il manico scottava e il livello dell’acqua era difficile da controllare, rendendo il bollitore scomodo e potenzialmente pericoloso. Lo stesso Alessi definì il prodotto “il nostro fiasco più bello”. Thirsty Dog! & Thirsty Cat! (1994) contenevano acqua minerale arricchita con vitamine e minerali, pensata per sostituire l’acqua del rubinetto nelle ciotole di cani e gatti. Era disponibile in due gusti: “Manzo croccante” per i cani e “Pesce acidulo” per i gatti. Un flop prevedibile.

utenti – un vero fallimento emblematico. Ogni oggetto deve insegnarci qualcosa.

Quando il colosso dell’e-commerce Amazon decise di entrare nel mercato degli smartphone, le aspettative erano altissime: se qualcuno poteva riuscirci,

era proprio Amazon. Lanciato nel 2014, il Fire Phone prometteva un’esperienza rivoluzionaria grazie alla grafica 3D e a “Firefly”, una funzione che permetteva di scansionare oggetti nei negozi per acquistarli subito su Amazon. Ma gli utenti non

Quando l’innovazione deraglia

Dalle auto ai treni, dagli aerei alle scarpe “propulsive”: la storia dei trasporti è costellata di invenzioni audaci che volevano cambiare il modo di muoversi ma finirono per restare ferme ai box.

La DeLorean DMC-12 (1981–1983), sportiva in acciaio inox con porte ad ali di gabbiano, conquistò l’immaginario collettivo grazie a Ritorno al futuro, ma nella realtà era lenta, inaffidabile e troppo costosa. Un flop tecnico trasformato in leggenda cinematografica.

Quarant’anni dopo, la Tesla Cybertruck (2024–2025) tentò di imporsi come il pick-up del futuro. Durante la presentazione, i suoi vetri “indistruttibili” si frantumarono in diretta: un presagio dei problemi che seguirono. Difetti strutturali, ritardi e una produzione complicata ne fecero un simbolo di promesse infrante e ambizioni fuori controllo.

La Lightyear One (2021–2023), auto solare olandese che prometteva mesi di autonomia senza ricariche, si spense dopo pochissime unità vendute. Visionaria ma troppo costosa, dimostrò che la sostenibilità ecologica deve andare di pari passo con quella economica.

Il progetto Fyra Trains (2012) doveva collegare Amsterdam e Bruxelles in alta velocità. Invece, durò solo un mese: pezzi che cadevano dai treni, guasti e ritardi convinsero i governi a sospendere il servizio.

La Pontiac Aztek (2001–2005), universalmente considerata una delle auto più brutte mai prodotte, fu un disastro di design e marketing, riscattato solo anni dopo grazie a Breaking Bad. Le Adidas Springblade (2013–2015), con le loro “lame” ammortizzanti futuristiche, si rivelarono invece fragili e scomode, lontane dalle prestazioni promesse.

apprezzarono l’idea di essere intrappolati nell’ecosistema del marchio: molte app popolari, come Google Maps, non erano disponibili, lo schermo 3D risultava più un trucco estetico che un’innovazione utile, e il pulsante “Compra ora” venne percepito come un espediente troppo spudorato per spingere agli acquisti. A peggiorare la situazione, il telefono era costoso e il suo design non aveva nulla di entusiasmante. Il risultato? Un clamoroso flop, che dimostrò che nemmeno Amazon può vendere tutto.

D: Le aziende hanno mai cercato di impedirle di mostrare i loro prodotti falliti?

R: Sorprendentemente, zero. Nessuna resistenza. Con una sola eccezione: la Colgate. Il loro avvocato mi ha contattato, perché non erano contenti che avessi fatto una replica della loro lasagna, ma in realtà non era poi così minacciosa. Negli anni Sessanta, Colgate tentò di entrare nel redditizio mercato dei piatti pronti, facendo leva sulla forte fedeltà dei consumatori al suo marchio. Lanciò così una linea di alimenti surgelati, forse immaginando che le persone potessero gustarsi una cena Colgate e poi lavarsi i denti con il dentifricio dell’azienda. Qualunque fosse la logica dietro questa scelta, il risultato fu un disastro: l’associazione tra “pasta al pollo” e “dentifricio alla menta” non fu esattamente appetitosa. La linea, chiamata Colgate Kitchen Entrees, comprendeva due portate principali – una a base di pollo essiccato e una di polpa di granchio – e scomparve rapidamente dagli scaffali.

D: Pensa che oggi le aziende imparino davvero dai fallimenti, o li usino più come slogan di marketing?

R: La maggior parte delle aziende non trae veramente insegnamenti dai propri fallimenti. Spesso preferiscono “nascon-

dere sotto il tappeto” gli errori, sperando che passino inosservati, piuttosto che affrontarli apertamente. Tuttavia, alcune realtà stanno cominciando a costruire una vera cultura di sicurezza psicologica, dove i dipendenti possono correre rischi calcolati e imparare dagli errori senza paura di ritorsioni. Il problema principale è che, quando qualcosa va storto, l’istinto naturale tende a cercare un colpevole anziché una lezione da apprendere. Perciò, nonostante il dibattito sul valore del fallimento stia crescendo, molte organizzazioni faticano ancora ad accettare gli errori come opportunità di crescita.

D: C’è un oggetto che ha sempre desiderato avere nel museo ma che non è riuscito ad acquisire?

R: Molti!! Ad esempio l’iSmell. Non sono riuscita a trovarne uno e ne sono ossessionata da quasi 10 anni... Se qualcuno dei vostri lettori ne avesse uno, per favore mi contatti!

D: Ma di che si tratta?

R: L’iSmell era un dispositivo tecnologico progettato per “trasmettere odori via computer”. L’idea era di digitalizzare gli odori scomponendoli in componenti chimici base,codificarli in file e farli riprodurre dal dispositivo collegato a un computer tramite USB. In pratica, avrebbe permesso di “sentire” fragranze come arancia, fuochi da campo o profumi di film e videogiochi direttamente a casa, creando un’esperienza sensoriale immersiva. Il pubblico non percepiva l’utilità del dispositivo; nessuno realmente desiderava annusare odori dal computer. Inoltre gli odori rimanevano nel dispositivo e contaminavano quelli successivi, rendendo l’esperienza sgradevole. Infine, il dispositivo era costoso, ingombrante e complicato da usare, difficile da rendere accessibile al grande pubblico.

D: Guardando al futuro, quali fallimenti di oggi immagina finiranno nel museo tra 50 anni?

R: Tra cinquant’anni, molti dei prodotti e servizi di intelligenza artificiale che oggi vengono sopravvalutati finiranno probabilmente esposti nei musei del fallimento. Molti di questi dispositivi non saranno realmente utili o si riveleranno troppo costosi per essere sostenibili economicamente.

D: Nell’istruzione, gli studenti sono spesso incoraggiati a evitare gli errori, ma la ricerca dimostra che riconoscerli e imparare da essi è fondamentale. Come potrebbero scuole e educatori integrare il fallimento come parte positiva e necessaria del processo di apprendimento?

R: I sistemi educativi tradizionali tendono a premiare le risposte corrette e a punire gli errori, limitando la possibilità degli studenti di apprendere davvero dall’esperienza. Per favorire una crescita autentica, le scuole dovrebbero promuovere la sperimentazione e la riflessione sugli insuccessi. Alcuni educatori stanno sperimentando metodi innovativi, come i “compiti di fallimento”: progetti intenzionalmente complessi, quasi impossibili da completare senza errori, in cui il successo non si misura con il risultato finale, ma con gli insegnamenti tratti dagli ostacoli incontrati. Questo approccio trasforma l’errore in un momento educativo, sviluppando resilienza, creatività e capacità di problem solving.

D: Se potesse progettare una classe ispirata al Museum of Failure, che tipo di lezioni o attività proporrebbe agli studenti?

R: Progetterei un’aula in cui gli studenti siano incoraggiati a sperimentare senza paura e a presentare i propri progetti falliti, ricevendo riconoscimen-

to non per il risultato finale, ma per gli insegnamenti tratti dall’esperienza. Le attività potrebbero includere una “fiera del fallimento”, in cui ogni studente condivide un errore e ciò che ha imparato,normalizzando gli sbagli come parte naturale dell’apprendimento. Immagino anche un “Muro del fallimento”, dove studenti e insegnanti pubblicano gli errori più significativi della settimana e le intuizioni che ne hanno tratto: un’idea ispirata al Museum of Failure, molto apprezzata dai visitatori.

D: Sono previsti eventi in Italia?

R: Il museo è stato in Italia alcune volte come piccola mostra temporanea in occasione di eventi aziendali in Italia. Nessuna mostra è ancora aperta al pubblico. Non abbiamo date confermate per l’Italia, ma Roma e Milano vengono spesso menzionate come possibili sedi per una mostra temporanea. Mi piacerebbe MOLTO portare la mostra in Italia, sono certo che gli italiani apprezzerebbero il museo. Samuel West psicologo clinico e delle organizzazioni, ha studiato all’Università di Lund, in Svezia, come il gioco possa favorire l’innovazione nelle aziende.

↑ Un pacco di lasagne Colgate esposto al Museo dei fallimenti (@ Museum of Faiklure).

Chi sbaglia paga

O forse no: un’analisi senza sconti sull’errore comportamentale a scuola rivela che la punizione spesso nasconde l’incapacità di educare al conflitto e di costruire una comunità. Un invito a smettere di rimbrottare e a iniziare ad ascoltare, per una scuola che non lasci indietro nessuno.

Molti degli studenti che abbandonano precocemente la scuola hanno una storia scolastica segnata dai provvedimenti disciplinari. Com’è ovvio non è possibile avere dati percentuali esatti, ma c’è da ritenere che una porzione assolutamente significativa delle espulsioni da scuola – studenti ripetutamente bocciati fino a quando rinunciano e, nella migliore delle ipotesi, entrano nel percorso dei CPIA – sia legata a difficoltà legate al comportamento; ed è una percentuale particolarmente alta tra gli studenti che provengono da ambienti sociali svantaggiati. Studenti non scolarizzati che non sembrano in grado di rispettare le regole e per questo collezionano un provvedimento disciplinare dopo l’altro, fino a quando passa l’età dell’obbligo scolastico.

Le due vie dell’errore comportamentale

Non è dunque possibile affrontare seriamente la questione dell’inclusione, che è centrale nel dibattito sulla scuola, senza tener conto dell’aspetto comportamentale. Senza considerare, cioè, il modo in cui la scuola affronta quello che possiamo chiamare errore comportamentale.

(© iStockphoto).

↑ “La 2° occupazione” , Scuola media di Casalmaggiore (CR), 1961.

Archivio storico

INDIRE, Fondo fotografico.

Di fronte a un comportamento inadeguato, erroneo, la scuola segue ordinariamente due vie parallele. La prima è quella dei provvedimenti disciplinari progressivi: una prima nota, una seconda nota e così via, fino alla sospensione dalle lezioni (spesso con l’ossimoro dell’obbligo di frequenza). La nota intende essere una segnalazione alla famiglia: e la seconda via è appunto il confronto con la famiglia. Che raramente è un confronto reale: la scuola, per lo più nella figura del coordinatore di classe, fa alla famiglia un quadro della situazione, chiedendo ai genitori di intervenire. Una richiesta discutibile da diversi punti di vista. Può essere che certi comportamenti abbiano origine proprio in famiglia, siano la replica di modelli di comportamento genitoriali o di un malessere che nella famiglia ha la sua origine; e certo non

saranno i genitori a offrire, su richiesta della scuola, modelli diversi o a risolvere d’un tratto i propri problemi. Ma può anche essere – non è raro – che quei comportamenti compaiano solo a scuola: la protesta di certe famiglie – “mia figlia a casa non è così” – sembra pretestuosa, ma spesso è esattamente quello che accade. Siamo esseri in relazione e in certi contesti in effetti possiamo avere comportamenti significativamente diversi. In questo caso la richiesta ai genitori di risolvere problemi comportamentali che si presentano a scuola non è più sensata della richiesta, rivolta alla scuola dai genitori, di risolvere a scuola problemi che si presentino in famiglia. Nella migliore delle ipotesi, i genitori sono sinceramente preoccupati per il comportamento della figlia. Ma che fare? Come intervenire? La scuola potrebbe accompagnare le famiglie nella ricerca di una risposta a questa domanda difficile. Non è spesso attrezzata per farlo. Non ha, il più delle volte, nemmeno la figura del pedagogista scolastico. Ha spesso lo psicologo. Ed è questa la via più battuta. La figlia potrà essere seguita da uno psicologo e magari avviare un percorso che porterà alla certificazione di un disturbo oppositivo. La medicalizzazione del comportamento problema è un esito sempre più frequente. Che pone in forte imbarazzo l’istituzione scolastica. Perché se è possibile ricorrere a una serie – per lo più standardizzata – di misure dispensative e compensative nel caso di disturbi dell’apprendimento, che fare nel caso di un disturbo comportamentale? Si diventerà, certo, più tolleranti, perché lo studente non si comporta così per scelta (ma quale studente si comporta così per scelta?), ma fino a quale punto?

Che fare quando picchierà un compagno?

E come valutare, poi, la sua condotta?

Sono domande che rendono inquieti non pochi Consigli di classe e che hanno il merito di mettere a nudo l’insensatezza della pretesa di valutare una cosa come la condotta

Torneremo sulla condotta. Cerchiamo intanto di capire cosa c’è dietro l’errore comportamentale.

L’iscrizione

Al suo primissimo ingresso nel sistema scolastico un bambino ha una grande quantità di problemi comportamentali.

Al nido i bambini si picchiano, si mordono, si lanciano oggetti. Nessuno richiamerà i genitori per questo; si segnalerà magari qualche morso più forte degli altri, ma con la consapevolezza che a una certa età mordere è un comportamento normale e avrebbe poco senso chiedere al bambino di non farlo. Al tempo stesso si fa capire con fermezza alla bambina che quel comportamento non è socialmente accettabile. Gradualmente i comportamenti aggressivi diventano più rari, le bambine imparano a conoscere le regole sociali e ad adeguarsi, anche se ogni tanto tocca dividere due bambini che si picchiano.

Con l’inizio della scuola primaria le cose cambiano in modo drastico. La bambina che si è mossa in un contesto più o meno libero, in un ambiente piacevole e colorato, e accompagnata da adulti comprensivi, si trova ora in un luogo in cui è richiesta una immobilità forzata e prolungata e sono presenti una grande quantità di norme, spesso tacite, che investono il corpo stesso e lo modellano secondo le esigenze dell’istituzione. La pratica della scrittura segna l’ingresso in questo secondo mondo. Con la scrittura cessa il mondo della prima infanzia e la società chiede il conto: bisognerà pur cominciare a muoversi verso di essa. E verso i suoi valori che non sono – è bene che la bambina lo capisca – ludici

Questo inserimento, questa vera e propria prima iscrizione nel mondo adulto, riesce in modo più o meno felice. E l’esito è legato in modo significativo alla continuità e contiguità tra il mondo sociale, culturale ed economico della famiglia del bambino e quello di cui la scuola è espressione. Una contiguità che è condivisione di una costellazione di valori, partecipazione a uno stesso mondo linguistico e, anche, accettazione di alcuni modelli comportamentali. Si pensa, si parla, ci si comporta in un certo modo.

Il comportamento problema corrisponde alla parola problema: il termine dialettale, o volgare, che per la bambina è normale, ma che la scuola non tollera perché non fa parte della lingua socialmente accettata. Se a casa i genitori parlano di cesso, a scuola la bambina dovrà chiedere di andare in bagno . Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato, naturalmente, nella parola cesso, che indica correttamente il luogo in cui ci si apparta (il recesso ), ma non appartiene alla comunità dei par-

lanti cui la scuola è contigua. E dunque il bambino verrà richiamato. E se si ostinerà a usare quella parola e altre simili, quell’abitudine linguistica diventerà un comportamento problema.

Molti dei problemi disciplinari nascono così. Vi sono, certo, casi più eclatanti di vere violenze, ma molto spesso a costituire precocemente quella che potremmo chiamare la carriera deviante dello studente sono piccoli comportamenti che sfidano le norme scolastiche; norme che sono condivise in un certo ambiente sociale, ma non è detto che lo siano in altri. Il piccolo studente si esprime in modo volgare. Si alza dal banco senza permesso. Parla quando dovrebbe stare in silenzio. Non si rivolge con la necessaria deferenza alla maestra. Si muove per l’aula. È, in generale, poco controllabile. La situazione è aggravata dalla continua richiesta di concentrarsi su contenuti culturali che non hanno alcun punto di contatto con la sua esperienza.

Un ambiente pieno di regole

Il contesto scolastico ha le sue regole, come ogni ambiente sociale. Ma quello scolastico si caratterizza per una certa ipertrofia di regole, che disegnano un ambiente in cui ogni comportamento è controllato in un modo che difficilmente si riscontra in altri ambienti. Spesso si giustifica questa normatività ossessiva sostenendo che la scuola deve preparare al mondo, intendendo per lo più quello del lavoro, ma è difficile trovare, al di fuori dell’esercito o di certi contesti aziendali particolarmente alienanti, un ambiente lavorativo in cui il comportamento sia normato in modo così invasivo. Molte di queste regole hanno naturalmente un senso, sono funzionali al lavoro comune e al funzionamento dell’istituzione. Molte no. Per quale ragione, ad esempio, si richiede di esseri seduti in modo composto? Non è descritta in alcun regolamento scolastico la postura da assumere, ma una postura rilassata è interpretata come non consona all’ambiente, perfino irrispettosa verso la docente; ed è fuori discussione che ci si possa sedere, ad esempio, sul banco. Eppure non c’è alcuna ragione didattica per preferire la postura comune a una più rilassata e può essere anzi che quest’ultima possa creare un clima più favorevole all’apprendimento. Se ci interroghiamo sulle ragioni di

questa ipernormatività dobbiamo considerare la storia dell’istituzione. La scuola moderna ha ricevuto fin dall’inizio una impostazione rigorosamente razionale, nel senso latino della ratio : organizzazione rigorosa, suddivisione dei tempi e degli spazi, regole, controllo. Un’organizzazione sulla quale si riflettevano la mentalità, ampiamente permeata di valori religiosi, e le esigenze di un’epoca che è tramontata da molto; ma la scuola ipernomativa procede imperterrita, rivendicando una sorta di validità astorica, metafisica.

Non è difficile individuare proprio in questa ipernormatività uno dei principali dispositivi di selezione e esclusione sociale della scuola. Perché se sopravvivere in un contesto in cui ogni movimento è regolato è difficile per tutti, è senz’altro più difficile, e spesso impossibile, per chi proviene da ambienti in cui sopravvivere in quel contesto istituzionale non sia considerato essenziale per riuscire nella vita o in cui vi siano modalità relazionali – compresa la prossemica – significativamente distanti da quelle della scuola.

Scuola e mondo della vita

La scuola è uno degli ambienti in cui avviene l’educazione dei bambini e poi delle adolescenti. Avviene per lo più attraverso il confronto con i coetanei: alla scuola dell’infanzia la bambina impara che condividendo i propri giochi potrà usare anche quelli degli altri, prima ancora che glielo spieghi un adulto; crescendo comprenderà da sé molte delle regole non scritte che regolano le interazioni umane e cercherà di capire quali rispettare e quali no. È un campo di sperimentazioni, di prove, di inevitabili e dolorosi fallimenti, ma anche di conquiste, non diversamente dal mondo al di fuori della scuola. Con l’arrivo dell’adolescenza il problema di sentirsi accettati verrà in primo piano e diventerà perfino ossessivo. E per non pochi adolescenti le sofferenze saranno tante. Ci sono diversi aspetti di questo percorso. Uno è quello dell’efficacia. Il bambino e l’adolescente cercano di capire come essere riconosciuti e accettati dai loro coetanei, come agire nel modo corretto per avere successo con loro. Un altro è quello delle regole . Man mano che procede, la bambina comprende che ogni ambiente ha un suo sistema di regole, che alcune sono scritte e altre no e qualcuna

è negoziabile mentre qualche altra va presa con la massima serietà. E c’è poi, più impegnativo, il percorso morale . Non tutte le cose che sono efficaci per avere successo tra gli amici e compagni sono in realtà giuste. Bruciare un cestino dei rifiuti insieme agli altri può essere divertente e dare adrenalina, ma è una cosa non giusta. Che fare? Seguire l’efficacia o il senso del giusto? Crescendo il bambino scoprirà che perfino le regole possono essere sbagliate, se analizzate dal punto di vista morale; e perfino quelle regole particolarmente rilevanti che sono le leggi dello Stato possono esserlo. Questa è la crescita di una bambina, poi adolescente, in quello che, prendendo a prestito un po’ liberamente l’espressione dalla fenomenologia, possiamo chiamare mondo della via. È una crescita, ho detto, che avviene per lo più attraverso la relazione tra coetanei, ma importante è anche il confronto con gli adulti. Gli adulti privilegiati sono, naturalmente, i genitori, ed è opinione diffusa che di questi aspetti debbano occuparsi solo loro. Una convinzione che cade di fronte alla semplice considerazione che non tutti i genitori sono in grado di accompagnare i figli nella crescita morale e che non di rado sono anzi pessimi esempi.Lasciare alla famiglia il compito di formare il comportamento vuol dire condannare i figli a ripetere i comportamenti dei genitori.

Il mondo della scuola non è, almeno in parte, diverso dal mondo della vita. Ma il brulicare vitale accade per così dire ai margini della scuola. Nei corridoi, nei bagni, nel cambio dell’ora, nelle chat di classe, nei bisbigli tra un banco e l’altro. La scuola non è in grado di occuparsene. Non è possibile infilarsi in questa complessità relazionale, seguire tutti i tentativi, gli errori, i successi parziali, le sconfitte dolorose, le gioie e i dolori. La scuola è altrove.

La buona condotta

La parola condotta non è di uso comune. Nessun genitore si preoccupa della condotta della propria figlia. Il termine appartiene ormai solo a due ambiti: quello scolastico e quello giuridico-penale. Un detenuto può uscire prima della fine della pena per buona condotta, e può essere che per un concorso venga richiesto un certificato di buona condotta. E la buona condotta

è il rispetto rigoroso delle regole.

La condotta, che è misurata con il voto di condotta, è legata alla capacità della nostra bambina e poi adolescente di adeguarsi a un sistema istituzionale iper-regolato. Nelle pretese della scuola, la condotta scolastica è la via per la formazione integrale della persona, per la formazione del pensiero critico e per la formazione del cittadino, per usare tre espressioni molto usate a scuola. In realtà la condotta scolastica ha poco a che fare con queste cose, e misura invece una competenza precisa: la capacità, appunto, di adattarsi a un contesto istituzionale iper-regolato . Le qualità più apprezzate, ai fini di questa valutazione, sono quelle necessarie a un adattamento acritico. La studentessa premiata con i voti più alti saprà stare in silenzio per la maggior parte del tempo, prendendo la parola solo quando le sarà richiesto; e userà la parola con la massima deferenza possibile. Si guarderà bene, in particolare, dal rispondere, ossia del replicare a qualche rimbrotto del docente. E mai dovrà fare l’errore di mostrarsi polemica. Il voto di condotta dice poco, o nulla, sulla maturazione effettiva della studentessa, sulla sua capacità di affrontare i conflitti, di comprendere le proprie emozioni, di svi-

luppare empatia, di ragionare sulle regole sociali e di metterle in discussione quando occorre.

L’irruzione

Nei casi più drammatici l’errore comportamentale rappresenta l’irruzione, perfino violenta, del mondo della vita nell’ambiente asettico e artificiale dell’istituzione.

Vi sono in classe due gruppi tra i quali v’è un conflitto che è sfociato, sabato sera, in una piccola rissa in discoteca. Al lunedì c’è uno strascico in classe: una studentessa colpisce una sua compagna, che reagisce. La scuola attiva le procedure disciplinari: nota sul registro, convocazione del Consiglio di classe, sospensione. Non senza aver ascoltato le ragioni di entrambe, come previsto dallo Statuto delle studentesse e degli studenti1. In questo modo i docenti avranno modo di affacciarsi, spesso con raccapriccio, nel mondo della vita dei loro studenti, ma sarà giusto un attimo. La questione, inoltre, non riguarderà in alcun modo la comunità della classe, per la semplice ragione che la classe non è una comunità.

E cos’altro si può fare, del resto?

↑ “La

2° occupazione” , Scuola media di Casalmaggiore (CR), 1961. Archivio storico INDIRE, Fondo fotografico.

↑ “La 2° occupazione” , Scuola media di Casalmaggiore (CR), 1961. Archivio storico INDIRE, Fondo fotografico.

L’errore è immenso

Chi segue una strada, scrive Seneca, giunge a un qualche punto d’arrivo («aliquid extremum»), mentre «error immensus est» ( Lettere a Lucilio , II, 16.9). C’è del fascino in quell’immensus. La scuola si presenta come la via sicura che conduce ad una meta più o meno certa: l’inserimento sociale, il riconoscimento, forse anche il successo. Possiamo immaginare una scuola che sospenda la meta certa e segua piuttosto le piste dell’errore? Una scuola in cui l’errore sia, per usare un termine dell’Analisi Istituzionale, un analizzatore , ossia uno di quegli avvenimenti che «obbligano a comprendere come funziona il sistema istituzionale»? 2. Qualsiasi comportamento problema può essere un analizzatore in questo senso. Uno studente rifiuta di sedersi composto . Viene richiamato. Se insiste rischia una nota in condotta. Ma perché bisogna sedersi in quel modo? C’è una ragione reale? È funzionale al lavoro scolastico? Da dove

viene quella scelta? Riusciamo a farne la genealogia?

Prevedo le obiezioni. In questo modo nessuna norma diventa certa, tutto può essere rimesso in discussione e ogni comportamento rischia di diventare lecito. Forse il rischio c’è. Ma c’è un rischio ben maggiore: quello di educare (ma il verbo è inadatto: si tratta di pessima socializzazione) ad adattarsi a un sistema di norme di cui non si comprende il senso, per paura e opportunismo. C’è il rischio di mostrare la società stessa, nello specchio della scuola, come un dato immutabile, cui bisogna adattarsi, anziché un campo di forze, di relazioni, di interessi aperto sempre alla trasformazione e al contributo di ognuno. E c’è, anche e soprattutto, il rischio da cui siamo partiti: quello di perdere per strada quelli che la scuola ha ricacciato nella dimensione irredimibile dell’errore sociale.

Se si esce dall’ottica della punizione qualsiasi errore può essere occasione per conoscenze altamente significative. Perché mi sono comportata in questo modo? Quali emozioni provavo? Possiamo fare qualcosa con le nostre emozioni, o siamo condannati e subirle? Come gestire la rabbia? Una studentessa che sia stata punita con una sospensione per un comportamento conseguente alla rabbia farà questo lavoro, si immagina, da sola, durante il periodo della sospensione. O con l’aiuto dei genitori. Ma non è affatto scontato che sappia farlo da sé o che abbia dei genitori in grado di accompagnarla in questo lavoro.

La scuola può e deve essere il luogo in cui si riflette sulle relazioni, perché le nostre relazioni, anche e soprattutto quando sono conflittuali, sono una fonte preziosa di comprensione di noi stessi e degli altri.

L’obiezione è che la scuola deve preparare alla vita. E che nella vita chi sbaglia paga: sarebbe grave insegnare che possiamo comportarci come vogliamo, contando sulla comprensione degli altri. In realtà se la scuola può preparare alla vita è proprio per la possibilità di attingere una dimensione per così dire meta. Nella vita, qualunque cosa sia, le cose accadono. A scuola le cose accadono e vengono analizzate . C’è questa ulteriorità che fa della scuola un ambiente formativo: la sospensione, che consente di passare dal semplice accadere alla riflessione su ciò che accade.

Se non vuole essere una palestra di conformismo, ma un luogo in cui si educano gli individui e la società stessa – perché sì, anche la società può essere educata –la scuola deve lavorare costantemente in tre direzioni: la conoscenza di sé e lo studio dei modi che abbiamo per diventare autonomi e liberi; la conoscenza delle nostre relazioni e della possibilità di affrontare i conflitti in modo creativo e costruttivo; la conoscenza delle norme sociali, dei valori che sottendono, delle dinamiche di potere e di dominio, in particolare nelle istituzioni.

Sono anche le tre direzioni in cui si manifesta quello che abbiamo chiamato errore comportamentale. Lo studente viene punito dalla scuola perché non è riuscito a gestire la propria rabbia. Nessuno però gli ha insegnato come farlo. Può essere che la scuola lo indirizzi verso un servizio di assistenza psicologica, ma questo vuol dire sottrarre la rabbia, come altre emozioni, alla sfera dell’educazione. E cos’è, educare, se non anche esercitarsi nel comprendere le nostre emozioni?

In preda alla rabbia, la studentessa ha insultato una compagna o l’ha addirittura aggredita. Si tratta dell’esito di un conflitto. Non è evidentemente il primo e non sarà l’ultimo: la nostra vita sociale è sempre conflittuale. Possiamo davvero ritenere che questo non riguardi la scuola? Educare non è esercitarsi nell’analisi, nella comprensione, nell’eventuale trascendimento dei conflitti? Il percorso punitivo che la scuola attiva in questi casi non lavora realmente con il conflitto, perché non coinvolge la comunità della classe, né si sporge nel mondo della vita. Non è infrequente che la punizione giunga quando il conflitto è stato risolto per conto proprio dai protagonisti, che si sono compresi anche con la mediazione della classe.

E c’è, poi, la violazione deliberata della norme, dei valori, dei rituali dell’istituzione. Una studentessa si rifiuta di consegnare il cellulare. Uno studente continua ad alzarsi dal banco e girare per l’aula senza il permesso della docente. Alcuni studenti si rifiutano di sostenere l’orale degli Esami di Stato. La scuola rimbrotta, scrive, punisce. Se necessario interviene anche il Ministro, indignato. Bisogna difendere l’Istituzione vilipesa. E si perde intanto, oltre all’eccezionale esperienza

educativa della riflessione comune su norma, valori e pratiche istituzionali, il senso stesso della democrazia come costruzione comune, sempre aperta, delle forme della vita collettiva.

Pagare

“Chi sbaglia paga”, recita un detto che guida l’azione di non pochi docenti, convinti che la scuola debba essere rigorosa nel punire i comportamenti inaccettabili. Analizziamo le parole. Sbaglio ha la stessa radice di abbaglio e di bagliore. C’è della luce, ma è troppa e non ci consente di guardare bene. Ne siamo travolti e andiamo fuori strada. Pagare ha la stessa radice di appagare. Viene dal latino pacare, derivato a sua volta da pax . Chi ha sbagliato, s’intende, deve pacificare la persona che ha subito un danno, ma non è escluso che per questa via giunga a pacificare sé stesso. In ambito educativo possiamo seguire la suggestione dell’etimologia ritenendo che lavorare sullo sbaglio significhi aiutare sia chi ha sbagliato sia chi ha subito lo sbaglio a ritrovare la pace, e cioè la possibilità di una relazione nonviolenta. Pacificare e pacificarsi. E che sia urgente provare a capire insieme come fare in modo che la luce, da qualunque fonte provenga, non ci renda ciechi.

NOTE

1. DPR 21 novembre 2007, n. 235, art. 4, comma 3: «Nessuno può essere sottoposto a sanzioni disciplinari senza essere stato prima invitato ad esporre le proprie ragioni».

2. R. Hess, G. Weigand, Corsi di Analisi Istituzionale, trad. it di M.R. Prette, Sensibili alle Foglie, Roma 2008, p. 62.

Nel testo l’autore alterna il maschile e il femminile sovraesteso.

Antonio Vigilante

PhD in Dinamiche formative e educazione alla politica, è tutor coordinatore di Filosofia e Scienze Umane presso l’Università di Siena, campus di Arezzo. È direttore responsabile della rivista «Educazione Aperta» e direttore della collana “Ianus. Educazione e trasformazione sociale” della casa editrice Ledizioni. Si occupa di pedagogia e filosofia morale e interculturale. Il suo ultimo libro è La stanza di fronte. Tre saggi di filosofia interculturale (Ledizioni, Milano 2024). “ ”

Cogito ergo… erro!

Chi insegna una lingua lo sa: l’errore, lungi dal dover essere evitato a tutti i costi, è il vero motore dell’apprendimento. Un atteggiamento pedagogico che può essere applicato in ogni contesto e che ha un impatto sull’efficacia dell’insegnamento, sulla scelta degli obiettivi e delle strategie per raggiungerli.

Valentina Felici, Cristiano Corsini

L’esperienza dell’errore accompagna l’apprendimento e la vita scolastica (e non) di ogni studente, in particolare quando si cimenta con una lingua diversa dalla lingua madre. Riportiamo alcuni elementi della linguistica e della glottodidattica che potrebbero esszere spunto di riflessione per chi insegna e si imbatte negli errori quotidianamente, anche in discipline non linguistiche. Tale contributo, lungi dal voler essere una disamina accademica di temi noti a chi fa ricerca in questo ambito e consolidati da decenni, parte dal presupposto che chi si occupa a vario titolo di linguistica e glottodidattica, insegnando discipline linguistiche in un qualsiasi ordine di scuola, forse potrebbe avere una sensibilità e una consapevolezza diversa rispetto all’errore, in quanto l’errore rappresenta una parte integrante e cruciale del processo di acquisizione e apprendimento delle lingue, sia per la lingua materna sia per le altre lingue con cui si entra in contatto.

L’errore nella glottodidattica

Se in passato la glottodidattica tendeva a considerare come efficaci i metodi di insegnamento che prevenissero l’errore e permettessero di evitarlo del tutto nell’apprendente, interrogandosi su come si insegnano le lingue, in tempi recenti ha preso piede un altro interrogativo che riguarda non tanto come si insegnano le lingue, quanto piuttosto come si apprendono. Ciò ha prodotto dei cambiamenti significativi nella ricerca e, di conseguenza, anche nell’osservazione dell’errore1.

Richiamando alcune conoscenze di base della linguistica, partiamo dal presupposto, come ha dimostrato Chomsky,2 che in quanto esseri umani possediamo un dispositivo mentale responsabile dell’acquisizione della prima e della seconda lingua, il cosiddetto LAD (Language Acquisition Device) che agisce come meccanismo innato quando entriamo in contatto con input linguistici. Al tempo stesso, come ci insegna Krashen,3 alcune variabili affettive e psicologiche (come l’ansia, la scarsa motivazione, la mancanza di autostima) potrebbero innescare nel processo di acquisizione e apprendimento di una lingua un filtro affettivo che ostacola l’input linguistico e il

funzionamento del LAD.

In linguistica, i termini acquisizione e apprendimento di una lingua non sono sinonimi. L’acquisizione della lingua rappresenta il processo inconscio e piuttosto lungo che permette di raggiungere una competenza linguistica stabile ed esercitata in modo automatico. L’apprendimento è, invece, un processo conscio, relativamente veloce, che fornisce una competenza più instabile che non viene praticata in modo spontaneo e tende a essere persa. L’insegnante di lingua italiana o di altre lingue stimola costantemente la riflessione linguistica per orientare l’attenzione dell’apprendente sulla forma delle produzioni linguistiche e sulle regole proprio al fine di creare una connessione tra acquisizione e apprendimento.

Gestire l’errore

Poste queste premesse, non è un caso che proprio la ricerca sull’errore possa costituire un ambito di studio privilegiato per chi si occupa dell’insegnamento e dell’apprendimento delle lingue.

Per capirlo basta provare a immedesimarsi in chi frequenta un corso di lingua italiana o in chi entra in una scuola italiana per la prima volta e deve acquisire e apprendere l’italiano come seconda lingua (L2) per comunicare e poi per studiare in italiano.

Per usare una metafora, immaginiamo che all’improvviso quell’apprendente si trovi a giocare una partita di calcio senza che ne conosca le regole: che cosa fare se all’inizio commette dei falli e non sa come muoversi? Possiamo effettivamente sanzionare chi infrange regole che ancora non conosce e non ha avuto modo di imparare? Ovviamente la risposta è no.

Ecco: se in un corso di lingua l’insegnante correggesse tempestivamente e sistematicamente ogni errore, probabilmente dopo poco la partecipazione alla lezione sarebbe scarsa o nulla, perché difficilmente si avrebbe il coraggio di parlare o scrivere sapendo che inevitabilmente ci saranno continue correzioni degli errori.

Per questa ragione, in particolare nella glottodidattica, l’insegnante dovrebbe

avere come prima competenza proprio la capacità di gestire quelle variabili affettive e psicologiche responsabili del filtro affettivo in grado di bloccare il processo di acquisizione e di apprendimento della lingua.

L’apprendente che gioca a calcio senza conoscere le regole e che le scopre pian piano è esattamente come l’infante che sta imparando la lingua materna a partire dall’input linguistico che riceve, imitandolo e trasformandolo, suscitando la tenerezza e l’ilarità delle persone adulte che osservano questa scoperta, o come l’alunna o l’alunno appena arrivata/o nella scuola italiana che si avvicina a una lingua diversa dalla sua lingua materna. L’errore, in questi casi, non è tanto una deviazione da un sistema di regole che ancora non si è appreso, quanto piuttosto la manifestazione di un sistema linguistico diverso in costante evoluzione, che risente di riflessioni metalinguistiche prodotte da quel dispositivo mentale innato che ci porta ad acquisire le lingue.

Per le persone che hanno una lingua materna (L1) diversa dalla lingua che è oggetto di apprendimento (L2 o LS), il sistema linguistico da loro ricreato si chiama interlingua e costituisce un passaggio intermedio tra la lingua madre e la lingua d’arrivo presentando tratti caratteristici di entrambe, oltre che semplificazioni e sovraestensioni di forme tipiche 4. Questa lingua è riconoscibile proprio perché contiene degli errori e rappresenta una competenza, provvisoria e al tempo stesso necessaria, per arrivare all’obiettivo di padronanza della nuova lingua. La prova che la nuova lingua si sta integrando nel sistema linguistico proprio dell’apprendente è, per l’appunto, l’errore.

In base a questi errori, possiamo rappresentare questo processo come una linea segnata da sequenze evolutive che seguono un ordine naturale e che rappresentano una certa fase dell’apprendimento in base alle caratteristiche dell’interlingua prodotta5

Per rendere l’idea possiamo visualizzare il percorso con una linea continua, come mostra la figura 1:

Ancora più suggestiva è l’immagine del

1. Il continuum degli stadi di interlingua.

Figura

labirinto nel quale l’apprendente inizia a intraprendere una strada che non sa dove potrà arrivare, ma – proprio perché si tratta di un labirinto – è lecito tornare indietro, cambiare direzione, andare per tentativi, fin quando non si intravede la via giusta6

Entrare nel labirinto riproduce esattamente l’azione dell’errare, di cui il termine errore è il nome di azione. Errare significa per l’appunto «andare qua e là senza direzione o meta certa»; «sviarsi»; «ingannarsi in un’opinione, sbagliare in ciò che si crede o si afferma»7

Per questa ragione molte deviazioni dallo standard, che per chi è parlante nativa/o o insegna a parlanti native/i sono percepite negativamente come errori, dal punto di vista di chi apprende e insegna una lingua straniera o una lingua seconda non sono altro che manifestazioni di regole di un sistema interlinguistico transitorio, che ha una logica, una coerenza e una funzionalità.

Nell’ambito della ricerca linguistica, il campo di indagine dell’errore è stato oggetto di studi molto fecondi: la linguistica e la sociolinguistica, grazie agli errori, registrano mutamenti e ricostruiscono l’evoluzione del sistema linguistico di una comunità; la psicolinguistica avanza ipotesi sul processo di apprendimento della lingua; la glottodidattica ricava informazioni sul processo di apprendimento e su metodi e approcci che risultano efficaci per accompagnarlo. L’errore è fonte preziosa di informazione sui processi che

altrimenti non sarebbero osservabili.

Pertanto, anche l’atteggiamento di fronte all’errore è spesso molto diverso da quello che abbiamo introiettato nelle nostre esperienze scolastiche, in quanto l’errore viene classificato e analizzato in modo neutro, e considerato addirittura come elemento positivo.

Ma che cosa accade quando si insegna in una classe (e non ci si occupa di una ricerca accademica sull’errore)? Quali sono gli atteggiamenti rispetto all’errore? Che cosa proviamo di fronte all’errore? Normativismo rigido o tolleranza? Insicurezza?

Fastidio? Dubbio? Severità o flessibilità?

Dal nostro atteggiamento scaturiscono inevitabilmente le scelte da operare per la correzione dell’errore. Come si deve correggere l’errore? Quali attività di correzione possono essere utili a chi apprende?

Tornando alla metafora calcistica, se durante il gioco intervenissimo continuamente per correggere e spiegare le regole, inevitabilmente questo susciterebbe sfiducia e frustrazione nell’apprendente che sta provando a giocare. D’altro canto, se durante il gioco non intervenissimo per correggere o spiegare le regole, ciò potrebbe portare a interiorizzare regole diverse, errate, che in futuro non consentirebbero di partecipare ad altre partite.

La contrapposizione tra correggere e non correggere sarebbe riduttiva per il nostro ragionamento, mentre potrebbe risultare più utile un ragionamento su che cosa, quando e come correggere l’errore.

Figura 2. Il labirinto degli stadi di interlingua.

Per capire che cosa correggere dobbiamo definire che cosa sia esattamente l’errore per chi insegna una lingua. In generale, si considera errore «una deviazione rispetto alla norma codificata dalla comunità linguistica» 8. Ma ciò che rende difficile l’applicazione di tale assunto teorico è la mancanza di un accordo unanime nello stabilire che cosa sia la norma nella lingua, soprattutto nella lingua italiana. Qualsiasi lingua, infatti, è un sistema in continuo mutamento, e in particolare la lingua italiana si configura come sistema instabile, soggetto a cambiamenti, dovuti a un generale ampliamento dell’uso della lingua nonché ad altri fattori, come la pressione esercitata dal parlato e da altre varietà basse e colloquiali9.

Se da insegnanti di lingua italiana accogliessimo favorevolmente una tendenza verso la semplificazione, in modo speculare dovremmo manifestare una maggiore permissività nei confronti di forme non standard, che in altre circostanze potrebbero essere intese come errori da correggere.

Del resto, da studenti abbiamo sperimentato come ogni insegnante di italiano o di lingue classiche, ad esempio, avesse le sue personali convinzioni rispetto all’errore, considerando con un certo margine di soggettività anche il livello di gravità di alcuni errori rispetto ad altri.

Non è casuale che ciò sia accaduto di frequente proprio con chi insegna discipline linguistiche, in quanto in ogni lingua la differenza tra sistema e norma innesca una serie di questioni estremamente complesse perché non riconducibili a interpretazioni univoche.

In un celebre saggio del 1952, il linguista Eugenio Coseriu10 definisce il sistema come l’insieme delle possibilità offerte dalla lingua in base ai suoi meccanismi di formazione rispetto al quale la norma si definisce l’insieme delle attualizzazioni di volta in volta realizzate. La diffe-

renza tra i due concetti è rappresentata dall’immagine del treno per Parigi delle 8.20. In questo treno, come in altri, sono presenti alcuni elementi di sistema, tratti costitutivi senza i quali questo treno non esisterebbe, come: l’orario di partenza, l’orario di arrivo, il numero di fermate. Tuttavia, esistono anche elementi che invece rientrano nella norma perché sono consueti per chi viaggia su quel treno, ma non pregiudicano l’esistenza del treno in questione, come ad esempio la disposizione dei vagoni, il loro numero, il colore e dettagli simili. Difficile stabilire il confine tra sistema e norma: la presenza di carrozze di prima e seconda classe è un elemento del sistema o della norma? Una corsa del treno in cui non ci sia la prima classe pregiudica che si tratti del treno per Parigi delle 8.20?

Per rispondere a queste domande, Coseriu propone come soluzione di osservare la reazione di chi viaggia alla novità: se la reazione è il rifiuto, allora probabilmente è stato violato un fatto di sistema; viceversa, se la novità viene accolta, allora si tratterà di un fatto di norma.

La soggettività nelle correzioni degli elaborati scritti o delle versioni di latino e greco rievocata nei nostri ricordi di scuola nasce proprio dalla percezione – consapevole o meno – del rapporto tra sistema e norma da parte dell’insegnante.

Del resto, due errori classici come bui, plurale di bue, costruito per analogia dal modello tenue/tenui oppure il congiuntivo vadino, per analogia con i congiuntivi regolari della prima coniugazione amino, cantino, parlino ecc., dal punto di vista del sistema avrebbero tutte le carte in regola per diventare norma. Non li ammettiamo come tali solo perché la comune coscienza linguistica non li accetta e li confina a un repertorio di parlanti illetterati, basti pensare alla forma vadino associata a barzellette o al personaggio di Fantozzi in numerosi film di Paolo Villaggio11.

A volte, però, forme reputate errate possono prendere piede e affermarsi, relegando la variante originaria corretta, al rango di stranezza o arcaismo. Si pensi a un documento prezioso per la linguistica storica, l’Appendix Probi, 12 tramandata in un manoscritto del VII-VIII secolo d. C., che contiene un elenco di parole scorrette messe a confronto con le forme corrette del latino classico.L’autore è probabilmente un insegnante del tempo che cercava di arginare l’evoluzione in atto della lingua latina, redigendo una lunga lista in cui la prima forma corretta si contrappone alla seconda sbagliata, che – ironia della sorte –è sopravvissuta nel tempo ed è giunta fino a noi scalzando la forma classica

speculum non speclum (da cui specchio)

masculus non masclus (da cui maschio)

columna non colomna (da cui colonna)

calida non calda (da cui calda)

frigida non fricda (da cui fredda)

aqua non acqua (da cui acqua)

viridis non virdis (da cui verde)

Nel latino parlato, dunque, i cambiamenti e le deviazioni dal latino classico, benché sanzionate dai paladini della tradizione come errori colpevoli di corrompere la purezza della lingua classica, hanno portato alla nascita delle lingue romanze, in primis dell’italiano.

Oggi, per la certificazione linguistica e per costruire curricoli dedicati all’apprendimento delle lingue, utilizziamo il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue 13 , elaborato e aggiornato periodicamente dal Consiglio d’Europa fin dal 1996, in cui in base all’uso linguistico-comunicativo conoscenze (empiriche o frutto di apprendimento formalizzato) e abilità (saper fare con la lingua, saper apprendere) sono declinate secondo tre livelli di apprendimento nell’ambito di domini propri di un contesto socio-culturale (personale, pubblico, occupazionale, educativo).

Nel QCER trovano posto anche gli errori, da valutare in funzione della competenza comunicativa globale, mantenendo un equilibrio tra accuratezza formale e

capacità espressiva. Sebbene il QCER non dia indicazioni precise riguardo all’interpretazione dell’errore e agli interventi di correzione che attengono alla libertà di ogni insegnante, sollecita tuttavia l’insegnante a considerare e specificare il proprio atteggiamento rispetto agli errori in quanto offre elementi per definire la correttezza. Sia d’esempio la tabella con i descrittori relativi alla correttezza grammaticale per ogni livello di competenza, utili proprio ai fini della correzione14.

A prescindere dalle lingue, ogni insegnante può ricorrere a fonti e strumenti per definire il suo sistema di riferimento e stabilire le norme che lo regolano.Dunque, al di là dei descrittori del QCER, possiamo chiederci qual è l’oggetto di apprendimento della nostra disciplina o, nello specifico, dell’attività/lezione/esperienza di apprendimento che stiamo progettando per la classe, al fine di definire il nostro standard.

Per usare la metafora di Coseriu, quale potrebbe essere il nostro treno e quali gli elementi che lo caratterizzano? E, di conseguenza, quali potrebbero essere i criteri di accettabilità che determinano la nostra scelta di correggere o meno le deviazioni dal nostro standard?

Dopo aver risposto a questi interrogativi, possiamo attingere ancora una volta alla glottodidattica per riflettere sulle azioni che conducono all’identificazione e al riconoscimento degli errori. L’errore rappresenta una manifestazione sistematica e ripetuta di un’incertezza o di una regola mal appresa, legata a processi cognitivi e interlinguistici. Lʹerrore riflette una fase specifica dell’apprendimento ed è indicativo delle strategie che l’apprendente sta adottando per costruire la propria competenza linguistica, proprio perché si tratta di un fenomeno sistematico15. Al tempo stesso, l’errore può rivelare difficoltà profonde che richiedono interventi didattici mirati.Ad esempio, uno studente che apprende l’italiano e utilizza costantemente la forma «io andare scuola» anziché «io vado a scuola» manifesta un errore sistematico derivato dall’influenza della propria lingua madre, che probabilmente non contempla la coniugazione verbale e determina una interferenza linguistica.

Errori o sbagli?

Riconoscere gli errori significa anche saperli distinguere da quelli che sono

Correttezza grammaticale

C2 Mantiene costantemente il controllo grammaticale di forme linguistiche complesse, anche quando la sua attenzione è rivolta altrove (ad esempio, nella pianificazione di quanto intende dire e nell’osservazione delle reazioni altrui).

C1 Mantiene costantemente un livello elevato di correttezza grammaticale; gli errori sono rari e poco evidenti.

B2 Ha una buona padronanza grammaticale; nella struttura delle frasi possono ancora verificarsi sbagli occassionali, errori non sistematici e difetti minori, che sono però rari e vengono le lo più corretti a posteriori. Mostra una padronanza grammaticale piuttosto buona. Non fa errori che possono provocare fraintendimenti. Ha un buon controllo delle strutture utilizzate in una lingua semplice e di alcune forme grammaticali complesse, anche se tende a utlizzare le strutture complesse in modo rigido con qualche incertezza

B1 Comunica con ragionevole correttezza in contesti familiari; la padronanza grammaticale è generalmente buona anche se si nota l’influenza della lingua madre. Nonostante gli errori, ciò che cerca di esprimere è chiaro. Usa in modo ragionevolmente corretto un repertorio di formule di routine e strutture d’uso frequente, relative alle situazioni più prevedibili.

A2 Usa correttamente alcune strutture semplici, ma continua sistematicamente a fare errori di base'. Ad esempio tende a confondere i tempi verbali e a dimenticare dei segnalare gli accordi; ciò nonostante ciò che cerca di dire è solitamente chiaro.

A1 Ha solo una padronanza limitata di qualche semplice struttura grammaticale e di semplici modelli sintattici, in un repertorio memorizzato.

Pre-A1 È in grado di utilizzare pricìpi molto semplici che regolano l’ordine delle parole/dei segni in frasi brevi.

Figura 3. Livelli di competenza e relativi descrittori relativi alla correttezza grammaticale.

sbagli . L’etimologia del termine aiuta a capire tale differenza: il termine sbaglio, dal greco baliós “cangiante”, “abbagliante”, si collega ad abbaglio (il prefisso s- sarebbe un rafforzativo)16 e rimanda a unʹinesattezza occasionale dovuta a disattenzione, stanchezza o ansia comunicativa 17. Non è un segnale di lacune cognitive o di errori sistematici, ma piuttosto si tratta di un’incertezza momentanea. Ad esempio, uno studente che normalmente dice correttamente «io vado a scuola», ma in un’occasione particolare, sotto stress o per distrazione, dice «io andare a scuola» ha commesso uno sbaglio.

Volendo anche in questo caso generalizzare ed estendere questa differenza a tutte le esperienze didattiche: quante volte accade di confondere nell’insegnamento errore e sbaglio? Molto spesso si parla di “errore di distrazione”, espressione ricorrente quando si incontrano ad esempio inesattezze nell’ortografia o imprecisioni nel calcolo o nell’applicazione di determinate procedure, ma di fatto ciò che si chiama “ errore di distrazione”

dovrebbe essere classificato come uno sbaglio. Se, al contrario, ciò che è imputato alla distrazione è ricorrente e sistematico, si tratta di un errore le cui cause andrebbero approfondite e considerate quanto meno come spia di lacune o di difficoltà nell’apprendimento che possono – per l’appunto – distrarre

Una volta identificato il concetto di errore, è possibile classificare le tipologie di errore muovendosi attraverso i livelli di conoscenze, abilità, competenze entro le quali osserviamo quella deviazione dalla norma. Se stiamo insegnando una lingua, i livelli di analisi riguardano la fonologia, la morfologia, la sintassi e il lessico. Nella produzione scritta possiamo osservare anche l’ortografia. Ogni insegnante può ricorrere a tassonomie che possano aiutare a riconoscere la tipologia di errore relativa al suo campo di azione.

Tuttavia, tassonomie e classificazioni non possono prescindere dal considerare altri fattori che riguardano l’età, il contesto, il profilo di chi apprende. Di qui la maggiore tolleranza all’errore di fronte ad

apprendenti non native/i nel caso delle lingue, o in presenza di studenti con bisogni educativi speciali.

Tralasciando la classificazione degli errori in glottodidattica, vediamo come si può procedere con la correzione. Che cosa fare di fronte a un errore da intendere come deviazione sistematica e ricorrente? Quando e come possiamo correggere un errore?

La correzione degli errori richiede tecniche specifiche che rispettino il processo di apprendimento e incoraggino l’autocorrezione e la riflessione metalinguistica.

Le strategie didattiche che valorizzano l’errore come parte del processo di apprendimento presuppongono tecniche utili a promuovere sempre fiducia e motivazione da parte dell’apprendente. Ricordiamo la metafora della partita di calcio in cui giocando si imparano le regole: quali possibilità abbiamo per far sì che la correzione non interrompa il gioco e non crei sfiducia, ma al tempo stesso permetta di migliorare e interiorizzare le regole del gioco?

Proviamo a considerare alcune strategie di correzione prendendo in esame una recente pubblicazione di Elena Monami18 in cui vengono presentate strategie di correzione orale dell’errore in classi di italiano a stranieri in Italia e all’estero, con una serie di studi di caso che rimandano a situazioni concrete. Per chi insegna italiano come L2 o LS è richiesta flessibilità in base al contesto situazionale che deve necessariamente considerare il livello linguistico, gli obiettivi della

lezione, caratteristiche peculiari di ogni apprendente relative all’età, alla cultura di appartenenza, allo stile di apprendimento e ad altri fattori personali. Sicuramente abbiamo molteplici possibilità di feedback correttivo che abbracciano: la correzione esplicita, la riformulazione, la richiesta di chiarimenti, il feedback metalinguistico, l’elicitazione, la ripetizione per arrivare fino alla comunicazione non verbale dell’insegnante19.

Nella correzione esplicita l’insegnante fornisce in modo esplicito la forma corretta e indica l’errore all’apprendente.

Studente: Io andare al supermercato ieri.

Insegnante: Attenzione! Si dice “Io sono andato al supermercato ieri”.

Nel recast l’insegnante può proporre una correzione implicita in cui offre una riformulazione corretta della frase senza interrompere la comunicazione. Non viene evidenziato che si tratti di una correzione e si lascia all’apprendente la possibilità di analizzare in un secondo momento il suo errore.

Studente: Io andare al supermercato ieri.

Insegnante: Ah, sei andato al supermercato ieri? Che cosa hai comprato?

L’insegnante potrebbe chiedere di chiarire la parola o l’enunciato, scegliendo eventualmente di enfatizzare l'errore con una ripetizione, in modo che l’apprendente se ne accorga e possa autocorreggersi.

“Lʹora dellʹuscita. Aiuto scambievole per apparire ordinati ai genitori che attendono”, Scuola elementare, Bagnacavallo (RA), 1961. Archivio storico INDIRE, Fondo fotografico.

Studente: Io andare al supermercato ieri.

Insegnante: Ah, tu... ANDARE al supermercato ieri?!

Studente: Oh, sì! Io sono andato al supermercato ieri.

Un’altra possibilità è rappresentata dall’elicitazione, quando l’insegnante chiede all’apprendente di completare il suo enunciato anche usando pause strategiche per permettergli di autocorreggersi e completare la frase o le parole.

Studente: Io andare al supermercato ieri.

Insegnante: Io... sono…. and….

L’insegnante può utilizzare la comunicazione non verbale attraverso gesti del corpo o la mimica facciale capaci di suggerire indicazioni per la correzione dell’errore oppure utilizzando immagini, disegni, supporti visivi in grado di guidare l’autocorrezione.

Senza dubbio un ruolo chiave per il processo di apprendimento delle lingue è rappresentato dal feedback metalinguistico, che prevede da parte dell’insegnante il fornire indicazioni che spingano a riflettere sulla regola o sulla lingua in generale.

Studente: Io andare al supermercato ieri.

Insegnante: Attenzione! Qual è il tempo verbale corretto per un'azione passata?

La riflessione metalinguistica sugli errori costituisce indubbiamente lo sfondo integratore di tutte le possibili strategie, in quanto ragionare sulla lingua e saperla manipolare consente di consolidare il rapporto tra norma e sistema attraverso l’uso che l’apprendente fa della lingua. Nella prima partita a calcio in cui impariamo a muoverci in una situazione nuova, riflettere sulle modalità con cui bisogna passare la palla e calciare consolida quanto sperimentato dall’esperienza diretta. Per questo, per fare alcuni esempi nati dall’esperienza condotta a scuola, proporre all’apprendente di lavorare su testi autentici che presentano errori, elaborare un diario linguistico in cui raccogliere i propri errori e costruire check list per promuovere l’autocorrezione sono tutte attività che consentono di accompagnare il processo di acquisizione e apprendimento della lingua. Anche in questo caso, ogni insegnante può decidere liberamente quali strumenti utilizzare in base al contesto in cui opera.

Rapporti tra errore, valutazione, insegnamento e apprendimento

Volgendo lo sguardo dalla glottodidattica alla pedagogia, notiamo che considerare l’errore come il motore che innesca un processo di apprendimento può rivelarsi utile per migliorare la qualità dell’insegnamento, dato che consente di definire in modo più efficace l’obiettivo a cui si tende, le soglie di intervento e il tipo di feedback che si sceglie di impiegare.

Da questo punto di vista, è utile ricordare che le concrete scelte valutative assunte dall’insegnante nella didattica svolgono un ruolo decisivo sullo sviluppo degli apprendimenti. Esse, infatti, incidono sulla motivazione di studentesse e studenti20.

L’individuo genuinamente motivato verso l’apprendimento tende a valutare l’esito dell’attività svolta in relazione allo sviluppo delle proprie competenze, considera i risultati ottenuti come frutto dell’impegno personale e sviluppa un adeguato senso di autoefficacia, perseverando in comportamenti mirati al raggiungimento di obiettivi percepiti come intrinsecamente significativi.

Al contrario, l’individuo che ha sviluppato una motivazione estrinseca interpreta la riuscita in funzione del confronto con altri soggetti, collocando i criteri di successo o insuccesso all’esterno, nel contesto competitivo con compagne e compagni.

Il punto è che, sebbene la motivazione sia fortemente influenzata dal retroterra familiare, la psicologia dell’apprendimento e dell’istruzione riconosce anche il ruolo cruciale dell’insegnamento.

In particolare, alcune scelte dell’insegnante21, come quelle legate alla valutazione, possono favorire una motivazione intrinseca negli studenti. Una valutazione che integra gli errori nel processo didattico, favorisce la collaborazione e l’insegnamento tra pari, esprime i progressi in modo criteriale (ovvero, collegandoli a obiettivi di apprendimento) e, soprattutto, offre riscontri descrittivi orientati allo sviluppo, tende a sostenere lo sviluppo di una motivazione intrinseca, associata a sua volta a un miglioramento dell’apprendimento.

Al contrario, se l’insegnante usa una valutazione che sottolinea l’assenza di errori, che scoraggia la collaborazione, che si basa sul confronto tra prestazioni e pro -

pone premi o punizioni gestiti dall’alto, tenderà a promuovere una motivazione estrinseca.

Da questo punto di vista, come abbiamo visto, una delle decisioni più rilevanti tra quelle operate dall’insegnante è relativa alle decisioni assunte nella comunicazione della valutazione. In particolare, mentre il riscontro descrittivo si è rivelato una scelta estremamente efficace22, il ricorso al voto nella valutazione quotidianamente svolta in aula è una delle prassi più deleterie23.

Va considerato che tale scelta favorisce la stigmatizzazione e la penalizzazione dell’errore. Il voto è spesso attribuito “per sottrazione”: si parte da un compito ideale (valutato con un “10” o “ottimo”) e si scalano punti per ogni errore riscontrato. Le conseguenze di questo approccio sono decisamente deleterie: voti bassi o declassamenti possono generare frustrazione e senso di umiliazione, alimentando una sorta di “paura dell’errore”.Quando l’errore non viene valorizzato come opportunità di apprendimento, si ostacola lo sviluppo di un sano atteggiamento scientifico. Perché formulare ipotesi e mettere le proprie idee alla prova dell’esperienza se ogni sbaglio comporta una sanzione?

Lo sfondo culturale, sociale e politico

Inoltre, questa scelta, come ogni faccenda didattica, può essere inquadrata culturalmente e politicamente. Considerare l’errore come fonte di stigma e penalizzazione contribuisce a consolidare le disuguaglianze iniziali. Se l’errore non viene utilizzato per favorire il miglioramento di insegnamento e apprendimento,chi parte avvantaggiato continuerà a migliorare, mentre chi presenta lacune più rilevanti tenderà a restare indietro. In tal modo, il privilegio diventa merito e lo svantaggio colpa.

Al contrario, la scelta di usare l’errore come occasione di insegnamento è associata al ricorso a una valutazione di tipo descrittivo e caratterizza una didattica disposta a mettersi in discussione, ovvero a lasciarsi modificare dall’esito della valutazione in modo da offrire a ogni individuo concrete opportunità di apprendimento.A conferma del fatto che se è vero che, come ricordava Mario Lodi24, insegniamo per asservire o per liberare, è anche vero che valutiamo per riprodurre o per trasformare.

NOTE

1. Si veda A. Cattana, M.T. Nesci, Analizzare e correggere gli errori , Guerra Edizioni, Perugia 2004, p. 25.

2. Si veda N. Chomsky, Aspects of the Theory of Syntax, MIT Press, Cambridge (MA) 1965 (v. cap. 1, par. 8 per l’introduzione del “language-acquisition device”), ed. it. Aspetti della teoria della sintassi, in Id., Saggi linguistici II. La grammatica generativa trasformazionale, trad. it. a cura di A De Palma, C. Ingrao e A.Woolf De Benedetti, Bollati Boringhieri, Torino 1970, disponibile online.

3. Si veda S.D. Krashen, Principles and Practice in Second Language Acquisition, Pergamon, Oxford 1982.

4. Per la definizione di interlingua si rimanda a L. Selinker, Interlanguage, in «International Review of Applied Linguistics», 10, 3, 1972, pp. 209–231.

5. Si veda M. Chini, Strategie di acquisizione della categoria del genere grammaticale nell’italiano come lingua prima e come lingua seconda , in A. Giacalone Ramat, M. Vedovelli (a cura di), Italiano: lingua seconda, lingua straniera. Atti del XXVI Congresso della Società di linguistica italiana (Siena, 5–7 novembre 1992), Bulzoni, Roma 1994, pp. 405–436.

6. Si veda M. Vedovelli, Fossilizzazione, cristallizzazione, competenza di apprendimento spontaneo, in Giacalone Ramat, Vedovelli, Italiano: lingua seconda, lingua straniera cit., pp. 519–547.

7. Si veda la voce errare sul vocabolario Treccani online, consultabile all’indirizzo https://www. treccani.it/vocabolario/errare/.

8. Si veda M. Dardano, P. Trifone, La nuova grammatica della lingua italiana, Zanichelli, Bologna 1997, p. 668.

9. Per approfondimenti sull’italiano standard e neostandard si rimanda a pubblicazioni di riferimento come: G. Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 1987 (nuova ed. Carocci, 2012); A.A. Sobrero (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi,Laterza,Roma-Bari 1993 (2ª ed. 2003); P. D’Achille, L’italiano contemporaneo, il Mulino, Bologna 2003 (2ª ed. 2014); L. Serianni, Italiano. Grammatica, sintassi, dubbi, Garzanti, Milano 1988 (rist. e agg. varie).

10. Si veda E. Coseriu, Sistema, norma y habla (con un resumen en alemán), in «Revista de la Facultad de Humanidades y Ciencias» (Montevideo), 9, 1952, pp. 113–181; poi in Id., Teoría del lenguaje y lingüística general. Cinco estudios , Gredos, Madrid 1962; 2ª ed., Madrid: Gredos, 1967, nella versione italiana Teoria del linguaggio e linguistica generale: sette studi (traduzione di R. Simone e L. Ferrara degli Uberti), con introduzione di R. Simone, Laterza, Bari 1971.

11. Si veda L. Serianni, La norma sommersa, in

«Lingua e Stile», XLII, 2007, pp. 283–295, p. 284.

12. Si veda Appendix Probi , edizione critica a cura di S. Asperti, M. Passalacqua, Firenze 2014, adeguamento testo su nuova edizione a cura di A. Borgna, C. Miglietta, digilibLT, Vercelli 2017, consultabile al link: https://digiliblt.uniupo. it/xtf/view?query=;brand=default;docId=dlt000538/dlt000538.xml.

13. Cf. Consiglio d’Europa. Quadro comune europeo di riferimento per le lingue - Volume complementare. Strasburgo, Council of Europe Publishing, 2020. Traduzione italiana a cura di Monica Barsi, Edoardo Lugarini e Anna Cardinaletti. URL: www.coe.int/lang-cefr La versione italiana del volume è disponibile al seguente link: https://www.lingueculture.net/wp-content/uploads/2021/02/Volume-complementare-QCER-2020.pdf

14. Cf. Consiglio d’Europa. Quadro comune europeo di riferimento per le lingue - Volume complementare. Strasburgo, Council of Europe Publishing, 2020. Traduzione italiana a cura di Monica Barsi, Edoardo Lugarini e Anna Cardinaletti. URL: www.coe.int/lang-cefr La tabella riportata è presente nella versione italiana a p. 143: https://www.lingueculture.net/wp-content/uploads/2021/02/Volume-complementare-QCER-2020.pdf

15. Si veda P.E. Balboni, Dizionario di linguistica educativa , Edizioni Ca’ Foscari – Venice University Press, Venezia 2024 (coll. SAIL, 27) doi: 10.30687/978-88-6969-812-5 (voce online), URL https://edizionicafoscari.unive.it/it/edizioni4/libri/978-88-6969-812-5/, alla voce errore: «è una devianza stabile, sistematica. Può essere dovuta a una competenza errata nella mente dello studente, oppure al fatto che la forma errata non è ancora stata affrontata, o è stata affrontata troppo precocemente rispetto alla sequenza acquisizionale».

16. Si veda M. Manfredini, Errore di sbaglio, in Consulenza linguistica, Accademia della Crusca, 11 ottobre 2023, online all’indirizzo accademiadellacrusca.it/it/consulenza/errore-di-sbaglio/27409.

17. Si veda Balboni, Dizionario di linguistica educativa cit. alla voce sbaglio: «è un errore casuale, non sistematico. A differenza dell’errore non indica una competenza imperfetta, le cui cause vanno analizzate per mettere in atto attività di recupero, rinforzo, ripasso».

18. Si veda E. Monami, Correggere l’errore nella classe di italiano L2, Edilingua, Roma 2021 (coll. «Nuova DITALS Formatori»).

19. Per un approfondimento si rimanda al contributo di R. Lyster, L. Ranta, Corrective Feedback and Learner Uptake: Negotiation of Form in Communicative Classrooms , in «Studies in Second Language Acquisition», 19, 1, 1997, pp. 37–66,

doi: 10.1017/S0272263197001034, liberamente scaricabile al link https://www.researchgate. net/publication/252160472_Corrective_feedback_and_learner_uptake.

20. Si veda C. Ames, Classroom: Goals, structures and student motivation, in «Journal of Educational Psychology», 84, 1992, pp. 261-271.

21. C. Corsini, La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto, FrancoAngeli, Milano 2023. 22- B. Wisniewski, K. Zierer, J. Hattie, The power of feedback revisited: A meta-analysis of educational feedback research, in «Frontiers in Psychology», 10, 2, 2020.

23. C. Corsini, La fabbrica dei voti. Sull’utilità e il danno della valutazione a scuola, Laterza, Roma 2023.

24. M. Lodi, Il paese sbagliato. Diario di un’esperienza didattica, Einaudi, Torino 1970.

Il presente articolo è da attribuirsi a Valentina Felici per la prima parte. I paragrafi Rapporti tra errore, valutazione, insegnamento e apprendimento e Lo sfondo culturale, sociale e politico sono a opera di Cristiano Corsini.

Valentina Felici

PhD in Linguistica storica, docente di lettere nella scuola secondaria di I grado, ha fatto parte di tre gruppi di lavoro ministeriali sul PEI (DI 182/2020); collabora con l'Università di Tor Vergata (cattedre di linguistica e glottodidattica); conduce corsi di formazione su didattica per competenze, inclusione, educazione civica e valutazione per il Centro Studi Erickson, DeAScuola, Scuole Polo. Ha collaborato alla progettazione e alla stesura di manuali scolastici di latino, italiano, storia, geografia, educazione civica editi da Mondadori Education. È fondatrice e presidente dell’Associazione “Coordinamento per la Valutazione Educativa” (CVE).

Cristiano Corsini

è professore ordinario di Pedagogia sperimentale all'Università Roma Tre. Si occupa di valutazione in campo educativo e di indagini nazionali e internazionali sull'efficacia e sull'equità di scuole e sistemi d'istruzione. Ha pubblicato La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto (2023) e La fabbrica dei voti (2025). È fondatore e responsabile scientifico dell’Associazione “Coordinamento per la Valutazione Educativa” (CVE).

Insegnami a fare errori!

Alle origini della paura di sbagliare ci sono spesso le convinzioni sulla matematica, derivanti in parte da come questa disciplina viene proposta. Ma senza errori si perde molto del processo di apprendimento.

di Silvia Sbaragli

La matematica è una delle discipline in cui le allieve e gli allievi mostrano con maggiore frequenza la paura di sbagliare e un conseguente atteggiamento di rinuncia che le/li porta a evitare di compiere errori. Eppure, la maggior parte delle ricercatrici e dei ricercatori che si occupano di scuola nei diversi ambiti disciplinari riconosce oggi il ruolo cruciale dell’errore nell’apprendimento, anche in matematica.

Nelle oltre 1.600 autobiografie del progetto Io e la matematica: il mio rapporto con la matematica dalle elementari ad oggi, raccolte in Italia da Zan (2007) e Di Martino (2009), la paura di sbagliare risulta una delle emozioni più diffuse tra quelle dichiarate da studentesse e studenti; emozione non sempre legata al rendimento, ma spesso connessa all’esperienza scolastica vissuta.

Analoghi risultati provengono dalla ricerca effettuata presso il Dipartimento formazione e apprendimento/Alta scuola pedagogica della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana di Locarno in Svizzera (Evoluzione degli atteggiamenti verso la matematica e il suo insegnamento), nella quale sono stati monitorati gli atteggiamenti nei confronti della matematica, in particolare gli aspetti emotivi, delle studentesse e degli studenti del Bachelor in insegnamento per la scuola elementare (Panero et al., 2020). La paura di sbagliare in matematica risulta piuttosto diffusa anche in questo campione di studentesse e studenti, nonostante abbiano scelto di insegnarla, come emerge dalle seguenti significative testimonianze: «Nei confronti della matematica provo l’emozione della paura, perché ho spesso avuto paura di commettere errori»; «Mi è sempre piaciuta la matematica, ma dalla terza liceo tutto è cambiato, avevo un insegnante molto pretenzioso e che spiegava poco e male le cose quindi ho cominciato ad andare malissimo e ad odiare questa materia. Associo (alla matematica) l’emozione paura perché ho paura di fallire di nuovo».

Le convinzioni sulla matematica

Da che cosa può dipendere la paura di sbagliare, dunque di compiere errori in matematica? Certamente da vari fattori, tra i quali le convinzioni che allieve e allievi sviluppano nel corso della loro esperienza scolastica nei confronti della matematica. Le ricerche in didattica della matematica evidenziano come tali convinzioni siano

spesso associate all’idea che la matematica sia una materia fredda, rigida, assoluta, esatta, distante, immutabile, priva di possibilità di interpretazione da parte del soggetto. Non è raro, infatti, sentire le seguenti affermazioni: «La matematica non è creativa, 2 + 2 fa sempre 4»; «C’è un unico modo per risolvere un problema»; «I problemi hanno una sola soluzione»; «Per riuscire in matematica serve molta memoria, perché occorre ricordare tutte le formule»; «Per la matematica o sei portato, o non puoi riuscire»; «La matematica o la sai, o non la sai» ecc.

Considerare la matematica una disciplina assoluta, rigida, univoca, priva di interpretazioni personali genera emozioni spiacevoli,che condizionano il rapporto delle allieve e degli allievi con l’errore e contribuiscono ad allontanarle/i dal piacere di apprenderla. La letteratura evidenzia un pericoloso circolo vizioso: le false convinzioni alimentano la paura di sbagliare e, a loro volta, questa paura rafforza tali convinzioni.

Eppure, come osservava il grande matematico francese Henri Lebesgue (18751941): «I matematici non si sono mai messi d’accordo sulla materia che studiano e tuttavia si suppone che la matematica sia la scienza delle verità assolute, eterne ed

indiscutibili». La matematica, al pari delle altre discipline, è infatti un meraviglioso, lento prodotto umano, fatto cioè dall’uomo per l’uomo, caratterizzato da creatività, varietà e da diverse interpretazioni. Vi è dunque un forte disallineamento tra ciò che la matematica è e come viene invece spesso insegnata o concepita da chi non la conosce.

Una “palestra educativa per la vita”

La paura di sbagliare e le erronee convinzioni associate alla matematica sembrano dipendere da come questa disciplina viene proposta a scuola, spesso incentrata su esercizi ripetitivi, distanti dal mettere in gioco la creatività, e dove l’errore viene percepito come una mancanza di conoscenza e abilità, assolutamente da evitare. Tuttavia, come sosteneva il filosofo Popper:

[…] evitare errori è un ideale meschino: se non osiamo affrontare problemi che siano così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà allora sviluppo della conoscenza. In effetti, è dalle nostre teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi impariamo di più. Nessuno può

← “Vita nella scuola”, Scuola Elementare Santa Chiara di Volterra (PI). Senza data. Archivio storico INDIRE, Fondo fotografico.

evitare di fare errori; la cosa più grande è imparare da essi (Popper, 1972, p. 242).

Seguendo il pensiero di Popper, anche in classe va favorita una didattica dove le proposte siano sufficientemente complesse da essere ricche, ampie, varie e possibilmente impregnate di senso, e dove l’errore è accolto e trova spazio, come inevitabile

Approfondire

• G.T. Bagni, B. D’Amore, Leonardo e la matematica, Giunti, Firenze 2006.

• B. D’Amore, S. Sbaragli, La matematica e la sua storia. Dalle origini al miracolo greco, Dedalo, Bari 2017.

• B. D’Amore, S. Sbaragli, La matematica e la sua storia. Dal tramonto greco al medioevo, Dedalo, Bari 2018.

• B. D’Amore, S. Sbaragli, La matematica e la sua storia. Dal rinascimento al XVIII secolo, Dedalo, Bari 2019.

• B. D’Amore, S. Sbaragli, La matematica e la sua storia. Dal XVIII al XXI secolo, Dedalo, Bari 2020.

•P. Di Martino, La macchina di ferro senza cuore, matematica e emozioni negative in classe, in B. D’Amore, S. Sbaragli, Pratiche matematiche e didattiche in aula. Atti del Convegno «Incontri con la matematica» (Castel San Pietro, novembre 2009), Pitagora, Bologna 2009, pp. 213-216.

•M. Panero, P. Di Martino, L. Castelli, S. Sbaragli, L’evoluzione degli atteggiamenti verso la matematica e il suo insegnamento degli insegnanti di scuola elementare in formazione iniziale, in «Didattica della matematica. Dalla ricerca alle pratiche d’aula» 8, 2020, pp. 48-77.

• K. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, trad. it. di A. Rossi, Armando Editore, Roma 1972.

• S. Sbaragli, A. De Carli, Matematica a fumetti, Dedalo, Bari 2021, consultabile all’indirizzo https:// www.matematicando.supsi.ch/risorse-didattiche/?jsf=jet-engine:filtro-risorse-didattiche&tax=iniziativa:57.

• R. Zan, Difficoltà in matematica. Osservare, interpretare, intervenire, Springer-Italia, Milano 2007.

compagno di viaggio alla ricerca di possibili soluzioni. Si tratta di creare un ambiente che sia una vera e propria “palestra educativa per la vita”, in cui è possibile formulare ipotesi a ricche proposte, anche quelle apparentemente assurde; dove assumono un ruolo importante i processi di pensiero; dove le ipotesi possono essere testate e dove è possibile interpretare e riflettere sulle proprie scelte e sui processi risolutivi e rivederli alla luce del percorso svolto e del contributo degli altri; dove l’errore diventa decisivo per raggiungere lo scopo e rappresenta una risorsa per il singolo e per il gruppo classe; dove con l’errore è anche possibile “giocare”, andando a “caccia di errori” nei processi risolutivi; dove è possibile sperimentare anche il fallimento in un ambiente protetto (il mondo della scuola) e al tempo stesso imparare ad accettarlo, interpretarlo e superarlo. Un ambiente dunque caratterizzato dai processi che producono il nuovo, che creano ciò che non c’era, invece di favorire quello ri-produttivo, dove esplorare, provare ed eventualmente sbagliare, sono contemplati e visti come momenti inevitabili di passaggio nello sviluppo dell’apprendimento.

Il ruolo della storia della matematica

Per fornire alla matematica un’immagine reale, positiva e vicina alle allieve e agli allievi risulta significativo integrare nell’insegnamento la sua storia,facendo cogliere come questa disciplina, al pari delle altre, sia un complesso e affascinante prodotto umano che si è modificato e sviluppato nel tempo.È possibile mostrare in classe le più importanti conquiste matematiche che si sono susseguite nello spazio e nel tempo, i principali nodi epistemologici dell’evoluzione della disciplina, senza dimenticare di considerare le persone che hanno contribuito a questa lenta conquista, con le loro caratteristiche, i pregi, i difetti e perché no, anche gli errori e i fraintendimenti (D’Amore & Sbaragli, 2017; 2018; 2019; 2020; Sbaragli & De Carli, 2021). In questo modo, è possibile far cogliere alle allieve e agli allievi che cos’è effettivamente la matematica, rendendola allo stesso tempo coinvolgente e umana ai loro occhi. Inoltre, per lavorare ancora di più sul ruolo dell’errore, è possibile estendere queste considerazioni facendo comprendere che fare errori fa parte del vissuto di

chiunque, anche di persone che hanno raggiunto grandi risultati, indipendentemente dalla professione. Da questo punto di vista è significativa la storia del poliedrico Leonardo da Vinci (1452-1519), uomo di ingegno e talento universale, che ha dimostrato di essere un buon conoscitore della matematica del suo tempo, anche grazie all’amicizia con il matematico Luca Pacioli (1445-1514), ma di essere allo stesso tempo a volte in difficoltà a gestirne alcuni aspetti. Egli dimostra ad esempio di non

fallimento che possiamo infatti provare come docenti è di vedere le nostre allieve e i nostri allievi rinunciare a esplorare e provare per evitare di fare errori; ciò che dobbiamo invece sempre più favorire è che continuino a mettersi in gioco concependo l’errore come possibile.

È dunque tramite un’impostazione didattica, basata sulla storia della matematica e sulla problematizzazione delle attività, dove non si ha paura dell’ignoto, dove non tutto deve essere controllato, do -

“trovarsi a proprio agio” con le frazioni, commettendo alcuni goffi errori riportati in Bagni e D’Amore (2006), come il seguente: nel Codice Atlantico, foglio 191 v. Leonardo scrive «[…] sarà 12/12 cioè 1/0». L’errore oggi apparirebbe grossolano alla maggior parte delle studentesse e degli studenti di tredici anni, le/i quali sanno che ogni frazione con numeratore uguale al denominatore è uguale a 1, e che invece la scrittura 1/0 non ha significato.

Mostrare in classe errori di grandi personaggi che li hanno commessi alla ricerca di nuova conoscenza può consentire alle studentesse e agli studenti di sentirsi meno soli, e di rendere più possibile e accettabile l’errore stesso.

Lʹerrore possibile

Tornando al titolo di questo articolo, con “Insegnami a fare errori!” intendiamo dunque spingere chi insegna a ripensare alla propria didattica, allo scopo di far emergere con sempre più forza e coraggio la presenza e il ruolo dell’errore nel processo di apprendimento. Il più grande

ve l’errore è possibile e dove si valorizzano i processi di pensiero attivati e la capacità di condividerli con gli altri, che è possibile ridare la propria identità alla matematica e di conseguenza cambiare l’immagine sociale di questa disciplina e, più in generale, dare valore all’intero processo di insegnamento/apprendimento.

è professoressa ordinaria in didattica della matematica e responsabile del Centro competenze didattica della matematica del Dipartimento formazione e apprendimento / Alta scuola pedagogica della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana di Locarno (Svizzera). È direttrice della rivista «Didattica della matematica. Dalla ricerca alle pratiche d’aula» (rivistaddm.ch - fascia A) ed è membro dei comitati scientifici di altre riviste e collane. Ha all’attivo numerose pubblicazioni in ambito didattico, divulgativo e di ricerca. Dirige le piattaforme digitali matematicando.supsi.ch, mama.edu.ti.ch e mateval.ch, destinate alla divulgazione di materiali didattici.

“Comportamento a scuola: entrata e uscita”. Scuola elementare Fraz. Gragnano, Capannori (Lucca), scuola primaria. Archivio storico INDIRE, Fondo fotografico.

Le ragioni dell’errore

Che cosa succede se si indaga l’opera di Leopardi attraverso la chiave di lettura dell’errore?

Ben lungi dall’essere laterale, si scopre un tema ricorrente e denso di significato, e si trova una via d’uscita dagli schematismi che ancora irrigidiscono la sua trattazione a scuola.

Sorprende davvero come e quanto il pensiero mobile, complesso, in perenne svolgimento, di Leopardi continui a essere imprigionato entro classificazioni rigide spesso sconfinanti nello schematismo. In verità, la ricerca scientifica, sin da un saggio di Antonio Prete dal titolo illuminante, Il pensiero poetante1, ha da tempo messo in guardia sulle trappole dei “pessimismi” leopardiani, sulle facili dicotomie (“pessimismo storico” / “pessimismo cosmico”), in un sistema che finisce per chiudersi su sé stesso. Eppure la didattica leopardiana a scuola sembra ancora oggi impermeabile all’importante lavoro di lettura e interpretazione che l’opera di Leopardi ha conosciuto in oltre quarant’anni di ricerche. Non è difficile in fondo capirne le ragioni: proprio la natura mobile di quel pensiero, che non tollera di cristallizzarsi in formule incontrovertibili, ha per paradosso indotto a “normalizzarne” l’andamento e a neutralizzarne le contraddizioni, le aporie, le sovrapposizioni, secondo una progressione quasi hegeliana (tesi/antitesi/sintesi).

Un buon antidoto alla vulgata scolastica, che àncora la lettura di Leopardi a griglie interpretative comode ma ampiamente superate, è quello di allargare la scelta testuale percorrendo strade meno battute. Il che non significa rinunciare a letture canoniche, ma riproporle in relazione a temi di grande rilevanza, che giochino una partita doppia tanto sul piano della conoscenza dell’autore che su quello dell’immaginario dei lettori. La strada che ho scelto di percorrere prende spunto proprio dal tema dell’errore, sulle cui declinazioni ruota questo numero de «La ricerca». Può sembrare una chiave di lettura laterale rispetto a temi leopardiani ben altrimenti noti come quelli della felicità/infelicità, della natura, della civiltà, del fine ultimo dell’esistenza individuale e universale. Invece, si presta a essere esplorato almeno per tre ragioni:

a) interseca tutti o quasi gli altri temi di Leopardi fornendo un punto di vista su di essi meno consueto;

b) è una cartina al tornasole di come il tracciato del pensiero leopardiano proceda per avanzamenti, rotture, recuperi e continui riassetti, in cui il valore del vero non sta nella sua infallibilità ma nell’interrogazione continua e nella ricerca dei nessi tra le cose e le idee;

c) dà valore euristico all’errore e lo mette al centro dell’esperienza umana; il che anche in chiave pedagogica è di grande rilevanza.

D.

Morelli, Ritratto di Giacomo Leopardi, 1842 (Wikipedia).

Un tema nevralgico

Partiamo dunque dal primo dei tre assi individuati per valutare la significatività della proposta. Ho anticipato che la riflessione di Leopardi sull’errore si incrocia con una costellazione di temi nevralgici della sua indagine: illusione, immaginazione, natura e ragione, inganno e speranza, progresso e verità. Ma di quali strumenti disponiamo per avviare in aula un’indagine che ne dia conto? Una ricerca delle occorrenze del lemma errore nei testi è sul piano della ricerca il primo passo da fare. Possiamo immaginare di compiere un’operazione simile con la classe? Docenti e studenti potrebbero ricorrere a strumenti di informatica umanistica2, ma in questo caso suggerisco di ricorrere al Lessico leopardiano, un progetto di ricerca promosso dal Laboratorio Leopardi della Sapienza di Roma, nel cui sito sono consultabili i volumi finora allestiti per indagare le opere leopardiane attraverso le ricorrenze lessicali. Dalla voce «Errore» redatta da Susanna Casacchia per il Lessico leopardiano 2022, a cui rinvio per un’analisi documentata della questione 3 , emerge che il lemma, assieme ai suoi corradicali (errare, errato, errante, erroneo, errantemente, lat. error, lat. erratus, lat. errans, fra. erreur, spa. errado, spa. errarse), «è notevolmente attestato all’interno del corpus leopardiano e distribuito lungo un arco cronologico ampio», che va dal 1809 al 1836. Si parla di 933 occorrenze, variamente distribuite nella produzione, con forti concentrazioni nelle opere in prosa (in particolare nelle Prose puerili e giovanili e nello Zibaldone) e una distribuzione decrescente nel tempo. La rigorosa metodologia con cui è condotta l’indagine può fornire all’insegnante alcune chiavi di lettura per impostare il percorso: ad esempio, soffermarsi su quali parole - nei passi presi in esame - il lemma errore è in rapporto di sinonimia o equivalenza, con quali è incompatibile in toto o parzialmente, a quali si oppone per antinomia, quali aggettivi, sostantivi, verbi si accompagnano alla parola in esame. Ma, soprattutto, l’insegnante ricava che la parola può assumere diverse connotazioni a seconda del contesto, e che queste connotazioni possono essere negative o positive anche in relazione alla densità semantica del lemma. L’indagine sui Canti, per quanto numericamente meno significativa di altre opere, da sola può fornire spunti sufficienti a dar conto di questa

ambivalenza. Dovendo scegliere un punto di partenza praticabile in aula, opterei per un’attività di analisi e riflessione sugli usi del verbo errare nel Canto notturno 4, una delle liriche più lette a scuola, e che consente di proporre alla classe un’occasione di riflessione sul significato letterale della parola e sulla sua valenza polisemantica. Grazie a WikiLeopardi 5, una piattaforma di agevole utilizzo, possiamo infatti verificare con la classe la trasformazione del titolo della lirica, che nell’edizione Piatti dei Canti (Firenze, 1831) aveva al posto di errante il participio vagante. Il titolo cambia nell’edizione Starita (Napoli, 1835) per poi mantenersi inalterato. Lo strumento informatico consente inoltre di raccogliere insieme agli studenti le altre modifiche apportate nel tempo alla lirica e di valutare come la variante del titolo sia forse, fra tutte, la più significativa. A questo punto, è utile chiedersi: «Cosa potrebbe aver indotto Leopardi a sostituire vagante con errante?». Nel titolo originario la forma vagante, pur sfruttando l’evocatività dell’idea di lontananza e vaghezza che il verbo ha in Leopardi, rinviava a livello denotativo al nomadismo del pastore. Sostituendola con errante, Leopardi non si limita a introdurre un sinonimo (il significato etimologico del latino errare rinvia infatti all’atto fisico del “vagare"), ma sfrutta la parola anche nel suo valore figurato: vagando ci si può allontanare dal vero e quindi si può cadere nell’errore. Dalla lettura del canto si potrà rilevare inoltre che il verbo errare torna altre due volte nell’ultima strofa senza subire modifiche: nel primo caso nella forma dell’infinito (errar al v. 136, con riferimento all’eco sonora dei tuoni, che rimbalza «di giogo in giogo») e nel secondo nella forma erra (v. 139: «erra dal vero»), riferita invece al pensiero del pastore. In questa seconda occorrenza è evidente lo slittamento metaforico (il pensiero devia dal vero e quindi cade in errore).

Nel momento in cui la domanda viene rivolta alla classe, emergerà che la sua rilevanza non è solo filologica, ma può trasformare gli studenti in co-costruttori di significati sulla base di un metodologia e di strumenti scientificamente validi.

La lettura che propongo di seguito è solo una delle risposte che si possono avanzare dopo il confronto con il testo. Sulla base della strofa finale, in cui il verbo errare ricorre sia nel significato letterale sia in quello metaforico, possiamo ipotizzare che Leopardi sia voluto tornare sul tito -

lo per condensare nel participio errante tanto l’esperienza storica del pastore, condannato a una vita erratica di steppa in steppa, quanto la sua ricerca filosofica, chiamata a far i conti, più che con le verità acquisite, con gli errori di valutazione sul senso dell’esistenza. Anche il pensiero del pastore, al pari dei suoi passi, di domanda in domanda,di considerazione in considerazione, gira a vuoto nella sua martellante e fallimentare interrogazione alla luna. Si potrebbe anche sollecitare l’attenzione degli studenti su un’altra circostanza: come mai nella strofa finale, che culmina con una massima lapidaria e irrevocabile («È funesto a chi nasce il dì natale», v. 143), Leopardi dissemina per ben tre volte l’avverbio forse («Forse s’avess’io l’ale », v. 133; «O forse erra dal vero», v. 139; «Forse in qual forma», v. 141)? Che rapporto c’è tra dubbio e verità? E che ruolo hanno gli errori del pastore nel procedere della sua investigazione? Si tratta di domande di senso, non di domande di mera comprensione o di analisi tecnica, rispetto alle quali l’insegnante dovrebbe non suggerire risposte preconfezionate, ma mettersi in ascolto della classe.

Errore e verità: una tensione continua

Il rapporto errore / verità che attraversa il Canto notturno mi consente di passare al secondo asse del ragionamento e di intersecare anche il terzo. Per affrontarlo suggerisco di spostarci sullo Zibaldone E qui ci soccorre lo stesso Leopardi, che ha dotato questo libro straordinario di un indice tematico, quasi a guidarci nei labirinti della sua meditazione fornendo in primo luogo a sé stesso una mappa per orientarsi. Sarà bene avvisare gli studenti che non si tratta di una mappa di agevole decifrazione perché ci conduce da un appunto all’altro, spesso distanti tra loro cronologicamente e fisicamente. Cosa se ne potrà ricavare? La lettura attenta e guidata dei passi 6 (l’insegnante potrà farne una selezione preventiva) ha come obiettivo quello di seguire Leopardi nel suo modo di affrontare la ricerca della verità, passando dal pastore al poeta. Un modo non convenzionale, aperto a una costante revisione critica delle conclusioni a cui approda, in cui - come vedremo - il valore dell’errore svolge un ruolo nevralgico.

Collocherei l’avvio del discorso fuori dallo Zibaldone , ricordando che nel 1815

un giovanissimo Giacomo, che ancora si professava cattolico, aveva composto il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, mosso dall’entusiasmo di dissipare le nubi delle superstizioni e delle credenze nemiche della ragione (e della fede). Già però a questa altezza, egli distingue tra gli errori più triviali e quelli degli antichi: «Ogni pregiudizio è un errore,ma non ogni errore è un pregiudizio»7. In questa affermazione si coglie uno spostamento del significato della parola, che - quando riferita agli antichi - non coincide necessariamente con l’area semantica della falsità e dell’ignoranza, ma piuttosto dialoga con quella dell’illusione, degli inganni ameni della fanciullezza e dell’immaginazione, principi e valori interni al sistema della natura. Il concetto di errore non si connota dunque in modo univocamente negativo, ma acquista una valenza più complessa e stratificata, su cui Leopardi tornerà a meditare. Diversi anni più tardi, infatti, si legge nello Zibaldone sullo stesso tema:

Oltre che la natura, voglio dir la ragione semplice, vergine e incolta, giudica spessissime volte piú rettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata e addottrinata. E però non è raro che le genti del volgo e i fanciulli abbiano di molte cose opinioni migliori o piú ragionevoli che i sapienti (Zib., 4478).

Il pensiero risale al 31 marzo 1829: sono trascorsi 14 anni dal Saggio giovanile e l’interesse per il tema non solo non è scemato, ma conferma almeno due acquisizioni: la prima, che l’interrogazione sul rapporto verità/errore rimane al centro della speculazione leopardiana; la seconda, che l’idea che gli antichi fossero per vari aspetti superiori ai moderni resta un’idea di lunga durata:

non è temerario il dire che, generalmente, nelle materie speculative e in tutte le cose il conoscimento delle quali non dipende da osservazione e da esperienza materiale, i filosofi antichi errassero dalla verità, o dalla somiglianza del vero, meno che i filosofi moderni (Zib., 4478).

Leopardi distingue quindi la filosofia moderna, che si basa sull’osservazione empirica (Rivoluzione scientifica, Locke, Hume e pensiero settecentesco), dalla filosofia antica: quest’ultima nella conoscenza delle materie che non necessitano del

metodo sperimentale si discosta dal vero - o dal suo simulacro - meno di quella dei moderni. In parallelo, Leopardi va definendo anche il compito della filosofia moderna: sulla scorta del pensiero di Bayle, potrà affermare «che la ragione è piuttosto uno strumento di distruzione che di costruzione» (Zib., 4192, 30 agosto e 1 settembre 1826). Essa è chiamata a de-costruire gli inganni e gli errori, ma non quelli che la natura ha previsto per l’equilibrio del sistema universale, bensì quelli generati dall’uomo stesso: i falsi miti del progresso, della perfettibilità del genere umano, dell’antropocentrismo, del finalismo e dello spiritualismo, figli dell’incivilimento s-misurato e dello s-naturamento senza limiti.

Dalla messa a punto progressiva anche se non lineare di questa riflessione, emergono altre due implicazioni di grande rilievo per il pensiero novecentesco: la prima è che senza l’errore non ci sarebbe stimolo alla cognizione del vero e che dunque il cammino umano della conoscenza deve più agli errori che alle verità8; la seconda è la natura relativa della verità e il ruolo nevralgico del dubbio.

Se ci spostiamo dal valore epistemologico a quello etico dell’errore,la riflessione leopardiana non cessa di riservarci sorprese: se è vero che la natura ha previsto gli errori/illusioni come funzionali alla conservazione del ciclo della speranza e dunque alla conservazione del sistema stesso, cosa succede quando la ragione si accanisce a dimostrarne la vacuità? Se nuoce il fatto che la natura ha volutamente nascosto alcune verità agli uomini, gli effetti di questa rivelazione sul vivere

in società potrebbero rivelarsi ancor più gravi. Quegli «errori primitivi», infatti, hanno generato costumi, consuetudini, valori come la virtù, l’eroismo, l’amor patrio, il coraggio, la tensione verso la gloria, necessari per rendere grandi gli individui portandoli a superare nello stesso tempo l’eccessivo amor proprio: «La distruzione delle illusioni, quantunque non naturali, ha distrutto l’amor di patria, di gloria, di virtú ec. Quindi è nato, anzi rinato, uno universale egoismo» ( Zib . 4136, 18 aprile 1825). Sembrerebbe dunque che gli errori possano avere un valore positivo quando non siano generati da ignoranza superstiziosa o, al polo opposto, dall’esercizio freddo della ragione moderna. E questa idea convive, non senza tensioni, con la spinta etica, oltre che teoretica, verso la verità, ben oltre gli anni giovanili delle Canzoni, degli Idilli e del Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica del 1818. I due volti dell’errore e della verità si fronteggiano infatti in un’operetta del 1827, il Dialogo di Plotino e di Porfirio, un testo che, quando è proposto in aula, viene generalmente letto per affrontare il tema del suicidio. Se non si riesce a leggerlo nella sua versione integrale, fondamentali risultano ai nostri fini almeno le ultime pagine, che culminano nell’esortazione di Plotino al suo discepolo a non togliersi la vita. Nelle parole dei due protagonisti si riflette la posizione bifronte di Leopardi sul tema errore/verità: non a caso le occorrenze della parola errore/error9 si concentrano e si distribuiscono quasi equamente nell’ultimo botta e risposta dei protagonisti. Difronte alle argomentazioni di Porfirio che condanna l’«errore di computo e di

↑ C. D. Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818, Hamburger Kunsthalle (Wikipedia).

misura» che porta gli uomini ad amare la vita preferendola alla morte, Plotino ne confuta il ragionamento sostenendo che quello che il suo amico chiama «errore» nasce da una disposizione connaturata all’esistenza, che accomuna tanto gli uomini privi di cultura che quelli di ingegno. L’«errore di computo» è reso necessario dalla natura per alimentare quel «gusto della vita» che altrove Leopardi assimila al ciclo del desiderio. Ciò che la ragione di Porfirio smaschera come errore è assunto, dunque, come vero e necessario dal «senso dell’animo», istinto vitale mascherato sotto il velo della speranza. Plotino ribalta le tesi dell’amico senza rinnegarne i fondamenti, e dunque la validità razionale, ma oppone l’etica alla logica: la decisione di privarsi della vita volontariamente nasce dal «men bello e men liberale amore di sé medesimo» ed è pertanto una forma estrema di egoismo che corrode i valori affettivi e di solidarietà su cui deve fondarsi il vivere sociale. Da qui, il passo verso la Ginestra non è poi così lungo.

Una breve (e molto provvisoria) conclusione

Tirando le fila, pur senza la pretesa di far tornare i conti a tutti i costi o di voler ricostruire percorsi di assoluta coerenza in un pensiero dall’andamento mosso e zigzagante come quello di Leopardi, mi sembra importante far parlare i suoi testi rintracciando chiavi di interrogazione più stimolanti per giovani lettori che si accostano all’opera leopardiana forse per la prima (e unica) volta.

Aggiungerei che, in prospettiva pedagogica, i testi qui richiamati sia pur rapidamente possono inserirsi all’interno di un più generale ripensamento critico del concetto di errore inteso non come stigma e segnale di inadeguatezza da estirpare o correggere, ma nel suo valore relativo come fase imprescindibile dei processi di crescita e di conoscenza. Leopardi ci offre l’opportunità di cogliere persino il lato estetico dell’errore, che si sprigiona quando l’immaginazione fanciullesca, la fantasia, il sogno partoriscono illusioni e belle favole. E su questo piano, davvero, è possibile stimolare un confronto cognitivamente ed emotivamente forte con il testo letterario.

NOTE

1. A. Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi,

Feltrinelli, Milano 1980 (riedito nel 2021 da Mimesis).

2. Numerosi sono ormai gli strumenti che la Rete ci offre per interrogare i testi tanto nella prospettiva del Close che del Distant Reading. Senza la pretesa di fornirne un repertorio, cito qui soltanto quelli che ho utilizzato nel mio lavoro. Tra i più versatili e completi, sicuramente Voyant Tools (https://voyant-tools.org/), che necessita però di una certa preparazione. Per i corpora di testi della letteratura italiana, utili per la ricerca di occorrenze e concordanze, almeno due strumenti: la Biblioteca Italiana (http://www.bibliotecaitaliana.it/) e Intratext (www.intratext.com/).

3. Cfr. https://lableopardi.web.uniroma1.it/. La voce «Errore» di S. Casacchia è alle pp. 75-87 di Lessico leopardiano 2022 (https://lableopardi.web.uniroma1.it/sites/default/files/allegati/2025-06/Lessico_Leopardiano_2022_0.pdf).

4. Le citazioni dal Canto notturno sono tratte da G. Leopardi, Canti, a cura di L. Blasucci, Fondazione Pietro Bembo, Ugo Guanda Editore, Milano 2022, vol. 2, pp. 110-27.

5. Il portale WikiLeopardi riproduce in digitale, con impostazione ipertestuale, l’edizione dei Canti curata da Franco Gavazzeni (https://wikileopardi.altervista.org/wiki_leopardi/index. php?title=Wiki_Leopardi).

6. Nell’indice leopardiano alla voce «Errore» sono riportati i passi 323-333; 421; 2705-2709; 27092715; 4192-4193; 4135-4136; 4477-4478; 4484. Per i passi citati si è tenuto conto dell’edizione a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano 1991. Si segnala inoltre la piattaforma digitalzibaldone.net/ di Silvia Stoyanova e Ben Johnston.

7. La citazione è tratta dal cap. XIX del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi , Einaudi, Torino 2003.

8. Cfr. Zibaldone, 2706 (22 maggio 1823).

9. Dialogo di Plotino e di Porfirio, in G. Leopardi, Operette morali. Edizione commentata, Le Monnier, Firenze 2024, pp. 343-59. La parola errore/ error ricorre 5 volte, di cui 3 in bocca a Porfirio e 2 a Plotino.

Paola Rocchi

ha insegnato Italiano e Latino nei licei, ha svolto il ruolo di tutor coordinatrice nella formazione iniziale ed è attiva nella formazione in servizio dei docenti. Membro del direttivo dell’Associazione degli Italianisti. Sezione didattica, ne coordina le iniziative per il Lazio. È autrice di testi scolastici, fra cui i manuali di letteratura italiana Letteratura visione del mondo e Leggere e scrivere il mondo curati con Corrado Bologna per la casa editrice Loescher.

CORRIGE, un progetto europeo sugli errori di scrittura

L’errore ortografico – o più precisamente grafematico – è la spia di un rapporto fragile con la lingua scritta. Può sembrare un dettaglio, un inciampo occasionale in un compito scolastico o in un messaggio sul cellulare, ma in realtà rivela un fenomeno ben più profondo: una progressiva perdita di familiarità con la scrittura, con le sue regole e con il suo valore culturale. Oggi gli errori ortografici si moltiplicano in contesti diversi: nella scuola, nei social network, nei documenti professionali. Non è un caso se insegnanti e formatori parlano sempre più spesso di “emergenza scrittura”.

Le ragioni degli errori sono molteplici. Alcuni errori derivano da disturbi specifici di apprendimento – dislessia, disortografia, disgrafia – o da difficoltà di attenzione e concentrazione. In altri casi, la lingua madre non coincide con quella della scuola: studenti con un retroterra migratorio portano talvolta nel nuovo idioma influssi fonetici e grafici della lingua d’origine. Non solo la lingua di origine, ma anche il dialetto può incidere sulla ridotta prestazione nella scrittura. In Italia ad esempio, alcuni dialetti non presentano distinzione tra consonanti semplici e doppie, per cui chi scrive traspone nel testo semplicemente quello che percepisce foneticamente nel proprio dialetto. Vi è poi una causa trasversale, che riguarda tutti: la minore esposizione a testi scritti di qualità. Se leggere libri e scrivere a mano diventano attività rare, la competenza ortografica si indebolisce e l’errore diventa la norma. Sempre più insegnanti ammettono di non riuscire neppure a consigliare letture ‘per le vacanze’, perché tanto poi gli studenti non le leggono.

Studiare l’errore, dall’antichità a oggi

Eppure questo che ci appare un tema del nostro tempo parte da molto lontano, almeno dagli albori della lingua scritta, che, per il nostro sistema di scrittura, iniziano nella penisola del Sinai e Levante meridionale con la scrittura protosinaitica/proto-cananaica (1800-1500 a.C.). Ebbene, da allora l’evoluzione di quella che è stata chiamata

una rivoluzione cognitiva, passando per l’alfabeto fenicio, poi greco, poi etrusco e poi latino, la scrittura con un numero limitato di segni (le lettere), ha proceduto con evoluzioni in gran parte del mondo antico del Mediterraneo fino ad arrivare al nostro sistema a 21 segni (numero che cambia leggermente se inseriamo altre lingue d’Europa).

Studiare l’errore non è solo un problema educativo contemporaneo. I linguisti del mondo antico sanno che, laddove la competenza della scrittura era ancora limitata nella società e non aveva la diffusione che ha oggi, si trovano omissioni di lettere, raddoppiamenti, confusione tra grafemi simili. Questi errori non erano semplici “sbagli”, ma tracce di un processo: la comunità stava imparando a scrivere, e ogni deviazione dalla norma raccontava un passaggio di quell’apprendimento. Lo stesso vale oggi: l’errore è il segnale di un percorso cognitivo e sociale, non solo di una mancanza. Ma l’errore è anche un segno di cambiamento e di evoluzione, come dimostra il fatto che molte delle lingue parlate oggi in Europa, nell’area “romanza”, si sono evolute dall’incontro del latino con lingue preromane presenti nei diversi paesi e dal contatto con altre lingue incontrate nel corso della loro storia. Se in Italia non avessimo deviato dalla norma rappresentata dalla lingua latina,oggi continueremmo tutti a parlare e scrivere in latino.

Il duplice obiettivo del progetto CORRIGE

Per rispondere alle sfide odierne è nato CORRIGE – Tools to Detect and Mitigate Writing Errors in Secondary Schools, un progetto europeo Erasmus+ SCH (Project N° 2024-1-IT02-KA220-SCH-000248221 2024202) dedicato in prima istanza al mondo della scuola secondaria. L’obiettivo è duplice: fornire a studenti e insegnanti strumenti innovativi per riconoscere e correggere gli errori ortografici, e al tempo stesso promuovere una nuova consapevolezza sull’importanza della scrittura nella società contemporanea. CORRIGE mira a creare risorse ottimizzate e facilmente accessibili, tra cui: un Atlante digitale degli errori ortografici e un test di autovalutazione; fornire agli studenti competenze per superare le barriere legate all’alfabetizzazione, riducendo frustrazione e rischio di abbandono scolastico; offrire

agli insegnanti una formazione mirata, per affrontare gli errori con strategie innovative e non solo correttive; ridurre la distanza tra scuola e mondo del lavoro, valorizzando la padronanza della scrittura come competenza di cittadinanza.

Molti studi sugli errori ortografici riguardano lingue “opache” (“deep”) come l’inglese o il francese, dove la distanza fra suono e grafia rende la scrittura più complessa. In queste lingue esistono banche dati e software dedicati. Mancava invece una riflessione sistematica per le lingue cosiddette “trasparenti” o “a ortografia poco profonda” (“shallow”), come l’italiano, lo spagnolo, il rumeno, o “media” come il portoghese. Qui la corrispondenza fra suono e lettera è più diretta, eppure gli errori crescono in modo significativo, anche fra coloro che hanno già consolidato l’apprendimento delle suddette ortografie. CORRIGE è innovativo proprio perché affronta questo vuoto, proponendo strumenti tarati su tali sistemi linguistici.

Le tappe di un percorso articolato

Il lavoro si articola in cinque azioni principali: 1) Test di autovalutazione: un test digitale che aiuta studenti e docenti a individuare errori ricorrenti, valutarne le cause (interferenza linguistica, deficit attentivo, disturbo specifico) e ricevere suggerimenti di correzione. 2) Atlante digitale degli errori di scrittura: un repertorio interattivo che raccoglie e classifica i diversi tipi di errori, illustrandoli con esempi, collegandoli a strategie di correzione e mostrando come simili errori si ritrovino anche nella storia della scrittura. 3) Pacchetto di formazione per docenti ed e-book: materiali teorici e pratici che permettono agli insegnanti di riconoscere e trattare i diversi tipi di errori. 4) Attivazione degli stakeholder: associazioni di insegnanti, enti culturali, società di formazione saranno coinvolti come moltiplicatori dei risultati. 5) Disseminazione: attività di sensibilizzazione rivolte non solo alla scuola, ma anche a famiglie, associazioni culturali, biblioteche, società civile.

Partner scientifici e scolastici

CORRIGE vede la collaborazione di partner scientifici e scolastici in Italia, Spagna, Portogallo e Romania, con il supporto di associazioni culturali e reti educative. Questa struttura transnazionale e multi-

disciplinare garantisce un confronto fra sistemi scolastici diversi e la costruzione di una tipologia condivisa di errori ortografici. L’Università di Genova, capofila del progetto, porta la sua lunga tradizione di ricerca e formazione – soprattuto nel Polo Bozzo, dedicato da molti anni allo studio della scrittura nell’età evolutiva –garantendo il coordinamento scientifico e metodologico.Accanto a essa nel coordinamento scientifico, l’ente privato di ricerca Alteritas ETS di Verona contribuisce con la propria esperienza nello studio delle lingue e dei processi interculturali, sviluppando strumenti teorici e applicativi innovativi. Sul versante scolastico, il polo Emídio Garcia di Bragança in Portogallo e l’IES Miguel Catalán di Coslada offrono il contatto diretto con studenti e insegnanti, permettendo di sperimentare e validare le attività del progetto in contesti educativi reali. Il Consorzio CONFAO, forte della sua rete nazionale,assicura la diffusione dei risultati e la formazione dei docenti in Italia, mentre la Fundatia EuroEd di Iași in Romania, attiva nella promozione dell’istruzione inclusiva e multilingue, garantisce l’impatto sul territorio rumeno.A supporto del progetto interviene anche l’Istituto Politecnico di Bragança (IPB) in Portogallo, con competenze di ricerca applicata e sviluppo tecnologico, che contribuisce all’implementazione degli strumenti digitali previsti. Infine, la prestigiosa Università Complutense di Madrid in Spagna, una delle più antiche e rinomate d’Europa, rafforza la dimensione internazionale e la solidità scientifica dell’iniziativa. Insieme, questi partner rappresentano una comunità educativa e scientifica capace di affrontare in modo innovativo e condiviso la sfida degli errori ortografici e della scrittura nel mondo contemporaneo.

Beneficiari e finalità del progetto

I beneficiari diretti sono studenti delle scuole superiori (14–17 anni), docenti di lingua e di discipline umanistiche, insegnanti di sostegno. Ma l’impatto si estende anche a studenti con background migratorio, a chi ha disturbi specifici dell’apprendimento, alle famiglie, agli operatori della formazione permanente. In senso più ampio, riguarda l’intera società: la qualità della scrittura è parte della qualità della vita culturale di un popolo. Grazie a CORRIGE sarà possibile individuare precocemente difficoltà di scrittura

non rilevate; ridurre la frustrazione e il rischio di esclusione scolastica e, dopo la scuola, di marginalizzazione professionale; rafforzare la fiducia degli studenti nelle proprie capacità; offrire agli insegnanti strumenti innovativi, informali ma scientificamente fondati; sensibilizzare la società al valore della scrittura come patrimonio condiviso.

Viviamo in un’epoca dominata dall’“Infosfera”, dove la tecnologia produce testi al posto nostro. Assistenti vocali, correttori automatici e intelligenze artificiali generano scrittura fluida, ma rischiano di indebolire la nostra capacità di scrivere consapevolmente. CORRIGE vuole invertire questa tendenza: non rifiutare la tecnologia, ma usarla come alleata per rafforzare la competenza scritta, stimolare curiosità e restituire dignità al gesto dello scrivere.

L’errore ortografico non è un nemico da cancellare, ma un messaggio da decifrare. Ci parla delle difficoltà degli studenti, delle sfide della società, delle trasformazioni della cultura scritta. Imparare a leggere gli errori significa imparare a conoscere meglio noi stessi e il nostro rapporto con la lingua. È da qui che parte CORRIGE: dall’idea che “sbagliare” può diventare la via maestra per tornare a scrivere bene.

Dare un nome agli errori

Il progetto è iniziato con un allineamento dei partner sul tema della scrittura e sui nomi da dare agli errori. Ciascun partner aveva la sua terminologia e il suo approccio nella mitigazione del problema. I linguisti e gli psicologi della scrittura avevano delle loro categorie formate in base studi specialistici, basati anche sull’osservazione di persone con problemi cognitivi acquisiti o associati a disturbi del neurosviluppo e dallo studio dell’apprendimento della scrittura nell’età evolutiva. Gli insegnanti avevano la loro tipologia di errori, che cambia di lingua in lingua, e la loro esperienza ‘sul campo’ con gli studenti/le studentesse. Ma soprattutto, nel momento iniziale del progetto, ci siamo tutti chiesti cosa sia un errore e già definire questo aspetto ci ha portato ad affrontare il compito che ci aspettava con motivazione e curiosità. Errore è crescita, ha detto qualcuno, è deviazione da una norma, ha detto un’altra. Errore è sfida, hanno concordato tutti: è la nostra sfida a restituire agli studenti, in particolare

quelli che si apprestano ad entrare nel mondo del lavoro o all’università, una motivazione in più a scrivere meglio, a ritornare anche a penna e foglio per comunicare in modo creativo e consapevole.

I test già somministrati

Nei primi mesi, da novembre 2024 a oggi, il compito senz’altro più impegnativo è stato creare una tipologia condivisa, descrittiva degli errori, che andasse bene per tutti e fosse utilizzabile per le lingue diverse comprese nel progetto: italiano, spagnolo, portoghese e rumeno. Per far questo, per testare la situazione effettiva e partire da dati aggiornati, abbiamo sottoposto 400 studenti (100 per paese partner) ad un primo test di scrittura a mano e su supporto digitale utilizzando il dettato di parole, di pseudoparole e di brano e il riassunto di un testo. Sono stati classificati in tutto circa 8000 errori. Per la prima volta, gli errori commessi dagli studenti, che troviamo anche nelle varie culture letterate nel corso della storia, potevano essere abbinate ai singoli profili biografici – anonimizzati – fatto assai fortunato per chi studia anche gli errori nelle culture passate. Agli studenti e ai genitori abbiamo infatti chiesto di partecipare ad un questionario iniziale da cui si potessero acquisire delle informazioni biografiche sugli studenti. Tali profili comprendono informazioni sul contesto culturale e linguistico di provenienza, sull'eventuale multilinguismo, sulla presenza di caratteristiche che possono aver interferito con lʹapprendimento della lingua scritta.

Un database in evoluzione

Grazie ad un database molto articolato e ancora in corso di sviluppo, creato dal partner tecnologico IPB in collaborazione con tutti i partner, possiamo ora creare basi statistiche, sapere da cosa può dipendere un errore, qual è il profilo biografico più vicino ad una specifica tipologia di errore, e questo consente di gettare luce non solo sulle possibili cause e mitigazioni per gli studenti delle nostre scuole, ma chiarire anche il motivo di errori di scrittura studiati nel passato, in lingue come il greco antico, il latino, l’etrusco, il celtiberico o il messapico. Non solo: il database, che presto sarà disponibile anche al pubblico, consente di fare dei confronti tra le varie lingue rappresentate nel progetto e con

quelle “deep” o “shallow” del resto d’Europa. Il team sta lavorando ora allo strumento di autodiagnosi e alle risorse per le mitigazioni, le prossime sfide del progetto. Il mondo scolastico e quello della ricerca –anche tecnologica – proseguono insieme passo passo per fare il punto e promuovere una nuova consapevolezza della scrittura e della cultura da essa trasmessa.

NOTE

1. Team CORRIGE: A. Afonso Rodrigues 4 , A. Ambrosio3, A. Campus2, J.J. Carracedo Doval6 , J. Casado Taladriz 6, A. Cornale 3, E. Cravet 1,E. Dell’Aquila2, D. Fasolini8, L.M. Fernandes4, M.R. Ferreira4, Á.L. García Aceña6, E. Gheorghiu5, I. Juncu5, M.J. Lara Gómez6, R.P. Lopes7, E.R. Luján Martinez8, B.C. Muller Vieira1, S. Negrotti2, E.O. Ngomo Fernandez8, L. Pascariu5,A. Pereira7, I.M. Portela4, L. Porto3, A. Quintero Maqua6, O. Reguera Castillo6, L. Romero Mariscal6, J.J. Sierra Anguita6, M.P. Sorvillo3, L. Traverso1, N.B. Veiga4

1.Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Genova (Italia).

2.Alteritas – Interazione fra popoli, Verona (Italia).

3.Consorzio Nazionale per la Formazione l’Aggiornamento e l’Orientamento CONFAO (Italia).

4.Escola Secundária Emídio Garcia, Bragança (Portogallo).

5.Fundatia EuroEd, Iasi (Romania).

6.IES Miguel Catalán, Coslada (Spagna).

7.Instituto Politecnico de Bragança (Portogallo).

8.Universidad Complutense de Madrid.

Simona Marchesini

linguista storica, è coordinatrice scientifica di CORRIGE e di Alteritas – Interazione tra i popoli ETS, ente di ricerca privato fondato a Verona nel 2009 per studiare le interazioni tra i popoli nel tempo e nello spazio (https://alteritas.it). Da molti anni si occupa di scrittura, sia per lo studio di lingue frammentarie del mondo antico sia per gli aspetti antropologici e cognitivi del processo scrittorio.

M. Carmen Usai professoressa ordinaria di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione e Direttrice del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. La sua attività di ricerca si concentra sui processi cognitivi di base e sugli apprendimenti. È autrice di pubblicazioni internazionali e di volumi rivolti a studenti e professionisti del settore.

Ignoranza

L’usanza di esporre al ridicolo la persona che non risponde alle domande dell’insegnante, o che commette errori considerati infamanti, ha una lunga tradizione nella scuola pre e antidemocratica, e si è perpetuata in varie forme fino ai giorni nostri.

Da quando Collodi nelle sue Avventure di Pinocchio ha eletto il ciuco, asino o somaro che dir si voglia a emblema dell’ignoranza, le orecchie asinine hanno cominciato a campeggiare sulla testa di bambini e bambine messi alla berlina dall’insegnante di turno, a monito per il resto della classe e della scuola.

C’è stato un tempo, e questo tempo, anche se non dappertutto, dura ancora, in cui l’insegnante poteva liberamente punire l’ignoranza studentesca in modo infamante, accompagnando il brutto voto con lo scherno, davanti a compagni e compagne, o ai familiari, chiamati anche loro a dileggiare o a punire. Capita spesso, nei consigli di classe o nei corridoi delle scuole, di ascoltare offese di ogni tipo rivolte a chi non studia, disturba, o, peggio, “non ci arriva”. Ed è altrettanto frequente leggere post o addirittura articoli e libri di insegnanti che mettono in ridicolo gli errori compiuti da studenti sotto esame, additandoli – solitamente in forma anonima, come se fosse un atto di cortesia – come massimo esempio di ignoranza. Addirittura, proprio di recente, un istituto di ricerca autorevole come il Censis ha intitolato “La fabbrica degli ignoranti” uno dei capitoli della sua indagine annuale dedicata alla società italiana del 2024, che inizia così:

Benché in Italia gli analfabeti propriamente detti siano ormai una esigua minoranza (solo 260.000), mentre i laureati sono aumentati fino a 8,4 milioni, ovvero il 18,4% della popolazione con almeno 25 anni (erano il 13,3% nel 2011), la mancanza di conoscenze di base rende i cittadini più disorientati e vulnerabili.

Si tratta di un fenomeno di cui si sente parlare spesso anche in televisione, e che sta assumendo un ruolo decisivo nelle politiche scolastiche, che sembrano sempre più orientate alla “cura” di un presunto difetto, di una mancanza che viene attribuita alla scuola e, soprattutto, alle persone che la frequentano o che ne sono già uscite, ma senza aver sviluppato le competenze necessarie a orientarsi nella vita di ogni giorno.

Concentrare tutta l’attenzione della scuola su un deficit, per quanto esso sia preoccupante, significa, innanzitutto, far passare il messaggio che lo Stato è in grado di misurare con esattezza i livelli di apprendimento delle e degli studenti, e, inoltre, che esiste un livello minimo che tutte e tutti dovrebbero raggiungere a una certa età, indipendentemente dalle condizioni personali e dalla situazione di partenza. Ma in realtà le cose sono più complesse di così, e quest’idea di concentrare tutti gli sforzi sulla “lotta all’ignoranza” comporta più di un rischio, specialmente se gli strumenti che usiamo per misurare i livelli non sono così precisi e affidabili, come è il caso delle prove Inval-

si, che possono aiutarci a ragionare sul livello di conoscenze e abilità necessarie per risolvere i quesiti, ma non possono di certo fornire informazioni attendibili sulle competenze linguistiche o matematiche delle persone. Siamo così abituati a ragionare sulla scuola attraverso la lente deformante dei voti in pagella, da aver sviluppato una vera e propria ossessione per quella linea sottile che separa il 6 dal 5, la sufficienza dall’insufficienza, il successo dall’insuccesso. Ed è proprio al di sotto di una certa linea che si colloca il concetto di ignoranza: un’idea che per esistere ha bisogno di immaginare un mondo diviso in due, una inferiore e l’altra superiore. E chi traccia la linea, ovviamente, è sempre qualcuno che sta sopra e che decide dove collocare di volta in volta l’asticella.

Dare a qualcuno dell’ignorante significa già mettersi in una posizione di superiorità, alla dovuta distanza, mentre chi sta sotto non può che avere una prospettiva limitata, incapace com’è di decifrare il mondo, a meno che non si decida a emanciparsi e oltrepassare la fatidica soglia dell’ignoranza.

Eppure c’è chi ha guardato con favore all’ignoranza, soprattutto in ambito educativo, laddove è fondamentale non pensare alle persone – soprattutto se studenti – come vasi da riempire o cose rotte da riparare. Presupporre l’ignoranza dell’altro, qualunque sia la sua situazione, è utile solo a sentirsi potenti, ma non è il modo migliore per iniziare a sviluppare il potere altrui. Per riuscire a trasferire potere, anzi, può essere necessario che l’insegnante presupponga la propria ignoranza, rinunciando in partenza ad assumere il ruolo di esperto o di esperta ed evitando così di insegnare il proprio presunto sapere.

Non si tratta di un gioco di parole, o di una battuta di spirito. Presupporre la propria ignoranza non significa abdicare al ruolo d’insegnante, né rinunciare a far conseguire a chi deve frequentare la scuola i risultati di apprendimento previsti. Il maestro ignorante – un’espressione usata con grande sapienza dal filosofo francese Jacques Rancière nel suo libro omonimo (tradotto in italiano da Andrea Cavazzini per l’editore Mimesis) – si chiama così non perché non sappia niente, ma perché ha rinunciato al «sapere dell’ignoranza», ovvero ha scelto di non avvalersi di quella posizione di superiorità che è conferita dal possedere un qualche sapere. Come afferma lo stesso Rancière:

Egli non insegna ai suoi alunni il suo sapere, ingiunge loro di avventurarsi nella foresta delle cose e dei segni per dire ciò che hanno visto e cosa ne pensano, per verificarlo e farlo verificare. Ciò che egli ignora è la disuguaglianza delle intelligenze. (Lo spettatore emancipato, trad. it. di D. Mansella, DeriveApprodi 2018, p. 16).

L’insegnante ignorante è qualcuno che rinuncia a insegnare agli alunni e alle alunne il suo sapere, preferendo ingiungere loro «di avventurarsi nella foresta delle cose e dei segni per dire ciò che hanno visto e cosa ne pensano, per verificarlo e farlo verificare». Significa, tra le altre cose, che per emanciparsi e per evitare di doversi sottomettere alla sapienza dell’insegnante e della scuola, ogni studente dovrebbe avere la possibilità di accedere al sapere attraverso l’incontro con i libri, le opere d’arte e quegli oggetti culturali che possono consentire – con la guida del “maestro ignorante” – di intraprendere un cammino di progressiva emancipazione, fatto di esperienze da tradurre in parole e di parole da perfezionare e tradurre con sempre maggiore impegno e tensione intellettuale.

Ciò che il maestro ignorante ignora, afferma ancora Rancière, «è la disuguaglianza delle intelligenze».

Il testo compare nel volume collettaneo La scuola è politica. Abbecedario laico, popolare e democratico, Effequ, Roma 2025.

Simone Giusti

insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, ed è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale per il triennio La nuova onesta brigata (2025).

QdR / Didattica e letteratura

La collana scientifica, dedicata a scuola e università, per riflettere su metodi e strumenti idonei a valorizzare il ruolo degli studi letterari, della scrittura, della lettura e dell’interpretazione delle opere.

DIRETTA DA

Natascia Tonelli

Simone Giusti

COMITATO SCIENTIFICO

Michele Cometa

(Università degli Studi di Palermo)

Paolo Giovannetti (IULM)

Pasquale Guaragnella

(Università degli Studi di Bari)

Marielle Macé (CRAL Parigi)

Marion Sauvaire

(Università Jean Jaurès di Tolosa)

Beatrice Stasi (Università del Salento)

Francesco Stella

(Università degli Studi di Siena)

I libri pubblicati nella collana sono reperibili in libreria o presso le agenzie di zona. Indice e prime pagine sono disponibili sul sito de «La ricerca».

laricerca.loescher.it/qdr-didattica-e-letteratura

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