Lino Lavorgna - Raccolta articoli 2017

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Il primo documento scritto in cui compare il termine Europa è il terzo dei trentatré inni omerici, dedicato ad Apollo, risalente all’800 A.C. Parlando di un tempio da edificare a Delo, il Dio del sole e di tutte le arti annuncia: “Qui ho deciso di costruire un tempio glorioso, un oracolo per gli uomini, e qui porteranno offerte pubbliche coloro i quali vivono nel ricco Peloponneso, coloro che vivono in Europa”. Europa è anche il nome della figlia di Agenore, re di Tiro, sedotta da Zeus, che la raggiunse sulla spiaggia della città fenicia dopo aver assunto le sembianze di un toro. L’episodio è narrato da secoli come “ratto di Europa” e presumibilmente manterrà la stessa dicitura anche nei secoli a venire, con il corollario della “violenza carnale” perpetrata dal sovrano degli Dei alla stupenda fanciulla. Ha poco peso, infatti, il pensiero isolato dell’autore di questo articolo, che in precedenti scritti e alcuni convegni ha invitato a guardare attentamente la corposa iconografia che rappresenta quel momento, tutta di altissimo pregio. Gli archetipi della civiltà europea I pittori, ciascuno per proprio conto e in epoche diverse, hanno avuto una più realistica percezione dell’incontro: nei dipinti non si vedono segni di violenza; i volti di Europa e delle ancelle appaiono sereni e sorridenti. Nessun ratto, quindi, ma solo un cortese invito a montare in groppa, entusiasticamente accettato dalla Principessa. Quale donna, del resto, farebbe storie sentendosi corteggiata da un Dio! E’ proprio insopportabile, inoltre, il solo associare, anche leggendariamente, il nome “Europa” a uno stupro. Furono proprio coloro che veneravano Zeus, del resto, a generare quella cultura senza della quale non si sarebbe mai formata la “nazione europea” così come oggi si presenta, anche nelle sue contraddizioni. Civismo, individualismo, cosmopolitismo, culto della conoscenza, democrazia, da elementi fondamentali della civiltà elladica ed ellenica sono stati assunti gradualmente quali archetipi della civiltà europea. Già Aristotele iniziò a differenziare gli europei dagli asiatici, sia pure con una chiave di lettura pretenziosa e superficiale. (I più curiosi possono sfogliare il libro settimo di “Politica”). Con l’impero romano si crea un forte elemento di coesione tra i popoli europei assoggettati e prende forma il diritto scritto come limite all’arbitrio dell’uomo: “Legum servi sumus ut liberi esse possimus”, pontificava Cicerone, non prevedendo la nascita di coloro che delle leggi avrebbero fatto strame proprio per negare la libertà agli altri. (Correttamente occorre dire anche che non si dovette aspettare a lungo prima che il suo monito iniziasse a essere vilipeso). L’altro elemento unificatore fu il cristianesimo, che creò un forte legame politico e


spirituale tra i popoli. Con l’avvento di Carlo Magno si forma una nuova idea di Europa, anche se ancora oggi persiste il dilemma tra chi ritiene che l’impero carolingio fosse un’evoluzione dell’antico impero romano e chi invece lo codifica come prodromo dell’Europa moderna. Di sicuro, proprio con la successione carolingia, inizia quella spartizione dell’Europa che può configurarsi come prodromo di tanti problemi futuri. Il primato dell’Occidente Nel Medioevo il sentimento di unità europea assume una valenza essenzialmente religiosa e per Dante non vi sono dubbi circa il primato dell’Occidente sull’Oriente e il compito riservato all’Europa, addirittura per volontà divina, di formare un impero universale destinato a una missione comune di ordine, civiltà, armonia. Agli albori del quindicesimo secolo, Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa Pio II, conia il termine “Europeo”. Nel sedicesimo secolo, però, “l’idea Europa” registra un sensibile rallentamento. Profonde lotte intestine generano gli stati nazionali; il decadimento della morale “romana” scandalizza i popoli del centro-nord e anche i cristiani si dividono in cattolici e protestanti. La crisi è profonda, nonostante il consolidarsi dell’Umanesimo e del Rinascimento, correnti di pensiero (letterario, filosofico e artistico) sorte nel secolo precedente. Tra i più illustri esponenti di questo periodo vi è Erasmo da Rotterdam, che crede fortemente nell’Europa unita, ma solo sotto l’egida del cristianesimo: “Il mondo intero è una patria comune (per mondo intero s’intende l’Europa cristiana), non gli inglesi, né tedeschi, né francesi; perché ci dividono questi stolti nomi, quando il nome di Cristo ci ricongiunge?”. Gli fa da spalla un altro eminente umanista e convinto europeista: lo spagnolo Juan Luis Vives, che nel 1529 scrive il “De concordia” ed esorta i popoli europei a trovare una più efficace coesione per respingere la minaccia ottomana. In Italia si leva forte il grido di Niccolò Machiavelli e Tommaso Campanella a favore della piena restaurazione dell’autorità papale. Per descrivere il caos continentale del diciassettesimo secolo occorrerebbe un vero saggio: guerre, discordie politico-religiose e rivolte per l’indipendenza sembrano offuscare in modo irreversibile il sogno europeo. Fu proprio in quel periodo, invece, che il duca di Sully, ex primo ministro di Enrico IV di Francia, redige il “Gran Disegno” e prospetta una “Confederazione di Stati” composta da cinque monarchie elettive (Sacro Impero Romano Germanico, Stati Pontifici, Polonia, Ungheria, Boemia) e quattro repubbliche sovrane (Venezia, Italia, Svizzera, Belgio). La confederazione sarebbe stata retta da un “Consiglio d’Europa” e da un “Consiglio Generale”. L’inglese William Penn inventa un lasciapassare in grado di far viaggiare le persone attraverso gli stati d’Europa senza problemi, anticipando di molti secoli il futuro passaporto europeo. Gli eventi dal diciottesimo secolo in avanti hanno fortemente condizionato la società contemporanea: di fatto costituiscono la “nostra storia” e quindi è inutile ricalcarne le complesse vicende. E’ d’obbligo solo citare la dichiarazione di un membro dell’Assemblea Costituente


francese nella seduta del 21 aprile 1849: “Giorno verrà in cui Francia, Italia, Inghilterra, Germania o non importa quale altra Nazione del continente, senza perdere le loro qualità peculiari e la loro gloriosa individualità, si fonderanno strettamente in una unità superiore e costituiranno la fraternità europea. Giorno verrà in cui le pallottole e le bombe saranno rimpiazzate dai voti, dovuti al suffragio universale dei popoli. Un Senato sovrano sarà per l’Europa quello che il Parlamento è per l’Inghilterra, la Dieta per la Germania, quello che l’Assemblea Legislativa è per la Francia. L’edificio del futuro si chiamerà un giorno Stati Uniti d’Europa. Giorno verrà in cui si vedranno questi due gruppi immensi, gli Stati Uniti d’America, gli Stati Uniti d’Europa, uno di fronte all’altro tendersi la mano attraverso i mari”. Il suo nome era Victor Hugo. Radici cristiane d’Europa e laicismo Questo excursus, che sintetizza il “sogno europeo” sin dai suoi albori, serve soprattutto a evidenziare gli elementi fondamentali per la costituzione di una federazione di stati sovrani configurabile come “nazione”. La definizione corrente, infatti, che vede nella nazione una comunità di individui che condividono alcune caratteristiche comuni come la lingua, il luogo geografico, la storia, le tradizioni, la cultura, l’etnia ed eventualmente un governo, non solo non è sufficiente a caratterizzare in modo compiuto il concetto di “Europa Nazione”, ma addirittura risulta ostativa: la lingua comune sarà un problema di non facile soluzione; la storia non ha ancora sanato vecchie ferite; all’interno di molti stati sono ancora forti le contrapposizioni tra entità regionali che aspirano all’indipendenza e governi centrali. La strada, inutile nasconderlo, è in salita. Una salita resa ancora più impervia da ciò che più chiaramente emerge in quanto innanzi scritto: il forte impulso religioso inferto ai passati progetti federativi. Sarebbe facile, ora, affermare che l’elemento religioso potrebbe costituire un valido elemento di coesione continentale, ma ciò significherebbe condizionare pesantemente il progetto federativo, ancorandolo a presupposti che presentano, contestualmente, una forza (il coinvolgimento di tutti i fedeli) e una debolezza (il limite rappresentato proprio da questa possibilità). Non dimentichiamo, del resto, che già nell’attuale costituzione europea, entrata in vigore il 1° dicembre 2009, è stato escluso il riferimento alle radici cristiane dell’Europa, privilegiando un laicismo ritenuto più in linea con il fluire dei tempi. Bisogna prestare molta attenzione a questo aspetto, che a suo tempo generò un vero conflitto tra la Chiesa e i Governi europei, con dichiarazioni infuocate e bellicose da parte del Vaticano. “La Chiesa in Europa si sente a casa propria e pertanto attende che le venga riconosciuta la cittadinanza europea. Le Chiese si aspettano di vedere riconosciuto giuridicamente il loro ordinamento proprio, in modo da sottrarsi all’arbitrio delle opzioni politiche del momento. La Chiesa dovrà sempre poter parlare di Dio a tutti gli uomini. Nessuno dovrà meravigliarsi di questa pretesa! Non può esistere una “Chiesa del silenzio”: sarebbe un controsenso, tanto più oggi che il Papa chiede che nell’Europa di domani vi sia ancora posto per Dio”. (Mons. Jean-Louis Tauran, 14 maggio


2002). “Riconosco all’Italia, in virtù della sua storia, della sua cultura, della sua attuale vitalità cristiana, la possibilità di un grande ruolo per non far perdere all’Europa le proprie radici spirituali”. (Giovanni Paolo II, 21 maggio 2002). “Il futuro Trattato costituzionale dell’Unione Europea deve contenere un richiamo a Dio e al Trascendente”. (Frase estrapolata dal documento della Commissione delle Conferenze episcopali dei vescovi dell’Unione Europea, 22 maggio 2002). Il laicismo insito nella carta costituzionale, lungi dal voler limitare i diritti della Chiesa, tende a salvaguardare quelli di tutti, ossia anche dei non credenti e solo in tal guisa va concepito. Ogni altro riferimento, in particolare alla luce della realtà attuale, si configurerebbe come una nuova “guerra di religione” e ciò va evitato assolutamente. Gli Stati Uniti d’Europa, pertanto, devono essere caratterizzati da uno spirito che contenga innanzitutto la volontà di stare insieme per essere “più forti” in tutto, preservando le peculiarità culturali. “Uniti nella diversità”, l’attuale motto dell’Unione Europea, è quanto mai azzeccato. Il sogno di inglobare tutti gli stati del continente nel progetto federativo, sin dai suoi primi passi, è meraviglioso, ma irrealizzabile. Sotto questo profilo anche gli europeisti più romantici e incalliti, come l’autore di questo articolo, hanno il dovere di essere realisti. I limiti e i problemi dell’attuale Unione sono ben noti. Travasarli anche in un progetto federativo sarebbe da folli. Nella prima fase, pertanto, una federazione che possa realmente configurarsi come elemento aggregante può essere composta dai seguenti stati: Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia – tutti membri dell’attuale Unione Europea – ai quali andrebbero aggiunti: Andorra, Islanda, Liechtenstein, Moldavia, Monaco, Norvegia, Regno Unito, San Marino, Svizzera. Poi, per gli altri stati, se son rose fioriranno, perché già così le spine sono tante.


Sono trascorsi settantatré anni da quell’alba nebbiosa che vide cinque gerarchi fascisti ascoltare, come ultima parola della loro esistenza terrena, quella più terribile: “Fuoco!”. A pronunciarla fu un anonimo ex sergente della milizia fascista, Nicola Furlotti che, assurto al grado di maggiore nel periodo della Repubblica Sociale, si trovò a coordinare il servizio pubblico durante il processo di Verona e poi a comandare il plotone di esecuzione. Si conquistò, in tal modo, un po’ di spazio nella cronaca e nella storia, amplificato dalla pubblicazione di un memoriale che, tra le inevitabili distorsioni presenti in tutti i memoriali, offre una lettura abbastanza realistica di una vicenda che oggi può essere scandagliata senza pregiudizi. Essendo impossibile ripercorre tutte le fasi che culminarono con la fucilazione di Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi, in questo articolo ci proponiamo solo di rispondere a una semplice domanda: “Sotto il profilo meramente giuridico, il processo fu legittimo?”. Fare i conti con la propria storia è sempre opportuno e doveroso, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni. Tutto ebbe inizio, come sappiamo, il 24 luglio 1943, con la riunione del Gran Consiglio del Fascismo, composto da ventotto fedelissimi gerarchi, che al Duce dovevano tutto: onori, ricchezze, ribalta nazionale e internazionale. Non si riunivano da quattro anni: quando vi è un uomo solo al comando le riunioni previste dagli organi istituzionali si trasformano in mera formalità e tanto vale, pertanto, ridurle al minimo indispensabile. La gravità delle circostanze, tuttavia, con il paese in macerie e il nemico sbarcato sul patrio suolo già da quattordici giorni, indusse il Duce a convocare il Gran Consiglio su richiesta di Dino Grandi, a sua volta sollecitato dal Re a creare i presupposti affinché fossero restituiti alla Corona tutti i poteri costituzionali. L’ordine del giorno, che prevedeva il ripristino "di tutte le funzioni statali" e l’invito a restituire il comando delle Forze Armate al Re, era stato preventivamente letto e approvato dal Duce, nonostante fosse stato giudicato “inammissibile e spregevole”. La mozione fu approvata con 19 voti a favore, 7 contrari e l’astensione dell’avvocato massone e Presidente del Senato Giacomo Suardo. Roberto Farinacci, che aveva presentato un suo ordine del giorno, uscì dall’aula e non votò. Mussolini, che evidentemente non si aspettava il voto a lui sfavorevole, chiuse la seduta con la famosa frase: “Avete provocato la crisi del regime. Avete ucciso il fascismo. La seduta è tolta”. Erano le 2,40 del 25


luglio e il cuore di tutti i gerarchi batteva forte, dopo le lunghe ore di tensione. Un regime antiparlamentare, antidemocratico e dittatoriale, paradossalmente, era stato abbattuto con una procedura tipicamente democratica: il voto per appello nominale. Nondimeno i gerarchi temevano di essere arrestati da un momento all’altro, dimostrando di essere i primi ad avere consapevolezza dell’eccezionalità dell’evento, memori della lettera che Mussolini scrisse a Farinacci nell’ottobre del 1925, per spiegare proprio le funzioni del Gran Consiglio: “Non si vota sui miei ordini; li si accetta e li si esegue senza discussione. Il Gran Consiglio non è un piccolo parlamento. Ve lo ripeto: non si voterà mai”. Il Segretario del partito, Carlo Scorza, prospettò proprio l’arresto dei dissenzienti per risolvere la faccenda, ma Mussolini decretò l’impossibilità di tale azione replicando con ironia: “Tra quelli che eventualmente dovrebbero essere arrestati c’è il presidente della Camera (Dino Grandi), il presidente dell’Accademia (Luigi Federzoni), due ambasciatori (Galeazzo Ciano e Dino Alfieri) e qualche ministro (Alfredo De Marsico, Cianetti, Bastianini, Acerbo, Pareschi, Albini). Il Sovrano vedrebbe la sua parentela diminuita di due cugini rinchiusi a Regina Coeli. (Ciano e Grandi erano stati insigniti del Collare dell’Annunziata, massima onorificenza sabauda, che li imparentava con il Re). Nel pomeriggio dello stesso giorno, quindi, il Duce si recò dal Re nonostante l’ammonimento di Donna Rachele che, proprio come fece Calpurnia con Cesare, cercò di dissuaderlo avendo previsto che l’incontro gli sarebbe stato fatale. Non era una previsione difficile, ma la Storia, maestra di vita, c’insegna che i grandi uomini sono capaci di perdersi proprio sulle cose più semplici: Cesare non guardò la lista dei cospiratori che gli era stata consegnata, perché si sentiva un Dio capace di dominare ogni situazione; Napoleone si ostinò a restare in Russia credendo che lo Zar si sarebbe prostrato ai suoi piedi, consegnandoli gioiosamente l’immenso paese, perché si sentiva un Dio al quale tutto era dovuto; Mussolini disse al Re di aver bisogno solo della sua approvazione formale per risolvere, a modo suo, la crisi che era scoppiata la notte precedente, perché non riusciva nemmeno a concepire che l’Italia potesse davvero fare a meno della sua guida. Le vicende che seguirono l’arresto di Mussolini misero in luce, come ampiamente riportato nella corposa opera di De Felice, importanti aspetti della natura umana degli italiani, alcuni dei quali non proprio edificanti. Ma questa è un’altra storia. Dopo la liberazione da parte dei tedeschi, Mussolini fondò la Repubblica Sociale. Al di là della corposa letteratura “romantica”, che pure trova fondamento nella generosa illusione praticata dai tanti che vi aderirono idilliacamente, essa fu solo uno dei tanti protettorati tedeschi. Va detto, altresì, che l’appello ad arruolarsi ebbe successo “anche” per il sussidio assicurato a tanti giovani ridotti alla fame e privi di valide alternative. Mussolini, di fatto, sempre più stanco e sfiduciato, sottostò ai diktat di Hitler da un lato per mitigare la feroce reazione tedesca nei confronti degli italiani e dall’altro per dare corpo al “sogno impossibile” paventato dagli irriducibili visionari come Buffarini Guidi, Farinacci, Pavolini, del tutto “incapaci” di comprendere la realtà, ma capaci di condizionare le scelte di un capo che al sogno voleva credere. Il sogno, però, non


aveva alcuna possibilità di materializzarsi se si pensa che la coscienza popolare, dopo il 25 luglio, anelava solo alla fine della guerra. Il distacco dalla realtà, invece generò ancora lutti e sofferenze. Il congresso del Partito Fascista Repubblicano, che si celebrò a Verona dall’11 al 14 novembre del 1943, si trasformò in una “bolgia” (così lo definì lo stesso Mussolini, quando ne ebbe il resoconto stenografico) che mise insieme tutto e il contrario di tutto, lasciando affiorare in modo inequivocabile solo la rabbia e il desiderio di vendetta nei confronti dei “traditori”. Potevano essere considerati tali, tuttavia, coloro che avevano esercitato un diritto, approvando a maggioranza un ordine del giorno in un’assemblea presieduta da un capo che quel voto aveva ampiamente legittimato? E’ evidente che mancava ogni presupposto giuridico all’infamante accusa e il processo, pertanto, si giustificava solo sotto il profilo politico, come lo stesso Mussolini precisò al Guardasigilli Pietro Pisenti, che gli manifestava le sue perplessità, rifiutandosi di controfirmare il decreto che stabiliva la composizione del Tribunale speciale: “Voi siete un uomo di legge e vedete solo l’aspetto giuridico di questa questione. Io devo guardarla da un altro punto di vista. La ragion di Stato ha la priorità su ogni altra considerazione. Ormai bisogna andare fino in fondo”. Il dado era tratto. Tutto il resto era pura recita. Il 18 novembre 1943 la Gazzetta Ufficiale pubblicava il decreto che istituiva i Tribunali straordinari provinciali e il Tribunale straordinario speciale. I primi dovevano giudicare i fascisti che avevano tradito il giuramento di fedeltà all'idea; coloro che, dopo il colpo di Stato del 25 luglio 1943, avevano denigrato il fascismo e le sue istituzioni e coloro che avevano compiuto violenze contro i fascisti, i loro beni e i simboli del fascismo. Il Tribunale speciale, invece, doveva solo giudicare i fascisti che nell’ultima seduta del Gran Consiglio avevano tradito l'idea rivoluzionaria alla quale si erano votati fino al sacrificio del sangue, offrendo al re il pretesto per il colpo di stato. I membri dei tribunali straordinari e i pubblici accusatori dovevano essere scelti tra fascisti di provata fede e di spiccata moralità. Quelli del tribunale speciale “tra coloro che dimostrarono assoluta fedeltà al Duce e all'Idea durante il sorgere e lo sviluppo della rivoluzione, e particolarmente tra coloro che dal 24 luglio 1943 XXI E.F. in poi ebbero a soffrire per la loro incondizionata dedizione alla causa". Si vara una legge penale, quindi, con effetto retroattivo, che definire “mostruosità giuridica” è dir poco. Lo stesso tribunale speciale, tra l’altro, risulta sconcertante: viene istituito per giudicare delle persone sulle quali già pesa il maglio della colpevolezza, avendo tradito l’idea rivoluzionaria. Furono in diciannove, come sappiamo, a firmare l'ordine del giorno Grandi, ma solo sei di questi furono arrestati. Gli altri avevano subito compreso che il vento era cambiato e corsero ai ripari scappando all’estero, nascondendosi a Roma, arruolandosi nella Legione Straniera. Arrestare gli “ingenui” fu un gioco da ragazzi: continuavano la vita di tutti i giorni, dedicandosi serenamente alle loro occupazioni. Gottardi, presidente della confederazione dei lavoratori dell’industria, scrisse addirittura a Pavolini per


chiedere l’iscrizione al Partito Fascista Repubblicano e Pavolini, stupito di saperlo ancora a Roma, gli mandò a casa i militi con il mandato di cattura. Carlo Pareschi, ministro dell'agricoltura e foreste, si considera un tecnico. Non capisce nulla di politica e ha firmato l’ordine del giorno distrattamente. Nella seduta voleva solo parlare sulla situazione alimentare del paese e si dichiara infastidito per quelle che considera chiacchiere senza costrutto. Non si aspetta di essere arrestato. Tullio Cianetti, sottosegretario alle Corporazioni, ha ritrattato il voto dopo poche ore con una lettera a Mussolini e pensa che ciò basti a salvarlo. Giovanni Marinelli è amico personale del Duce e si sente un intoccabile. Per di più è sordo e durante la seduta non colse l’importanza degli argomenti. Votò sì senza sapere cosa votasse, ritenendo che si trattasse di un “sì” dato al Duce. Anche Emilio De Bono si considera intoccabile: Maresciallo d'Italia, quasi ottantenne, membro del quadrumvirato che guidò la marcia su Roma, pluridecorato, non può pensare che si potesse muovere un dito contro di lui. Galeazzo Ciano è il genero del Duce e la sua è una storia tutta particolare, impossibile da sintetizzare in poche righe. Sulle varie fasi del processo esiste un corposa e accurata pubblicistica che ne mette in “luce” tutte le “ombre”. La storia d’Italia è piena di pagine buie e quella dell’11 gennaio 1944 è solo una delle tante, qui rievocata con mero spirito cronistico e con il cuore sereno, per offrire soprattutto ai più giovani spunti di riflessioni, avendo cura di contestualizzare il tutto per non cadere nella trappola del “giudizio” e del “pregiudizio”. La storia del nostro paese è quella che è. Conoscerla bene serve a guardare avanti con occhi più maturi e imboccare il sentiero migliore quando, attraversando il bosco, se ne incontreranno due che divergono.


CARI GIOVANI VI PARLO DI MUSICA

(Testo della canzone “Hip Hop Hooray” – Naughty by Nature) “Hip-Hop Hurràa, hoo heyyy hoooo. Hai disegnato un’immagine della mia mattina, ma non hai potuto fare il mio giorno, hey! Io sto spaccando e tu stai sbadigliando ma non hai mai guardato verso di me, hey! Ti sto leccando tesoro, in ogni singolo modo, hey! Il tuo flow straniero è divertente e una carta verde è in arrivo (la carta verde è una carta con cui un immigrato può diventare un residente permanente legale negli Stati Uniti). Questo non ha un cazzo a che vedere con lo shampoo, ma guarda la tua testa e le tue spalle fratello maggiore: sono marcate abbastanza da piegarti. Yo, te l’ho detto un assalto pauroso di quello che ho fatto, in più ho suonato un pezzo funky. Quindi attento alle tue cadute e i trucchi per quella musica e la scimmia morde. Grilletti (la parte esterna del meccanismo di scatto di una pistola) dalla Grilltown Illtown. Alcuni chiedono come ci si sente adesso. Com’è che funziona è che noi siamo veri e quindi siamo ancora in giro. Non luccichiamo con un fantasma di freestyle. Non stiamo cercando di sembrare belli. Ritira quello che stai pensando perchè sto improvvisando. Vivo e muoio per l’Hip Hop.Questo è l’Hip Hop per oggi, Io ammiro l’Hip Hop Quindi… Ne hai sentite molte su un fratello che guadagna più terreno. Lentamente arrivo alla resa dei conti con ogni piccola zoccola in giro, no! Voglio sapere a chi stai credendo hai motivi divertenti. Anche quando dormo tu pensi che stia imbrogliando. Hai detto che so che sei mister O.P.P (Riferimento alla canzone O.P.P.). Amico il tu-O PP (gioco di parole: pee -pee è un termine per dire pene) non mi vedrà neanche amico. Dovresti sapere che ci ero dentro quando non lo colpivo. E fai un passo verso il non considerarti il rappresentante Heck! Mi sono fatto la tua partner perché è calda come una fornaia, perché io sono ribelle per natura, non perché ti odio. Hai messo il tuo cuore in una parte di una parte che si espande da un’altra parte, anche se ti ho perdonato quando hai fatto faville. Cerchi di comportarti come se qualcosa di grosso mancasse, anche se il mio nome è graffiti scritto sul tuo gattino (qui Trech fa riferimento alla sua ragazza che ha il tatuaggio del suo nome sul petto). Amo le donne nere sempre e il non rispettarle non è la via. Iniziamo una famiglia. Hip Hop Hip Hip Hop Hip Hip Hop Hurrrà. Ci sono molti Hip Hoppers (è un termine per definire i b-boy e le bgirls, ossia i ballerini di break dance). Fattene una ragione: l’Hip Hop sta toccando il top oggi (L’Hip Hop era già un fenomeno di massa negli anni ’90). Lascia perdere quello che hai sentito. Perché non mi sto tirando fuori no hey. Non sto tranciando il raccolto, ma sta crescendo ogni giorno! Ecco un suono di fulmine dalle meraviglie trovate dal paese underground lungo la collina. Capisci come la Illtown trasforma sorrisi in espressioni crucciate. Scippando corone dai clown vengono scoperti colpi. Non mi conosci non girarmi attorno. Alcune volte quando strisciano su lì mangio. Il tuo stile è più vecchio di Lou Rawls! (Un cantante di musica soul, blues e jazz). Pace a questo e quello e agli altri. In questo modo ho salutato e non ho perso un amico. Gli stupidi diventano stupidi né loro né Parker Lewis (è un personaggio di una serie televisiva statunitense chiamata “Parker Lewis Can’t Lose”). Ci conoscevano. Potresti avere crew con l’erba, ma non puoi starci dietro. Alcuni gattini fanno le fusa e li chiamo anche signori. Cercando la sua crew ogni sfigato che non rispetta si becca un coprifuoco.


Metto i miei progetti come stivali, cammino tra le truppe e lascio prove. Il mio risolvi-problemi si chiama Mook! Faccio surf con la felpa col cappuccio. Pace a Jesette, Jobete, Jo-Jo, Genae e tutti i ragazzi del quartiere. Esatto, la mia lotta è malata. Pace anche a L.O.N.S. (è un acronimo che sta per Leaders of the New School: un gruppo hip-hop in cui militava il rapper Busta Rhymes). E Quest, (abbrieviazione del gruppo A Tribe Called Quest) Nice & Smooth & Cypress Hill. Io vivo e muoio per l’Hip Hop. Questo è l’Hip Hop per oggi; io ammiro l’Hip Hop quindi… calmati adesso!

***** Cari giovani, era da qualche tempo che volevo scrivervi una lettera aperta per parlarvi di musica. Lo stimolo sopraggiunge ogni volta che, alla radio, mi capita di ascoltare del rumore spacciato per musica e dei grugniti elevati al rango di canto. Ho sempre derogato, però, per due semplici ragioni: mi sembrava inopportuno per i tanti problemi seri che vi angustiano, non ultimo il dover subire le vessazioni di una classe politica che vi fa ribrezzo; i confronti generazionali, soprattutto in tema di gusto musicale, molto difficilmente possono essere costruttivi. Io sono vecchio, oramai, ma solo fino a poco tempo fa, per meri motivi professionali, con voi ho condiviso tanto tempo, dialogando molto e studiandovi ancor più. Più di altri vecchi, pertanto, sono in grado di penetrare nel vostro universo, cogliendone tutte le sfumature. Proprio in virtù di questo “vantaggio”, dopo aver casualmente ascoltato il brano dei Naughty by Nature, mi sono deciso a scrivervi. Sia ben chiaro: il testo è solo uno dei mille e mille esempi che potrei citare e quindi, please, al bando ogni dietrologia. Tra l’altro ho scoperto che il brano non è proprio recente. Prima di parlarvi di musica, però, devo riportarvi molto indietro nel tempo: addirittura di ventiquattro secoli, ossia nel periodo in cui viveva Platone. Avete mai sentito parlare del mito della caverna? Lo so: la filosofia attecchisce poco oggigiorno ed è un vero peccato: nei classici vi sono molte risposte a tanti interrogativi attualissimi! Torniamo alla caverna. In essa vivevano delle persone imprigionate sin dalla nascita, legate in modo che potessero guardare solo il muro davanti a loro. Alle spalle ardeva perennemente un fuoco e all’esterno della caverna, tra l’ingresso e la strada, leggermente rialzata, era stato eretto un muretto. Sulla strada transitavano delle persone con vari oggetti tra le mani o sulla testa. I malcapitati vedevano solo le ombre della parte superiore del corpo dei passanti, riflesse sul muro; udendo delle voci, avevano la sensazione che fossero le ombre a parlare. Supponiamo che uno di loro fosse stato liberato: al cospetto della realtà si sarebbe trovato in grave disagio. Intanto la luce gli avrebbe procurato un forte fastidio; avrebbe visto anche le gambe e i piedi delle persone e tutto ciò gli sarebbe apparso meno reale delle ombre cui era abituato. Solo lentamente avrebbe potuto prendere consapevolezza delle sostanziali differenze. A questo punto, magari, avrebbe desiderato convincere i suoi compagni a uscire dalla caverna, scoprendo la difficoltà dell’impresa. Perché? Perché quando uno si abitua a qualcosa (anche a passare la vita incatenato) non è facile accettare il cambiamento. L’insistenza avrebbe potuto addirittura generare un conflitto.


Cari giovani, per certi versi voi oggi vivete in una sorta di caverna, all’interno della quale vi sono solo alcune cose ed è tra esse che dovete scegliere quelle che vi piacciono. Il riferimento riguarda ogni ambito, ma qui ci soffermiamo solo su quello musicale. E’ perfettamente normale che mille persone, ascoltando cento brani, possano considerare gradevole quello sovrascritto e tributargli un buon voto su una scala da uno a dieci. Se anche lo valutassero al di sotto del cinque, però, non cambierebbe proprio nulla: il vero problema è la quantità dell’offerta all’interno della quale viene effettuata la valutazione. Cosa accadrebbe se, invece di cento brani, ne ascoltaste diecimila? Possono accadere le stesse cose sottintese da Platone: il rifiuto immediato di tutto ciò cui non siete abituati o la loro accettazione, dopo averne compreso la valenza. Sfatiamo un concetto arcinoto: non è vero, come si suole dire, che “non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace”. Esistono cose belle e cose brutte. Se milioni di persone trovano godimento nel vedere film insulsi, intrisi di volgarità e battute pacchiane, mentre fanno fiasco al botteghino autentici capolavori che presuppongono un livello culturale più elevato per una soddisfacente percezione, non è che il film insulso si trasforma in capolavoro e viceversa, ma si evidenzia solo il profondo gap culturale tra le due categorie di spettatori. Sul testo della canzone non voglio nemmeno fare commenti. Con animo sereno, invece, pur nella consapevolezza di quanto sia rischioso proporre a dei giovani che sono naturalmente orientati a guardare avanti, di fermarsi un po’ e guardare anche quello che vi è stato ieri, v’invito ad allargare i vostri orizzonti. E non solo in campo musicale. Oggi si ha la tendenza a considerare vetusto tutto troppo in fretta e si perde di vista che il meglio di se stesso, l’uomo, già l’ha dato. Forse un giorno farà ancora di meglio ma, che vi piaccia o no, non è questo il tempo. Diffidate di chi vi dice di rinunciare ai classici della letteratura e della filosofia: vuole solo manipolare le vostre coscienze. E sappiate che, dietro la musica insulsa che ascoltate, si muovono interessi colossali, che consentono a pochi di guadagnare miliardi, confezionando prodotti che diventano validi per ogni latitudine, sfruttando la vostra rabbia e le vostre frustrazioni. Non mancano le cose belle, in ogni campo, anche oggi. Esse, però, non trovano facile diffusione e tocca a voi scoprirle, sforzandovi di trasformarvi da pecore guidate da pastori cattivi in “bravi cacciatori di cose buone”. Mi fermo qui e mi concedo un caffè, predisponendomi all’ascolto di due brani e di un LP (preferisco ancora il vinile): “Eloise”, “Ne me quitte pas”, “The Wall”. Sono stati la colonna sonora della mia gioventù. A voi tanti auguri. ELOISE – BARRY RAYAN - NE ME QUITTE PAS – JAQUES BREL THE WALL – PINK FLOYD (Versione filmica) (Blog www.galvanor.wordpress.com – 13 gennaio)


“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!» Sono trascorsi oltre sette secoli da quando Dante denunciò il “decadimento” dell’Italia a causa della corruzione dilagante e delle lotte intestine e i versi sono quanto mai opportuni per caratterizzare anche l’Italia di oggi, che sprofonda sotto il peso di un dissesto con radici antiche. Non quello idro-geologico, come riportano le quotidiane cronache, ma umano. Un popolo intero, eccezion fatta per i diretti interessati e i sodali di ogni ordine e grado, spara ad alzo zero contro governo e protezione civile, lamentandone l’inadeguatezza. Troppo facile. Non occorre avere una laurea in psicologia per stabilire l’inadeguatezza al ruolo di un Gentiloni: basta ascoltare il tremore della sua voce. E non servono certo le tristi prove di questi giorni per lasciare affiorare i limiti di una struttura vessata dalla malapolitica. Criticare è facile; l’autocritica un po’ più complicata. Ammettere, poi, che siamo i primi responsabili del male che ci capita, per le scelte sbagliate quando eleggiamo i nostri rappresentanti e per modalità comportamentali molto discutibili, quasi impossibile. Eppure è tutto maledettamente semplice. Quante vite si sarebbero risparmiate se non si fosse mai praticato l’abusivismo edilizio? Quante vite si sarebbero risparmiate se in posti delicati, invece di mezze cartucce come quelle che si vedono nei film catastrofici americani, che sistematicamente ignorano gli allarmi, vi fossero persone “adeguate al ruolo?”. Due esempi tra i mille che si potrebbero citare, solo per restare sul tema della cronaca attuale. E così, tra un disastro e l’altro, andiamo avanti, accendendo candeline sui social e vomitando sdegno, tanto per sentirci con la coscienza a posto, salvo poi essere i primi a reiterare comportamenti che di immani sciagure sono la causa principale. Una peculiarità degli italiani è la capacità di predicare bene e razzolare male, magari dando senso a ciò che senso non ha. Sembra una battuta, ma è una tragica realtà che condiziona, e non poco, la vita di milioni di persone. E’ una fenomenologia comportamentale che all’estero non si riesce proprio a comprendere e che, purtroppo, viene banalizzata con quel (pre)giudizio negativo, semplicistico, che ben conosciamo e che di certo non ci fa piacere. E’ insita nel DNA da tempo immemore e ha assunto maggiore consistenza a mano a mano che l’Italia si trasformava in terra di conquista da parte dei popoli europei, dando forma, da Nord a Sud, a quel “tipo italiano” che, lungi dall’assumere una caratura “nazionale” univoca, rispondeva in modo difforme ai condizionamenti imposti dai conquistatori. Tale processo, naturalmente, non è stato lineare e non ha coinvolto tutti i soggetti indistintamente, sfociando anche in un confronto-scontro tra coloro capaci di preservare il retaggio ancestrale e coloro che, con estrema facilità, “adattavano” la propria condizione umana alle nuove sollecitazioni


ambientali. Generazione dopo generazione, quindi, si sono formate quelle variegate tipologie umane che sopravvivono tuttora. Il plurale è d’obbligo, naturalmente, perché il territorio non ha mai espresso un popolo “unico” e, come ben sappiamo, l’unificazione ha avuto una valenza solo geografica, non bastevole a sanare l’abissale divario economico e culturale che differenzia il Nord dal Sud. Le due aree geografiche, infatti, subirono condizionamenti diversi, per poi saldarsi in un’omologazione negativa dopo il boom post bellico. Il retaggio celtico e germanico, ampiamente diffuso al Nord, creò un “tipo italico” che di quel substrato è erede naturale. Nel Sud, viceversa, si registrò uno scontro tra diversi colonialismi, che formarono, in negativo e in positivo, i tipi umani che si sono succeduti nel corso dei secoli. Sicuramente negativo è il retaggio bizantino, che depredò il Mezzogiorno di ogni possibile risorsa, lasciando in loco i germi levantini della propensione al crimine. Alla stessa stregua possiamo considerare il lascito angioino, quello aragonese, lo spagnolo. Con queste dominazioni assistiamo al decadimento sotto qualsivoglia punto di vista e alla genesi di un concetto che prende corpo in modo sempre più diffuso: “il male può essere bene”. Ostrogoti, Longobardi, Normanni, Svevi, viceversa, lasciarono in eredità un DNA sostanzialmente positivo. Nel Sud, quindi, si crearono due tipologie umane ben distinte, almeno in fieri. E’ ben chiaro, infatti, che il condizionamento ambientale può incidere sensibilmente sui comportamenti, a prescindere dal retaggio ancestrale. Sarebbe oltremodo scorretto, pertanto, affermare che tutti i discendenti degli spagnoli, degli aragonesi e degli angioini siano la classe peggiore della società contemporanea e gli altri i migliori. Una significativa analisi delle fenomenologie comportamentali tipicamente italiane è possibile analizzando le vicende storiche del quindicesimo secolo, caratterizzate dall’impressionante frammentazione territoriale. Carlo VIII, Re di Francia, in virtù del legame dinastico con gli Angioini ritenne legittimo andarsi a riprendere il Regno di Napoli, sorprendendosi non poco per l’accoglienza gaudente riservatagli da tutti i regnanti che incontrava per strada. A Ludovico il Moro non parve vero di rendergli onore in pompa magna, pur di farsi aiutare a eliminare il nipote Gian Galeazzo Maria Sforza. (Nota di colore, anch’essa significativa: Ludovico, sposato con Beatrice d’Este, aveva la sua corte di “donnine allegre”. Due di loro addirittura hanno conquistato imperitura fama grazie alla magistrale arte di Leonardo: “La Dama con l’ermellino” e “La Belle Ferronnière”. Della moglie, beatificata cinque secoli dopo la morte, parleremo in altra occasione, non fosse altro per dimostrare che non “visse santamente”, come scritto in molti testi). Terminati i bagordi a Milano, il Re francese proseguì verso Firenze. Una guerra, in genere, si combatte con le armi. Quella di Carlo VIII, però, è passata alla storia come la “guerra del gesso”: i soldati avevano il solo compito di apporre una “X” sulle case requisite per alloggiarvi. Piero dei Medici assomigliava a tante macchiette contemporanee che siedono in parlamento. Noto come “Piero il Fatuo” o lo “Sfortunato”, fin da giovinetto fu educato a ereditare dal padre la guida della città e la banca di famiglia: compiti troppo ardui per lui, privo di talento e di carisma, pronto a dire oggi il contrario di quel che aveva sostenuto ieri. A Carlo VIII offrì più di quanto egli stesso si aspettasse, senza rinunciare a inginocchiarsi per baciargli le babbucce. Acquisita anche Firenze, Carlo giunse serenamente a Napoli, accolto da una folla festante, incitata dai soliti furbastri sempre pronti a orientare le vele a favore del vento più propizio. Re Alfonso II d’Aragona scappò a gambe levate appena sentì profumo francese, lasciando sul trono il figlio mezzo scemo Ferrandino, che a sua volta se ne scappò prima a Ischia e poi a Messina. Nello Stato Pontificio regnava il famigerato Papa Alessandro VI, per secoli il più grande puttaniere della storia dell’umanità. In un primo


momento, sia pure con riluttanza, aveva dato semaforo verde alle truppe di Re Carlo, ma gli venne una diarrea cronica quando sospettò che potesse avere mire anche su Roma. E che fa un buon italiano quando percepisce che gli stanno fregando la poltrona? Si appella “allo spirito nazionale”, invoca l’aiuto di Dio Padre Onnipotente contro il “tiranno” (che è sempre quello che vuole fregargli la poltrona) e chiede aiuto ai compagni di merende. Se vi è un rompiballe da fermare, tutto fa brodo. Ecco che prende corpo, quindi, in men che non si dica, la “Lega Santa”: una sorta di Nazionale Europea Bellica comprendente le truppe pontificie, Spagna, Massimiliano d’Asburgo, Milano, Venezia e un bel po’ di Italici staterelli. Povero Re Carlo! Capì che la pacchia era finita e con la coda tra le gambe risalì le valli discese con baldanzosa sicumera. L’esercito della Lega lo aspettò sulle colline della bassa valle del fiume Taro, in zona Fornovo, e fu lì che ebbe luogo la celebre battaglia, il 6 luglio 1495. Poco meno di diecimila francesi, con scarsi approvvigionamenti, in ritirata, fronteggiati da un esercito di venticinquemila uomini, armati di tutto punto e ben schierati. I bookmaker, se fossero esistiti allora, avrebbero giudicato l’evento non disponibile per le scommesse. Tutti pensavano, infatti, che nessun francese avrebbe rivisto il patrio suolo. E pensavano male. Le perdite francesi furono sì ingenti, ma quelle della Lega addirittura il doppio e Sua Maestà, il “bottino prelibato”, riuscì ad aprirsi un varco e riparare in Francia con i superstiti. Non vi era un arbitro perché in guerra non si usa; se vi fosse stato, però, non poteva che assegnare la vittoria ai francesi! Francia batte Lega Santa, dunque. Almeno così dovrebbe essere secondo logica. Basta andare al Louvre, tuttavia, per vedere il bellissimo quadro realizzato dal Mantegna, su commissione di Francesco II di Gonzaga, per celebrare “la vittoria italiana a Fornovo sul Taro!” La storia è sempre la stessa e si ripete con metodica frequenza. Sic est Italia e non è il caso di farci illusioni. Il popolo Italiano è un popolo complesso, che risponde a tante anime, sostanzialmente diverse tra loro e caratterizzate da profonde distonie culturali anche quando afferiscono a una stessa area o a uno stesso ceppo. L’odio e la cattiveria non sono assenti in questo panorama non certo idilliaco e sono pochi coloro che possano dirsi immuni da tali devastanti pulsioni. Il processo di emancipazione, ancorché possibile, richiede tempi lunghissimi e sconvolgimenti pazzeschi. Non si correggono facilmente secoli di brutte abitudini e l’anelito di speranza è dovuto solo alla consapevolezza che, nonostante tutto, vi sono e vi sono sempre stati coloro che hanno rappresentato un’eccezione rispetto alla regola. È proprio grazie a costoro se la fiammella non si è spenta e mai si spegnerà. Sono dei “rari nantes in gurgito vasto” che si perpetuano secolo dopo secolo, fungendo da esempio e preservando il tanto di buono che è stato prodotto. Giorno verrà che da eccezione diverranno regola, anche se nel frattempo tanti di loro dovranno pagare un pesante fio per essere diversi e migliori.


Teorema: “Un sistema elettorale può definirsi perfetto quando consente una razionale rappresentanza di tutte le forze politiche in competizione, purché raggiungano il quorum minimo necessario all’assegnazione di almeno un seggio”. Dogma: “La natura umana, anche nelle democrazie più solide, non consente la stesura di un sistema elettorale perfetto”. Teoria: “Qualsiasi sistema elettorale può essere valido per garantire una sana governabilità sol che i cittadini fossero in grado di scegliere la migliore compagine, tra quelle in competizione, tributandole un massiccio consenso”. Le premesse sono chiare e a titolo di maggiore semplificazione partiamo proprio dall’ultimo punto. Alle elezioni si presentano i seguenti partiti: “A” (programma anacronistico, velleitario, non in grado di interpretare le esigenze di una società in veloce evoluzione; candidati sicuramente animati da buona volontà, ma palesemente inadatti a governare; “B-C-D-E-F” (uniti in un listone o in una coalizione, a seconda degli obblighi imposti dalla legge elettorale vigente; programma farlocco, intriso di belle parole solo per ingannare gli elettori; soggetti ben noti per propensione truffaldina, incapacità, incultura, fedina penale sporca, collusioni con organizzazioni criminali); “G” (la crema della società civile; programma eccellente che concilia in modo ottimale la migliore tradizione con le esigenze contingenti e guarda intelligentemente al futuro; candidati degni della massima fiducia, stima e considerazione per la brillante storia personale). A prescindere dalla legge elettorale, il partito “G” ottiene il 51% dei consensi. Meglio ancora: il 60%. Problema governabilità risolto grazie al buon senso dei cittadini, che in tal modo hanno sconfitto tanto il velleitarismo del partito “A” quanto la bramosia di potere per uso personale dei partiti “B-C-D-E-F”. Se i cittadini, però, non mostrano buon senso e fanno vincere altri, di chi è la colpa? Il primo tassello da incasellare nella complessa analisi del rapporto tra sistemi elettorali e governabilità, pertanto, trova spunto in una sequela di saggi e antichi proverbi; ne cito solo due: “Faber est suae quisque fortunae”; “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Ciò premesso, siccome un parlamento ogni tanto occorre eleggerlo e i cittadini hanno l’arduo compito di provvedere a questa importante funzione, cerchiamo di


individuare la soluzione ottimale, avendo ben chiaro che i partiti, fatte salve le doverose e scarne eccezioni, lungi dal pensare al bene comune, sono intenti solo a studiare complesse alchimie per tutelare se stessi. CAMERA DEI DEPUTATI Le recenti decisioni della Corte Costituzionale hanno disegnato una legge elettorale che, se non proprio definibile perfetta, corregge, e non di poco, quelle schifosissime che l’hanno preceduta. Diciamo subito, quindi, che non necessita di ulteriori interventi da parte del Parlamento e può essere subito utilizzata per il voto. Si deve essere ben consapevoli, infatti, che gli interventi di “questo” Parlamento potrebbero solo essere peggiorativi e non servirebbero certo a correggere le pur numerose distonie che ancora persistono. L’alternanza uomodonna, per esempio, è una baggianata grossa come una montagna, che offende in primis le donne. La formazione di una lista, infatti, dovrebbe essere ancorata precipuamente a un presupposto di qualità: tra le risorse disponibili a candidarsi si scelgono le migliori. Nei collegi previsti dall’attuale legge si possono presentare fino a un massimo di nove candidati. Cosa accadrebbe se, per mera casualità, in un determinato collegio un partito potesse contare su sette risorse eccellenti dello stesso sesso? Ne dovrebbe sacrificare almeno due in ossequio a un principio che, lungi dal rappresentare una evoluzione della democrazia, ne mina fortemente le fondamenta. Ancora: immaginiamo che un gruppo di donne volesse dar vita al partito: “Donne al potere per un mondo migliore”. Per quanto bislacca possa apparire l’iniziativa, sarebbe ineccepibile sul piano giuridico. Quelle donne, però, paradossalmente, sarebbero costrette a scegliere la metà dei candidati tra soggetti di sesso maschile e quindi contraddire in termini sostanziali il principio basilare del loro programma politico! Un problema di minore entità, ma pur sempre un problema, è rappresentato dalla naturale spinta ai listoni, ossia più partiti insieme in un’unica lista, per raggiungere l’agognato premio di maggioranza ottenibile solo con il 40 per cento dei consensi. L’alternativa, però, sarebbe stata ancora più nefasta. Senza premio di maggioranza, infatti, e con liste singole, si sarebbero spostate al “dopo elezioni” le trattative per formare un governo. Sappiamo bene quante schifezze compromissorie possono avvenire in siffatte circostanze. Ben vengano, dunque, il premio di maggioranza di lista e i listoni, sperando che i cittadini sappiano discernere il grano dal loglio e punire quei rassemblement troppo spregiudicati e palesemente costruiti per meri interessi di bottega. Un grave vulnus democratico, invece, è la possibilità, per il capolista, di presentarsi “fino” a dieci collegi. Dov’è la ratio di questa norma? E’ evidente l’intento di salvaguardare il “potere di scelta” del leader, che potrà decidere in tal modo anche gli eventuali eletti collocati in seconda posizione nei collegi dove si presenti e nei quali dovesse vincere. Persiste l’esautorazione del potere decisionale dei cittadini, ancorché in forma ridotta rispetto al passato, e ciò non è certo una cosa bella. Semplicemente ridicola, poi, e del tutto incomprensibile, la decisione di stabilire con un sorteggio dove debba scattare il seggio. Con il presupposto di impedire il libero arbitrio del leader, di fatto gli si evita il


risentimento del candidato penalizzato, ammesso che un leader possa preoccuparsi degli altrui risentimenti. L’ultimo punto da prendere in considerazione è quello dello sbarramento al tre per cento. I meno giovani ricordano bene i disastri causati dal famigerato pentapartito, in virtù del potere ricattatorio di minuscole formazioni presenti nella coalizione che (mal)governava il paese. Lo sbarramento, quindi, dovrebbe servire a impedire proprio questo. Ne siamo sicuri? La storia recente ci rivela tutt’altro: lo sbarramento è servito soprattutto per favorire i grossi partiti, ai quali non interessa certo il bene del Paese. Esso, pertanto, andrebbe abolito proprio per elevare la rappresentanza delegata ai cittadini e dare voce alle minoranze, che spesso contengono il meglio della società civile. Le vere eccellenze, infatti, provano naturale ritrosia nei confronti dei grandi partiti dediti alla “malapolitica” e consentire il loro ingresso in Parlamento sarebbe un grande bene per il Paese. E’ evidente, tuttavia, che non si può chiedere ai padroni del vapore di tirarsi la zappa sui piedi e favorire l’elezione di soggetti capaci di metterli in ombra con la sola presenza, anche restando muti. SENATO DELLA REPUBBLICA In primis va detto che il Senato dovrebbe essere abolito (abolito realmente, non come prevedeva la pseudoriforma di Renzi), perché le esigenze di una società moderna mal si conciliano con un sistema bicamerale. La Consulta, nel 2014, varando il “Consultellum”, stabilì che Roberto Calderoli aveva pienamente ragione quando definì la legge da lui varata una “porcata”. Ora si vota con un sistema proporzionale che assegna i seggi su base regionale, in venti circoscrizioni. Per il Senato, in linea di principio, sarebbe più opportuno un sistema maggioritario con un più ampio numero di collegi, in modo da garantire una più valida rappresentanza territoriale e bilanciare armonicamente il sistema proporzionale stabilito per la Camera dei Deputati. Il maggioritario a turno unico spingerebbe i partiti a candidare risorse in grado di raccogliere il consenso degli elettori per il loro valore intrinseco, elevando in tal modo il livello della rappresentanza. In una società deideologizzata, infatti, ciò che conta è eleggere risorse capaci e oneste, indipendentemente dai partiti di appartenenza. Da condannare senza indugio, poi, le tre forme di sbarramento, che favoriscono solo i partiti maggiori. La soglia è su base regionale e prevede il 20 per cento per le coalizioni: una soglia media concepita ad arte per spingere i partiti a coalizzarsi. All’interno della coalizione accedono alla spartizione dei seggi solo le liste che superino il tre per cento: questo vuol dire che tante piccole liste serviranno solo a “portare voti” senza avere alcuna possibilità di vedere i propri candidati eletti, salvo poi essere “ripagati” in altro modo. Un partito composto da risorse eccellenti, che provi schifo per le coalizioni disponibili e intenda presentarsi da solo, deve ottenere almeno l’otto per cento per vedersi assegnati i seggi. Un vero abominio! Se prendiamo come esempio le ultime elezioni, per il Senato vi sono stati 31.751.350 voti validi. Un partito che avesse preso in ogni regione il 7,99 per cento, ossia un totale di


2.536.933 voti, non si sarebbe visto assegnato nemmeno un seggio! Con un sistema proporzionale su base nazionale ne avrebbe conquistati 26! Questo il quadro, così come si dipana oggi, non certo idilliaco, a riprova che la strada è in salita e soprattutto ancora molto lunga. LA META: REPUBBLICA PRESIDENZIALE Non si tratta di volere l’uomo forte al comando, come riportato dalle cronache di queste settimane, che registrano confusamente e in modo fuorviante le reazioni di masse arrabbiate, in diversi paesi. (Chi scrive, consapevole di essere in buona compagnia, parla di Repubblica Presidenziale da oltre quaranta anni). Risibili, inoltre, le larvate preoccupazioni manifestate da una cospicua area di sinistra, che a parole celebra il culto della democrazia rappresentativa e nei fatti si dimostra per quello che è, come traspare ampiamente (ma non certo “totalmente”) dalle cronache quotidiane. I cittadini vanno responsabilizzati nelle scelte e peggio per loro se si lasciano incantare dagli affabulatori di turno. Oggi vediamo un’Italia devastata dalla malapolitica e inquinata nei suoi gangli vitali da soggetti che della malapolitica sono figli. La bonifica è lunga, difficile, faticosa, ma se non incominciamo subito l’inversione di tendenza, il marcio distruggerà anche quel poco di buono che resta.



DITO, LUNA E SCOMODE VERITA’ PREMESSA Caio Giulio Cesare Germanico, meglio noto come Caligola, nominò senatore il suo cavallo sia per sancire la supremazia dell’imperatore sia per sottolineare la scarsa consistenza qualitativa di soggetti adusi solo a tutelare i propri interessi. Il ruolo di senatore, del resto, in età imperiale, non consentiva altro, essendo il vero potere prerogativa esclusiva dell’imperatore di turno. Nella fattispecie, un despota stravagante e depravato, non a caso dipinto da Svetonio come un mostro capace di atti crudeli, con marcata instabilità mentale. In epoca recente, sin dagli albori della repubblica parlamentare, è stato cospicuo il numero di somari che hanno occupato le comode poltrone di Montecitorio e Palazzo Madama, nonché di altre importanti sedi istituzionali, elettive e non, favoriti da capi bisognosi di teste “non” pensanti, come quelle dei senatori di duemila anni fa. Costoro, insieme con le tante donnine allegre che non si sono fatte scrupolo di sollazzare a letto chiunque potesse consentire loro l’accesso nelle dorate stanze del potere, ovunque ubicate, costituiscono l’emblema più appariscente di quella “malaitalia” che, tuttavia, ha ben altre e più rappresentative facce. Sarebbe fuorviante, infatti, sostenere che siffatti figuri, come li chiamerebbe Piero Buscaroli, siano detentori di un potere in grado di incidere sulla storia di un popolo. Il concetto “capre al potere”, pertanto, che caratterizza questo numero del magazine, ancorché sinteticamente incisivo e suggestivo, va interpretato (e analizzato) in una accezione più estesa rispetto a quella che traspare dai fiumi di veleno contro la casta, quotidianamente riversati nei social media. Le capre, nel film intitolato “Lo sfascio dell’Italia dal dopo guerra ai giorni nostri”, figurano come comparse; al massimo qualcuna arriva al ruolo di caratterista, ma i veri protagonisti e coprotagonisti sono altri. Resta da capire, pertanto, come si sia giunti a tutto ciò. LE RADICI DEL MALE A venti anni, nel 1975, in occasione della prima candidatura al Comune di Caserta, coniai uno slogan poi ribadita nel 1985, quando mi candidai anche alla Provincia (Saltai le elezioni del 1980): “La democrazia è la peggiore delle dittature perché ti rende schiavo dandoti l’illusione di essere libero”. Nel 1975 non avevo ancora letto “Psicologia delle folle”, di Gustave le Bon; “Massa e Potere”, di Elias Canetti; “La ribellione delle masse”, di Josè Ortega y Gasset; “La nazionalizzazione delle masse”, di George Mosse; il fondamentale testo di Alain de Benoist, “Democrazia-Il problema”, scritto dieci anni dopo. Avvertivo forte, nondimeno, la distanza tra ciò che provavo a livello interiore e il mondo che mi circondava, non senza qualche tormento, iniziato addirittura sui banchi delle elementari: quando la maestra parlava di Atene con tono ieratico, istintivamente, mi trovavo a “tifare” per Licurgo e Leonida, senza comprendere il perché, non avendo preso ancora dimestichezza con il retaggio ancestrale. L’unica “suggestione” che mi consentì di coniare la frase, pertanto, scaturì dalle letture evoliane e dalla passione per la psicologia, che nella prima fase vide Sigmund


Freud come principale riferimento. (Poi sarò conquistato da Jung, ma questa è un’altra storia). La lettura di “Psicologia delle masse e analisi dell’io” contribuì sensibilmente a mettere un po’ di ordine nella mia mente, già pregna di idee e concetti lontanissimi da quelli che la cultura dominante dogmaticamente imponeva. Grazie al fondatore della psicanalisi, soprattutto, scoprii quel fenomeno che risponde al nome di Gustave Le Bon e da allora fu tutto più facile. A mano a mano che mi rafforzavo, svaniva la paura di affermare “verità scomode”; il coraggio di andare contro-corrente penetrò nell’anima con l’irruenza di un fiume in piena, senza più abbandonarmi. Il prezzo pagato è stato salatissimo, ma ne è valsa la pena e non ho rimpianti. Sulla bontà della democrazia sono stati consumati fiumi di inchiostro. Non è una formula perfetta, si dice, ma non vi è di meglio. E’ tale la potenza insita nel termine che nessun governo osa rinunciare a citarla: nemmeno quelli palesemente dittatoriali o quelli che di essa fanno strame, legiferando per il bene di pochi o addirittura “ad personam”. Emblematica, a tal proposito, una riflessione di Thomas Stearns Eliot, del 1939: “Quando un vocabolo viene gratificato da un carattere così universalmente consacrato, io comincio a chiedermi se, a forza di significare tutto ciò che si vuole che significhi, esso significhi ancora qualcosa”. Julien Freund ribadì il concetto in modo ancora più incisivo nel 1976, mettendo in luce le contraddizioni insite in un termine utilizzato da chiunque, sì da indurlo a “non” definirsi democratico proprio per non confondersi con coloro che si professano tali pur essendo sostenitori della dittatura. Analizzando, secolo dopo secolo, lo sviluppo del concetto di democrazia, è possibile coglierne la difficoltà oggettiva nel concretizzarsi in modo univoco e in ogni luogo. Di fatto, come spiega magistralmente François Perroux, i regimi politici attestati nella storia si caratterizzano per la loro struttura mista. La costituzione di Solone era oligarchica per l’areòpago, aristocratica per l’elezione dei magistrati, democratica per la costituzione dei tribunali, preservando in tal modo il meglio di ogni regime. Gli stessi filosofi illuministi non pensavano affatto a una democrazia totalmente rappresentativa, bensì a un regime misto che vedesse la monarchia controllata dai rappresentanti del popolo. Nel saggio di De Benoist i limiti della democrazia sono ben enunciati, anche attraverso le numerose e autorevoli testimonianze. Per Flaubert il suffragio universale è “una vergogna dello spirito”; per Montalembert “un veleno”; per Balzac “un principio assolutamente falso”; per Comte “un’ignobile menzogna”. Il filosofo francese, nato nel 1943, è ancora oggi il più autorevole maître à penser del pianeta, senza bisogno di etichette, ancorché famoso per aver dato vita alla “Nouvelle Droite”. Il suo pensiero, infatti, trascende ogni schema precostituito e punta diritto all’essenza della complessità dell’uomo, sviscerandone la vera natura. Un pensiero di tal guisa ha una caratura che mal si concilia con l’anacronistica dicotomia “destra-sinistra”. Per De Benoist l’elettoralismo e il parlamentarismo portano al potere i mediocri. Sottoposti a rielezione, i politici sono incapaci di concepire dei progetti a lungo termine e di prendere delle misure impopolari, ma necessarie. La democrazia sfocia in tal modo nell’anarchia, nell’edonismo di massa, nel materialismo egualitario. Il bene


comune degenera in luogo comune. Questi concetti sembrano addirittura scontati, alla luce della realtà che avvilisce la società contemporanea. Sappiamo bene, tuttavia, come sia difficile accettare le scomode verità, per le quali si preferisce nascondere la testa nella sabbia. E’ la storia, del resto, che ci mette sotto gli occhi quanto i regimi democratici possano configurarsi come regimi di oppressione, di colonialismo, di terrore. Già Aristotele aveva ben compreso che nessuna procedura democratica costituisce in fieri una polizza assicurativa contro il dispotismo. Lo stesso Pericle, per secoli osannato come paladino della democrazia, oggi ci appare nella più realistica veste di populista demagogo e di tiranno. Per Tucidide, addirittura, erano tali tutti gli ateniesi che ambivano al potere, capaci solo di produrre false promesse e demonizzazioni strumentali degli avversari politici. Particolare attenzione era riservata a coloro che manifestavano una propensione per il “bene comune”, visti come il fumo negli occhi per la capacità di determinare momentanee alleanze tra nemici, pur di mettere nell’angolo chi non rispettava le regole di un gioco sporco. Sembra cronaca di oggi e non di circa duemilacinquecento anni fa, a riprova che, gira e rigira, la storia è sempre la stessa: l’eterna lotta tra bene e male e la difficoltà a discernere il grano dal loglio. Tutti anelano alla libertà, salvo poi tirarsi la zappa sui piedi delegando il potere ai tiranni. (Oggi anche ai tirannucoli). Scrive Alexis de Toqueville, a tal proposito, nel monumentale testo sulla democrazia in America: “La libertà si è manifestata agli uomini in tempi differenti e sotto forme diverse; non si è affatto appaiata esclusivamente a uno stato sociale e la si incontra al di fuori delle democrazie”. La scomoda verità che impone di arrendersi all’evidenza, tuttavia, si deve a una straordinaria saggista e filologa, Jacqueline Worms de Romilly, la prima donna a insegnare nel prestigioso “Collège de France”, la seconda a entrare nell’Académie française. Nel saggio “Problemi della democrazia greca” scrive, senza tanti giri di parole: “Che ciascuno partecipi con voto eguale al governo di un paese può apparire giusto. Può anche apparire pericoloso, dal momento che non tutti posseggono un’eguale competenza. Questo, è in termini semplici, il dilemma in cui si trova ogni democrazia”. Ecco sviscerato, quindi, il punctum dolens della rappresentanza delegata con il principio “una testa un voto”. Affermare che la qualità decisionale dei governanti possa scaturire dalla quantità, è una pura “idiozia”, termine che ci riporta ancora all’antica Grecia e ci fa comprendere l’errore che si commette quando si eleva la democrazia a principio capace di tutto assorbire e tutto sublimare. Una lezione utile soprattutto ai superficiali fautori di un universalismo becero, che è cosa ben diversa del doveroso rispetto che si deve a ciascuno e che da ciascuno si deve pretendere. In Atene la democrazia è la comunità dei cittadini radunati nell’ekklesia per votare le deliberazioni della boulé (il Consiglio). I cittadini “votano” in quanto tali, perché la democrazia è concepita in rapporto alla “polis” e non all’individuo. Gli schiavi sono esclusi dal voto non perché schiavi, ma perché “idiotes”, ossia “non-cittadini”. (Il termine assumerà nel tempo l’alterazione etimologica con la quale lo utilizziamo oggi, ma quello significava). Nessuna democrazia ha mai accordato il suffragio ai non-cittadini e ancor più marcate degenerazioni del principio sono eloquenti: in Francia il


suffragio universale rimarrà riservato al sesso maschile fino al 1945; in Italia fino al 1946! LA CONCLUSIONE AMARA: SOFFRIRE.

O SI CAMBIA REGISTRO O SI CONTINUA A

Sembra pazzesco affermare serenamente che la democrazia, così come è concepita oggi, rappresenti un male, ma non lo è. Una verità può essere scomoda, ma se suffragata da dati di fatto inoppugnabili, verità resta. Nella stragrande maggioranza dei paesi del mondo i governi sono l’espressione di regimi democratici e ciascuno potrà riflettere da solo sulla qualità di molti capi di stato, capi di governo, parlamentari. Della squallida realtà italiana ne paghiamo quotidianamente le conseguenze. L’infima classe politica, però, è stata eletta da noi. Le capre, quindi, siamo noi. Loro saranno cinici e malvagi, ma non sono stupidi, perché sanno preservarsi e tutelarsi. Negli ultimi tempi sembra che una sorta di atavico torpore si sia affievolito e qualche reazione stia prendendo corpo. La recente sconfitta referendaria è senz’altro una prova di rinnovato vigore contro la malapolitica, essendo ben chiaro che i fautori del NO, in larga maggioranza, non si siano proprio preoccupati di studiare il contenuto della pseudoriforma: hanno solo recepito in fieri che fosse una schifezza, perché retaggio delle innumerevoli azioni schifose perpetrate dal governo in carica. Il risveglio delle coscienze è senz’altro positivo, ma occorre tanta cautela e tanta calma per evitare che si adottino rimedi peggiori del male. E questo rischio, sia ben chiaro, è concreto. Di certo non sarà l’attuale classe politica a risolvere problemi grossi come una montagna, realizzando una radicale trasformazione del principio di rappresentanza, che si configurerebbe come vera “rivoluzione”. (Una rivoluzione non sarà mai alimentata da chi detiene il potere). Anche il futuro Parlamento, quale che fosse la sua composizione, non potrebbe cambiare le regole del gioco democratico, magari conferendo il diritto di elettorato attivo e passivo solo ai soggetti che superino un esame in grado di verificare un sufficiente livello culturale. Altamente improbabile, altresì, una vera rivoluzione fomentata dalla società civile che, a prezzo di decine di migliaia di morti, dissolva tutto il marcio che esiste e lo sostituisca con qualcosa di nuovo, per ora non meglio definibile. Come si vede siamo in un bel cul-de-sac, apparentemente senza via di uscita. E’ evidente, però, che qualcosa dovrà accadere e, purtroppo, allo stato non è possibile stabilire se la bilancia penderà verso il bene o verso il male, anche se suonano minacciosi proprio i moniti lanciati da Gustave Le Bon, tremendamente attuali: “Quando l’edificio di una civiltà è infestato dai vermi, le folle compiono opera di distruzione. Allora si ha chiara la loro funzione. E, per un istante, la forza cieca del numero si erge a unica filosofia della storia […] Questa comunanza delle qualità consuete spiega perché le folle non saprebbero compiere azioni che esigano l’impiego di elevata intelligenza. Le decisioni di interesse generale prese da un’assemblea di uomini scelti, ma di diverse attitudini, non sono sensibilmente superiori alle decisioni che prenderebbe una riunione di imbecilli”. Che la società


contemporanea sia infestata dai vermi è un dato di fatto inoppugnabile; che la folla stenti a comprendere la differenza tra “bonifica” e “cupio dissolvi” è altrettanto chiaro. Spes, come sempre, resta l’ultima dea. Magari apparirà all’orizzonte un cavaliere su un cavallo bianco che riuscirà a sedurre il popolo, come spesso è accaduto in millenni di storia. Chissà, una volta tanto potrebbe essere un buon cavaliere! Nell’attesa, cerchiamo almeno di non guardare il dito di colui che indica la luna. E smettiamola di lamentarci sui social per le nostre colpe, comicamente e pateticamente tributate agli altri. Già questo, sarebbe tanto. (Confini, Nr. 51 – Febbraio)


Good Bye, Albert. Nota Facebook, 1 febbraio. Alberto John Lavorgna, “Albie”, 86 anni, è volato in cielo nel pomeriggio del 31 gennaio, nella città dei Lavorgna d’America: Revere, a pochi chilometri da Boston. Albert era il figlio di Zio Giuseppe, fratello di mio nonno Pasquale, e di Agata Nuzzolillo. Uno dei tanti cugini di una sterminata famiglia, oggi dipanata in molti Stati degli USA, anche se ancora ben consolidata nel sito che accolse, agli albori del XX° secolo, Zio Antonio, Zio Giuseppe, Nonno Pasquale, Zia Teresa e le rispettive famiglie. Nonno Pasquale fu l’unico dei quattro che rientrò in Italia, mentre l’altro zio, Biagio, non emigrò negli USA.


MOLTI STUDENTI SCRIVONO MALE! GLI STUDENTI??? Nota Facebook – 5 febbraio Seicento docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, sociologi ed economisti scrivono al Governo e al Parlamento chiedendo "interventi urgenti" per rimediare alle carenze in italiano dei loro studenti. Encomiabile iniziativa! Meglio tardi che mai, nonostante sia lecito non farsi illusioni: gli attuali governanti hanno ben altri pensieri per la testa, non certo grammatica, sintassi e ortografia. La lettera aperta, tuttavia, può contribuire senz’altro a smuovere le acque. Il problema, però, non riguarda solo gli studenti! La lingua italiana è massacrata quotidianamente anche da coloro che, per ruolo professionale, dovrebbero utilizzarla in modo impeccabile. Giornalisti in primis, ma anche molti docenti, purtroppo, al cospetto di congiuntivi, verbi servili, costrutti sintattici leggermente più complessi di una semplice frase composta da soggetto, verbo e complemento, assomigliano ai naviganti della domenica che si trovino improvvisamente a fronteggiare il mare grosso. Stendiamo un velo pietoso, poi, proprio sui politici, i cui incidenti grammaticali, sommati alla crassa ignoranza, costituiscono il piatto forte di tanti servizi giornalistici simpaticamente confezionati da una brava inviata de “Le Iene”. Le distonie presenti nelle lettere aziendali sono più tollerabili: da una rivenditore di prodotti gastronomici vogliamo soprattutto “buoni prodotti” e senz’altro gli perdoniamo le sfasature grammaticali, sia scritte sia orali; le grandi aziende, però, dovrebbero preoccuparsi di salvaguardare anche la comunicazione, affidandola a persone “capaci” e purtroppo questo non sempre accade. Quel “Gentile Signore (o Gentile Cliente) con la presente siamo a dirvi...”, diffusissimo, se fosse contemplato come reato penale potrebbe essere punito con non meno di trenta anni di lavori forzati. Molto grave, invece, il riscontro di errori nei comparti comunicativi della Pubblica Amministrazione, specialmente se aggravato dal ridicolo “burocratese”, che a parole tutti vogliono sconfiggere e nei fatti è più resistente delle zanzare nelle zone lacustri.


E’ inutile farla lunga. Per scrivere e parlare bene non basta solo studiare la grammatica: occorre leggere molto, iniziando in tenera età. Oggi, poi, occorre prestare anche molta attenzione a cosa proporre ai bambini e agli adolescenti per la loro formazione in quanto l’offerta di schifezze scritte con i piedi, nocive e diseducative, sovrasta la qualità. Per non parlare delle tendenze modaiole in campo (pseudo)letterario, che hanno consentito a insulsi scribacchini di caratterizzarsi come scrittori. L’abbandono sistematico dei classici è nociva per la formazione di un individuo almeno quanto lo sia, per la sua salute, il continuo ricorso ai cibi spazzatura, ignominiosamente propinati da mamme indegne, che pur di restare lontane dai fornelli e di seguire i precetti di una sana alimentazione, ingozzano i loro pargoli con le schifezze prodotte dalle multinazionali senza scrupoli, trasformandoli in fagotti ambulanti che prima o poi pagheranno il fio di tanta scellerataggine. A conclusione di questo articolo, pertanto, mi sia consentito di rendere omaggio a una Donna straordinaria, mia Madre, pubblicando la foto dei primi “quaranta” romanzi che hanno costituito la base della mia formazione adolescenziale, letti grazie ai suoi preziosi suggerimenti. Nella foto sono raccolti nell’edizione curata dalla casa editrice SAIE e a mia volta acquistati come regalo di compleanno per mia sorella, quando ha compiuto sei anni. Nella seconda foto, invece, vi è proprio la mia Mamma, in una stanza della casa avita, nella quale abito tuttora. Un tempo quella stanza fungeva da scuola elementare nelle ore mattutine e da “centro di lettura” nelle ore pomeridiane. Mamma vi venne prima come allieva e poi come maestra. Quando sposò mio Padre, anch’egli presente nella foto, poté recarsi al lavoro scendendo semplicemente una rampa di scale. Volle fortemente l’istituzione del centro di lettura, frequentato soprattutto dagli adulti con bassa scolarizzazione, ben consapevole di quanto fosse importante, per la formazione di una vera società civile, elevare lo spirito critico delle persone, propinando loro il meglio della letteratura universale. Oggi, invece, politici autorevoli, magari inopinatamente assurti alle più alte cariche istituzionali, suggeriscono ai giovani che vogliono impegnarsi in politica e ai parlamentari amici di non perdere tempo con la lettura dei classici e di dedicarsi esclusivamente alla visione della fiction statunitense “House of Cards”, che insegna a praticare l’attività politica nel modo migliore... per tutelare i propri interessi. “O tempora, o mores”.


La biblioteca dei ragazzi (libri con copertina rossa) da leggere entro il 13° anno di età.

1953: La mia Mamma, a destra nella foto, direttrice del centro di lettura. Alle sue spalle vi è il mio Papà.


L’ARTICOLO SULL’INIZIATIVA DEGLI QUOTIDIANO “LA REPUBBLICA”

ACCADEMICI,

PUBBLICATO

DAL


TRE ANNI E SEMBRA IERI.

“PRENDIMI LA MANO” Non mi spaventa il clamore della folla, né la perfidia dei singoli. Non mi spaventa il mare in tempesta e quieto solco i sentieri nelle selve ombrose. Non mi spaventano le cime innevate, i deserti di sabbia e pietre e quelli dell’anima. Non mi spaventano i fiumi in piena né i predatori a due e a quattro zampe. Ovunque mi trovi, socchiudo gli occhi e sorrido, tendo il braccio e sussurro: “prendimi la mano”. Tu appari dalle ombre del Tempo, la stringi e tutto si trasforma in musica, mentre il sole squarcia le tenebre. (Blog www.galvanor.wordpress.com – 21 febbraio 2017) (Altri post dedicati a Mamma)


CRETINI PATENTATI

Nota Facebook – 26 febbraio Nella foto sopra il titolo si vedono solo i cretini che usano il cellulare durante la guida perché è questa l’infrazione più attuale, con un incremento progressivo così marcato da configurarla come vera e propria psicopatologia. A questi psicopatici, però, vanno aggiunti i cretini storici, ossia coloro che guidano senza rispettare il codice della strada, infrangendo tutte le altre regole, che sono sempre esistiti. Anche questi ultimi sono in forte aumento e le infrazioni più diffuse sono i sorpassi azzardati, il superamento del limite di velocità, il mancato rispetto della distanza di sicurezza, per non parlare della guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, argomento che merita di essere trattato in tutta la sua drammaticità scindendolo dalle altre infrazioni. La sommatoria di tutte le tipologie di cretini alla guida è spaventosa: un vero esercito, fortemente pericoloso. Se ciascuno potesse conteggiarli mentre percorre un qualsiasi tragitto in auto, i risultati sarebbero sorprendenti, ancorché variabili in funzione delle strade percorse: la percentuale maggiore si registra proprio nelle più pericolose, come quelle a scorrimento veloce con due sole corsie e con lunghi tratti che non consentono il sorpasso. Del triste fenomeno dei cretini alla guida, a onor del vero, non è che se ne parli poco. Se esso persiste, però, evidentemente se ne parla male. A nulla sono servite anche recenti norme che inaspriscono le pene. E’ chiaro, quindi, che bisogna cambiare completamente registro operativo. Il primo dato da prendere in esame è di natura prettamente antropologica. Gli italiani, in massima parte, non sono pervasi dalla cultura dell’attesa e sono insofferenti. Un recente film di Checco Zalone ha messo bene in evidenza l’abissale divario di civiltà che ci separa dalla Norvegia ed è ben noto a chiunque viaggi molto quanto ciò valga anche per qualsiasi altro paese del Nord Europa. L’insofferenza è fonte di stress e alla guida può essere letale per se stessi e per gli altri. Non è facile cambiare il carattere delle persone, ma è evidente che se si lavorasse bene a tal proposito sui bimbi in formazione, rispristinando


l’educazione civica e adeguando i programmi alla realtà contingente, le cose potrebbero cambiare in prospettiva, consentendo alle future generazioni di evolversi verso più consoni standard comportamentali, che non ci facciano apparire più come un popolo di incivili. Per il presente, però, non è che si possa sopportare inermi la follia dei tanti cretini alla guida. Le pene per chi infranga il codice della strada sono ancora inadeguate, senza contare che sono ben pochi i cretini colti in fragranza, a causa dell’insufficienza dei controlli. Un marcato inasprimento delle pene, pertanto, si rende oltremodo necessario. Sarebbe utile, inoltre, rendere obbligatoria l’istallazione delle telecamere a bordo di ogni auto, in modo che possano essere ripresi coloro che effettuino sorpassi vietati, utilizzino il cellulare e commettano altre infrazioni. Se un autista si rende conto che nelle riprese effettuate durante il percorso vi siano state delle infrazioni al codice della strada, gli basterà consegnare il filmato alla Polizia Stradale, che provvederà a individuare i responsabili e sanzionarli. E non mi si venga a parlare di problemi di privacy: manderò affettuosamente a quel paese chiunque lo faccia. Intanto, sempre affettuosamente, al centinaio di cretini (o forse più) che ho incrociato ieri, su alcune strade della Campania, alcuni dei quali hanno rischiato di causare gravi incidenti, auguro di tutto cuore una invalidità permanente che consenta loro di entrare in auto solo come ospiti.

EUROPA & ITALY. UN VIDEO MOLTO SIGNIFICATIVO



PATRIOTTISMO: BELLA PAROLA QUANDO NON FA RIMA CON RAZZISMO E FANATISMO

“Nessun uomo ha colpe o meriti per dove nasce, ma solo colpe o meriti per come vive”. Coniai questo aforisma negli anni ottanta e l’ho periodicamente ribadito in vari contesti. Lo utilizzo anche come incipit di questo articolo, con il quale mi prefiggo di lasciare affiorare - sia pure nei limiti concessi dallo spazio disponibile e quindi trattando l’argomento per grandi linee - le luci e le ombre del patriottismo, sentimento diffuso e controverso, che a volte caratterizza degli eroi e altre degli imbecilli. L’analisi, pertanto, riguarda il rapporto degli esseri umani con il “sentimento”, sotto un profilo prettamente culturale. E’ proprio da questo rapporto, infatti, che sono scaturiti gli eventi cronologicamente accaduti nel corso dei secoli, segnando la storia dell’umanità, nel bene e nel male. I DUE VOLTI DEL PATRIOTTISMO Un mio docente di Storia, ahimè tanti anni fa, sosteneva che esiste un patriottismo buono e uno cattivo e ne sviscerava la differenza con la semplicità espositiva che serve a un agronomo per spiegare quella tra le mele sane e le marce. Trovavo stridente il suo metodo analitico e non riuscivo ad accettarlo. Un sentimento non è un frutto che possa marcire: se muta, muta anche terminologicamente. Il fluire del tempo e tante letture mi hanno consentito di affinare quell’istintivo spunto critico, conferendogli un senso logico. Esiste un patriottismo buono; quando diventa cattivo si trasforma in altro: razzismo o fanatismo e talvolta le due cose coincidono . “Il Patriota coltiva l’amore; il razzista l’odio. Il Patriota uccide se deve difendersi; il razzista uccide perché si sente superiore”. La storia dell’umanità riassunta in venti parole. “Se sapessi una cosa utile alla mia nazione, ma che fosse dannosa per un'altra, non la proporrei al mio principe, poiché sono un uomo prima di essere francese, o meglio, perché io sono necessariamente un uomo, mentre non sono francese che per combinazione”. Mi si perdoni l’autocelebrazione, ma un pizzico di vanità non è colpa grave: quando scoprii questo aforisma di Montesquieu, qualche anno dopo aver concepito il mio, che ne ricalcava l’essenza, il sorriso dell’anima sgorgò immediato e spontaneo. La gioia quando il proprio pensiero riscontri valide conferme, del resto, accomuna tutti gli studiosi. Peccato solo che i princìpi insiti nel nobile presupposto non abbiano trovato pratica attuazione, essendo stati ben altri quelli che si sono affermati. LE PAROLE SONO IMPORTANTI Ovunque, nel mondo, alterando il concetto di patriottismo, si sono perpetrati crimini immani e autentici tiranni sono stati idolatrati come divinità. E’ senz’altro superfluo, in questo contesto, dissertare sui tragici eventi beneficiari di un idem sentire e per i quali non fanno testo le sciocche confutazioni di coloro che, per le più svariate ragioni, vogliono plasmare la storia in funzione di una


distorta weltanschauung: orrori del nazismo; genocidio armeno perpetrato dai giovani turchi; holodomor staliniano che causò la morte di sette milioni di ucraini; massacro di Katyń, perpetrato sempre da Stalin per impedire che in Polonia sorgesse una classe dirigente in grado di contrastare l’espansionismo sovietico; vittime delle foibe titine e i numerosi altri crimini giustificati da un malsano senso della patria. Va solo precisato, casomai, che se è possibile seppellire con una risata le tante stupidaggini revisionistiche e negazioniste perpetrate da chi si ostini a negare l’evidenza, altrettanto non si può fare nei confronti di coloro che, rifugiandosi nella ragion di stato, accettano ignominiosamente le fuorvianti distorsioni della storia. Sono ancora molti i governi, per esempio, che per paura di offendere la Turchia non riconoscono il genocidio armeno; ancora meno quelli che riconoscono come genocidio lo sterminio per fame in Ucraina. Nella sua caratterizzazione negativa, il patriottismo si divide in tre sottocategorie: quello propugnato dai criminali tout court, quello figlio dell’ignoranza e del degrado sociale, quello dei fanatici illusi. In alcuni paesi dell’America Latina, per esempio, personaggi come Trujllo, Batista, Pinochet, Vargas, Videla, Stroessner, hanno costituito il volto sporco e consapevole del potere. I crimini perpetrati erano tali anche nella mente dei loro autori, che non avevano bisogno di giustificazioni ideologiche: a loro interessava mantenere il potere a qualsiasi costo e i nemici andavano abbattuti. Punto. A tal proposito va detto che vi è ancora dell’oscurantismo sulle dittature in America Latina, molte delle quali foraggiate dai paesi dell’Occidente, Stati Uniti in testa. Letteratura e cinematografia hanno fatto la loro parte, offrendo uno spaccato significativo delle atrocità commesse, ancorché ancora lontanissimo da un quadro esaustivo. Opere importantissime, tra l’altro, sono sistematicamente boicottate, specialmente nel nostro paese, dove è impossibile reperire, per esempio, film come “La rivoluzione delle farfalle”, “La notte delle matite spezzate”, “Sur”, “Cronaca di una fuga - Buenos Aires 1977”, per citarne solo alcuni tra i tanti che meriterebbero menzione. Un altro recente capolavoro, “Colonia”, per nulla pubblicizzato, ha incassato la miseria di 163mila euro, il che vuol dire che è stato visto da non più di 23mila persone! (Solo per un termine di paragone: “Quo vado”, di Checco Zalone, sicuramente divertente, ma non certo destinato a restare negli annali dei classici della cinematografia, ha incassato più di 65milioni di euro, è stato visto a cinema da oltre dieci milioni di persone ed è replicato in continuazione da SKY, dove è disponibile anche imperituramente “on demand”!) Non sembrino questi dati di poco conto: la disinformazione è sempre alla base di scelte sbagliate e di errati convincimenti sui fatti che condizionano la vita degli esseri umani. In un paese dove si legge pochissimo e si studia male, le verità storiche apprese da film ben fatti posso sviluppare senso critico e aprire la mente. Vanno visti, però! Un’altra faccia del patriottismo malsano è quello figlio dell’ignoranza, i cui rigurgiti sono ben evidenti anche nella società contemporanea. Il regista Martin Scorsee lo ha lasciato affiorare in un capolavoro della cinematografia, “Gangs of New York”, nel quale risalta in modo eccelso la


paura dei nativi americani per il massiccio flusso migratorio agli inizi del ventesimo secolo e la feroce violenza perpetrata contro gli immigrati irlandesi. Fenomeno che coinvolse anche gli italiani, sia pure in forma minore, anche perché i nostri connazionali riuscirono a impossessarsi del territorio e a dominarlo in tempi più brevi di quelli che servirono agli irlandesi per integrarsi. Se si vuole tributare al termine “patriottismo” una caratura esclusivamente nobile, pertanto, è bene effettuare una chiara distinzione tra i diversi comportamenti e denominarli appropriatamente. Le parole, come sosteneva Nanni Moretti, sono importanti. Il PATRIOTTISMO FANATICO Molto probabilmente non è mai esistito Nicolas Chauvin, considerato che di lui non si sa praticamente nulla, eccezion fatta per la sua dedizione a Napoleone, che avrebbe servito nel primo esercito della Repubblica e poi nella Grande Armata. Di sicuro è dal suo nome che deriva il termine “sciovinismo”, ossia la più esecrabile forma di nazionalismo, diffuso in tutto il pianeta come virus in grado di contaminare anche menti eccelse, accecandole. Puskin, per esempio, sulla cui valenza letteraria, poetica e culturale nessuno obietta, in tema di sciovinismo non era secondo a nessuno, arrivando ad affermare che “In materia di letteratura, la lingua russo-slava ha una netta supremazia su tutta l'Europa”. E’ impossibile tratteggiare compiutamente l’esaltazione degli sciovinisti, che storicamente precedono, e non di poco, la nascita del termine che li caratterizza. La storia del Giappone, per esempio, è una continua rappresentazione di sciovinismo, sia pure nobilitato da una realtà sociale incomparabile con quella occidentale, che trova leggero affievolimento solo in epoca recente. Variegate forme di sciovinismo, tuttavia, sono presenti ovunque. Intorno ai venti anni fui lasciato sprezzantemente da una ragazza proprio a causa della sua propensione sciovinista. Affermava di essere fiera delle sue radici calabre e io le feci notare che l’asserzione appariva inopportuna e non adeguata al livello culturale di una brillante studentessa di Scienze Politiche. Magari avrebbe potuto manifestare la sua fierezza per essersi distinta dalla maggioranza dei suoi corregionali, appartenenti a un territorio assurto a fama planetaria non certo per meriti positivi e che già Giustino Fortunato definì uno “sfasciume pendulo tra i due mari”. Non l’avessi mai detto! Non volle sentire ragioni e mi fulminò con lo sguardo, per poi cancellarmi dalla sua vita. Il giorno in cui discusse la tesi, tre anni dopo quell’evento, con mia somma sorpresa fui invitato alla sua festa di laurea. Mi abbracciò a lungo senza parlare, in presenza del suo fidanzato, e passammo la serata a discutere di tante cose, senza alcun riferimento al passato. Era maturata, e nel migliore dei modi. Lo sciovinismo non ha una matrice politica ben definita e abbraccia soggetti eterogenei, accomunati dal morboso attaccamento alle proprie radici. Generalmente si tende ad associarlo a un marcato deficit culturale, ma non concordo con questa teoria, che ha una valenza solo parziale e riguarda ben determinati ambiti, per lo più ubicati nell’area occidentale del Pianeta. Non essendo possibile dissertare compiutamente sulla


dedizione fino all’estremo sacrificio, (alla Patria, al Capo, al Monarca), praticata da uomini di sicuro alto livello intellettivo e culturale, rimando per gli approfondimenti ai testi citati nella bibliografia segnalata in calce. La trasversalità politica dello sciovinismo è sempre sublimata da qualche bandiera, non importa se sventolata a casaccio, senza averne assimilato princìpi e valori, spesso stravolti da comportamenti che ne rappresentano l’antitesi. Il Fronte di Liberazione del Quebec, per esempio, pensava di trasformare la regione francofona in uno stato marxista indipendente. I suoi sostenitori, però, che preferivano le bombe alla dialettica, non esitarono ad assoldare il celebre criminale lionese Jacques Mesrine, che in Francia era stato al servizio degli “ambienti” anticomunisti sostenitori di De Gaulle per motivi non propriamente “ideologici”. Il movimento indipendentista della Sicilia, invece, annoverò tra le proprie fila elementi provenienti dall’area conservatrice, liberali, monarchici, futuri democristiani e un cospicuo numero di autorevoli mafiosi, tutti benedetti da Mamma America, che in loro vedeva un considerevole e utilissimo fronte anticomunista. IL PATRIOTTISMO IN ITALIA In nessun paese il termine “patriottismo” appare ambiguo e controverso come in Italia e occorrerebbe un intero saggio per sbrogliare l’intricata matassa. Non ne mancano, per fortuna, anche di pregevole fattura, e alcuni li ho citati nella bibliografia. In questa sezione dell’articolo, pertanto, sorvolerò sui fatti storici e mi limiterò a dissertare sulla percezione del sentimento nelle varie epoche. Alcuni storici associano il primo vagito del patriottismo italiano al celebre invito che Machiavelli rivolse ai nobili: “Pigliare l’Italia e liberarla dai barbari”. Laddove i barbari altri non erano se non quei dominatori che il suo concittadino e quasi coetaneo Guicciardini inglobò nell’altrettanto celebre monito, “Franza o Spagna purché se magna”, che ebbe maggiore presa nella coscienza popolare, nonostante l’anelito di Machiavelli fosse autorevolmente ribadito da personaggi del calibro di Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo. Senza disconoscere, pertanto, la valenza culturale delle manifestazioni patriottiche sviluppatesi dal 15° al 18° secolo, a mio avviso la vera data di nascita del patriottismo italiano la si deve spostare ai tempi di Mazzini e Gioberti, perché fu grazie a loro se l’idea di “Patria”, nella sua accezione più nobile, uscì dal ristretto ambito accademico e incominciò a diffondersi come sentimento condiviso da larghi strati della popolazione. Qui, però, la faccenda si complica maledettamente perché entriamo nel vivo delle dinamiche risorgimentali, che vedono affiorare le diverse anime del patriottismo, da Nord a Sud. Non è questo il contesto per affrontare l’argomento e pertanto ci soffermiamo su un altro aspetto, molto significativo, che ci proietta in modo razionale tra le distonie della società contemporanea.


O TEMPORA O MORES Il patriottismo contemporaneo non ha nulla a che vedere con quello che caratterizzava i nostri nonni e bisnonni. Dirò di più: non ha nulla a che vedere nemmeno con quello che pervadeva i giovani della mia generazione, nati negli anni cinquanta. La realtà quotidiana ci propina costanti rigurgiti di nazionalismo, non scevro di deleterio provincialismo, ma siamo ben lontani dallo spirito che animava i patrioti del XX e XIX secolo, quale che fosse la causa servita. Un ventenne di oggi, cui fosse chiesto di sacrificare la vita per la sua “Patria”, quella per la quale è disposto a restare ore in fila, al freddo, per un concerto, per una partita della squadra del cuore o della Nazionale di calcio, risponderebbe con una risata, prendendo per matto l’interlocutore. Le cose, sotto questo profilo, sono cambiate repentinamente in pochissimi lustri. Coloro che sono nati negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, infatti, antropologicamente, sono più vicini ai genitori e ai nonni che ai figli e ai nipoti, protagonisti della rivoluzione tecnologica. A dirla tutta, e non sembri una forzatura, non sono distanti nemmeno dai bisnonni, con i quali si può arrivare alla metà dell’800, il che vuol dire, considerata la lentezza nelle trasformazioni sociali di quel periodo, scivolare ancor più indietro nel tempo e non di poco. Le differenze sono sostanziali e marcano un confine netto tra le diverse concezioni della vita e le reciproche visioni del mondo. Per la generazione degli anni di piombo - la mia generazione era del tutto normale correre il rischio di perdere la vita combattendo per le proprie idee e, ovviamente, per la Patria. La guerra era senz’altro considerata un evento terribile, ma possibile, che sarebbe stata combattuta, in caso di necessità, con la serena consapevolezza che pervadeva i patrioti del Risorgimento, i quali affrontavano il plotone di esecuzione cantando: “Chi per la Patria muor vissuto è assai. La fronda dell'allor non langue mai. Piuttosto che languir sotto i tiranni è meglio di morir sul fior degli anni”. In Irlanda del Nord, dalla fine degli anni sessanta alla fine degli anni ottanta vi furono oltre tremila morti, nell’impari lotta tra i volontari dell’esercito repubblicano che anelavano all’indipendenza, mal armati e non certo esperti militari, e l’addestratissimo esercito inglese, i cui reparti speciali si macchiarono di efferati crimini. Le gesta di personaggi come Bobby Sands, che nel 1981 si lasciò morire di fame in un carcere per il suo “amor patrio”, dei martiri del “Bloody Sunday” e delle tante altre stragi, oggi appaiono anacronistiche e incomprensibili a larghi strati della popolazione. E sono passati meno di quaranta anni, ossia meno di un soffio, nel caleidoscopio delle ere storiche. Andando a ritroso non di molto, come noto, riscontriamo la venerazione per Benito Mussolini, che assunse livelli parossistici, e con essa il forte senso di “italianità”, che sfociò in un patriottismo di maniera soprattutto nelle classi medie. L’alta borghesia e i potentati economici, invece, si votarono al fascismo e al suo capo con la razionalità di chi sceglie sempre per convenienza, senza alcun coinvolgimento emotivo e contrastando con forza il corporativismo, visto come lesivo dei propri interessi, nonostante rappresentasse l’essenza del regime in tema di politica economico-sociale. Un esempio che serve a spiegare meglio le


sensibilità di quel periodo lo troviamo in una cronaca del gerarca Bottati, comandante di battaglione durante la campagna d’Abissinia, nel 1936. Sugli elmetti dei soldati vi erano scritte inneggianti al Duce e al Re, per i quali si era pronti a sacrificare la vita, considerando ciò “un grande onore”. Sintomatica una delle frasi citate, letta sull’elmetto di un semplice soldato: “Se vivo, voglio vivere all’ombra della mia bandiera. Se muoio voglio essere crocefisso all’asta della mia bandiera”. Ancora più esplicativa la lettera di un vecchio caporal maggiore, che aveva prestato servizio alle dipendenze di Bottai nella Prima guerra mondiale. Scrive al suo ex comandante, rammaricato, per il “disonorevole” ruolo del figlio, assegnato, “contro la sua volontà”, a un reparto delle retrovie e con mansioni di ufficio! La lettera si conclude con una precisa esortazione per un immediato trasferimento al fronte, possibilmente nel suo Battaglione. “Bravo fesso”, esclamò il Generale Bertini, quando Bottai gli riferì della lettera. Un sentimento popolare affine, per certi versi, allo spirito dei soldati napoleonici e gli esempi potrebbero continuare a iosa, scorrendo all’indietro le pagine della storia. I ventenni degli anni settanta, se non proprio in modo così marcato e senz’altro con maggiore pregnanza culturale, erano pervasi dagli stessi fremiti ideali. Oggi siamo ben lontani da quei presupposti ed esiste solo un confuso senso della patria, che non è configurabile nemmeno come nazionalismo unanimemente condiviso. L’Italia, del resto, non è stata mai unita e le divisioni sono ben radicate ed evidenti, fino ad assurgere a livello di barzelletta quando nei vari comuni si cambiano i nomi delle strade dedicate ai personaggi storici, con l’alternarsi delle amministrazioni. Emblematica, a tal proposito, la testimonianza del Professor Fabio Finotti, docente di Letteratura Italiana alla Penn University di Philadelphia, autore del saggio “Italia, l'invenzione della patria". Girando tra le comunità italiane negli USA, ha avuto modo di comprendere come tanti connazionali, soprattutto del SUD, sventolino orgogliosamente la bandiera italiana, sputando però fuoco e fiamme contro i Savoia, Mazzini, Garibaldi, professandosi altrettanto orgogliosamente “filoborbonici”. La confusione mentale è alta e ciò che accade nei nostri confini, dalle Alpi a Lampedusa, non serve ribadirlo. IL VOLTO NOBILE DEL PATRIOTTISMO Patriota a Patriottismo sono due belle parole e proprio per questo vanno preservate nella loro essenza più nobile e sublime, differenziandole dalle distorsioni strumentali, offensive per i tanti che, a giusta causa, a un sano ideale di Patria hanno dedicato la loro vita, talvolta sacrificandola. Dei patrioti irlandesi ho fatto cenno in questo articolo e ne parlo più diffusamente in un’altra rubrica. Sono tanti, tuttavia, gli esempi che potrebbero essere proposti. Il concetto di Patria, quando è ancorato a presupposti di amore e non prevede l’odio nei confronti “dell’altro”, è un nobile sentimento. Un sentimento di cui è pervaso anche l’autore di questo articolo, per il quale la Patria ha un nome magico che gli consente di allargare i confini a dismisura e sentirsi vero fratello di una grande e meravigliosa comunità umana. Pazienza se tale sentimento non è condiviso e


ricambiato da tutti. Pazienza e peccato, perché davvero non sanno cosa si perdono coloro che non riescono dire: “La mia Patria si chiama Europa”. Bibliografia essenziale Federico Chabod: “L’idea di nazione”. Laterza – 1968 Giuseppe Bottai: “Diario 1935-1944” – Rizzoli – 1982 Giulio Bollatio: “L’italiano”. Einaudi -1983. Maurizio Viroli: “Per amore della patria. Patriottismo e Nazionalismo nella storia”. Laterza -2001. Manlio Graziano: “Italia senza nazione?” Donzelli - 2007. Emiko Ohnuki-Tierney: “La vera storia dei kamikaze giapponesi”. Bruno Mondadori Editore – 2009 Fabio Finotti: “L’Italia, l'invenzione della patria". Bompiani – 2016 (Confini, Nr. 52 – Marzo)


BOBBY SANDS: EROE D’IRLANDA. EROE D’EUROPA. PROLOGO Era bella come il sole, Caitlin. La tipica bellezza che a venti anni esplode verso il massimo splendore, in lei sublimata dalla marcata personalità e dalla militanza nell’Irish Republican Army, che la facevano apparire più adulta, sia pure senza intaccarne la fisicità. Pioveva a dirotto, a Belfast, quel 30 ottobre del 1978. Cenavamo in un ristorantino non lontano dal muro nei pressi di Falls Road, che separa la zona cattolica da quella protestante. (Li chiamano “peace lines”, i muri di Belfast, ma muri restano). Era la mia prima volta nella capitale nordirlandese e mi batteva forte il cuore per essere insieme con una giovane donna, combattente per la libertà del suo popolo, appartenente alla più importante Brigata dell’IRA, quella nella quale militava Bobby Sands. L’avevo conosciuta nell’estate dello stesso anno, a Roma, e ci eravamo scritti e telefonati spesso, dopo il suo rientro. Ben volentieri, ovviamente, accettai l’invito a trascorrere qualche giorno da lei, in occasione della Festività del Samhain. Lei era rimasta affascinata dalla mia passione per il mondo celtico e per il sostegno ideale alla causa indipendentista, elementi che senz’altro contribuirono a facilitare un approccio che sfociò subito in qualcosa di più intimo. Nei giorni trascorsi insieme mi fu possibile decantare in modo più che esaustivo concetti e pensieri appassionatamente studiati su libri e riviste (è appena il caso di ricordare che, in quel periodo, non esisteva Internet). Abitava in un piccolo appartamento non lontano dall’orto botanico e dalla Queen’s University, dove frequentava la facoltà di Biologia. La sua famiglia viveva a Feeny, un piccolo centro distante una novantina di chilometri a Nord-Ovest, nei pressi della mitica “Derry”, altra città simbolo nel sanguinoso periodo dei troubles. Mi disse quanto sarebbe stato bello, quella sera, recarsi sulla collina di Tara - nell’Irlanda indipendente, non lontano da Dublino - dove si celebra il più rinomato festival dedicato all’antico rito celtico. Dalla finestra si scorgeva un bel tratto del Lagan, che offriva una visione suggestiva grazie all’effetto cross-screen generato dalla pioggia battente sulle luci dei lampioni. Mentre lo ammiravamo estasiati, teneramente abbracciati, fummo distratti dalla vista di qualcuno che era entrato nella stradina praticamente deserta, dal lato nord. La vidi incupirsi, ma senza scomporsi. “Chi sono?”, chiesi, avendo intuito dalla divisa che non dovevano essere proprio delle persone a lei simpatiche. “Sono i bastardi della Royal Ulster Constabulary – replicò con voce ferma – sono spietati e provano un gusto sadico nel massacrarci. E sono irlandesi. Come me”. Vi sono frasi che valgono interi libri e in quella breve frase si racchiudeva tutto il dramma di un popolo che da secoli viveva in una sorta di infinita guerra civile. Poliziotti irlandesi al servizio del governo di Sua Maestà, che reprimevano con ferocia inaudita altri irlandesi che combattevano all’insegna di un antico sogno: “A nation once again”. Istintivamente e all’unisono volgemmo lo sguardo verso il mobile collocato sul lato opposto della stanza, non lontano dalla porta. Lo guardammo per qualche attimo e poi, sempre all’unisono, in una sorta di sincronismo telepatico, tornammo a fissarci intensamente, accennando un mesto sorriso che trasmetteva lo stesso


pensiero: non quella sera e non contro irlandesi. Tenendoci per mano ci dirigemmo verso il divano, restando a lungo in silenzio. Da un vecchio registratore a nastro le voci calde e profonde dei Dubliners, dei Chieftains e dei Wolfe Tones ci accarezzavano l’anima, placando i tormenti. IN MEMORIA DI UN EROE Scrivo questo articolo nel tardo pomeriggio del 9 marzo 2017, dopo essermi concesso qualche ora di ideale viaggio nel tempo, sfogliando vecchi album e inseguendo i ricordi, sempre accompagnato dalle note sublimi di cantori unici al mondo. Fisso estasiato le foto di un giovane uomo, che oggi avrebbe la mia età – ci separano solo dieci mesi dal giorno di nascita – percependo ben nitida la distanza abissale che separa un uomo normale, che pure ha combattuto mille battaglie, da un eroe, che per le sue ha sacrificato la vita. Roibeard Gearóid Ó Seachnasaigh, alias Robert Gerard Sands, detto “Bobby”, nacque a Belfast il 9 marzo 1954, in un quartiere popolato prevalentemente da protestanti perché i suoi avi avevano abbracciato tale confessione. I genitori, John (morto nel 2014) e Rosaleen, invece, erano cattolici e ben presto furono costretti a trasferirsi in una nuova dimora, amorevolmente messa a disposizione dai genitori di Rosaleen nella zona Sud di Belfast, per sfuggire alle continue intimidazioni dei lealisti. Bobby era il maggiore di quattro figli: Marcella, nata nel 1955; Bernadette, nata nel 1958, importante membro della causa indipendentista, fondatrice del County Sovereignty Movement e moglie di Michael McKevitt, a sua volta importante membro dell’IRA; John, nato nel 1962, docente universitario. L’infanzia di Bobby è stata segnata dalla continua visione delle violenze perpetrate dai protestanti filoinglesi nei confronti dei cattolici. Una sua vicina offendeva sistematicamente la madre, mentre il papà era al lavoro. Rosaleen subiva in silenzio, per evitare guai peggiori alla famiglia. Anche dopo il primo trasferimento, però, nonostante il nuovo quartiere fosse a maggioranza cattolica, i problemi non si risolsero del tutto e la casa fu quasi distrutta dai lealisti. La famiglia, pertanto, fu costretta a trasferirsi di nuovo in un altro quartiere, più protetto, nella zona Ovest della città. Nel 1970 Bobby iniziò un apprendistato come carrozziere, ma le continue vessazioni subite lo costrinsero ad abbandonare il percorso formativo. La goccia che fece traboccare il vaso si ebbe nel 1971, quando i colleghi lo affrontarono armi in pugno, dicendogli che la zona dove sorgeva l’istituto era interdetta ai “sporchi feniani” e che se si fosse fatto rivedere lo avrebbero ucciso. Nel 1972, a diciotto anni, entrò nell’IRA, divenendo membro del 1° Battaglione della Brigata Belfast. Nello stesso anno sposò Geraldine Noade e nel 1973 nacque il loro unico figlio, Gerard. Arrestato più volte, il 1° marzo 1981 iniziò uno sciopero della fame che lo portò alla morte il 5 maggio dello stesso anno. Altri nove compagni di sventura seguirono il suo esempio, immolando la propria vita tra maggio e agosto 1981. A nulla servirono le proteste che si levarono da tutto il mondo per impedire lo


scempio. La Thachter, all’epoca primo ministro, fu irremovibile e non volle accogliere le richieste dei detenuti, che richiedevano condizioni di detenzione umane. La vita eroica di Bobby Sands durante la sua militanza nell’IRA non è dissimile da quella di tanti altri eroi che emersero per coraggio e naturale carisma. E’ impossibile tratteggiarla compiutamente in un articolo, perché si correrebbe il rischio di significative omissioni e di non trasmettere le emozioni e le suggestioni che solo un accurato approfondimento possono offrire. Conoscere bene quelle vicende, invece, è molto importante perché ci aiuta a meglio comprendere anche problematiche attualissime, legate alle sorti dell’Europa. L’Irlanda del Nord è parte integrante della Gran Bretagna e quindi ora non più nell’Unione Europea, nonostante ciò non sia gradito dalla maggioranza dei suoi abitanti, alla pari degli Scozzesi, che già stanno organizzando un referendum per abbandonare la Gran Bretagna e rientrare in Europa. Il primo libro da leggere, pertanto, è quello scritto proprio da Bobby Sands durante la sua prigionia: “Un giorno della mia vita”, edito da Feltrinelli. Altri testi significativi: “Qui Belfast. Storia contemporanea della guerra in Irlanda del Nord”, Silvia Calamati, Red Star Press, 2013; “Storia del conflitto anglo-irlandese”, Riccardo Michelucci, Odoya, 2009. Questi sono solo tre esempi di una corposa messe di opere che ciascuno potrà facilmente reperire, se ne ha voglia. Anche in rete non mancano importanti siti che affrontano in modo serio ed equilibrato l’argomento. Da non perdere, poi, il capolavoro cinematografico di Steve McQueen (da non confondere con l’omonimo attore), “Hunger”, del 2008, nel quale un superlativo Michael Fassbender interpreta il ruolo di Bobby Sands. Buon compleanno, Bobby. A Nation Once Again.



Non serve ribadire ciò che penso della Lega e di Salvini e sono facilmente reperibili i concetti espressi in numerosi articoli. Ciò premesso, condanno senza riserve l’ostracismo tributatogli, le cui caratteristiche non hanno nulla di dissimile dal razzismo imputato alla sua compagine politica. Quando si agisce ragionando con la pancia e nessuno si fa carico di arginare quella follia collettiva che a volte si diffonde come un virus, i guasti per la pacifica convivenza diventano irreparabili. Centri sociali e le parole di Gustave Le Bon Suonano profetiche, a tal proposito, le parole di Gustave Le Bon, tratte da un suo celebre saggio: “Una civiltà implica e richiede regole, disciplina, il predominio del razionale su ciò che è istintivo, una certa previdenza dell’avvenire, un grado elevato di cultura, tutte condizioni precluse alle folle lasciate a se stesse. Queste ultime, in virtù della loro caratteristica unicamente distruttiva, operano come quei microbi che favoriscono e intervengono nella dissoluzione di un corpo debilitato o di un cadavere”. Quei ragazzi presi singolarmente Presi singolarmente, quei ragazzi che hanno occupato la Mostra d’Oltremare di Napoli, sicuramente presentano caratteristiche umane lontane mille miglia da ogni parvenza criminale e sono codificabili come “bravi ragazzi”. La complessità della società contemporanea, tuttavia (anche se la storia insegna che le fenomenologie sono simili in ogni epoca), condiziona pesantemente il comportamento dei singoli quando si trasformano in folla. Il delirio Nell’analisi di Le Bon risalta il riferimento “all’elevato grado di cultura”, ciò che manca a livello di guida, lasciando, di fatto, le folle in preda al loro delirio, con tutto ciò che ne consegue. Fin quando non saranno gli uomini di cultura a guidare il Paese, in ogni contesto politico e sociale, la nostra società presenterà sempre quei nefasti aspetti che la rendono simile a una nave alla deriva, con i motori in avaria e il comandante ubriaco.


OGGI SIAMO TUTTI SBIRRI

Ogni 21 marzo, primo giorno di primavera, l’Associazione “Libera” celebra la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, perché nel giorno di risveglio della natura si rinnovi la primavera della verità e della giustizia sociale. Dal 1996, ogni anno in una città diversa, viene letto un elenco di circa novecento nomi di vittime innocenti. Ci sono vedove, figli senza padri, madri e fratelli. Ci sono i parenti delle vittime conosciute, quelle il cui nome richiama subito un’emozione forte. E ci sono i familiari delle vittime il cui nome dice poco o nulla. E’ un dovere civile ricordarli tutti, pertanto, perché è a quei nomi e alle loro famiglie che dobbiamo la dignità dell’Italia intera. “Oggi siamo tutti sbirri”, ha ricordato Don Ciotti. Faccio mia la frase, nel commosso e nostalgico ricordo di un tempo lontano, quando servivo lo Stato nella Questura di Siena. Un saluto affettuoso a tutti gli sbirri d’Italia. (Blog www.galvanor.wordpress.com – 21 marzo)



(Cena nel ristorante preferito, “Cane e Gatto�, con Questore, Vice Questore, Capo di Gabinetto, Capo della Polizia Giudiziaria)


Ci accingiamo a celebrare il sessantesimo anniversario del Trattato di Roma, che sancì la nascita della futura Unione Europea. Dovrebbe essere un giorno di festa, di grande festa, ma non lo è, perché l’Europa, come concetto unitario, è scaduta nel cuore di chi la abita, ammesso che vi sia mai stata secondo i princìpi di coloro che, a giusta causa, possono definirsi “europeisti”. Un edificio costruito male, del resto, con fragili fondamenta e su un terreno non consono, è destinato a cadere. Il destino dell’Europa come progetto unitario, pertanto, era già segnato quando si partì con il piede sbagliato. “CEE” fu il nome dato al Trattato Internazionale, ossia Comunità Economica Europea. Anteporre la progettualità economica a quella politica equivale a costruire un grattacielo partendo dall’ultimo piano. Tutto ciò che è accaduto in questi decenni, ivi compreso il mancato sviluppo di una vera coscienza unitaria, è la conseguenza di quel madornale errore, che perpetuava una propensione economicistica già attuata nel 1951, con il Trattato costitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Di Stati Uniti d’Europa non si parlava se non accademicamente, perché i rigurgiti nazionalistici, presenti ovunque, non consentivano adeguati spazi in tal senso. Le ragioni di un fallimento In tre precedenti articoli, facilmente reperibili, (1) ho esposto il lungo cammino che ha segnato il progetto federativo europeo. Ritengo superfluo, pertanto, ribadirne le varie fasi. Qui basti ricordare un solo concetto, dal quale partire per un’analisi che consenta di rappresentare in modo adeguato l’Europa contemporanea e conferire un senso realistico a una celebrazione che, inevitabilmente, può solo sancire il trionfo dell’ipocrisia politica: il sogno europeo, nel corso dei secoli, ha pervaso le menti e i cuori di ben pochi soggetti, i quali, nella stragrande maggioranza dei casi, non avevano alcuna possibilità di incidere autorevolmente per l’istituzione degli Stati Uniti d’Europa. La classe politica continentale, a sua volta, è stata solo attenta ad “autotutelarsi”, senza mai preoccuparsi di creare i giusti presupposti per un vero progetto federativo che si configurasse sul modello degli Stati Uniti d’America. Non sono mancati politici autenticamente e sinceramente europeisti, ovviamente, ma nulla hanno potuto contro potentati di varia natura che li hanno facilmente messi fuori gioco. Oggi,


purtroppo, stiamo sperimentando sulla nostra pelle quanto ci manchi un governo federale autorevole, un presidente europeo, un vero esercito europeo. Stiamo sperimentando, quindi, magari inconsapevolmente, quanto ci manchino gli “Stati Uniti d’Europa”. Nel lontano 1977 scrissi il mio primo articolo europeista, sulla prestigiosa “Rivista di Studi Corporativi”, diretta dal compianto Gaetano Rasi. Vengono i brividi a rileggerlo: i concetti espressi potrebbero essere riproposti in toto oggi. E sono passati quaranta anni! L’Europa è una vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni, nella sua storia millenaria, per lo più terminanti in “ismo”. Tutte le infezioni sono state debellate, eccezion fatta per una distorta concezione del “nazionalismo”, che in molte aree sconfina in bieco provincialismo, non scevro di razzismo, termine che va sempre scritto senza alcun bisogno di supporto aggettivante, perché si caratterizza da solo. Chiunque abbia una coscienza europea ben sa quanto sia affascinante sentirsi connazionale di circa seicento milioni di persone, nonché sentirsi a casa propria ovunque ci si trovi, in un continente di oltre nove milioni di chilometri quadrati. (I dati fanno riferimento alla “ridefinizione” dei confini, descritta nell’articolo pubblicato il 13 dicembre 2016). La stupenda sensazione, però, si trasforma subito in mestizia, essendo ben chiaro quanto sia lontana la meta di un’Europa davvero unita sotto un’unica bandiera. E’ amaro dirlo in questo giorno, ma l’incapacità di prevedere il futuro, da parte dei cosiddetti padri fondatori dell’Unione Europea (eccezion fatta per Altiero Spinelli), ha prodotto guasti immani. Nelle loro menti non era assente l’idea di un reale progetto federativo: essendo prima di tutto dei politici, però, lo sacrificarono alla realtà contingente, che non era (e non è) ancora pronta per questo passo. Altiero Spinelli, che aveva le idee ben chiare circa l’importanza dell’unità politica, dovette subire gli eventi della storia senza poterli condizionare più di tanto. Sancendo il primato dell’economia sulla politica, di fatto, l’Europa si è condannata a morte, con lenta agonia. Il miraggio di Maastricht Il 7 febbraio 1992, nella tranquilla cittadina di Maastricht, i dodici stati della Comunità Europea sottoscrissero il famoso trattato che, di fatto, istituì l’Unione Europea. Sulla fase preparatoria dei lavori e sullo svolgimento degli stessi esiste una corposa e interessante bibliografia, purtroppo pochissimo nota, nonostante la sua fondamentale importanza per la vita di milioni di cittadini. Un po’ più difficile reperire le “verità nascoste”, capaci di offrire una visione realistica dell’evento. Entrare nel ginepraio dei fatti, anche se alcuni di essi – è corretto affermarlo in premessa – sono caratterizzati da elementi così paradossali che rendono oltremodo difficile distinguere la parte storica da quella leggendaria, consente di percepire sia la leggerezza sia il cinismo con i quali i potenti di turno abbiano giocato a dadi con il destino degli europei. I presupposti,


apparentemente, costituiscono quanto di meglio si possa desiderare per un individuo. Nella realtà – quella realtà che prepotentemente è deflagrata negli ultimi tempi – il trattato evidenzia l’esaltazione di un momento, quello successivo alla caduta di Berlino, la pervicace volontà egemonica dei maggiori fautori e anche una sorta di mancanza di lungimiranza da parte di alcuni illusi, a cominciare dal nefasto Jaques Delors, che realmente pensava di utilizzare la moneta unica per agevolare il processo di integrazione politica. Purtroppo le sue tesi trovarono valido supporto in paesi come Francia, Italia e Germania, scardinando le deboli obiezioni poste da Danimarca e Portogallo. Fa storia a sé l’euroscetticismo della Thatcher, che le costò la poltrona di primo ministro, nel 1990, influendo non poco sulla fine della sua carriera politica. E’ impossibile ripercorrere in questo contesto le fasi salienti del trattato e, nel mio pur corposo archivio, non sono riuscito a reperire un fondamentale testo che riporta l’errore relativo ai parametri stringenti per la gestione economica dei singoli stati. Come noto, infatti, gli articoli 99 e 104 prevedono di evitare disavanzi eccessivi e il non superamento dei rapporti del 3% deficit/Pil e del 60% debito/Pil. Parametri accettati, almeno fino a qualche anno fa, con la stessa semplicità con la quale si accetti una ricetta del medico per curare un raffreddore e quindi senza chiedersene “la ratio”. In base a quale logica sono stati scelti quei parametri? La spiegazione più accreditata è quella relativa alla situazione economica, che all’epoca si configurava in un contesto di crescita. Già questo è un evidente errore, perché non si possono fissare paletti “eterni” in una materia così fluida e variabile come la politica economica. (E i fatti dell’ultimo decennio ne sono la prova più lampante). La cosa più buffa, però, è stato il modo con cui si è giunti a fissare quello che, in gergo economico, si chiama “modello di Domar”. Sostanzialmente accadde questo: i rappresentanti dei vari governi, dovendo fissare i parametri, chiesero ai membri del loro Staff di individuarli. Essi, di fatto, furano fissati da oscuri economisti, che lavorarono su processi economici non pertinenti. I politici si limitarono a prendere atto del rapporto e a ratificarlo, senza sottoporlo a pareri più autorevoli, in grado di rilevarne l’incongruità e le possibili conseguenze negative. Sembrano cose pazzesche, vero? Non sono state le sole. L’Europa di oggi, l’Europa di domani La realtà è sotto gli occhi di tutti. L’Europa dei banchieri e dei mercanti ha ucciso il sentimento europeo. Il continuo appello alla doppia velocità ha sancito il fallimento di Maastricht. Il rigurgito del nazionalismo ha ucciso la convenzione di Schengen. La mancanza di coesione nella gestione della crisi mediorientale e dei profughi ha allontanato, e non di poco, il sogno europeo. L’autore di questo articolo è il leader di un movimento che si chiama “Europa Nazione” e coltiva il sogno degli Stati Uniti d’Europa da quando portava i pantaloni corti. Sono abituato da sempre alle risate di scherno e non mi fanno specie. Passeranno decenni, forse secoli, ma verrà il giorno in cui qualcuno potrà davvero sorridere sotto una bandiera europea, da “Europeo”. Voglio crederlo. Ovunque sarò, in quel


momento, sorriderò anche io, con tutti coloro che al sogno europeo hanno dedicato la vita. Oggi non ho nulla da festeggiare, pertanto. Mi resta solo di sfogliare vecchi libri e vecchie riviste, inseguendo ricordi mai assopiti, per poi provare a strimpellare sulle corde della chitarra le note di quella canzone che cantavo in gioventù: “Da Praga a Stettino, da Roma a Berlino, un sol grido si leva, un sol grido si leva, Europa Nazione sarà; Europa Nazione sarà”. Sì, la voce è rotta dall’emozione, ma è bello gridare, con l’entusiasmo di un ventenne: “La mia Patria si chiama Europa”. Perché c’è voluto davvero tanto talento per diventare vecchio e non adulto. 1) Disponibili anche nei numeri 48-49-50 di “CONFINI” – (Ottobre – Novembre – Dicembre 2016)



UN SOLO CIELO, PER FAVORE. All'altra metà del cielo ho dedicato un romanzo, "Prigioniero del Sogno", e una messe infinita di poesie. Ogni donna che mi abbia sorriso ha ricevuto in dono almeno un componimento poetico e a tutt'oggi, a quanto mi risulta, gli unici versi dedicati alle meravigliose creature che rispondono al nome di "modelle" sono quelli da me fermati sulla carta una quindicina di anni fa, in una notte di luna piena, sulla piccola spiaggia di Amalfi il cui nome ricorda il colore delle acque spumeggianti che bagnano la sua battigia, suggestionato dal canto e dalla visione di dolcissime sirene. (1) Mi sarebbe oltremodo facile, pertanto, celebrare in questo articolo lo stupendo universo femmineo, cesellandolo con un sincero e sentito "grazie di esistere". Non potrei aggiungere nulla di nuovo, però, a quanto traspaia da un numero sterminato di romanzi e saggi, molti dei quali di pregevole fattura. Se mi lasciassi sopraffare dalla tentazione, correrei solo il rischio di annoiare con una inutile e stucchevole ridondanza di concetti. Trovo molto più costruttivo, invece, destrutturare la pur suggestiva caratterizzazione attribuita a Mao Tse-tung e che ovviamente Mao Tse-tung non ha mai pronunciato, rinunciando a una divisione strumentale e manichea, protesa a considerare le donne come un universo a sé stante, ancorché fascinoso ed esaltante. Di fatto non esiste "l'altra metà del cielo", ma un unico "cielo" nel quale, da sempre, uomini e donne si confrontano con tutte le modalità rese possibili dalla natura umana. Scandagliamolo questo cielo, soprattutto alla luce della complessa realtà contingente, dando per scontata la conoscenza di una storia che si perde nella notte dei tempi e che può risalire tanto a 250mila anni fa, volendo prendere per buona l'accreditata e ampiamente condivisa teoria che attribuisce alla comparsa dell'homo sapiens l'origine della specie umana, quanto a oltre due milioni di anni fa, come invece amo sostenere, sia pure in scarna compagnia, immaginando l'homo habilis in tutte le funzioni che gli consentivano di sopravvivere e perpetuarsi, ancorché praticate in modo che oggi definiremmo "bestiali", soprattutto per come si procacciava il cibo e si accoppiava. Senza tanti giri di parole, quindi, affondiamo il coltello nella piaga. La donna per millenni è stata considerata un accessorio al servizio dell'uomo e lo è ancora in molte parti del mondo. Anche nel "civilizzato" occidente il processo di emancipazione nasce con terribile ritardo rispetto a quanto sarebbe stato lecito aspettarsi in virtù del progressivo sviluppo del pensiero, sancendo, di fatto, una dicotomia prettamente antropologica tra "progresso culturale" e "natura umana". Tra la moltitudine di esempi che la storia mette a disposizione, emblematiche risultano le riflessioni di personaggi del calibro di Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini. Per il primo "La donna, insomma, è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostentata da sé". Per Rosmini, fiore all'occhiello della cultura cattolica e recentemente assurto agli altari della beatitudine: "Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal


suo nome dominata". Pur nella doverosa contestualizzazione epocale, è evidente come fosse marcato il distorto retaggio culturale, che non va confuso, è bene chiarirlo subito, con la più famosa visione nicciana, inserita nel "Così parlò Zarathustra", in virtù della quale "L'uomo deve essere educato alla guerra e la donna al ristoro del guerriero". Qui siamo in un altro fronte di speculazione concettuale, del quale, magari, è lecito trattare qualora si dovesse affrontare il problema della "crisi dell'uomo" e non certo in questo contesto. Si devono ad Anna Kuliscioff e solo agli inizi del ventesimo secolo i primi approcci per una estensione dei diritti primari alle donne, con risultati molto flebili. Per la stragrande maggioranza degli uomini la donna continuava a essere un oggetto utile solo per soddisfare voglie e desideri, costretta alla bieca obbedienza e alla sopportazione di ogni sopruso. Guai a ribellarsi! In provincia di Latina, nel 1902, una ragazzina di appena undici anni conquistò fama planetaria per essersi opposta a uno stupro, pagando con la vita il gesto di ribellione: il suo nome è Maria Goretti, venerata come santa e martire dal 1950. Se tutte le donne stuprate negli ultimi cento anni dovessero trascorrere l'eternità in Paradiso, non basterebbe una città grande come New York per contenerle. UOMINI E DONNE: IL DIFFICILE EQUILIBRIO Al termine della seconda guerra mondiale, almeno in occidente, per la donna inizia un percorso di parificazione. Nel 1948, con la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo si sancisce il diritto di voto, in precedenza adottato solo da pochi stati. Dovremo però arrivare al biennio1979-1981, praticamente ieri, affinché l'ONU ratifichi la Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna. Il trattato internazionale, manco a dirlo, è lastricato di eccellenti propositi e contempla tutto quanto di bello e di buono si possa desiderare per una concreta parità di genere. Questo nella forma. Nella sostanza, però, la realtà è ben diversa e sono ben evidenti gli scogli, che di fatto assomigliano a catene montuose, se si guarda al di sotto delle onde dalle quali affiorano: per i paesi islamici, ovviamente, la convenzione è un tabu; è sconvolgente, invece, ma solo per chi non conosca la realtà sociale di quel paese, la mancata ratifica da parte degli Stati Uniti, dopo aver comunque firmato il trattato. Per dovere di cronaca, poi, va detto che il Vaticano non l'ha proprio sottoscritto. Eccezion fatta per il Nord Europa, negli altri paesi con "le carte a posto", tra i quali l'Italia, la cronaca quotidiana ci mostra nella sua spietatezza quanto la realtà sia difforme dai buoni propositi. Al di là delle roboanti iniziative fini a se stesse e inconcludenti sul piano pratico, il vero processo di emancipazione femminile inizia negli anni sessanta e assume caratterizzazioni consistenti e crescenti dalla metà degli anni settanta del secolo scorso. Nel 1963 Mary Quant indusse milioni di donne a indossare la minigonna, suscitando fremiti di ogni genere in un universo maschile non certo pronto a recepire la portata rivoluzionaria di un cambiamento di costumi che andava ben oltre la sua apparenza. In un vero battito di ali la donna prende coscienza della sua forza e trasforma la società, imponendo con prepotenza il proprio ruolo sia nella famiglia sia nel mondo del lavoro. Si emancipa anche sessualmente, mettendo sempre più in crisi gli uomini che non riescono a marciare con la stessa


velocità. Il gap diventa via via più marcato e di difficile decantazione, come qualsiasi cosa che, venendo da molto lontano, presenta lati oscuri e indecifrabili. LIMITI E RITARDO EVOLUTIVO DEL GENERE MASCHILE Il rischio di generalizzazione è forte e quindi, a scanso di equivoci, invito tutti a visitare il sito del Professore Claudio Risé (2) e fare incetta dei suoi libri, dopo aver stabilito, con calma, un percorso di lettura che ne consenta la più congrua fruizione. Come ho detto innanzi, la pubblicistica valida è senz'altro corposa, ma i libri e gli articoli di Claudio Risé sono più che sufficienti per comprendere la più complessa tra le fenomenologie esistenziali. Qui, pertanto, mi limito a rappresentare, con pennellate rapide, la pochezza di un universo maschile che, nel rapporto con la donna, si può definire solo squallido e penoso, in particolare al di sotto del quarantacinquesimo parallelo. Partiamo da un singolo esempio, che ne vale milioni: qualche anno fa era possibile reperire in rete il video di un rapporto orale tra il professore di una nota università del centro Italia e una sua allieva. Il professore era solito ricattare sessualmente le allieve per promuoverle all'esame. Il video, che ebbi modo di vedere, è raccapricciante: la ragazza piangeva copiosamente mentre con disgusto gli succhiava l'uccello e il tipastro, invece, ansimava con occhi chiusi, incurante della violenza che stava perpetrando. Sappiamo tutti che questa pratica è diffusa e che tanti uomini riescono a provare piacere sessuale pur nella consapevolezza di generare ribrezzo alle povere malcapitate. Tale "propensione", che con termine più appropriato è definita "capacità", costituisce una vera e propria psicopatologia, non certo lieve. Questi soggetti, di fatto, su una scala da zero a dieci, che veda collocati sullo zero i necrofili e sul dieci le persone mentalmente sane, sono racchiusi tra il segmento 1-3. Bella roba, vero? E sono tanti! Milioni! Tutti noi ne conosciamo almeno un paio, magari senza avere consapevolezza di essere al cospetto di pervertiti. In virtù della mia eclettica vita ne ho conosciuti tantissimi, alcuni dei quali capaci addirittura di vantarsi per le loro squallide azioni e di “sfottermi” con aria di superiorità per aver sempre evitato di approfittare del mio ruolo professionale (3). Un paio di pervertiti, poi, hanno addirittura incrociato la mia strada, tentando di sedurre due mie fidanzate. Il primo era un noto docente dell'ISEF e la mia compagna, che sapeva bene come avrei reagito, mi confidò il suo malsano approccio solo dopo la sua morte. Nel secondo caso si trattava di un importante direttore sanitario e anche in questa circostanza la notizia mi fu comunicata, dal papà della mia ex, in modo da impedirmi ogni reazione. Indossava una divisa con un grado di tutto rispetto e mi fece giurare che "qualunque cosa mi avesse riferito non avrei fatto nulla". "Voglio evitare - aggiunse - di doverti arrestare". Inutile precisare che la mancata corresponsione delle avance e delle esplicite proposte oscene non consentì alla mia fidanzata di essere assunta. Solo poche settimane fa abbiamo avuto modo di assistere a un episodio sconcertante, che è costato il posto alla conduttrice RAI Paola Perego. Nel suo programma ha mostrato le sei ragioni che inducono gli uomini italiani a preferire le donne dell'est: “recuperano bene la fisicità dopo il parto, sono sempre sexy, perdonano il tradimento, sono disposte a far comandare il proprio uomo, lavorano bene in casa, non frignano e non fanno mai storie”. La conduttrice ha senz'altro sbagliato l'approccio giornalistico con il quale ha montato il servizio, incentrato sulle donne e non sullo "schifo" che traspare dal sondaggio. A sua discolpa va


detto che quel taglio era stato autorizzato proprio dai dirigenti che poi l'hanno licenziata, spaventati da un vero sollevamento popolare. Al di là di ogni pur valido disgusto per i limiti e le incapacità dei dirigenti RAI nel fronteggiare problematiche solo leggermente complesse, il dato importante è ciò che emerge dal sondaggio: una tipologia di maschio da buttare nel cesso e sommergere con una cascata di acqua mefitica. Negli ultimi anni, ai succitati fenomeni di sub-cultura, si è aggiunta (o per meglio dire: si è amplificata) un'altra grave psicopatologia: l'incapacità di accettare la fine di un amore, che sfocia nell'incontrollata aggressività. Sono circa duemila le donne ammazzate dal 2006 e purtroppo il fenomeno non sembra arginabile. Sono troppe le variabili che influiscono negativamente, a cominciare dalla mancanza di un'adeguata legislazione e dalla leggerezza con la quale le donne si pongono di fronte al problema. La propensione ad accettare forme di dialogo anche in contesti impossibili, infatti, costituisce un imperdonabile errore di valutazione psicologica: si attribuisce al partner la capacità di gestire la crisi relazionale con la forma mentis che si sente propria. Altra variabile negativa è l'eccessiva tolleranza: sono oltre sette milioni le donne che hanno subito in silenzio, per vergogna o paura, atti di violenza, stupri, vessazioni, ricatti sessuali, botte. La mancata denuncia di questi crimini si tramuta in un innegabile vantaggio per chi li perpetra. UOMINI E DONNE SOTTO LO STESSO CIELO, MANO NELLA MANO. Per fortuna il titolo di questo paragrafo non rappresenta una meta retorica, ma una realtà conclamata e consolidata, anche se minoritaria. L'obiettivo da perseguire, pertanto, è quello di elevare la percentuale a livelli tali da relegare le distonie al rango di fisiologiche eccezioni. Lo sforzo deve essere congiunto e proprio le donne devono fungere da spinta propulsiva per un concreto passo avanti verso la civiltà. L'uomo, infatti, ha dimostrato di fare pasticci anche quando si sforza di essere dalla parte delle donne. Un esempio eclatante, a tal proposito, è rappresentato dalle quote rosa in politica, baggianata che offende precipuamente le donne, come ho avuto modo di scrivere più volte. Un partito che, per esempio, dovendo presentare una lista di venti persone, disponesse di dodici donne meritevoli, dovrebbe privarsene di due. Anche nel caso opposto, con più uomini disponibili e meritevoli, si dovrebbe abbassare il livello qualitativo della lista per rispettare una legge idiota. Un altro aspetto da non sottovalutare è l’errata “gestione” del processo di emancipazione femminile in taluni contesti lavorativi. E’ pacifico che uomini e donne abbiano una conformazione fisica diversa e “compiti” diversi loro assegnati dalla natura. Affidare la vigilanza armata di un obiettivo sensibile a una donna, ancorché perfettamente addestrata, è una sciocchezza: un terrorista maschio, a parità di addestramento, avrebbe facilmente il sopravvento. Verrà il giorno, forse, in cui vedremo davvero, almeno nel nostro emisfero, uomini e donne sotto lo stesso cielo, mano nella mano, in piena e compiuta armonia. Nell’attesa, non stanchiamoci mai di ripetere che l’uomo e la donna sono due scrigni chiusi a chiave, dei quali uno contiene la chiave dell’altro. Uno dei due, pertanto, deve scardinare il proprio scrigno affinché possa aprire l’altro. Non importa chi dei due lo faccia, l’importante è che ciò accada. Cerchiamo sempre di ricordarci, poi, soprattutto noi maschietti, che un uomo sulla luna o su Marte non sarà mai interessante quanto una donna sotto il sole.


1. (Belle, leggiadre, sorridenti, come farfalle nei prati in fiore svolazzano le modelle. Incroci lo sguardo ed è come se il sole ti baciasse, rigenerando corpo e mente. Catartica palingenesi, bellezza sublimata dal profumo della vita, cuori che pulsano e il ritmo frenetico di chi non sa fermarsi mai. A volte passeggiano nella notte su spiagge deserte, per ritrovarsi. Come sembrano piccole, le stelle nel cielo!) 2. www.claudio-rise.it (Vedere anche il blog www.claudiorise.wordpress.com) Claudio Risé è uno dei più grandi psicoterapeuti al mondo e tra i massimi studiosi del rapporto uomo-donna. 3) Quando dirigevo una emittente televisiva, per avere la certezza che una donna scegliesse "me" e non il direttore dell'emittente, nessuna delle mie partner aveva accesso ai vari programmi televisivi. Nell'ambito dei fashion award e dello showbiz, poi, vigevano le stesse regole e venivano sistematicamente rifiutate sia le avance di fanciulle in cerca di "protezione" sia quelle di qualche mamma avvenente. "Guarda che funziona così ovunque", mi dicevano tanti colleghi, "scandalizzati" per la mia condotta, che suscitava anche dei dubbi sulla mia virilità allorquando replicavo che non sarei mai riuscito ad avere un rapporto con una donna che, di fatto, si stava solo prostituendo. (Confini, Nr. 53 – Aprile)


“La mia Patria si chiama Europa” è un motto che mi accompagna da una vita intera e ciò ha consentito di farmi sentire a casa ovunque mi trovassi, nel continente, provando sensazioni precluse a chi vive rinchiuso nel proprio orticello concettuale, avvelenato dai germi più pericolosi che la natura umana abbia prodotto. Nondimeno, secondo le normali prerogative di ogni essere umano, vi sono angoli della “propria casa” che piacciono un po’ di più, per le ragioni più svariate. Della Francia amo tutto: letteratura, arte, cinema, teatro, musica. Le magiche suggestioni offerte da tantissime sue zone, nelle quali la storia si confonde con la leggenda, fanno il resto, rendendo il paese semplicemente speciale. Parigi, con Praga e Dublino, rappresenta da sempre il mio triangolo magico continentale e spero, poi, che qualcuno tra i miei quattro lettori abbia percepito quella strana e quasi indecifrabile sensazione che si prova ad Arles, quando, passeggiando tra le strette stradine, si avverte una distorsione spaziotemporale che fa perdere, fosse anche per pochi istanti, la cognizione del presente. Magia di una terra nella quale l’emozione è la norma. Questa mia passione per un paese straordinario mi ha sempre indotto, in passato, a non parteggiare per nessuno dei candidati in competizione per il ruolo di presidente. Oggi, però, sento che non è possibile tacere, perché l’elezione del presidente della Francia, mai come in passato, non riguarda solo la Francia ma l’Europa intera. Da europeista convinto, quindi, senza tanti giri di parole, affermo che non ho paura dell’antieuropeismo di Marine Le Pen, ma del cinismo ipocrita degli altri. Sono tante le cose che mi dividono da Marine le Pen, ovviamente, ed è inutile ribadirle. Tra chi parla con il cuore e dice ciò che pensa e chi invece, in un momento come quello attuale, cerca di conciliare l’inconciliabile e tutelare soprattutto se stesso, non ho esitazioni nel preferire il primo. E trovo stucchevoli e infastidenti quei moniti da cupio dissolvi, pronunciati da chi ha tanta rogna addosso da generare ribrezzo solo alla vista, in virtù dei quali la vittoria della Le Pen determinerebbe la fine dell’Europa. Quest’Europa, in mano a burocrati e lestofanti, è morta da un pezzo. Deve rinascere e il processo di rinascita è lungo, faticoso e doloroso. Affinché ciò avvenga, pertanto, occorre incominciare a fare piazza pulita di coloro che costituiscono una parte importante del suo inquinamento. I risultati del primo turno elettorale, sotto questo profilo, sono già profetici. Sull’ex banchiere e ispettore delle finanze, però, si sono già riversati gli


endorsement dei due principali sconfitti, ossia i rappresentati dei vecchi partiti alternatisi alla guida del paese, spazzati via da un popolo stanco e disorientato. Questo dato rivela eloquentemente cosa potrebbe rappresentare, in tema di “continuità negativa”, la sua elezione. Molto più serio il comportamento di JeanLuc Mélenchon, che ha conservato la coerenza intellettuale, lasciando libera scelta agli elettori, dai quali è stato premiato forse più di quanto lui stesso si aspettasse, a riprova che, sia a destra sia a sinistra, si è stanchi di marionette etero dirette e si cercano persone serie nelle quali riconoscersi e delle quali potersi fidare. Una nuova alba, quindi, sorge sul cielo di Francia, il che vuol dire che sorge sul cielo d’Europa. Il popolo francese, ora, ha l’arduo compito di una difficile scelta. Per rompere completamente con il disastroso passato, tuttavia, la scelta è obbligata: Marine Le Pen. Lo dico da europeista, senza alcuna riserva e senza alcun timore per la novella Giovanna d’Arco, ben sicuro che saprebbe davvero sorprenderci qualora dovesse approdare all’Eliseo. Basta con banchieri e tecnocrati. La politica, quella vera, riprenda il suo ruolo. Per quanto possa sembrare assurdo e complicato, la strada verso gli Stati Uniti d’Europa è molto più percorribile con una Francia forte che non con una Francia complice di chi l’Europa ha ridotto in brandelli.



J’AI DEUX AMOURS: MON PAYS ET PARIS PROLOGO Sono europeo, italiano, campano e non ho pregiudizi nel manifestare i miei pensieri più reconditi, le passioni, i tormenti, le preferenze, gli amori per le persone e le cose, anche quando sono consapevole di navigare contro-corrente come i salmoni che risalgono i fiumi. Nel titolo dell’articolo ho preso a prestito i versi di una celebre canzone degli anni venti, cantata da un’afroamericana trapiantata a Parigi, dove conquistò fama planetaria per le sue esibizioni, non solo canore, nel teatro degli “Champs-Elysées” e nel famoso music-hall “Folies Bergère”. Josephine Baker si riferiva agli USA, parlando del suo paese, essendo nata a Saint Louis, nel Missouri. Il mio paese, invece, si chiama Europa, che continuo a sognare unita. Il riferimento all’amore per Parigi, ovviamente, costituisce solo una metafora a supporto di quello profondo, avvolgente e speciale, di cui è tributario il paese che ha dato i natali a tanti giganti del pensiero, dell’arte e della cultura e che solo le persone cupe possono non amare. Se è vero, infatti, che la Francia senza Parigi è come un cosciotto di carne senza mostarda, è altrettanto vero che la Francia è il più bel regno dopo quello dei cieli. TRIBUTI D’AMORE La mia famiglia entrò in Italia nel 568 D.C., al seguito di Re Alboino il Longobardo, che dalle fredde pianure della Pannonia mosse il suo fiero popolo verso territori più fertili e temperati. Dovrei provare risentimento, pertanto, per colui che, circa tre secoli dopo, interruppe una florida dominazione, si autodefinì Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum e non si fece scrupolo di deportare in un monastero Re Desiderio e la Regina Ansa, genitori di sua moglie Ermengarda, ripudiata per avere le mani libere da vincoli matrimoniali nel mutato assetto politico, che lo indussero ad assecondare il Papa e ad abbandonare i suoi vecchi alleati. Pur avvertendo forte il richiamo del sangue, tuttavia, sarebbe oltremodo sciocco far pesare vicende storiche nei sentimenti, senza contestualizzarle. Caso mai ciò è possibile in altri contesti, che afferiscono alle manipolazioni della verità per fini strumentali. Alessandro Manzoni, per esempio, nella sua opera “Adelchi”, al solo fine di compiacere il Papa, lascia trasparire l’idea – grossolana menzogna che non vi fosse stata integrazione tra Longobardi e Italici. I versi sprezzanti che compongono il famoso coro del terzo atto generano un moto di repulsione in chiunque fosse pervaso da un minimo di sensibilità, soprattutto se ben consapevole della reale consistenza dei fatti. Ma questo è un altro discorso e quindi non divaghiamo. Il mio tributo d’amore nei confronti della Francia è consacrato addirittura da quello, molto più autorevole, di un grande pensatore. Nelle sue “Considerazioni inattuali”, infatti, massacrando David Friedrich Strauß meglio di quanto non sia capace il miglior Travaglio con gli italici babbei, Friedrich Nietzsche sancì che i tedeschi possono anche vincere tutte le guerre, ma culturalmente devono sempre andare ad abbeverarsi sulle sponde della Senna. “Il tedesco accumula attorno a sé le forme, i colori, i prodotti e le curiosità di tutti i


tempi e di tutti gli ambienti, producendo in tal modo quella moderna varietà di colori da fiera, che i suoi dotti dovranno poi per parte loro considerare e formulare come il “moderno in sé”; quanto a lui, in questo tumulto di tutti gli stili se ne rimane tranquillamente a sedere. Ma con questa specie di “cultura” che è comunque solo una flemmatica insensibilità per la cultura, non si possono vincere nemici, e meno di tutti quelli che abbiano, come i francesi, una vera cultura produttiva, non importa di qual valore, e di cui noi abbiamo finora imitato tutto, per lo più, inoltre, senza abilità. Se avessimo realmente cessato di imitarli, con ciò non avremmo ancora vinto su di loro, ma soltanto ci saremmo liberati da loro: solo quando avessimo imposto a essi una cultura tedesca originale, si potrebbe parlare anche di un trionfo della cultura tedesca. Frattanto prendiamo nota del fatto che, in tutte le questioni di forma, noi dipendiamo – e dobbiamo dipendere – da Parigi ora come prima: finora, infatti, non c’è stata una cultura tedesca originale. Noi tutti dovremmo sapere questo di noi stessi: lo ha inoltre rivelato anche pubblicamente uno dei pochi che avessero diritto di dirlo ai tedeschi in modo di rimprovero. “Noi tedeschi siamo di ieri, - disse una volta Goethe a Eckermann, - è vero che da un secolo abbiamo fatto veramente molto, ma possono trascorrere ancora un paio di secoli prima che fra i nostri connazionali penetri e divenga comune tanta intelligenza e superiore cultura, che si possa dire di loro che è passato molto tempo dacché erano barbari”. Quest’asserzione nicciana dovrebbe essere stampata, incorniciata e affissa nelle dorate stanze di qualsivoglia potere, in Europa e nel mondo. GRANDEZZA E GRANDEUR E’ fuor di dubbio che l’Italia possa vantare la nascita del maggior numero di “Grandi Uomini”, rispetto a qualsiasi altro paese del mondo. Condottieri di epoca romana a parte, che meritano comunque alta considerazione per come siano stati capaci di sottomettere buona parte del continente, in maggioranza sono nati tra il XIII e XVI secolo. Grazie a loro stiamo campando, ed eternamente camperemo, di proficua rendita culturale. La grandezza dei singoli, tuttavia, è cosa diversa dalla grandezza di un popolo, che si misura dalla capacità di coesione al cospetto d’importanti contingenze sociali, dal livello medio di civiltà scaturito dal comportamento di tutti, dal livello culturale. La media ponderata scaturita dall’analisi di questi elementi fondamentali determina il valore intrinseco di un popolo, sia pure rapportato al periodo cui l’analisi faccia riferimento. La comparazione, poi, di analoghi risultati tra epoche diverse, offre un quadro più esaustivo e veritiero sulla “qualità” di un popolo. Senza addentrarci in complesse comparazioni che renderebbero l'articolo pesantissimo e lunghissimo, diciamo semplicemente che, dal 900 A.C. ai giorni nostri, il territorio che un tempo si chiamava Gallia e dal XII secolo Francia, è quello che, più di ogni altro al mondo, abbia espresso un alto livello medio degli elementi che caratterizzano positivamente un popolo. Dato che non va confuso con la qualità della vita, che prende in esame l’organizzazione sociale, l’efficienza dei servizi, i fattori economici e geografici e, da sempre, è appannaggio dei paesi del Nord Europa, ai quali si aggiungono il Canada e l’Australia. Ogni fenomenologia sociologica, ovviamente,


ha una sua genesi, quale che sia la scala di valori che s’intenda rappresentare. Il retaggio ancestrale dei francesi, alla pari di tutti i popoli d’Europa, è quanto mai variegato, anche se l’elemento celtico è quello predominante e per di più caratterizzato da una contaminazione naturale - non di matrice bellica dovuta a conquiste, pertanto – generata dalla graduale comparsa della cosiddetta “Cultura di La Tène”, che si sviluppò dal VI al I secolo A.C. proprio in Francia orientale, in Svizzera, in Austria, in Pannonia, in Ungheria, in Inghilterra in Irlanda e nel Nord Italia. Il retaggio ancestrale celtico è oggi ben evincibile in Francia, sia pure in forma minore rispetto all’Irlanda, rimasta incontaminata dalla dominazione romana. L’argomento è scottante e occorre pesare bene le parole, anche se alla fine le cose comunque vanno dette per quel che sono, avendo cura di evitare le generalizzazioni, sempre inopportune e fuorvianti. Il comportamento umano scaturisce da due fattori fondamentali: retaggio ancestrale e condizionamento ambientale. Quest’ultimo ha senz’altro un’incidenza più marcata ed è in grado di annullare del tutto il primo. La sua “potenza”, tuttavia, è inversamente proporzionale al livello culturale dell’individuo: quanto più alta è la capacità di comprendere i misteri della vita tanto minore sarà il condizionamento dell’ambiente sul pensiero e sul comportamento. Alla luce di semplici indagini sociologiche, pertanto, prima ancora che di qualsiasi altra natura, è lecito sostenere che il lascito genetico degli antichi celti abbia creato un tipo umano che, in massima parte, presenta peculiarità qualitative di più alto profilo rispetto ai discendenti di altre etnie. Tale presupposto, in Francia, risulta più evidente che altrove proprio per le particolari vicende storiche che hanno caratterizzato il paese nel corso dei secoli. Alcune tipiche modalità comportamentali dei francesi, che riflettono proprio il citato processo evolutivo, vengono spesso confuse con un antipaticissimo complesso di superiorità. Tale errore genera quei diffusi sentimenti ostili, a tutti noti, difficilmente destrutturabili. A chi non è capitato di sentire che “il cinema francese fa schifo”, “la musica francese fa schifo”, “la cucina francese fa schifo”, “i francesi sono antipatici, indisponenti, sporchi, cattivi”? Vi è sempre ritrosia nei confronti di ciò che non si comprende pienamente, com’è noto, ma l’affermazione più pregna di pregiudizio è quella che caratterizza i francesi come “nazionalisti”, specialmente quando viene pronunciata da soggetti pervasi dal più becero provincialismo. Il nazionalismo francese nasce dai limiti altrui, non certo dalla volontà di chiusura. Dalla “grandezza” alla “grandeur” il passo è breve, anche se la seconda, pur scaturendo dalla prima, esprime qualcosa di sostanzialmente diverso e va nettamente distinta nelle varie epoche storiche. Sicuramente da condannare il concetto di “grandeur” che si sviluppò ai tempi del Re Sole, che non a caso culminò con la bancarotta, la trasformazione dei nobili in cortigiani e creò le premesse per la Rivoluzione. Nell’epopea napoleonica la grandeur s’immedesima nelle gesta dell’Imperatore. Di tutt’altra natura, invece, "une certaine idée de la France", che caratterizza la grandeur dopo il Congresso di Vienna e trova la sua massima espressione con Charles De Gaulle, capace di far percepire in modo più tangibile la forza intrinseca di cui è portatore ogni francese, a prescindere dalle sue idee. L’idea di


grandeur si rafforza con la sua ascesa al potere, che vede “La France au milieu du monde”. De Gaulle comprese che doveva trasformare la Francia innanzitutto in una potenza militare e creare un asse preferenziale Parigi-Bonn. Negli anni sessanta, in pieno accordo con il Cancelliere tedesco Erhard, non ebbe esitazioni nel minacciare l’uso della bomba atomica in caso di attacco dell’URSS alla Germania. Tale assetto in politica estera lo portò a prendere le distanze anche dagli Stati Uniti, portando la Francia fuori dalla NATO, nonché dalla Gran Bretagna, alla quale impedì l’ingresso nella CEE. Il suo scopo, infatti, era mantenere i due paesi, comunque amici, in una posizione di subalternità: al centro del mondo vi era la Francia. Molto esplicativo, sotto questo profilo, il saggio di Maurice Vaïsse: “La Grandeur: Politique étrangère du général de Gaulle (19581969)”, Paris, Fayard, 1998. Per quanto concerne la “grandeur” ai giorni nostri, ne parliamo un’altra volta. Questa è tutta un’altra storia. Ora, con il permesso dei miei quattro lettori, mi concedo qualche ora di buona musica (chansonnier francesi); un bel film (Truffaut, Chabrol, Godard, Renoir, Besson? Boh, non ho ancora deciso: magari chiudo gli occhi e ne prendo uno a caso). Prima di addormentarmi, poi, mi concederò la lettura di alcuni versi di Rimbaud. Eh, sì! J’ai deux amours: mon pays et Paris. (Confini, Nr. 54 – Maggio)


(Divertissement sulla stupida legge approvata il 4 maggio 2017) Egregi legislatori, non essendomi chiari alcuni punti della nuova legge sulla legittima difesa, al fine di non incorrere involontariamente in violazioni pesantemente sanzionabili, vi sarò grato se vorrete chiarire i seguenti punti. Abito in campagna, in una casa circondata da un ampio giardino. Di notte è ben illuminata e, soprattutto quando vi è luna piena, la visibilità è tale da consentire di scorgere un gattino anche a cinquanta metri. Un eventuale intruso, pertanto, non passerebbe inosservato e lo noterei sia che mi trovassi a godermi il cielo stellato sia che fossi intento a scrivere nel mio studio, grazie alle telecamere di sorveglianza. Se gli scarico addosso il caricatore della mia Colt Cobra 38 special o un paio di pallettoni dal Benelli Vinci, posso stare tranquillo? A proposito, perdonate la mia ignoranza: potreste gentilmente comunicarmi a che ora inizia la notte e quando termina? Ho provato a reperire notizie su Google, ma la risposta non mi soddisfa: “Si tratta dell’intervallo di tempo compreso tra il tramonto e l’alba”. Da casa mia non si vede il tramonto! E trovo alquanto bizzarro disseminare ovunque dei pannelli sui quali aggiornare, quotidianamente, l’ora dell’alba e del tramonto, in modo da sparare sempre all’orario corretto! L’inizio e la fine della notte, poi, prescindono dall’ora legale, come sarebbe logico, o ne seguono le fasi? All’interno della casa ho una cantina nella quale, ovviamente, anche di giorno, è possibile accedervi solo accendendo le luci. Se per caso mi venisse voglia di scendere vero le 11 (undici le mattino, non le 22!) per prendere una bottiglia di buon vino e proprio in quel momento dovesse andare via la corrente lasciandomi nel buio totale, in caso di aggressione posso spaccare la testa dell’aggressore con tutte le bottiglie a portata di mano? Pazienza se ci scappa anche quella del costosissimo Amarone: ciò che mi preoccupa sono le conseguenze penali! Posso stare tranquillo ritenendo che il giudice assimilerà il buio della cantina alla notte fonda? L’eclissi solare è equiparata al buio notturno a prescindere dall’orario in cui si verifichi? Nel caso in cui la legittima difesa, con conseguente sparatoria, avvenisse proprio all’insorgere della notte o dell’alba, come fare a dimostrare la “correttezza dell’orario”? Posso scattare la foto degli intrusi con lo smartphone in modo che resti registrata l’ora. Vi è il rischio, però, che gli avvocati difensori dei parenti


arrabbiati (perché i parenti dei ladri si arrabbiano sempre, mica ti chiedono scusa per le malefatte dei congiunti!) cerchino di dimostrare che abbia aspettato alcuni minuti, prima di effettuare lo scatto, in modo da rientrare nella fascia oraria di sicurezza, mentre in realtà l’intrusione è avvenuta durante quella che consente ai ladri e agli stupratori di agire in piena libertà, senza correre rischi! Non sembrino domande leziose: quando si rischia la galera sono più che lecite! L’ultimo caso citato, poi, è da scongiurare in modo categorico. Nel caso in cui si verificasse, infatti, la testa all’avvocato la spaccherei in presenza del giudice e quindi passerei dalla ragione al torto solo per un vuoto legislativo! Vi ringrazio anticipatamente, anche a nome di tutti gli italiani, per i chiarimenti che vorrete fornire. (Articolo che spiega la legge approvata)


E’ arrivato nelle sale cinematografiche “King Arthur – Il potere della spada”, ennesimo polpettone sulla figura di Re Artù e della mitica spada Excalibur, diretto dall’ex marito della cantante Madonna, Guy Ritchie. PROLOGO Il primo impatto con la spada di Re Artù lo ebbi all’età di cinque anni. In quel periodo la mia dimora era frequentata da amici di Papà, appartenenti all’ex Corpo Forestale dello Stato. Un giorno ricevemmo da loro un bellissimo regalo (scrivo serenamente questa notizia perché oramai sono trascorsi circa sessanta anni e non vi è rischio che possano essere puniti per il loro gesto di generosità): due spade, una romana e l’altra cartaginese, rinvenute alle pendici del Monte Erbano, teatro delle scaramucce tra Annibale e Fabio Massimo nel corso della Seconda guerra punica. Giocare con quelle spade mi faceva volare con la fantasia e si può ben immaginare, pertanto, il dolore che provai quando furono rubate, forse non proprio da ladri professionisti ma da persone che avevano libero accesso a casa: parliamo di anni in cui non si sprangavano le porte e i furti nelle abitazioni erano molto rari. Papà Lorenzo ne acquistò una di plastica e me la regalò cercando di lenire il mio cruccio: “Vedi, questa è ancora più bella delle altre e in più ha poteri magici: si chiama Excalibur ed è la spada di un re”. Le sue parole, purtroppo, servirono a poco: la spada proprio non poteva reggere il confronto con quelle vere, forgiate ventidue secoli prima. Il riferimento ai poteri magici, tuttavia, qualche effetto produsse, incuneandosi agevolmente in una mente già predisposta a ricevere particolari suggestioni. Gli anni trascorsero veloci e quel giocattolo, ben presto, finì tra i rifiuti alla pari di tanti altri. Non ciò che rappresentava, però. Intorno ai dieci anni, grazie a Mamma Giuseppina, maestra elementare e responsabile di un centro di lettura ubicato proprio nella nostra abitazione, scoprii, sia pure solo favolisticamente, “I cavalieri della Tavola Rotonda” (1). Iniziai, così, quel meraviglioso viaggio tra i sentieri di Camelot e del Ciclo Bretone, che continua ancora oggi. Le loro avventure generavano emozioni indescrivibili e fremiti culturali che mi spingevano ad approfondire spasmodicamente la materia. Lancillotto, manco a dirlo, fu il primo che mi sedusse, inducendomi a creare il teorema che ancora oggi risulta scandaloso per molti, circa l’impossibilità di considerare la fedeltà in amore un valore assoluto: “Quando arriva un cavaliere


della tavola rotonda – affermavo con un sorriso che rivelava molto più di quanto non esprimessi verbalmente – non vi è donna che possa resistere, anche se moglie di un re”. Fu fonte d’infinita gioia, qualche anno dopo, apprendere che il mio teorema era stato preceduto da analoghe riflessioni di Friedrich Nietzsche e Albert Einstein. La scoperta di Parsifal, poi, mi consentì quell’immedesimazione che è ben nota a chiunque sia appassionato di letteratura. Non a caso è proprio il suo nome che ho scelto per il protagonista del romanzo “Prigioniero del Sogno”. Se Parsifal e Lancillotto si sono imposti come i cavalieri delle “affinità elettive”, Gawain (Galvano), nipote di Re Artù, è colui che, dal 1972, ossia da quando ho iniziato l’attività giornalistica, rappresenta il mio “avatar”, grazie all’assonanza del suo nome con l’anagramma del mio cognome: “Galvanor”. Ecco la genesi di “Galvanor da Camelot”, pseudonimo con il quale ho firmato tanti articoli. La storia bugiarda La locuzione latina “Historia magistra vitae” viene assimilata da quasi tutti gli esseri umani sin dalla più tenera età, trasformandosi in un assioma da riproporre ogni volta che qualche occasione lo consenta. Mi ha fatto sempre sorridere questa frase, sistematicamente smentita dalla realtà, alla quale sopravvive con una forza pari a quella dei virus per i quali non esiste antidoto. Diventa sconcertante, poi, se espressa nella formula integrale, concepita da Cicerone e inserita nel “De Oratore”: “Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis”. La storia, in effetti, eccezion fatta per i pochi eletti capaci di decantarla dall’enorme mole di manipolazioni strumentali, non è testimone dei tempi, non è luce della verità, non è vita della memoria, non è maestra di vita e solo parzialmente è messaggera dell’antichità. La storia dell’umanità, in qualsiasi epoca, è “sporca”, perché l’essere umano, ancorché a parole anelante al bene, nei fatti è portato a compiere immani scelleratezze per le sue smodate ambizioni. Non mancano le eccezioni, ovviamente, ed è giusto rimarcarlo: in ogni epoca vi sono stati personaggi che hanno rappresentato l’eccezione alla regola, sia pure in numero davvero esiguo. L’ho già scritto in passato da qualche parte, ma l’episodio merita di essere ribadito: molti anni fa suggerivo ad alcuni allievi di non fidarsi ciecamente della storiografia ufficiale, di effettuare opportune comparazioni tra più testi, di “ragionare” autonomamente, di provare a discernere il grano dal loglio e non avere remore nel confutare anche fatti legittimati da storici autorevoli. A titolo di esempio parlai dell’epopea romana, dagli albori alla caduta di Romolo Augustolo, sforzandomi di far comprendere che non era tutto oro quello che ci avevano spacciato nelle aule scolastiche. Citai numerosi aneddoti, tra i quali spiccavano il paradosso di Costantino e i due triumvirati, questi ultimi comparati a quello tra Craxi, Andreotti e Forlani, per far comprendere la natura non propriamente etica di azioni ciclicamente riscontrabili in ogni epoca (2). A quel punto un giovane esclamò testualmente: “Ma in 1221 anni di storia vi sarà stato pure qualcuno che si sia distinto per un comportamento ineccepibile!” Mi sentii gelare il sangue nelle vene mentre mi rendevo conto che gli unici nomi balzati d’imperio alla mente furono Tiberio e Caio Gracco, pur nella consapevolezza che


riflettendo con calma avrei senz’altro individuato almeno un paio d’imperatori e altri personaggi meritevoli di buona considerazione. La sacralità del Mito Il mito è importante nella formazione di un individuo proprio perché sopperisce alle carenze della storia. Esso infonde una spinta ideale verso il bene in quanto si nutre di elementi leggendari che lo rendono spurio delle contaminazioni negative afferenti alla realtà ed esaltano i simboli, ossia le “proteine” della coscienza. “Il simbolo desta un presagio, mentre la lingua può solo spiegare. Il simbolo fa vibrare le corde dello spirito tutte insieme, mentre la mente è costretta a darsi a un singolo pensiero per volta. Il simbolo spinge le sue radici fino alle più segrete profondità dell’anima, mentre la lingua giunge a sfiorare, come un lieve alito di vento, la superficie dell’intelletto: quello è orientato verso l’interno, questa verso l’esterno. Solo al simbolo riesce di raccogliere nella sintesi di una impressione unitaria gli elementi più diversi. Le parole fanno finito l’infinito, i simboli conducono invece lo spirito di là delle frontiere del mondo finito e diveniente, verso il mondo infinito e reale”. Il magistrale concetto, concepito da uno dei più grandi studiosi di mito e simboli, Johann Jakob Bachofen, sembra quasi fare il verso a ciò che sosteneva l’imperatore Flavio Claudio Giuliano, ben quindici secoli prima, nel colleroso discorso contro il cinico Eraclio, filosofastro da strapazzo cui attribuì l’epiteto di “cane farneticante”: “Ciò che nei miti si presenta inverosimile, è proprio quel che ci apre la vita alla verità. Infatti, quanto più paradossale e straordinario è l’enigma, tanto più appare ammonirci a non affidarci alla nuda parola, ma ad affaticarci intorno alla verità riposta”. (3) Concetti che trovano ulteriori e autorevoli consacrazioni tra studiosi appartenenti a scuole di pensiero antitetiche, quali Ludwig Klages, Alfred Baeumler, Julius Evola, René Guenon, Karl Marx, Friedrich Engels, Erich Neumann, Wilhelm Reich, Erich Fromm, nonché in ambito psicoanalitico, a cominciare da Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. In epoca moderna risultano pregevoli i lavori del compianto Adriano Romualdi e di Claudio Risé (4). Senza alcuna pretesa di comparazione a nomi tanto prestigiosi, poi, mi fa piacere riferire il mio modesto contributo alla materia, mai venuto meno nell’incedere lungo i sentieri della vita (5). La riflessione di Bachofen, tra l’altro, troneggia nella pagina del sito “europanazione.eu” dedicata all’illustrazione del simbolo. Il ciclo Bretone, alla pari dell’opera di Tolkien, offre all’animo umano quanto di meglio si possa desiderare per arricchirsi idealmente e fortificarsi. Il mondo sarebbe senz’altro migliore se sin dalla più tenera età le future generazioni fossero indotte allo studio di questa importante fetta di letteratura, corroborata dai numerosi saggi, al fine di meglio comprendere la vera natura dell’uomo e orientarlo al bene. La dissacrazione del Mito, una moda insulsa Esiste senz’altro una vocazione dissacratoria di matrice ideologica, che persegue scopi ben precisi e affonda le radici nel razionalismo illuminista, mutuata poi in varie correnti di pensiero confluite nell’illusione del materialismo storico, pre e


post 1968. Siffatta strutturata attività mistificatoria, tuttavia, ancorché praticata da personaggi capaci di esercitare un forte potere condizionante a livello culturale e artistico, ha prodotto danni minori rispetto a quelli, devastanti, provocati dalla naturale mutevolezza dei tempi, in particolare nell’ultimo trentennio, che ha visto il trionfo dell’edonismo più marcato, il continuo e crescente rifiuto della “conoscenza” di ciò che afferisce al passato, la trasvalutazione di tutti i valori, il decadimento del gusto (e conseguente affermazione del cattivo gusto), un’insostenibile leggerezza dell’essere protesa alla massima semplificazione. Tutti elementi che hanno generato una sostanziale e diffusa ignoranza, a sua volta principale causa di non volute mistificazioni e proprio per questo più pericolose di quelle “volute”. E’ facile, per esempio, confutare la famosa frase di Bertolt Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi” e spiegarne le distonie. (Absit iniuria verbis, ovviamente, nei confronti di un insigne personaggio, che per altri versi merita il massimo rispetto). Altrettanto facile, soprattutto oggi, “smitizzare” le saccenti teorie della scuola di Francoforte e tacitare i pochi epigoni che testardamente ancora a essa guardano con patetica enfasi. Il regista francese Luc Besson, per meri motivi ideologici, ha “volutamente” dissacrato il mito dei cavalieri della tavola rotonda nel film “Lancelot du Lac”; anche in questo caso non è difficile spiegarne le ragioni recondite, in linea con la sua particolare visione del mondo. Molto più complicato, invece, far comprendere il danno provocato da film come quello in programmazione, o dall’altro che l’ha preceduto, King Arthur, diretto dal bravissimo regista Antoine Fuqua, che tra l’altro è anche un bel film. Non vi era certo volontà mistificatoria in Fuqua, ma solo una mancanza di cognizione sull’intricata materia. Analoga ignoranza ha indotto Guy Ritchie a girare un insulso polpettone, che a quanto pare è solo l’inizio di una serie che dovrebbe comprendere sei film, assicurandogli lauti guadagni. Non si può crocifiggere Fuqua, ovviamente, grandissimo regista, e non si può nemmeno crocifiggere Ritchie, che per quanto mediocre regista, ha tutto il diritto di fare i film che vuole, tanto più se dispone di una nutrita corte di fan, come dimostrano i due precedenti polpettoni su Sherlock Holmes. La dissacrazione del mito, tra l’altro, non riguarda solo il cinema e lo stesso filone letterario dedicato al ciclo Bretone è stato saccheggiato da pseudo scrittori, diventati ricchissimi e famosi in breve tempo. Che possiamo fare? E’ inutile illudersi: poco o punto. Salvo scrivere articoli come questo e sperare che almeno qualcuno apra gli occhi, ricordandogli che cibarsi di “mito” e magari contribuire a limitarne la dissacrazione, consente di elevarsi verso vette che assicurano una vista privilegiata sul mondo e sulle vicende umane. E’ senz’altro un’impresa faticosa ma foriera di grandi gioie. L’autore di questo articolo, per esempio, ha mangiato pane e mito sin da quando indossava i pantaloni corti, sforzandosi sempre di mutuare nella “realtà quotidiana” gli insegnamenti appresi. E’ sicuramente anche per questo che, agli albori della vecchiaia, uno dei suoi più cari amici gli ha potuto dedicare la frase che vale i sacrifici di una vita: “Ille est Pasquale, qui difficilius ab honestate quam sol a cursu suo averti potest” (6). Una frase del genere, ovviamente, non garantisce le laute prebende di cui è beneficiario chi scelga di navigare nelle paludi mefitiche


oggi tanto di moda, nonostante lo facciano puzzare sempre di cacca, ma consente di passare dalla leggenda alla storia, suscitando una gioia indescrivibile per aver sempre percorso, e continuare a percorrere, i sentieri di un vero cavaliere della tavola rotonda, senza mai sbandare o cadere da cavallo. 1) Nella nostra casa era ubicata sia la scuola elementare nella quale insegnava mia madre sia il centro di lettura, che in quegli anni fungeva da supporto formativo per gli adulti con scarsa scolarizzazione. 2) Costantino, come noto, inventò la favoletta del segno divino per caricare le sue truppe in occasione della battaglia di Ponte Milvio, contro Massenzio, e tante generazioni di studenti hanno creduto che l’evento fosse vero, considerandolo “un grande imperatore”, nonostante la sua bramosia di potere lo indusse a uccidere il cognato Licinio, il figlio Crispo, il nipote Liciniano, la moglie Fausta. Il primo triumvirato avvenne nel 70 A.C. tra Cesare, Pompeo e Crasso; il secondo si ebbe nel 33 A.C. tra Antonio, Augusto e Lepido ed entrambi avevano intenti non propriamente orientati a una sana gestione del potere. 3) “Al cinico Eraclio”, Giuliano l’apostata – Editore “Congedo”, 2000. Importanti riferimenti anche nei saggi “Il mistero del Graal”, Julius Evola – Edizioni Mediterranee, 1972; “L’imperatore Giuliano – Realtà storica e rappresentazione”, Maria Carmen De Vita – Le Monnier Università, 2015. 4) Per Adriano Romualdi vedere innanzitutto “Nietzsche e la mitologia egualitaria”, Edizioni di Ar, 1971; “Sul problema d’una Tradizione Europea”, Ed. Tradizione, Palermo, 1973; “Gli Indoeuropei. Origini e migrazioni”, Edizioni di Ar, 1978; “Drieu La Rochelle: il mito dell’Europa, (con Guido Giannettini e Mario Prisco), 1965, Edizioni del Solstizio; “Una cultura per l’Europa”, Ed. Settimo Sigillo, 1986. Di Claudio Risé consiglio tutta la pubblicistica, a partire dal testo fondamentale “Parsifal – l’iniziazione maschile all’amore”, Editrice La scuola, e i numerosi articoli reperibili nel suo sito www.claudio-rise.it 5) “Prigioniero del sogno”, Edizioni Albatros, 2015. Vedere anche in questo blog: “Tutti alla ricerca del Graal”; “King Arthur”. 6) Michele Falcone, presentazione del romanzo “Prigioniero del Sogno”, Caserta, 2015.



UOMO E NATURA: OCCASIONI PERDUTE E CUPI ORIZZONTI PROLOGO Per quanto possa apparire sorprendente, i problemi legati al disarmonico rapporto tra l’uomo e la natura trovarono il primo approccio risolutivo grazie alle iniziative di un italiano: Aurelio Peccei. Il manager della Fiat, nel 1968, fu l’ispiratore del “Club di Roma”, associazione non governativa che ingloba scienziati, economisti, uomini d'affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di stato dei cinque continenti. La missione è di individuare i principali problemi che affliggono l'umanità e proporre valide soluzioni nei vari scenari possibili. In breve: un cenacolo di pensatori dediti ad analizzare i cambiamenti della società contemporanea e a creare i migliori presupposti per proiettarci nel futuro. Negli anni settanta del secolo scorso “la cultura dell’ambiente” incominciò a diffondersi in modo massiccio, soprattutto in ambito giovanile, e l’attenzione verso le tematiche ecologiche determinò la nascita di molti movimenti ambientalisti. Il 22 aprile 1970 rappresenta una data storica, grazie all’attivista per la pace John McConnell, che organizzò la “Settimana della Terra”, prontamente ratificata dall’ONU. Come ogni esordio, l’evento fu caratterizzato da una grande confusione concettuale e nei tanti dibattiti si contrapposero le più svariate e contraddittorie tesi. Ciascuno tirava l’acqua al proprio mulino “ideologico” (1), anche se non mancarono spunti interessanti, intrisi di alta valenza scientifica. Incominciò a delinearsi, soprattutto, quella dicotomia tra “ambientalisti” e “capitalisti”, che purtroppo ha visto la costante affermazione dei secondi, con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Il dado era tratto, tuttavia, e fu ben chiaro che la tutela dell’ambiente costituiva una priorità assoluta per la conservazione della specie e che l’opposizione ai movimenti ecologici era esclusivo appannaggio dei soggetti intenti a lucrare ricchezze in modo cinico e spietato, senza alcuna preoccupazione per gli effetti devastanti generati. Sull’onda di questo nuovo interesse sociale, nel 1972, il Club di Roma commissionò al Massachusetts Istitute of Thecnology di Cambridge un’analisi sui “dilemmi dell’umanità”. Un gruppo di studiosi, capeggiato dallo scienziato Dennis Meadows, allora solo trentenne, redasse il famoso rapporto del MIT, meglio noto come “I LIMITI DELLO SVILUPPO” (2). La “Settimana della Terra” aveva suonato la carica, ma la vera battaglia per la tutela dell’ambiente partì da quel rapporto, che pose all’attenzione generale due concetti fondamentali: 1) Se l'attuale tasso di crescita della popolazione, dell'industrializzazione, dell'inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse continuerà inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un declino improvviso e incontrollabile della popolazione e della capacità industriale. 2) È possibile modificare i tassi di sviluppo e giungere a una condizione di stabilità ecologica ed economica, sostenibile anche nel lontano futuro. Lo stato di equilibrio


globale dovrebbe essere progettato in modo che le necessità di ciascuna persona sulla terra siano soddisfatte e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano. Il rapporto fu osteggiato e considerato un libello farneticante da tutti i servi dei poteri forti, molti dei quali utilizzavano i propri titoli accademici per conferire legittimità alle astruse elucubrazioni dissacratorie, lautamente pagate da chi aveva (e abbia) interesse a disorientare le masse. DIFFUSIONE E LIMITI DEI MOVIMENTI ECOLOGICI Il rapporto del MIT, diffusosi rapidamente in tutto il mondo, a onta degli oppositori stimolò in modo massiccio l’attenzione verso le tematiche ecologiche. Le principali associazioni, Greenpeace e WWF, già esistevano, ma grazie a esso subirono un grande impulso. In Italia operava “Italia Nostra”, fondata nel 1955 e gradualmente estesasi a livello nazionale, dopo gli iniziali e limitati propositi legati alla città di Roma. In quegli anni iniziai a interessarmi intensamente alla materia, senza per altro entusiasmarmi più di tanto per le iniziative intraprese nel nostro Paese. Vi era una sostanziale differenza tra l’approccio che ritenevo dovesse essere conferito alle varie problematiche e l’attività effettiva, edulcorata dei concetti fondamentali e protesa a trasmettere una visione dell’ambiente di stampo prettamente “romantico”, che impensieriva poco o punto chi lo distruggeva sistematicamente. I frequenti viaggi in Francia e il rapporto con il GRECE (Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne), diretto da Alain de Benoist, mi consentirono di rilevare la più consistente efficacia nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica transalpina. Per onestà intellettuale devo aggiungere che il fronte ambientalista, in Francia, era trasversale ai movimenti politici e anche a sinistra si registrava un’altissima capacità analitica, propositiva e di denuncia, che trovò eco internazionale soprattutto grazie agli studi di André Gorz, il cui pensiero anti-economista, anti-utilitarista e anti-produttivista era abbastanza affine alle teorie da me propugnate. Tutto ciò mi fece rompere ogni indugio: nel 1974 fondai l’Associazione Nazionale Salvaguardia Ecologica, con la quale tentai di proporre un ecologismo di stampo prettamente scientifico, partendo dal rapporto del MIT, proprio come avvenuto un po’ ovunque e paradossalmente non in Italia, che del rapporto era stata fautrice. I miei propositi, purtroppo, non ebbero grande fortuna perché l’ecologismo di maniera, che fungeva da corollario al sistema politico, risultava più accattivante di quello che induceva a prendere coscienza dei “limiti dello sviluppo”, a educare le masse al rispetto della natura e a mettere fuori gioco i responsabili dei disastri ambientali. Nel 1977 aderii ai “Gruppi di Ricerca Ecologica”, fondati dal biologo Alessandro Di Pietro, molto affini alla mia A.N.S.E. e alle tematiche propugnate da De Benoist. Nel novembre dello stesso anno tenni una conferenza presso l’Hotel Terminus di Napoli, organizzata proprio dai GRE, nel corso della quale esposi il “Teorema Galvanor”, elaborato qualche anno prima. In sintesi dimostrai che la qualità della vita di un cittadino residente in una grande città, beneficiario di un buon reddito, di una buona posizione sociale, sentimentalmente appagato e


caratterizzato da un sano equilibrio familiare, era inferiore a quello di un membro di una qualsiasi Tribù dell’Africa Equatoriale. Non si può vivere “serenamente” e in modo “equilibrato”, infatti, abitando in strade costantemente frequentate da migliaia di auto che liberano nell’aria scarichi tossici e patendo quotidianamente lo stress generato dal traffico infernale. Tale tenore di vita, alla lunga, genera inevitabili problemi di salute e contribuisce a minare fortemente l’equilibrio psichico (3). Fu il 1976, tuttavia, l’anno che segnò la svolta nell’impegno al servizio della causa ambientalista, facendomi acquisire piena consapevolezza di quanto l’uomo potesse essere stolto nella tutela di se stesso e di come la bramosia di denaro accecasse la ragione. In quell’anno ebbi anche modo di decantare in modo razionale un episodio verificatosi una decina di anni prima, quando ero poco più di un bambino. LA NUBE TOSSICA DI SEVESO Il 10 luglio 1976, nell'azienda ICMESA di Meda, si verificò la dispersione di una nube contenente diossina, sostanza chimica fra le più tossiche. Il veleno investì una vasta area della bassa Brianza, contaminando terreni e luoghi abitati. Seveso fu il comune più colpito. Nel 2010 il disastro fu classificato al dodicesimo posto tra le catastrofi ambientali di tutti i tempi. L’azienda, pur consapevole di cosa fosse successo, per molti giorni non diede alcun allarme, tentando di sminuire la portata dell’incidente. Solo quando iniziò la strage degli animali contaminati e le persone presero d’assalto gli ospedali in preda a forti bruciori su varie parti del colpo, scoppiò il “bubbone”. Eravamo giunti al 20 luglio e ancora si tentava un impossibile depistaggio. Gli effetti della diossina erano ben noti e alla popolazione civile furono fornite le istruzioni basilari per fronteggiare il triste evento, ivi compresa la necessità di abortire, perché il feto avrebbe corso seri rischi a seguito della contaminazione. Un bel problema: essendo allora l’aborto illegale, molte donne furono costrette a recarsi all’estero. Le autorità decisero anche l’evacuazione delle zone più esposte, combattendo contro la ritrosia dei residenti. Il sindaco di Seveso, per fronteggiare i ripetuti ingressi abusivi dei cittadini nella “Zona A”, interamente evacuata, chiese il supporto dell’Esercito. A quel tempo prestavo servizio presso il 18° BTG Bersaglieri Poggio Scanno di Milano, reparto d’élite erede del leggendario Terzo Reggimento, al cui comandante fu chiesto di inviare dieci militari, suddivisi in cinque gruppi, ciascuno dei quali coordinato da un sottufficiale dei Carabinieri. Fui tra i prescelti. Gli ordini erano precisi: impedire che i civili entrassero nella “Zona A”, evitando scontri fisici e colluttazioni. Per scongiurare ogni possibile rischio fummo muniti di armi senza munizioni. Manifestammo sincera apprensione per la missione assegnataci, temendo di patire gli effetti della contaminazione ambientale. Sapevamo bene come doveva configurarsi un abbigliamento protettivo e si può ben immaginare il batticuore quando scoprimmo che il nostro era identico a quello utilizzato da un carrozziere intento a tinteggiare un’automobile. Il dato più sconcertante, però, fu quello che evincemmo nell’esercizio delle nostre funzioni. Il capo pattuglia, infatti, quando vedeva qualcuno che s’incuneava nell’area vietata, magari per prendere


suppellettili o capi di abbigliamento presso la propria abitazione, invertiva la marcia impedendoci di intervenire. I suoi ordini, evidentemente, erano diversi. La sera, al rientro in Caserma, guardando il Telegiornale, restavamo a bocca aperta: bugie colossali su tutti i fronti. L’intera vicenda, alla pari di tante altre, è oggi facilmente ricostruibile in tutte le sue drammatiche fasi. Concludo questo paragrafo rendendo omaggio a un Grande Uomo, nonché mio primo Maestro di vita: Lorenzo Lavorgna, mio padre. Negli anni sessanta collaborava con la Montecatini, poi divenuta Montedison, a seguito della fusione con il colosso statunitense. Presso la nostra abitazione gestiva un deposito di prodotti per l’agricoltura, da egli stesso utilizzati nei vigneti. (Papà era un rinomato produttore vinicolo). I dirigenti della multinazionale venivano spesso per riunioni o semplici visite. Verso la metà degli anni sessanta si presentarono con un nuovo prodotto, che definirono rivoluzionario: bastava disperderlo sui campi e avrebbe distrutto le erbacce, senza danneggiare le colture. Un bel risparmio di tempo e soldi per gli agricoltori! A mio padre fu chiesto di promuoverlo nel territorio di pertinenza, ma i dirigenti restarono a bocca aperta ascoltando la sua replica: “Cari miei, non so che diavoleria sia questa cosa, ma se distrugge l’erba può distruggere anche l’uomo. Non lo utilizzerò mai, pertanto, né mi renderò responsabile della diffusione in questa zona”. Il prodotto conteneva diossina, sperimentato come defoliante nella guerra del Vietnam, ed era fortemente tossico. Fu ritirato dal mercato dopo qualche anno, ma non prima di aver prodotto tantissimi danni. Allora avevo una decina di anni e non potevo capire appieno cosa stesse accadendo, ma se gradualmente ho ben imparato a discernere il grano dal loglio e da circa mezzo secolo vado sostenendo che le multinazionali rappresentano un male assoluto, lo devo anche agli insegnamenti di mio Padre. L’ETERNA LOTTA TRA BENE E MALE In tutto il mondo, oramai, il fronte ambientalista vanta esperti, studiosi e scienziati di prim’ordine, le cui direttive dovrebbero essere recepite sia dai governi sia dall’opinione pubblica. A tali soggetti si oppone un fronte molto più potente e composito, foraggiato dalle multinazionali e dai servi opportunamente collocati nelle dorate stanze del potere, non solo politico. Come già detto sono tanti, infatti, gli scienziati e gli uomini di cultura che, per mera bramosia di denaro, si sono messi al servizio dei poteri forti, confutando con sfacciata mala fede ciò che da altri viene proposto in buona fede e dopo severi studi. E’ il caso, per esempio, degli scienziati che sostengono la non pericolosità delle centrali nucleari. I governi del mondo, a parole, affrontano periodicamente le problematiche ambientali, come dimostrano i Summit e le conferenze internazionali. Nei fatti, però, non si conclude mai nulla di positivo perché non è possibile sputare nel piatto in cui si mangia: molto spesso sia i partecipanti sia i loro sponsor sono i principali responsabili della crisi ecosistemica. Eclatante, a tal proposito, quanto avvenuto recentemente a Bologna, in occasione del G7 sull’ambiente, che ha registrato la scandalosa defezione degli USA, decisamente contraria a rispettare l’accordo di Parigi, già di per sé eccessivamente “blando”, per le ragioni sopra esposte (4).


IL RAPPORTO BRUNDTLAND L’esempio più clamoroso di attività farlocca, protesa a produrre fumo senza arrosto, è il rapporto Brundtland, che introduce (o per meglio dire: avrebbe dovuto introdurre) la fondamentale teoria dello sviluppo sostenibile. Nel 1983, in seguito a una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, fu istituita la Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, che aveva l’obiettivo di elaborare un’agenda globale per il cambiamento. La Commissione era presieduta dalla norvegese Gro Harlem Brundtland, che nel 1987 pubblicò il rapporto. Chiariamo subito che l’ambientalista norvegese è una brava donna, animata da buoni propositi, con un curriculum di tutto rispetto, che contempla anche la direzione dell’Organizzazione mondiale della Sanità dal 1998 al 2003. Il rapporto, però, lungi dal rappresentare un documento che metta in luce le distonie di un sistema marcio fino al midollo, enuclea una serie di principi e suggerimenti in parte meramente retorici e in parte, quella più significativa, che suonano come dolce melodia per governanti e multinazionali, grazie ai continui riferimenti “alle politiche economiche”. I pugni allo stomaco (e all’intelligenza delle persone) sono molteplici. Sulla sicurezza alimentare, per esempio, si scrive che “richiede una maggiore attenzione ai problemi della distribuzione del reddito, perché la fame è spesso conseguenza più della povertà che non della penuria di alimenti”. Ma guarda un po’! Nessun riferimento, ovviamente, a ciò che avviene negli USA e in molte aree dell’occidente “civilizzato”: con il solo cibo che si spreca in un giorno, si potrebbe sfamare mezza Africa! E in quanto alla distribuzione del reddito, la mera enunciazione di un dato noto a tutti, senza un incisivo riferimento ai problemi generati da una realtà che vede il 20% della popolazione mondiale consumare l’80% delle risorse, è un’evidente e strumentale mitigazione di un problema serio. Il rapporto alterna concetti scontati, esposti in modo reboante, a sottili fraseggi, protesi a favorire ciò che per l’ambiente è altamente nocivo. Con un esercizio sintattico nemmeno tanto articolato, per esempio, si legge che: “La produzione di energia nucleare è giustificabile solo a patto che si diano valide soluzioni ai problemi irrisolti ai quali essa ha dato origine”. I problemi irrisolti, ossia le scorie radioattive e i rischi connessi ai possibili incidenti, resteranno tali per sempre, intanto lasciamo passare l’idea che “l’energia nucleare è giustificabile”, invece di dire, a chiare lettere, che di essa occorre fare a meno senza “se” e senza “ma”. Resta da capire perché una brava persona si sia prestata a un gioco sporco, invece di dire: “No, grazie, a queste condizioni non ci sto”. Io lo so, ma non posso scriverlo. UN MONDO MIGLIORE E’ POSSIBILE? Il quadro sopra esposto, che tra l’altro offre una “pennellata rapida” di una realtà molto più complessa, è desolante. E nulla lascia presagire che le cose cambieranno in tempi brevi. La natura umana è quella che è e ogni giorno della nostra esistenza ci dimostra che è più facile nascondere la testa nella sabbia che ribellarsi alle malefatte altrui e rinunciare alle proprie. Le regole del gioco “politically correct” imporrebbero che, a questo punto dell’articolo, il titolo del


paragrafo non contemplasse il punto interrogativo e il testo fosse intriso di un anelito di speranza, magari con qualche ricetta di buone intenzioni e di correttivi. Non seguirò questa linea, che trovo stupida e inopportuna. Sarò spietato, invece, perché non serve a nulla gettare la croce addosso ai potenti dei cinque continenti, a Trump e alle sue baggianate, alle multinazionali che ci avvelenano, alla finanza che ci dissangua. “Loro”, quelli che noi disprezziamo e quotidianamente massacriamo sui social non sono peggiori di noi. Loro, infatti, rappresentano solo la proiezione più esasperata dei vizi e dei limiti delle masse amorfe, perché, essendo più in gamba, vizi e limiti hanno meglio sfruttato a loro vantaggio. E’ la parte malsana della società civile che determina il quadro sociale dominante, che ovviamente non può essere “sano”. Le masse, che a parole detestano chi le vessi, all’atto pratico sostengono i vessatori con il quotidiano agire. Nel mio romanzo “Prigioniero del Sogno”, il protagonista, un novello cavaliere della tavola rotonda, a un certo punto afferma testualmente: “Quando un uomo sceglie quotidianamente di prendere l’automobile sapendo di restare imbottigliato nel traffico, evidentemente non ha più nulla da dare al prossimo”. E ovviamente neanche a se stesso, eccezion fatta per tanto male. Siamo disponibili a rinunciare all’aria condizionata? (Negli USA addirittura la lasciano accesa durante il week end perché al rientro la casa deve essere già fredda e non si è disposti ad aspettare nemmeno cinque minuti per rinfrescarla). Siamo disponibili a ridurre lo spreco di energia elettrica? A ridurre l’utilizzo dell’automobile al minimo indispensabile? Siamo disponibili a favorire provvedimenti protesi a eliminare del tutto il traffico veicolare nelle città? Siamo disponibili a boicottare le compagnie petrolifere per favorire lo sviluppo delle energie alternative pulite? Siamo disponibili a privilegiare condizioni di vita che tengano in debita attenzione la tutela della natura, evitando quindi, la deforestazione, il cemento selvaggio, i disboscamenti che generano frane e alluvioni? Non sono i politici a essere “criminali”, sotto questo profilo: loro sono solo attenti a non perdere voti con provvedimenti che non sarebbero graditi alle masse. Basterebbe far comprendere che si vogliono davvero, quei provvedimenti, e sarebbero varati in un battibaleno. Sul fronte alimentare si è così stupidi da ingozzarsi di prodotti industriali, fautori di tante malattie. Avete mai visto come sono allevati i polli in batteria? Avete idea di cosa vi sia nelle merendine il cui consumo con tanta leggerezza si consente ai bimbi e agli adolescenti? Le mamme che non hanno voglia di cucinare hanno idea di cosa significhi alimentare i loro pargoli con i prodotti dei fast-food? La lista è lunga e sarebbe il caso di parlare anche dei criminali che adulterano i prodotti, mettono in commercio quelli scaduti, etc., ma penso di aver reso l’idea. Certo, anche dall’altra parte non si scherza, a prescindere dai favori inconsapevolmente ricevuti dalle masse rincitrullite. Se fosse combattuta seriamente l’evasione fiscale, ovunque nel mondo, i debiti pubblici si ridurrebbero drasticamente e in taluni casi sparirebbero del tutto, generando sensibili vantaggi sociali. Le colpe sono divise in egual misura tra chi non reprime e chi, avendone la possibilità, evade. Si reprimono, invece, i poveri cristi, con provvedimenti assurdi. Un agricoltore, per esempio, che volesse integrare la coltura principale fonte di reddito con un


uliveto, non può vendere la parte di olio eccedente il fabbisogno familiare, cosa che sarebbe molto gradita ai “cittadini” in cerca di prodotti genuini, a meno che non avvii una regolare attività commerciale, antieconomica. Lo stesso dicasi se volesse allevare polli ruspanti, avendo terreno a disposizione, e così via. Ovviamente siffatte leggi sono imposte dalle multinazionali, che tendono a tutelarsi con ogni mezzo. E pazienza se poi spacciano per olio extravergine di oliva schifosi intrugli chimici e ci vendono carne piena di antibiotici. Ma siamo noi che permettiamo tutto ciò. Siamo noi, quindi, i primi responsabili delle nostre sventure. Non servono ricette miracolistiche per migliorare la qualità della vita e favorire uno sviluppo sostenibile, ma un’inversione di tendenza nei comportamenti umani che, purtroppo, sembra impossibile da realizzarsi. Le uniche parole di speranza che posso pronunciare, pertanto, sono quelle suggeritemi da un amico matematico: “Devi augurarti di aver torto. Per la legge dei grandi numeri è possibile. Avendo avuto sempre ragione, prima o poi dovrà capitare che sbaglierai qualche analisi”. Amen. NOTE 1) Molto interessante, a tal proposito (e non solo), la lettura del testo di Barry Commoner: “Il Cerchio da chiudere” – Garzanti, 1972. 2) “I limiti dello sviluppo – rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità”. Biblioteca della EST, Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori, 1972. Purtroppo di difficile reperibilità nella prima edizione, ma disponibile on line, in inglese. Degli stessi autori segnalo, inoltre, “I nuovi limiti dello sviluppo. La salute del pianeta nel terzo millennio”, Editore Mondadori, 2006. Ricalcando le tematiche già esposte nel rapporto, armati di strumenti informatici ben più raffinati e di una mole enorme di dati statistici, gli scienziati si sono riuniti dopo trenta anni per lanciare ancora il loro grido d'allarme e metterci in guardia sui devastanti effetti dell'azione umana sul clima e sull’ambiente. 3) Mi fa piacere ricordare che alla conferenza prese parte l’insigne magistrato Pietro Lignola, che tenne una brillante relazione sull’inquinamento del linguaggio e l’Avvocato Rutilio Sermonti, che tre anni dopo assunse la presidenza dei Gruppi di Ricerca Ecologica. E’ bene precisare che il teorema fu esposto sotto forma di “paradosso”, perché prendeva in esame solo gli elementi primari di vivibilità, ai quali era stato conferito un coefficiente numerico su una scala da uno a dieci. La sommatoria dei coefficienti, divisa per il numero degli elementi, determinava il livello di vivibilità. Aggiungendo ulteriori elementi senz’altro importanti, per lo più attinenti al settore dei servizi, inevitabilmente il risultato finale sarebbe risultato invertito. Il teorema, tuttavia, serviva precipuamente a orientare la mente verso una nuova dimensione dell’essere, affinché si prendesse coscienza di come ci stavamo abituando a vivere male, senza reagire. “Galvanor” è lo


pseudonimo che scaturisce dall’anagramma del mio cognome e rimanda a Galvano, il cavaliere della tavola rotonda celebrato nel ciclo letterario Bretone, di cui sono fervente appassionato da sempre. 4) Il 12 dicembre 2015, a Parigi, al termine della Conferenza sui cambiamenti climatici, 196 paesi hanno siglato un patto per ridurre le emissioni di gas e contenere il riscaldamento globale. L'accordo diventerà valido solo quando sarà ratificato da almeno cinquantacinque paesi che producono oltre il 55% dei gas serra. Non sono previste particolari sanzioni per i paesi inadempienti, a riprova che l’accordo, seppur contenga elementi validi dal punto di vista scientifico, sostanzialmente serve solo a gettare fumo negli occhi. Nonostante ciò Trump ha dichiarato che non vuole proprio sentirne parlare e che gli USA seguiranno un protocollo ambientale autonomo e indipendente, proteso a rilanciare l’uso del carbone. Egli, di fatto, deve mantenere fede agli impegni elettorali, in particolare con i lavoratori delle miniere di carbone de West Virginia e Wyoming, determinanti per la sua vittoria. A questo si deve aggiungere la “limitatezza culturale” e la mancanza di consiglieri in grado di farlo ragionare: tutti pensano solo a salvaguardare la propria poltrona, ben sapendo quanto sia rischioso contraddirlo. Durante la campagna elettorale Trump ha più volte parlato in maniera molto scettica del cambiamento climatico e degli accordi internazionali sul clima. Ha sostenuto, per esempio, che il cambiamento climatico sarebbe una “stronzata” inventata dai cinesi per danneggiare l’industria americana! E nessuno ha osato fargli notare che le stronzate le diceva lui! (Confini, Nr. 55 – Giugno)


(1976 – Seveso)


(1976 – Seveso. Foto emblematica che mette in evidenza come fossero disattese le direttive di evacuazione emanate dalle Autorità ).


(Stresa, 1962. Il mio Papà, secondo da sinistra, al convegno della Montecatini – Società Generale per l’Industria Mineraria e Chimica, assorbita dall’Edison nel 1966)


(Stresa, 1962. Il mio Papà riceve il premio “ Il grappolo d’oro” per i brillanti risultati conseguiti nella produzione vinicola e la sperimentazione dei nuovi prodotti al servizio dell’agricoltura. Come scritto nell’articolo, però, si rifiutò di utilizzare i diserbanti a base di diossina).


(Napoli, 1977. Il convegno sull’ambiente promosso dai Gruppi di Ricerca Ecologica).


MINISTRI DELLA PUBBLICA…IGNORANZA (Divertissement sull’ignoranza degli esponenti politici) Se un giovane mi chiedesse quali ministri della pubblica istruzione, dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, abbiano onorato degnamente il ruolo svolto, a memoria saprei indicarne solo due: Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Il che vuol dire anni venti del secolo scorso. Sicuramente ve ne saranno stati altri, magari prima dei due citati. Su quelli venuti dopo, infatti, nutro qualche dubbio. Un dato è certo: negli ultimi tempi si assiste a una stramba gara tra chi le spari più grosse, la qualcosa consente ampia esposizione mediatica, altrimenti impossibile. Pazienza se si subisce il massacro mediatico: l’importante è vedere il nome in prima pagina. Nel 2011 il ministro Gelmini annunciava con enfasi patriottica la costruzione di un tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso, grazie al quale i neutrini avrebbero potuto transitare avanti e indietro a una velocità superiore a quella della luce! Secondo l’attuale ministro, invece, Napoleone Bonaparte e Vittorio Emanuele III si sono incontrati a Cherasco nel 1796 per sancire la capitolazione sabauda, magari dopo aver mangiato dei gianduiotti presso la Pasticceria Barbero. Sorvolando su Romolo e Remolo di berlusconiana memoria e sulle tragicomiche clips reperibili nell’archivio de “Le Iene”, grazie a quella brava giornalista che si diverte a far luce sulla crassa ignoranza dei politici, la gara sembra foriera di nuove esaltanti puntate. Mi permetto, pertanto, di suggerire qualche spunto. 1) Francesco I, figlio di Carlo di Valois e di Luisa di Savoia, divenne Re di Francia, fondò la dinastia degli Asburgo Lorena, assunse la corona del sacro romano impero trasformandosi in Francesco II, per poi ritornare Francesco I come imperatore d’Austria. Siccome amava il buon vino, le belle donne e i luoghi caldi, si fece nominare anche Granduca di Toscana, Duca di Modena e Reggio e, dulcis in fundo, Re delle due Sicilie. 2) Mary Stuart, italianizzata in Maria Stuarda, è una bravissima fotografa che vive a Roma e ha oltre diecimila followers su Instagram. 3) Phil Collins, dopo aver combattuto per la causa dell’Irlanda libera, si è dato alla musica e ha venduto oltre cento milioni di dischi. Poi, però, è stato assassinato nella contea di Cork per mano di un ex amico geloso del suo successo. 4) Ludovico il Moro, stanco di essere cornificato dalla moglie Beatrice d’Este, si trasferì a Venezia dove divenne “Il Moro di Venezia” e assunse il comando dell’esercito che combatteva i turchi, coadiuvato dal luogotenente Cassio, in fuga da Roma dopo aver partecipato alla congiura di Bruto per l’uccisione di Cesare. In suo onore e stata varata una barca a vela, che si è distinta in molte regate. 5) Enrico Toti fu un centravanti della Roma negli anni trenta, divenuto famoso perché giocava con una stampella dopo l’amputazione della gamba destra, resasi necessaria a seguito di un infortunio. Nel corso di un derby con la Lazio,


purtroppo, gettò la stampella contro un avversario pronto a fare gol e fu fucilato sul campo al termine della partita. 6) Federigo Tozzi era un appassionato di letteratura che provò a diventare, invano, un grande scrittore. Una sera, disperato e affamato, vagava per le strade di Torino invocando la gloria che bramava e non riusciva a ottenere. Gli uscirono dalla bocca alcuni versi che declamò infondendo loro un improvvisato ritornello: “Gloria, manchi tu nell'aria, manchi ad una mano, che lavora piano, manchi a questa bocca, e sempre questa storia”. Casualmente fu ascoltato da Giancarlo Bigazzi, che lo convinse a cantare nelle balere. Quei versi diventarono una canzone che ancora oggi gli frutta decine di milioni di euro ogni anno. (Confini, Nr. 55 – Giugno)



DAL NAZIONALISMO ALLA NAZIONALITÁ: UN PERCORSO AMBIGUO

PROLOGO “Chi misurerà la miseria, l’inerzia, la sterilità che vengono alla vita da queste forme di autismo che molti confondono con lo spirito nazionale e l’amor di patria?” (Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia, anni quaranta, edita nel 1977). “Non possiamo sperare più nulla da nessun popolo, in quanto nazione. Non ci resta che una via, richiamarci agli uomini, agli europei”. (Pierre Drieu La Rochelle, L’Europe contre les patries, 1931”). “Le persone hanno pregiudizi su nazioni di cui non hanno alcuna cognizione”. (Philip Gilbert Hamerton) “Le nazioni più grandi si sono sempre comportate da gangster; le piccole da prostitute”. (Stanley Kubrick) “In individui, la pazzia è rara; ma in gruppi, partiti, nazioni ed epoche è la regola”. (Friedrich Nietzsche) “Nessun uomo ha colpe o meriti per dove nasce, ma solo colpe o meriti per come vive”. (Lino Lavorgna) Nel titolo ho utilizzato il termine “ambiguo”, ma non voglio esserlo io: lascio trasparire subito, quindi, l’impronta che conferirò all’articolo, pur essendo consapevole che non è facile mantenere un percorso lineare in una materia così complicata. Sulla nazione, sulla nazionalità e sul nazionalismo - concetto, quest’ultimo - che precede, come meglio vedremo in seguito, l’entità “nazione”, sono state elaborate tante teorie e interpretazioni, alcune delle quali d’indubbia valenza, ancorché propugnate con la tipica sicumera dogmatica che accompagna i depositari di verità assolute. Stendendo un velo pietoso su quella degli pseudo-


intellettuali e pseudo-politici contemporanei, più che altro per amor di sintesi, passiamo oltre precisando che eviterò anche di proporre l’ennesima ricetta, inutile e fuorviante come tutte le ricette che afferiscono alle grandi tematiche sociali, perché delle due l’una: sono valide in linea di principio e del tutto irrealizzabili in virtù della realtà contingente; sono valide per fronteggiare le contingenze temporali ma costituiscono un abominio sotto qualsiasi altro punto di vista. Le cose accadono a prescindere dalla nostra volontà, perché spesso scaturiscono dai limiti e dalle debolezze della natura umana. Nel corso dei secoli, anche in quelli remoti, non sono mai mancate le ricette valide per risolvere i mali del mondo, anche se Erasmo da Rotterdam ci ha fatto ben comprendere che gli esseri umani hanno sempre preferito disattenderle, lasciando trasparire l’idea che forse sia stato meglio così: molto probabilmente, in talune circostanze, le ricette avrebbero prodotto più danni di quelli che intendevano riparare (1). Ho percorso e percorro molti sentieri, ciascuno dei quali considerato il più fascinoso “in un dato momento”. Ho cavalcato il nazionalismo, da giovane, per poi allontanarmene gradualmente, per poi rivisitarlo sotto una nuova luce, per poi discernerlo dalle tante scorie, per poi inquadrarlo in una nuova dimensione, rappresentandone l’ascesa, il declino e il declino insito nella nuova ascesa. Non è stato facile preservare quello spirito analitico obiettivo che richiede più fatica della scalata di una vetta himalaiana. E’ chiaro che tutto ciò porti, di volta in volta, a “delle conclusioni”. Per quanto, però, possa ritenere di riuscire a ragionare scientificamente, superando i condizionamenti del presente – sempre ben marcati - l’esperienza insegna che ciò non basta. Occorre avere l’onestà e l’umiltà di sostenere, pertanto, che il pensiero è relativo come qualsiasi altra cosa e forse verrà un giorno in cui tutto, ma proprio tutto, sarà (ri)messo in discussione, fino a realizzare quella trasvalutazione di tutti i valori che qualcuno già preconizzava non tantissimo tempo fa. I prodromi di questo processo, del resto, sia pure in modo massicciamente confuso, già cominciano a delinearsi. In attesa di quel momento, cerchiamo almeno di fare chiarezza lì dove è possibile. PRIMA DELLA NAZIONE C’E’ IL NAZIONALISMO La traccia dettata dal Direttore, come tema del mese, è chiara: “Nazione e nazionalità”. E’ evidente il riferimento all’attualità, che vede nello “ius soli” uno degli argomenti predominanti. Prima di addentrarci nel labirinto intriso di trappole concettuali e di cecchini pronti a far fuoco a casaccio, tuttavia, è opportuno chiedersi da cosa scaturisca una “nazione”, andando oltre la mera definizione di una comunità d’individui che condividono alcune caratteristiche comuni. In realtà non si può compiutamente parlare di nazione se prima non si definisce il “nazionalismo”. Il nazionalismo precede la nazione! È dalla “dottrina” che scaturisce il concetto territoriale e non viceversa, come erroneamente si ritiene. Un giovanissimo Alessandro Campi lo spiegò chiaramente nel 1991, in un freddo pomeriggio di fine febbraio, quando nei pressi di Perugia si riunirono eccellenti “teste pensanti” (e proprio per questo bistrattate) per dissertare sulla “Grandezza e miseria del nazionalismo. L’Europa di fronte alla sfida del Duemila”


(2). “Le nazioni non sono né originali né immutabili”, ammoniva Campi, con quella verve enfatica che ancora oggi lo contraddistingue, facendo il verso a Gianfranco Miglio, che già nel 1945 scriveva: “C’è molta ingenuità nei propositi di coloro che vorrebbero salvare la nazione e condannare il nazionalismo, immaginandosi di trovare il punto in cui l’una cosa possa ragionevolmente essere separata dall’altra. Essi non sanno, o non si accorgono, che reale non è la nazione ma il nazionalismo; che questo genera quella e non viceversa; per usare un termine elegante, la prima è l’ipostasi del secondo”. La distinzione è molto importante perché il crollo delle ideologie ha determinato, insieme con tante altre cose che afferiscono alla sfera esistenziale, il crollo delle istituzioni e delle “costruzioni politiche”, sancendo il fallimento del nazionalismo come idea e quindi generando, per riflesso, la crisi delle nazioni. Il rigurgito di nazionalismo, insito negli strati sociali qualunquisti e culturalmente arretrati, assomiglia alla continua tinteggiatura di pareti umide, periodicamente praticata da chi non riesce a capire che è l’umidità a dover essere combattuta, almeno fino al momento in cui la parete non gli crolli addosso. Se si effettuasse un sondaggio tra studenti liceali e universitari e si chiedesse loro di definire il concetto di “nazione”, attraverso le risposte potremmo capire come la “percezione” non collimi con la realtà. Nella mie indagini sociologiche ho avuto modo di evincere che per molti la nazione è qualcosa di antico, che afferisce alla tradizione; è qualcosa di “sublime, perché rappresenta la patria comune (che per chiunque è sempre la più bella di tutte). I più preparati magari arrivano a spiegarne l’etimologia latina e davvero rari sono coloro in grado di parlare dell’anelito a vedere l’Italia politicamente unita che traspare negli scritti di Giordano Bruno, Machiavelli e Guicciardini (3). Se si chiedesse di illustrare, poi, gli analoghi principi enunciati da Gioviano Pontano, Baldassarre Castiglione, Francesco Gonzaga, gli occhi strabuzzati e le bocche spalancate testimonierebbero in modo inequivocabile il disastroso stato della formazione scolastica. Al di là dei fuochi fatui successivi alla discesa di Carlo VIII, comunque, fu “solo” con la rivoluzione francese - di fatto ieri, storicamente parlando – che il termine assunse una valenza politica, incarnando il soggetto collettivo destinato a soppiantare la monarchia e il suo legittimo rappresentante, fino a quel momento depositario esclusivo della sovranità. Il debutto ufficiale avvenne il 26 agosto 1789 con l’articolo tre della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente”. L’enunciato si diffuse rapidamente e “nazione” divenne ben presto sinonimo di “popolo” e di “patria”. Le guerre d’indipendenza in Italia trovarono la prima fiammella che alimentò l’incendio proprio grazie ai simpatizzanti della rivoluzione francese, per i quali esisteva una nazione italiana ed era giusto adoperarsi affinché fosse creato uno Stato nazionale italiano.


LA NAZIONE DIVENTA REALTA’. Il termine “nazione” debutta trionfalmente nella storia, ma quali sono le nazioni? Chi ne fa parte? I quesiti risultano importanti per delineare il quadro che si dipanò nella prima metà del XIX secolo, soprattutto in Italia, quando l’identità nazionale iniziò a essere promossa da soggetti di alta valenza intellettuale e culturale, che trovarono facile gioco nel propugnare le proprie tesi ancorandole alla tradizione letteraria italiana. La lingua comune diventò il collante per auspicare l’unificazione dell’Italia. Facile a dirsi. In realtà l’italiano letterario era conosciuto e utilizzato solo da una piccola fetta di cittadini, essendo la maggioranza adusa a utilizzare il dialetto. Il presupposto della lingua, pertanto, assunse una valenza più formale e accademica che sostanziale. Vi è da considerare, inoltre, che la voglia di “nazione” si scontrò con la resistenza dei piccoli stati, che non avevano nessuna intenzione di perdere la loro “autonomia”. Nonostante ciò, la nazione diventò realtà, sia pure dopo i travagli ben noti. La sua affermazione, e quindi l’accettazione come idea, fu resa possibile da tre elementi fondamentali (4): a) fu considerata come una comunità di parentela e di discendenza dotata di una sua genealogia e di una sua specifica storicità. Nasce il suggestivo sistema linguistico fatto di “madre-patria”, di “padri della patria”, di “fratelli d’Italia”; b) fu descritta anche nelle sue componenti di genere, attraverso un’operazione che attribuisce agli uomini il compito di difenderla armi alla mano e alle donne il compito di riprodurre – in forma casta e virtuosa – le linee genealogiche che strutturano la nazione come comunità di parentela; c) si trasformò in una comunità i cui membri devono essere entusiasticamente disposti al sacrificio della propria vita. Il richiamo alla necessità del sacrificio è un’operazione che consente di presentare il discorso nazionale come un discorso politico para-religioso: i militanti morti per la causa diventano subito dei “martiri”. Le guerre nazionali si trasformano in “guerre sante”; l’azione di propaganda diventa “apostolato”; la rinascita della nazione diventa “resurrezione”, ossia “Risorgimento”. Le masse vengono educate al culto della nazione. Prende corpo, in tal modo, una vera e propria “nazionalizzazione delle masse” e sarà proprio questa definizione che George L. Mosse utilizzerà per il suo libro più famoso (5), nel quale spiega come scuola, esercito, stampa e tutte le istituzioni abbiano il compito di insegnare ai cittadini le nuove regole imposte dai processi unitari. In Italia Edmondo De Amicis scrive il libro “Cuore”; agli inizi del ventesimo secolo si sviluppa una florida cinematografia patriottica; si cementa l’idea della “bella morte per la propria Patria” e ai “patrioti” morti viene assicurata una sorta di “immortalità” grazie alle statue erette in ogni dove a futura memoria. Dopo la prima guerra mondiale vi penserà Benito Mussolini a conferire nuova linfa ai concetti sopra


esposti, esaltandoli in quella forma parossistica che ben conosciamo e con le drammatiche conseguenze che non abbisognano di essere qui rievocate. LE CONTRADDIZIONI DEL DOPO GUERRA Sconfitto il fascismo, la paura dell’ideologia nazional-patriottica spinge intellettuali e politici a individuare nuove forme valoriali. S’incomincia a parlare di Europa Unita come “Patria comune”, in modo che i nemici di ieri possano diventare i fratelli dell’oggi e del domani. A parole. La realtà è ben diversa. Nelle scuole ci si guarda bene dal propugnare una “nuova cultura” che tragga spunto da una visione più moderna della società e magari prenda in seria considerazione i concetti esposti nel famoso “Manifesto di Ventotene” (6). La letteratura italiana predomina e il culto dell’italianità viene perpetuato senza dissimulazioni, trasmettendo una serena (e ovviamente irreale) consapevolezza di superiorità. Sono trascorsi solo pochi anni, del resto, da quel fatidico 3 settembre 1943, consacrato alla storia per l’armistizio che fu siglato a Cassibile tra i Generali Castellano e Walter Bedell Smith, caratterizzato da un aneddoto poco noto (7) ma emblematico di una certa mentalità italiana, dura a morire e ben rappresentata in ogni contesto: arte, cultura, sport, spettacolo. Gli italiani si sentono i migliori al mondo e nei film riescono anche a vendere la Fontana di Trevi agli sprovveduti americani, dipinti sempre come fessacchiotti facilmente abbindolabili. L’illusione, paradossalmente, persiste anche quando il paese implode e affiora il suo vero volto. Il Risorgimento e il Fascismo erano riusciti, anche con la forza della suggestione, nell’impresa “impossibile” di dare coesione a qualcosa che, per molteplici ragioni, coesa non poteva essere. La decadente classe politica post bellica, però, non ha la capacità di mantenere unito un popolo che, di fatto, unito non lo era mai stato. La crisi scoppia subito e si perpetua, decennio dopo decennio, acquisendo crescenti elementi che ne acuiscono la portata. Il Nord si stacca idealmente, con risentito disprezzo, da un Sud visto come peste bubbonica e soggiacente alla sub-cultura dell’illegalità, mantenendo inalterato il razzismo interno anche quando appare evidente che le distonie sociali e comportamentali non hanno confini territoriali ma solo differenziazioni classiste: la delinquenza del Sud attecchisce precipuamente nel sottoproletariato emarginato; quella del Nord nei salotti dell’alta borghesia e della finanza, salvo poi saldarsi in quel coacervo di commistioni e ramificazioni che ha ridotto il paese nella palude mefitica che abbiamo oggi sotto gli occhi. RIGURGITO DI NAZIONALISMO E PARADOSSI FEDERALISTI. Sul processo d’integrazione europea ho parlato diffusamente sia in questo magazine sia altrove e quindi ritengo superfluo soffermarmi diffusamente sull’argomento. Pur essendo chiaro, da sempre, che solo un’Europa unita potrebbe rappresentare la soluzione ai problemi comuni, il processo d’integrazione non decolla, essendo esclusivo retaggio di una minoranza, culturalmente attrezzata per superare pregiudizi secolari. Sul piano pratico si realizza il pastrocchio del mercato comune, ribaltando un concetto fondamentale,


il primato della politica sull’economia, con i risultati nefasti che ben conosciamo. Si rinuncia a realizzare una vera scuola di formazione comunitaria che inculchi nei giovani “la coscienza europea”, perché, molto semplicemente, la coscienza europea è una prerogativa della classe illuminata di cui sopra e non certo dei governanti. Il nazionalismo imperversa ovunque e la voglia di nazione acuisce le tensioni anche all’interno degli stati. Apparentemente il linguaggio nazionalpatriottico si affievolisce nell’uso comune. Le reboanti espressioni intrise di aggettivi e di vuota retorica, tipiche del ventennio e del primo dopoguerra, lentamente scompaiono dai media, ma non dalle coscienze degli uomini. Le politiche dissennate dei governi centrali, non solo in Italia, fanno il resto, alimentando una voglia d’indipendenza che, in taluni casi, arriva a recuperare anche quei presupposti ideali che consentono di sacrificare la propria vita. Meritano senz’altro rispetto e considerazione, per esempio, le battaglie combattute dai giovani del Nord Irlanda, pronti a sacrificarsi per unirsi alla madre patria e sottrarsi alla dominazione straniera. Per analoghe ragioni si può solidarizzare con gli scozzesi che bramano uno stato indipendente. Più complessa da inquadrare è la questione spagnola: le battaglie dell’ETA, se da una parte possono trovare una parvenza di giustificazione durante il franchismo, quando il desiderio d’indipendenza fu associato alla lotta contro un regime autoritario, dal 1975 al 2011, anno in cui cessa la lotta armata, si possono configurare solo con l’intento di affermare la vocazione marxista-leninista “anche” con l’uso delle armi, incutendo “terrore”. I combattenti, a quel punto, si trasformano in terroristi. La Catalogna fa prevalere la maggiore capacità produttiva, sostenendo a chiare lettere che non se la sente più di “finanziare” il resto del paese grazie al suo PIL di 200 miliardi di euro, che vale l'intera economia del Portogallo e contribuisce a formare un quinto del Prodotto interno spagnolo. Sulle cause delle “risibili”- absit iniuria verbis - contrapposizioni territoriali in Belgio non mi dilungo, rimandandovi all’eccellente articolo di Roberto Dagnino, pubblicato nel numero dodici di “Limes”, anno 2010: “Fiamminghi e Valloni separati in casa”, e a un mio articolo reperibile nel blog www.galvanorwordpress.com: “Una lingua ufficiale per l’Europa”, giugno 2014. Nell’Italia settentrionale la Lega Nord ottiene grande successo ribadendo concetti quasi analoghi a quelli dei Catalani, corroborandoli, però, con un marcato razzismo, che trova facile diffusione in quella media borghesia con ignoranza pari alla supponenza. Con la tipica confusione concettuale di chi ragiona con la pancia senza essere culturalmente attrezzato per usare la testa, si propone una sorta di federalismo pasticciato, impossibile da realizzare sul piano pratico e distonico rispetto a un “sano federalismo”, proficuamente attuabile in attesa dei tempi lunghi necessari alla realizzazione dell’Europa delle Regioni, federate in una vera entità nazionale che possa configurarsi come “Stati Uniti d’Europa”. Nel nostro paese è evidente il fallimento dei presupposti sanciti dall’articolo cinque della Costituzione ed è noto a tutti che le autonomie locali sono essenzialmente macchine spreca-soldi al servizio della malapolitica. Un congruo riassetto costituzionale, tuttavia, è irrealizzabile proprio perché l’attuale sistema rappresenta una vera manna celeste per la malsana


classe politica, che imperversa ininterrottamente dal dopoguerra, cambiando colore ma non certo mentalità. Un impianto federalista, invece, sarebbe funzionale alle reali esigenze dei cittadini se rispettasse i seguenti presupposti: A) Abolizione delle regioni e istituzione di quattro o cinque macroregioni (o stati che dir si voglia), rette da un governatore con poteri limitati rispetto a quelli del Governo centrale. (Sanità ed energia, per esempio, dovrebbero ritornare a una gestione centralizzata). B) Abolizione delle amministrazioni provinciali. C) Accorpamento dei piccoli comuni, stabilendo un limite minimo intorno ai dodicimila abitanti. D) Ridefinizione delle province che, con opportuni “accorpamenti” e il recupero delle quattordici città metropolitane (un vero abominio), non dovrebbero essere più di cento, in modo da evitare costose frammentazioni utili solo ad alimentare malcostume e malapolitica (8). Il cospicuo risparmio economico che si otterrebbe con siffatta riforma potrebbe essere proficuamente utilizzato per sopperire a tre grosse lacune che aggiungono problemi ai problemi: la carenza delle strutture ospedaliere, dei tribunali e delle carceri. Tutti i cittadini hanno diritto a una proficua assistenza sanitaria e, come ben noto, i tagli alla sanità e la chiusura degli ospedali, conseguenza delle tante ruberie perpetrate dalle gestioni regionali, costituiscono un vero dramma. Parimenti la lentezza della giustizia si combatte “tutelando” i Magistrati e non vessandoli con carichi insostenibili, forieri anche d’ingiustificate accuse. La sicurezza, poi, va garantita mandando i delinquenti in galera, evitando indecenti sconti di pena per mancanza di strutture. NAZIONALISMO: MALE ASSOLUTO Chiudo questa sezione dell’articolo lasciando la parola ad Alessandro Campi, perché, per quanti sforzi possa compiere, non riuscirei a scrivere di meglio: “Dal punto di vista etico, non c’è dubbio, il nazionalismo rappresenta – e oggi più di ieri – (siamo nel 1991, ndr) – un’autentica aberrazione. La logica che lo anima è quella dell’esclusione, del rifiuto pregiudiziale ed emotivo dell’Altro in quanto tale. Il suo piatto forte spirituale - basta leggere un qualunque dottrinario nazionalista – è la retorica del noi. Gli altri, per definizione, hanno sempre torto. [-] Il nazionalismo appare davvero come una malattia dello spirito, quasi una forma di autismo, un segno di grettezza e di chiusura mentale. Prima ancora che un’ideologia politica, il nazionalismo sembra essere uno status mentale. E in effetti non sono mancati i tentativi di spiegarne nascita e diffusione ricorrendo all’armamentario tipico della psicologia. Nel suo “Nationalismus. Psychologie und Geschichte”, Eugen Lemberg chiama in causa tutta una serie di fattori psicologici, dal bisogno di affermazione spirituale al senso di appartenenza al desiderio di elezione, dalla dedizione del singolo alla causa del gruppo al senso del sacrificio a fronte di una minaccia, tutti fattori che spiegano bene, a un livello assai elementare, il bisogno di comunità che costitutivamente appartiene all’uomo, ma che non si comprende in


che misura possano riguardare specificamente il nazionalismo, se non nel senso di una loro degenerazione patologica. Il nazionalismo ha perciò più a che fare con un generico senso di frustrazione, con un senso d’inferiorità più o meno dichiarato, che non con il bisogno di radicamento e di comunità. Nel suo intimo, il nazionalista vive costantemente accerchiato. Ha sempre bisogno di sentirsi difeso, vede minacce ovunque. Tende a non fidarsi. Insomma, è un individualista nevrotico. E sull’individualismo non si costruisce nessuna solidarietà effettiva” (9). NAZIONALITÀ E IUS SOLI Il principio che si configura come massima espressione di civiltà, relativamente allo ius soli, è molto semplice: “Chiunque nasca in un dato paese e sia soggetto alla sua giurisdizione ha diritto alla cittadinanza”. Il distinguo sulla giurisdizione vale per i diplomatici e i militari che dovessero concepire un figlio mentre prestano servizio all’estero. Dall’assunto, poi, nascono molti altri distinguo che vedono posizioni contrastanti anche tra chi ne sia un convinto sostenitore, per lo più riguardanti la molteplicità di situazioni che possono scaturire dalla presenza di stranieri in un dato paese. Come ho scritto innanzi, però, vi sono principi nobili che vengono vanificati dalla realtà contingente e per questa materia ci troviamo proprio in siffatta situazione. Non basta, infatti, che un principio sia valido teoricamente per conferirgli dignità legislativa: occorre che lo stesso sia adottato proprio in virtù della sua essenza (e non per fini reconditi, magari di dubbia eticità) e che i proponenti abbiano piena dignità operativa nell’esercizio delle proprie funzioni. (Una cosa “giusta” deve essere fatta da una persona “giusta”. Se la persona è “sbagliata” perde efficacia l’azione compiuta). Vi è anche un altro aspetto da tenere in considerazione: non si può disattendere in toto la volontà popolare, seppur essa appare distonica rispetto ad aspetti valoriali che sono facilmente accettabili da una classe sociale culturalmente evoluta, ma minoritaria. Scrivo questo paragrafo dell’articolo mentre al Senato si accingono a dibattere sulla legge che prevede lo ius soli “temperato” e lo ius “culturae”, definizioni tipiche delle contorsioni lessicali tanto care ai politici italiani. Non seguirò il dibattito che, more solito, si trasformerà in bagarre insulsa, considerato il livello dei soggetti agenti e l’attenzione precipua agli interessi di bottega piuttosto che ai presupposti di civiltà. Cerchiamo di capire, quindi, la vera essenza del problema al di là delle chiacchiere strumentali. Non è questo il momento per approvare una legge in materia, seppur fosse valida in linea di principio, cosa per giunta non vera per quella proposta. Stop. Il testo presentato al senato è un pastrocchio senza capo né coda perché contempla lacci e lacciuoli concepiti ad arte per buttare fumo negli occhi su tutti i fronti. Quando si tenta di accontentare tutti, non si accontenta nessuno. Lo ius soli o è “classico” o non è. E’ palese, del resto, il fine strumentale dei proponenti, di natura prettamente elettoralistica. Il momento particolare – emergenziale e purtroppo destinato a mantenersi tale ancora a lungo, dilatando il concetto etimologico del termine “emergenza” – impone la


massima prudenza e la massima attenzione su talune scelte e provvedimenti. E’ senz’altro giusto e legittimo provvedere alla manutenzione della propria villa curando il giardino e provvedendo all’acquisto di bei quadri, di buoni libri e di tutto ciò che rende gradevole un’abitazione. Dubito, però, che ciò sia possibile quando la villa presenti problemi strutturali, sia stata danneggiata da una scossa sismica o da un incendio. La stabilizzazione dei flussi migratori, necessariamente, deve costituire una priorità. Senza tanti giri di parole, poi, occorre anche preoccuparsi di “stabilizzare”, in modo serio e compiuto, il Medio Oriente e quei paesi del continente africano in mano ai vari dittatorelli. La politica del tirare a campare è dissennata, perché prima o poi il fiume già impetuoso si trasformerà in un oceano tempestoso che travolgerà tutto e tutti. I problemi reali, inevitabilmente, condizionano non solo l’umore delle persone ma anche l’equilibrio psicofisico. Non è esagerato sostenere che la maggioranza del popolo italiano è smarrita e devastata interiormente. Quello che segue è un sondaggio recente, effettuato dai sociologi del sito “Termometro politico” ai primi di luglio. Il 63,6% degli italiani è contrario allo ius soli, senza distinzioni di sorta e a prescindere da ogni variabile legislativa. Lo scorso 4 dicembre, il referendum sulla riforma istituzionale vide trionfare il “NO” con il 59,1% dei consensi. L’84,7% degli elettori che hanno votato “NO” è contraria allo ius soli. Tra quelli che hanno votato “SI’”, invece, (40,9%), è contrario un non trascurabile 32%. Di fatto è il solo elettorato del PD e della ridotta area della sinistra radicale a essere favorevole! Un dato ancora più significativo è quello che riguarda il diritto alla cittadinanza per i genitori dei bambini eventualmente beneficiati dallo ius soli: l’86,5% degli italiani non ammetterebbe deroghe nemmeno in questo caso!!! Niente cittadinanza ai genitori! Il 58,1% degli italiani, inoltre, ritiene che la proposta di legge sia finalizzata solo ad accrescere il voto ai partiti di governo, in particolare del PD. I dati non necessitano commenti e fotografano un quadro sostanzialmente sconcertante nella sua drammaticità, anche perché, molto probabilmente, le percentuali scaturite dal sondaggio risulterebbero ancora più alte se si allargasse sensibilmente l’area d’indagine. E a questo punto vi è poco da aggiungere: non è lecito sperare nel buon senso di chi ci governa e il popolo disorientato brancola nel buio, alternando il proprio consenso ai vari soggetti in campo senza rendersi conto che, in mancanza di una vera rivoluzione epocale, a prescindere dai risultati, saranno sempre “tutti loro” a vincere e a suonar la quadriglia. Nella foto che sovrasta il titolo vi è la nostra galassia, la Via Lattea, che è solo una tra i miliardi di galassie che si sono sprigionate dopo il famoso Big Bang. Il suo diametro si misura con un numero che non avrei mai saputo pronunciare senza l’ausilio di un convertitore automatico. All’interno della galassia vi è il nostro Pianeta. E’ praticamente impossibile scorgerlo a meno che non s’ingrandisca la foto con una dimensione pari a quella di un continente! E forse non basta. Pazzesco, vero? Quando guardo quella foto e penso a tutto ciò che accade sulla Terra, per evitare d’impazzire socchiudo gli occhi e cavalco tempo e spazio raggiungendo “amici sinceri” in un vecchio bistrot di Montmarte. E’ bello vederli tutti insieme, anche loro in fuga dal Tempo: Celine, Rimbaud, Verlaine, Chenier,


Baudelaire, Brasillach, Gauguin, Brel e tanti altri. Sorseggiamo qualche bicchiere di assenzio, alternando poesia e canto, senza parlar d’altro. Bastano pochi attimi di quella fuga per tornare a sorridere. Del resto, sosteneva ancora zio Erasmo: “La vita umana non è se non una commedia, in cui ognuno recita con una maschera diversa, e continua nella parte, finché il gran direttore di scena gli fa lasciare il palcoscenico”. Magari qualcuno amerebbe recitare solo a teatro o su un set cinematografico e non pensa che la vita sia una commedia, ma sicuramente è uno che pensa male e deve ancora capire il mondo. Chissà che ne è stato dello ius soli, intanto. Forse stanno ancora parlando. O forse si sono stancati. E’ tempo di mare, dopo tutto. NOTE 1) “Elogio della follia”, Erasmo da Rotterdam. Il titolo del saggio è quello generalmente in uso. Il testo in mio possesso, edito da Einaudi nel 1978 e dal quale ho tratto alcuni spunti per questo articolo, è invece intitolato: “Elogio della pazzia”. 2) Sesto seminario nazionale di studi della Nuova Destra a Passo dell’Acqua (PG), 23-24 febbraio 1991. Atti pubblicati nel numero 158 di “Diorama Letterario”, giugno 1992. 3) Non sorprenda la posposizione di Machiavelli e Guicciardini a Giordano Bruno, nonostante i secondi precedano temporalmente il primo. A mio avviso, e contrariamente al pensiero diffuso, nell’opera di Giordano Bruno vi è un più marcato sentimento unitario rispetto a quanto non traspaia soprattutto in Machiavelli, per il quale l’unità d’Italia, sostanzialmente, si configurava come estensione del potere di Firenze. 4) “Nazionalismi e neonazionalismi nella storia d’Italia”. Articolo di Alberto Mario Banti pubblicato sul numero 2 di Limes del 2009: “Esiste l’Italia? Dipende da noi”. 5) “La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933). Edizione più recente: “Il Mulino”, 2009. 6) Ispirato da Altiero Spinelli durante il confino nell’isola di Ventotene, costituisce il primo documento ufficiale che prefigura la necessità dell'istituzione di una federazione europea, gettando le basi per la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa. 7) La vicenda del Generale Castellano è surreale anche nella parte più nota, quella che lo vide come un burattino nelle mani di Badoglio. Il dato più “comico”, comunque, si ebbe dopo la firma. Mentre stringeva la mano al generale Smith, con piglio serioso e convinto gli disse più o meno testualmente: “Bene, ora che stiamo dalla stessa parte mi consenta di darle utili consigli per fronteggiare adeguatamente l’esercito tedesco”. 8) www.europanazione.eu – Vedi il programma. 9) Alessandro Campi: vedi nota nr. 2 (Confini, Nr. 56 – Luglio/Agosto)


PAURA DELLE OMBRE: O È STRUMENTALE O È PSICOPATOLOGIA Egregi parlamentari che vi accingete a votare una legge che dovrebbe punire “l’apologia di fascismo”, chi vi parla, con animo sereno e sorriso sulle labbra, è un giovanotto di sessantadue anni che ha militato nel MSI, fino alla metà degli anni ottanta, senza mai definirsi fascista. Di fascisti ne ho conosciuti tanti, ovviamente, serenamente stimandoli e apprezzandoli quando il loro comportamento era tale da meritare rispetto e stima. Non so se ciò costituisca reato e chiedo lumi; del fascismo, alla pari di “tutte le epoche storiche”, sono uno studioso, essendo un appassionato di storia. Le passioni insorgono spontanee: poteva capitarmi di appassionarmi alla botanica, al giardinaggio e all’orticoltura, attività nobilissime che vedo praticare con grande perizia da alcuni amici, invidiandoli un po’ – sono una vera frana nel giardinaggio e il mio orticello fa semplicemente pena - ma non mi è capitato. Anche in questo caso spero di non incorrere nei rigori della legge! Ho avuto il privilegio, inoltre, di relazionarmi con personaggi che nel famigerato ventennio hanno occupato ruoli più o meno importanti, a cominciare da Giorgio Almirante, che mi fece crescere in un attimo, e di molto, insegnandomi una fondamentale regola quando, da ventenne un po’ ingenuo come tutti gli idealisti, protestai per delle ingiustizie subite e non adeguatamente represse: “Nella vita non basta avere ragione, bisogna anche sapersela prendere”. Evito di citare la lunga lista, tra l’altro facilmente intuibile, con l’unica eccezione del mio più caro amico, Michele Falcone, che essendo nato tre giorni dopo quel famoso otto settembre 1943, gli ideali fascisti li assimilò per retaggio ancestrale e condizionamento familiare, come avvenuto per tante persone della sua generazione. Il suo stile di vita merita un pubblico encomio perché, da sempre e spero ancora a lungo, si può caratterizzare con una sola parola: irreprensibile. La statura etico-morale, supportata da un alto livello culturale, gli ha consentito e gli consente di raggiungere vette esistenziali davvero ragguardevoli e invidiabili. Non posso fare a meno di citare due episodi: nel 1985, da consigliere provinciale in carica, non esitò a cedermi il suo collegio vincente perché riteneva giusto che “le mie qualità” fossero valorizzate con un ruolo più importante di quelli esercitati: segretario di sezione, dirigente provinciale, presidente provinciale Consulta Corporativa. Fu preso per pazzo e fummo “commissariati” entrambi dall’allora segretario regionale del partito: “anche” a destra, infatti, molti avevano difficoltà tanto a concepire l’attività politica come servizio per favorire il bene comune quanto a delegare i vari ruoli esclusivamente alle persone capaci e meritevoli. Recentemente, in occasione della presentazione del romanzo “Prigioniero del Sogno”, mi ha fatto un bellissimo regalo, che mi ripaga ampiamente per i sacrifici compiuti al fine di restare sempre con la schiena dritta, mutuando a mio favore una frase tratta da un’opera di Eutropio, da Pirro pronunciata riferendosi al console Fabrizio: “Ille est Pasquale, qui difficilius ab onestate quam sol a cursu suo averti potest”. (Gli amici d’infanzia mi chiamano con il nome anagrafico).


Egregi parlamentari, sono franco di cerimonie – lo sono stato da giovane, figuriamoci ora – e senza tanti giri di parole, pertanto, vi dico semplicemente che la legge in discussione si può definire solo con la fantozziana espressione: “Una cagata pazzesca”. Ho avuto già modo di leggere qualificati e autorevoli pareri che ne mettono in luce le distonie costituzionali, considerandola poggiata sul nulla. Li condivido in pieno, ma non li ribadirò: il solo prendervi sul serio, a mio avviso, conferisce alle vostre azioni una dignità e una legittimazione che non meritano. Non m’interessa sottolineare la vacuità del provvedimento, ritenendo che esso possa rispondere solo a due logiche: una palese azione strumentale protesa ad allontanare l’attenzione dai problemi reali o turbe psicotiche da frustrazione esistenziale. Se qualcuno ha realmente paura delle ombre è bene che si affidi a un bravo psicanalista. A me non fanno paura “le condotte meramente elogiative, o estemporanee che, pur non essendo volte alla riorganizzazione del disciolto partito fascista, siano chiara espressione della retorica di tale regime, o di quello nazionalsocialista tedesco”. E non mi fanno paura i gadget sulle bancarelle, venduti a pochi euro o gli ultraottantenni che vanno in pellegrinaggio a Predappio. Mi fate paura, e non poco, invece, voi tutti per come avete ridotto questo Paese; per la facilità con la quale legiferate a esclusivo vantaggio dei potentati che vi sostengono, incuranti delle sofferenze di un intero popolo. Mi fanno paura il vostro cinismo, i vostri limiti etici e culturali, la vostra immorale condotta pubblica e privata. In poche parole, egregi parlamentari, a me fate paura, e anche molto schifo, esclusivamente voi. Non vi è nessun “rischio” di rigurgito del fascismo, in Italia. Vi è invece, e da troppo tempo, un solo pericolo reale: la vostra presenza in Parlamento. Lo so, è colpa precipua di chi vi ha votato. Ma questo è un altro discorso. (Confini, Nr. 56 – Luglio/Agosto) Lo stesso articolo replicato anche sul Secolo d’Italia – 11 luglio.


VITTORIO MUSSOLINI: QUANDO IL COGNOME CONDIZIONA LA VITA Sono trascorsi venti anni dalla morte di Vittorio Mussolini (Milano, 27 settembre 1916 – Roma, 13 giugno 1997), secondogenito di Benito e importante testimone delle vicende belliche che caratterizzarono la parte finale della seconda guerra mondiale. Lino Lavorgna l’ha incontrato nel 1983 e i ricordi di quell’incontro saranno parte integrante di un saggio di prossima pubblicazione. Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo un estratto del capitolo a lui dedicato.(A. R.) Prima di esternare i ricordi dell’incontro con Vittorio e Romano Mussolini, avvenuto nel novembre del 1983, è opportuna una premessa per ben contestualizzare quegli anni che, seppure non eccessivamente lontani dal punto di vista temporale, sembrano appartenere alla preistoria, in virtù delle radicali trasformazioni sociali avvenute nell’ultimo trentennio. Che il Movimento Sociale Italiano fosse nato dalle ceneri del fascismo è un dato di fatto incontrovertibile. Parimenti, lo scontro generazionale che avvenne dagli anni sessanta agli anni ottanta, vedeva ideologicamente contrapposti i giovani di sinistra, per i quali era normale definirsi “comunisti”, e i giovani di destra, che in massima parte si definivano “fascisti”. La società, dal punto di vista politico, era ancora caratterizzata da un confronto ideologico, che, nelle punte estreme, sfociò nei sanguinosi eventi degli anni di piombo, forieri d’immani tragedie (1). La deideologizzazione della società inizierà nel 1993, quando Berlusconi, fondando “Forza Italia”, impresse una svolta radicale ai costumi e alla mentalità del Paese, amplificando sensibilmente un’attività già avviata anni addietro con le emittenti televisive. La vecchia destra missina fu assorbita dallo spregiudicato imprenditore e costretta ad adeguarsi rapidamente al nuovo corso. Anche la sinistra dovette reinventarsi, per restare al passo, allontanandosi velocemente dall’ombra comunista, proprio come la destra aveva fatto con quella del fascismo. L’analisi storiografica del profondo processo di trasformazione sociale non è oggetto di questo saggio. Qui ci fermiamo agli anni precedenti, dando risalto ai confini generazionali, che vanno scrutati con attenzione per comprendere il vorticoso salto epocale. La generazione degli anni quaranta e cinquanta, sotto un profilo strettamente antropologico, era molto più vicina ai genitori e ai nonni (2) che non ai figli e nipoti, futuri protagonisti della rivoluzione tecnologica. Il senso di appartenenza, dal dopoguerra agli anni ottanta, era molto forte e consentiva di anteporre l’amore nei confronti della causa che si riteneva giusta a qualsiasi altra cosa. Non si registravano, di fatto, sostanziali differenze comportamentali nella venerazione tributata ai vari personaggi politici ritenuti degni di massima stima e considerazione, rispetto a quanto accaduto con Mussolini, capace di conquistare cuore e anima delle classi medie e dei proletari non chiaramente orientati a sinistra. (L’alta borghesia e i potentati economici, come noto, si votarono al fascismo con la razionalità di chi sceglie sempre per convenienza). Un esempio utile a comprendere le affinità tra i due periodi lo troviamo in una cronaca del gerarca Bottai, comandante di Battaglione durante la


campagna d’Etiopia, nel 1936. Sugli elmetti dei soldati vi erano scritte inneggianti al Duce e al Re, per i quali si era pronti a sacrificare la vita, considerando ciò “un grande onore”. Sintomatica una delle frasi citate, letta sull’elmetto di un semplice soldato: “Se vivo, voglio vivere all’ombra della mia bandiera. Se muoio voglio essere crocefisso all’asta della mia bandiera”. Ancora più esplicativa la lettera di un vecchio caporal maggiore, che aveva prestato servizio alle dipendenze di Bottai nella I Guerra mondiale e gli scrive, rammaricato, per il “disonorevole” ruolo del figlio, assegnato, “contro la sua volontà”, a un reparto delle retrovie e con mansioni di ufficio! La lettera si conclude con una precisa esortazione per un immediato trasferimento al fronte, meglio se nel Battaglione da lui comandato! “Bravo fesso”, esclamò il Generale Bertini, quando Bottai gli riferì della lettera. Non siamo lontani, pertanto, dallo spirito dei soldati napoleonici e si potrebbe andare ancora oltre, scorrendo all’indietro le pagine della storia. I ventenni degli anni settanta, se non proprio in modo così marcato, erano pervasi dagli stessi fremiti ideali, soprattutto nelle frange di destra e sinistra. L’area di governo era dominata dalla DC e dai partiti satelliti che costituirono il famoso “pentapartito”. Quest’area governativa, avviando il processo di ricostruzione del Paese, si rese conto ben presto delle grosse opportunità offerte dalla politica per l’arricchimento personale. Una gestione “allegra” del potere e le collusioni con le varie mafie furono la normale conseguenza di questa consapevolezza. Le organizzazioni criminali assicuravano consistenti pacchetti di voti, ottenendo in cambio protezioni e libertà d’azione (3). Il marciume imperante veniva contrastato proprio dalle frange estreme, che lottavano un nemico comune oltre che lottarsi reciprocamente. Le scelte di campo scaturivano da due fattori primari: ambiente sociale e familiare, retaggio ancestrale. Una destra che si era sviluppata grazie a ex fascisti, fungeva da richiamo per coloro che avvertivano un forte senso della patria, dell’onore, della famiglia. Tanti giovani, che del fascismo non sapevano nulla e soprattutto non lo avevano nemmeno approfondito culturalmente, iniziarono a professarsi tali per riflesso condizionato. Vi è da aggiungere che il leader del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, era un uomo che esercitava un forte fascino per la straordinaria statura etico-morale, per l’onestà intellettuale e per il forte contrasto agli orrori della partitocrazia dominante. Non rinnegava le radici e ciò indusse ancor più gli adepti a vedere incarnati nel fascismo i princìpi e i valori di cui si sentivano portatori. La componente che prese maggiormente corpo, però, fu quella “emozionale”, non scevra di anacronistico nostalgismo, celebrato con riti destinati inevitabilmente a essere schiacciati dal fluire degli eventi di un mondo in rapida trasformazione. Dal lato opposto, il Partito Comunista, pur alimentando il mito del riscatto sociale con pari enfasi e furore ideologico, riuscì a meglio strutturarsi sul territorio, traducendo sul piano pratico gli insegnamenti di Antonio Gramsci. Lo studio e la cultura furono considerati elementi fondamentali per la conquista del potere e gli eccellenti risultati di tali presupposti si vedranno nel giro di pochissimi anni. Nella destra, per la verità, non mancavano i soggetti culturalmente validi, ma non ebbero la forza di emergere da uno stadio di subalternità nei confronti della classe


dirigente del MSI, che beneficiava della luce assicurata da Giorgio Almirante, il quale intuì che gli “intellettuali puri”, politicamente, non avrebbero mai ottenuto il consenso delle masse, senza però arrivare a prevedere ciò che sarebbero stati capaci di fare i figli prediletti, una volta che le mutate condizioni politico-sociali avrebbero consentito loro di conquistare il potere. Ogni tentativo di evoluzione verso una nuova destra che regolasse i conti con il passato e iniziasse a guardare al futuro fu stroncato sul nascere e visto come l’azione di visionari non allineati, quasi dei rinnegati. I nodi, poi, vengono sempre al pettine e oggi, di fatto, in Italia non esiste una vera destra sociale, moderna ed europea. Nonostante la mia posizione minoritaria e la forte conflittualità interna, nel 1983 riuscii a vincere le elezioni per il ruolo di Segretario Cittadino a Caserta. Esercitando già quello di dirigente provinciale, nel settore della comunicazione, che allora si chiamava “stampa e propaganda”, nonché quello di presidente della Consulta Provinciale Corporativa (4), toccò a me fare gli onori di casa quando Vittorio e Romano Mussolini vennero a Caserta nell’ambito del tour organizzato in onore del padre a cento anni dalla nascita. Nel mio secondo canale “YouTube” è possibile visionare l’intervista effettuata presso un’emittente televisiva locale, purtroppo mal gestita dal giornalista, che si accontentò di essere ripreso insieme con il figlio del Duce, ponendogli domande non particolarmente interessanti. Nelle ore successive all’intervista, fortunatamente, ebbi modo di parlare a lungo con il “Comandante”. (Così era generalmente chiamato Vittorio, in ossequio al ruolo esercitato durante la Guerra d’Etiopia). Romano era già ripartito per Roma, non prima di avermi fatto omaggio di un ritratto del padre, da lui dipinto. Mi ero prefisso di porre domande che potessero aggiungere qualcosa di nuovo al tanto già noto. Cercai, in poche parole, di scandagliare l’anima, partendo dai fatti, per comprendere le sfumature di una vita intensa e movimentata, vissuta all’ombra di un uomo capace di scatenare un isterismo collettivo che portò le masse a idolatrarlo, affidandogli senza indugio il bene più prezioso: la vita. Per iniziare sfruttai argomenti che potevano creare una facile empatia: il cinema e il giornalismo, le due grandi passioni. Gli rivelai che avevo iniziato l’attività giornalistica a diciassette anni, come corrispondente del “Secolo d’Italia” e che il primo tesserino portava la firma di un uomo che ben conosceva: Nino Tripodi. Gli dissi poi che ero un attore, che avevo studiato regia e mi sarebbe piaciuto, un giorno, dirigere un film, “che penso sia una vera medicina per lo spirito”. Si concesse un tenue sorriso, molto rincuorante per me, giacché erano ancora palpabili il nervosismo per il pomeriggio televisivo e la stanchezza per i due intensi giorni. “Dipende” – rispose quasi bisbigliando. “Come per tutte le cose è solo lo scopo che fa la differenza”. Il ghiaccio si stava sciogliendo e partii all’attacco. Gli chiesi come mai, in piena guerra (1942), scrisse un soggetto per un film dedicato a Luisa Sanfelice, apprendendo che era stato abbozzato già da molto tempo, dopo aver letto il romanzo di Alexander Dumas Padre, che amava moltissimo e del quale aveva divorato tutti i romanzi. Lentamente riuscii a tirare


fuori interessanti aspetti della complessa personalità. Manifestò un larvato interesse per la Rivoluzione Francese, pur essendo consapevole dei guasti provocati dall’illusione illuminista. Non gli sfuggivano le nette differenze tra i Francesi del Direttorio (e loro predecessori) e i Giacobini italiani, nonostante le forti affinità di pensiero, ma dalle sue parole s’intuiva che era attratto principalmente dai personaggi e dalla loro aura romantica. Della Sanfelice, per esempio, gli piaceva “la straordinaria capacità di essere donna, nel senso più pieno della parola, e allo stesso tempo rivoluzionaria”. Questa divagazione mi colse un po’ di sorpresa e mi avrebbe fatto piacere approfondirla, ma la mia mente brulicava di domande concentrate soprattutto nel periodo storico che lo vide in qualche modo protagonista e così evitai di andare oltre, essendo più interessato alla stretta collaborazione con il padre nella fase finale della guerra e alle impressioni maturate durante gli incontri con Hitler e i gerarchi nazisti. Mi resi conto, però, che avevo ancora bisogno di arare il terreno, prima di sollecitare la memoria di momenti tristi e dolorosi. Gli chiesi della madre, dei fratelli e delle sorelle, dell’adolescenza a Villa Torlonia e delle frequentazioni giovanili nella Roma degli anni trenta, ottenendo risposte che non aggiungevano nulla di nuovo a quanto già abbondantemente riportato dalla pubblicistica dedicata al regime. Con la campagna d’Etiopia entrammo, finalmente, in un contesto più intrigante e notai subito, sin dalle prime domande, un irrigidimento della postura, tipico di chi si appresta a giocare in difesa, mentre fino a quel momento era apparso più disteso. Gli chiesi se fosse stato il padre a suggerirgli (o a imporgli) di arruolarsi volontario, nel 1935, e il “no” fu pronunciato chiaramente, ma con un tono che lasciava sottintendere un pensiero non espresso. “No, non mi ha costretto né me l’ha suggerito, ma so che ne è stato felice” (5). Non era più il momento di indugiare. Gli chiesi se a distanza di tanti anni ritenesse giusto attaccare uno stato sovrano, riconosciuto dalla Società delle Nazioni, per sottometterlo solo in virtù della preponderante forza militare. Si concesse una lunga pausa prima di rispondere: si stava rendendo conto che sarei andato molto più a fondo di quanto non fosse accaduto durante l’intervista televisiva e ciò sicuramente gli faceva piacere; ebbi netta la sensazione, però, che si chiese fino a che punto mi sarei spinto. Parlò a lungo della campagna d’Africa, sforzandosi soprattutto di contestualizzarla, con continui riferimenti ai colonialismi degli altri Paesi, che “a differenza dell’Italia avevano possedimenti non solo in Africa ed Europa” (6). Le peculiarità del periodo storico furono ribadite con determinazione e non mancarono riferimenti espliciti a quanto dichiarato dal padre nel corso degli anni, sui singoli argomenti. Mi chiese se io possedessi “l’Opera Omnia” che riportava quasi tutti gli scritti e i discorsi di Mussolini e alla risposta affermativa mi invitò a leggere l’intervista rilasciata dal padre al giornalista francese Henry de Kerillis, nel 1935. Il concetto di colonia era fortemente radicato nella mentalità dell’epoca, associato allo spirito competitivo tra le varie nazioni, che generava un complesso d’inferiorità in quelle che ne possedevano di meno. I colonizzati erano visti come


esseri inferiori da sottomettere alla volontà dei colonizzatori, nei quali persisteva la mentalità schiavista e il desiderio di sfruttare il prossimo per il proprio personale tornaconto. Quello che oggi appare come un’aberrazione di menti malate, rozze e non evolute, allora era del tutto normale in larghi strati della società, a prescindere dalle idee politiche professate. Non potei fare a meno di chiedergli cosa pensasse dei gas utilizzati da Badoglio e Graziani, su precisi ordini del padre. La domanda lo turbò e dapprima tentò di glissare, asserendo che si era esagerato con questa storia e che non ne aveva mai avuto sentore, durante la permanenza in Etiopia. Obiettai che vi erano documenti storici inconfutabili, tra l’altro riportati proprio nella corposa “Opera Omnia” di cui aveva fatto cenno prima, e che oramai non vi potevano essere dubbi circa il loro utilizzo. “I nostri nemici – replicò, ammettendo implicitamente che l’argomento non gli era oscuro - dimostrarono in più di un’occasione che erano in grado di metterci in difficoltà. Il territorio era molto vasto e vi era urgenza di chiudere la partita. Se Badoglio e Graziani utilizzarono i gas, vuol dire che non ne potevano fare a meno”. Non tragga in inganno la durezza della frase. Il conflitto interiore tra “l’uomo in quanto tale” e il “figlio del duce” era palpabile, sia attraverso le parole e il tono utilizzato nel profferirle sia nell’espressività corporea e nello sguardo, che trasmetteva un messaggio recondito, tra l’altro ben percepibile nel video dell’intervista: “Ma cosa volete da me? Cosa vi aspettate? Sono trascorsi oltre quaranta anni da quei tragici momenti che mi hanno visto, giovanissimo, confrontarmi con uomini che hanno scritto, nel bene e nel male, drammatiche pagine di storia. E prima di ogni cosa io sono il figlio di mio padre”. Percepii questo pensiero quando l’amico Michele Falcone, il capo della Federazione Provinciale del partito, mi fece cenno che avevo solo altri quaranta minuti a disposizione e poi sarebbero venuti a prenderci per la cena in un affollato ristorante, nel quale, inevitabilmente, non averi avuto la possibilità di dialogare ancora costruttivamente con lui. Non era il caso di insistere sulle vicende d’Etiopia e saltai subito al periodo della Repubblica Sociale, che lo vide al fianco del padre con un importante ruolo fiduciario. Il dato che volevo approfondire riguardava il giudizio ex ante, su quell’esperienza, e le eventuali mutazioni avvenute ex post. Era stato un amico intimo di Pavolini e Farinacci; era il cognato di Galeazzo Ciano; aveva avuto incontri riservati con Hitler e von Ribbentrop, oltre che con alti gerarchi nazisti e fascisti; aveva conosciuto i membri del Gran Consiglio e tanti alti dignitari che, grazie alla benevolenza conquistata con la loro fedeltà al regime, si trasformarono nei classici dittatori di provincia, alieni a ogni regola, mai paghi nell’accumulo di ricchezze e prebende e costantemente sotto l’effetto di quella terribile droga che si chiama delirio di onnipotenza. Cosa pensava ora, di siffatti personaggi? “In alcuni testi ho letto che ha fortemente sostenuto Pavolini per la nomina a segretario del Partito Fascista Repubblicano; in qualche intervista, invece, ha dichiarato che sarebbe stato scelto in virtù del forte legame di amicizia con Ciano, quasi sperando che potesse giungere da lui quel gesto di clemenza che egli


sentiva di non poter compiere, per non irretire Hitler. Qual è la verità?” Si concesse una lunga pausa prima di rispondere e poi affermò che “la verità, come sempre, sta nel mezzo”, confermando che aveva sponsorizzato Pavolini per i vincoli di amicizia, ma che sicuramente nelle intenzioni recondite del Duce vi era la speranza “che l’amico non si dimenticasse dell’amico” (7). Evitai di chiedergli, però, che nella monumentale opera in quattro volumi di Silvio Bertoldi, dedicata alla Repubblica Sociale (8), è scritto che il Duce “scelse Pavolini senza entusiasmo, spinto a ciò soprattutto dal figlio Vittorio, che con Pavolini ha un fresco sodalizio di programmi e forse d’interessi”. I programmi erano chiari: l’idem sentire sul nuovo corso del fascismo, tarato sui diciotto punti del programma varato a Verona, con i quali si cercò d’infondere una dimensione sociale alla repubblica, sancendo il primato del lavoro sul capitale e la lotta al capitalismo. (Le aberrazioni razziste contenute nell’articolo sette, però, ne inficiarono irrimediabilmente ogni valenza). In quanto agli interessi, forse non andavano al di là di qualche progetto legato al mondo del cinema. Sui rapporti con Hitler e con i principali gerarchi nazisti non era mai trasparso nulla d’interessante. Era al fianco di Hitler, a Rastenburg (oggi Kętrzyn), quando il Duce vi giunse dopo la liberazione nel rifugio di Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Gli chiesi cosa avesse provato in quel momento e cosa pensasse degli scomodi alleati. Non so fino a che punto rivelò un pensiero maturato nel tempo o concepito già durante il periodo bellico; fatto sta che, una volta tanto, venne meno la costante attenzione nel misurare le parole e nel precisare che i concetti espressi andavano contestualizzati, per evitare di cadere nella trappola delle analisi postume condizionate dai pregiudizi. “Contrariamente a mia sorella Edda, che non ha mai mancato di manifestare la simpatia nei confronti di Hitler e della Germania, io ero su posizioni ben diverse. Bisogna considerare che nel 1940 avevo solo ventiquattro anni, mentre Edda ne aveva già trenta e da dieci era la moglie dell’uomo che aveva firmato, sia pure con riluttanza e senza convinzione, il “Patto d’acciaio” (9). Nel 1937 mi recai a Holliwood, e ne restai incantato. Il pensiero di fare una guerra contro gli Americani non mi allettava di certo. Hitler… (lunga pausa) non basterebbe una giornata per parlarne”. “A me basta sapere solo quello che provava quando lo vedeva”. “Non mi piaceva, questo posso dirlo con assoluta sincerità, ma allo stesso tempo, come tanti, ne percepivo il forte magnetismo. E poi vi era un fatto che condizionava molto la percezione che avevo di lui: i sentimenti di amicizia e di ammirazione nei confronti di mio padre. Hitler era sempre severo e glaciale e vedere quel repentino cambio di tono e di atteggiamento quando parlava con mio padre, non poteva lasciarmi indifferente. Ciò premesso mi sono state sempre chiare le differenze sostanziali tra fascismo e nazismo… ma ora sarebbe troppo complicato scendere nei dettagli”. “E di Goebbels cosa dice?” “Era un folle, più di Hitler”.


“Tra i suoi più cari amici vi era Farinacci, di cui si ricordano precipuamente i poco edificanti aspetti caratteriali e comportamentali. Dalla bufala della mano persa durante un’esercitazione bellica (10) al tentativo di convincere Hitler a metterlo al posto del Duce, stendendo un velo pietoso su tutto il resto, cosa pensa di un uomo di modestissima cultura (11), capace comunque di conquistare consistenti fette di potere?” Un largo sorriso, evocativo di pensieri lontani, anticipò la risposta. “In realtà non ha mai avuto il potere cui ambiva e che spesso millantava. E’ vero che ha ottenuto molto più di quanto meritasse, ma ha pagato con la vita la dedizione al fascismo, forse pareggiando i conti. Non era tra i migliori, ma erano tanti quelli peggiori di lui ai quali è andata meglio, molto meglio”. E’ ora di andare via. “Comandante, un’ultima domanda: se avesse avuto modo d’incontrare l’ex generale Saverio Polito, cosa gli avrebbe detto?" S’irrigidì ed ebbe quasi un fremito di disgusto, che cercò di contenere. Non si aspettava quella domanda, ma riuscì a rispondere in modo secco e dignitoso, contenendo i tumulti interiori che comunque trasparivano. “Cosa gli avrei detto? Proprio nulla. Ai porci non si rivolgono parole” (11). Per tutto il tempo della conversazione gli era stato vicino, spesso stringendogli la mano, Monica Buzzegoli, la seconda moglie sposata in Argentina nel 1972, dopo la separazione con Orsola Buvoli, dalla quale aveva avuto due figli: Guido e Adria. Monica era una splendida cinquantenne, discreta e delicata, che dimostrava molti anni di meno. Il forte amore per il Comandante si percepiva a ogni sorriso. Un amore rivolto all’uomo e non certo al personaggio. Un uomo che ha saputo convivere con un difficile cognome, celando nei meandri più reconditi dell’animo i pur gravi tormenti che da esso sicuramente scaturivano. NOTE 1) Dal 1969 al 1988 circa 450 morti e oltre 2000 feriti. 2) Non sembri una forzatura, ma non erano distanti nemmeno dai bisnonni, con i quali si poteva arrivare alla metà del XIX secolo, il che voleva dire, considerata la lentezza nelle trasformazioni sociali di quel periodo, scivolare ancor più indietro nel tempo e non di poco. Le differenze sono sostanziali e marcano un confine netto tra le diverse concezioni della vita e le reciproche visioni del mondo. Per la generazione degli anni di piombo era del tutto normale correre il rischio di perdere la vita combattendo per le proprie idee e i giovani non coinvolti nella lotta armata guardavano ancora alla guerra come a un evento terribile ma possibile, che sarebbe stata combattuta, in caso di necessità, con la serena consapevolezza che pervadeva i patrioti del Risorgimento (quelli veri), i quali affrontavano il plotone di esecuzione cantando: “Chi per la Patria muor vissuto è assai. La fronda dell'allor non langue mai. Piuttosto che languir sotto i tiranni è meglio di morir sul fior degli anni”. In Irlanda del Nord, dalla fine degli anni sessanta alla fine degli anni ottanta, vi furono oltre tremila morti nell’impari lotta tra i volontari


dell’esercito repubblicano che anelavano all’indipendenza, mal armati e non certo esperti militari, e l’addestratissimo esercito inglese, i cui reparti speciali si macchiarono di efferati crimini. Le gesta di personaggi come Bobby Sands, che nel 1981 si lasciò morire di fame in un carcere, dei giovani idealisti dell’IRA, dei martiri del “Bloody Sunday”, oggi appaiono anacronistiche e incomprensibili a larghi strati della popolazione. E sono passati meno di quaranta anni, ossia meno di un soffio, nel caleidoscopio delle ere storiche. 3) In Sicilia, in particolare, si sviluppò in modo massiccio la collusione tra mafia e politica, che ben presto si sarebbe espansa in tutta la penisola. Emblematico fu l’assassinio del sindacalista Placido Rizzotto, ucciso a Corleone il 10 marzo 1948. L’omicidio fu notato dal giovane pastorello tredicenne Giuseppe Letizia, il quale, sconvolto, raccontò tutto al padre, che scambiò i tentativi di raccontare quello che aveva visto per un delirio febbrile e lo portò all’ambulatorio del dottor Michele Navarra, esponente di spicco della D.C., capomafia di Corleone e mandante dell’omicidio di Placido Rizzotto. Un’iniezione letale pose fine a una testimonianza scomoda e lo stato di totale subalternità da parte della povera gente nei confronti dei padroni non consentì nemmeno di alimentare un semplice sospetto. Al povero papà fu detto che era morto per cause naturali e tanto bastò. 4) Organismo, sia detto per inciso, molto defilato dal punto di vista operativo e con pochissimi adepti in quanto la forte caratura ideologica del partito relegava in secondo piano le tematiche di natura economica. Privilegiare il primato della politica sull’economia era senz’altro positivo, ma la riluttanza con la quale si affrontavano le problematiche economiche costituiva un serio problema. Il Corporativismo, reso spurio delle distonie extra-dottrinarie, presentava spunti di notevole interesse perché consentiva di superare la lotta di classe e legare in modo indissolubile due primari fattori produttivi: capitale e lavoro. Va aggiunto, per meglio inquadrare l’argomento nelle varie fasi storiche, che anche durante il ventennio funse più da bandiera propagandistica che da reale elemento di politica sociale. Osteggiato dalla Confindustria, al di là dei proclami reboanti che ne sancivano l’efficacia, fu ben presto coperto da una cortina di polvere. Giuseppe Bottai ne fu un convinto assertore, almeno fino al momento in cui Farinacci non gli disse: “Lascia un po’ stare il tuo corporativismo. Tanto, neppure Mussolini lo fa sul serio”. (Dal Diario di Bottai, Rizzoli Editore). Nel dopoguerra le tematiche del Corporativismo furono riproposte dall’economista Gaetano Rasi, Presidente dell’Istituto di Studi Corporativi e della Fondazione Ugo Spirito. Nel 1976 mi offrii di collaborare con l’Istituto, generando non poca sorpresa e vivo compiacimento, dal momento che di giovani non se ne vedevano in quel contesto. Meno di un anno dopo, ventiduenne, ebbi l’onore di scrivere il primo articolo sulla “Rivista di Studi Corporativi”, affiancando il mio nome a quello di eminenti studiosi e accademici, tutti ultraquarantenni. 5) Vittorio prese parte alla guerra d’Etiopia insieme con il fratello maggiore Bruno, capitano della 14ª Squadriglia Aerea “Quia sum leo”, cui anch’egli fu assegnato. 6) Affermazione non del tutto esatta perché dal 1901 al 1943 l’Italia fu beneficiaria di una concessione territoriale in Cina, sancita dal “Protocollo dei


Boxer”, firmato il 7 settembre 1901 dall'impero Qing e dall'Alleanza delle otto nazioni (Francia, Germania, Giappone, Impero austroungarico, Italia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) più Belgio, Paesi Bassi e Spagna, in seguito alla sconfitta cinese nella Rivolta dei Boxer. 7) Pavolini doveva tutto a Ciano, senza del quale non sarebbe mai emerso dal ruolo di gerarca di provincia. Ciano fu condannato a morte nel processo di Verona, insieme con altri quattro membri del Gran Consiglio che avevano votato la mozione “Grandi” nella seduta del 25 luglio. Mussolini avrebbe voluto salvare il genero, ma non poteva intervenire direttamente in quanto Hitler aveva fatto chiaramente intendere che i congiurati arrestati avrebbero dovuto essere fucilati. Il processo fu un abominio giuridico e una vera farsa in quanto non vi era alcun presupposto per la condanna: la seduta del Gran Consiglio, al di là delle trame che l’avevano condizionata, si era svolta nel pieno rispetto delle procedure che la regolamentavano. 8) La Repubblica di Salò – Storia, Documenti, Immagini - Compagnia Generale Editoriale, Milano, 1980-1981. 9) Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri dal 1936 al 1943, sottoscrisse nel 1939 il famoso patto che prevedeva aiuto politico, diplomatico e militare per la tutela dei reciproci "interessi vitali". Pur non essendo favorevole a legarsi “vita e morte alle sorti della Germania nazista” ma solo “a una politica di collaborazione perché, nella nostra posizione geografica, si può e si deve detestare la massa di ottanta milioni di tedeschi, brutalmente piantata nel cuore dell'Europa, ma non si può ignorarla”, non ebbe il coraggio di dimettersi e firmò il patto sia pur malvolentieri. Scrisse ancora nel diario che non era sicuro se augurare agli italiani una vittoria o una sconfitta tedesca. 10) Farinacci perse la mano destra mentre pescava con le bombe a mano in un laghetto nei pressi di Dessiè, il 4 maggio, un giorno prima della fine della guerra. Impose a coloro che erano con lui di tacere la verità e confermare la versione della ferita bellica, ottenendo in tal modo un vitalizio. Mussolini scoprì ben presto la bufala e lo costrinse a devolvere la pensione d’invalidità in beneficenza. Ettore Muti lo soprannominò “Martin pescatore”, l’uccello poco socievole, intollerante, sedentario, capace di restare per ore fermo in attesa di qualche preda. Tra le tante azioni ignominiose spicca la condotta tenuta dopo la seduta del Gran Consiglio del Fascismo: si presentò “pallido in volto e tremante di paura” alla sede dell’ambasciata tedesca, implorando di avere subito un pilota e un aereo a disposizione per fuggire in Germania, dopo aver indossato una divisa di ufficiale delle SS. 11) Sintomatico a tal proposito quanto scritto dal giornalista Adriano Bolzoni nel libro di memorie “La Guerra dei neri”, Ciarrapico Editore – 1981. Bolzoni era redattore del quotidiano “Il Regime Fascista”, dal “ras” fondato e diretto e cita uno dei tanti sfottò reperibili, già a partire dalla fine degli anni venti, su “Il Becco giallo”, settimanale ferocemente antifascista e antifarinacciano: “Non studiò in nessun luogo, ma in sei mesi conseguì licenza elementare, liceale e laurea in utroque”. La tesi per la laurea in Giurisprudenza fu acquistata da Stefano


Marenghi, laureatosi a Torino nel 1921, e copiata di sana pianta. Smascherato, si giustificò asserendo che fu costretto a copiare, essendogli stato impedito dai soliti docenti antifascisti di presentare la tesi da lui redatta, dal titolo eloquente: “La somministrazione di olio di ricino ai sovversivi da parte dei fascisti non può essere considerata violenza privata ma semplice ingiuria o, nella peggiore delle ipotesi, minaccia lieve.”. 12) Nella speciale classifica dei tantissimi loschi figuri che riuscirono a cavalcare il ventennio e il post-fascismo, restando sempre a galla, Saverio Polito occupa posizioni di primo piano. Entrato in Polizia negli anni trenta, divenne funzionario dell’OVRA, la Polizia segreta del Regime, riuscendo persino a entrare nella fascia stretta degli amici e della famiglia del Duce. Caduto il fascismo, passò in un baleno agli ordini di Badoglio, che gli conferì il grado di Generale di Brigata e di capo della Polizia Militare del Comando Supremo, facendogli compiere uno sbalzo di carriera che non si era visto nemmeno negli eserciti napoleonici: era solo il capo della IV zona operativa dell’OVRA, che comprendeva le regioni Umbria e Abruzzo-Molise, dove non è che avesse tanto lavoro da svolgere. Fu lui che scortò Mussolini, dopo l’arresto a Villa Savoia, a Gaeta, Ventotene e Ponza. E fu lui, soprattutto, che andò a prelevare Rachele Mussolini a Villa Torlonia, il 2 agosto 1943, per condurla a Rocca delle Caminate. La moglie del Duce aveva cinquantatré anni, un’età che, insieme con i tragici eventi della sua tormentata vita, aveva affievolito, e non di poco, lo splendore giovanile. Lungo il tragitto, messosi accanto a lei nei sedili posteriori, rivelò la sua spregevole indole, importunandola continuamente e obbligandola a masturbarlo, nel mentre le rivelava che aveva sempre “finto” di essere fascista e che se lei voleva “salvarsi” doveva assecondarlo in tutto. Le si rivolgeva dandole il “tu” e dopo essersi sessualmente sfogato le consegnò il biglietto da visita, per i “futuri incontri, nel di lei interesse”. Donna Rachele denunciò quanto accaduto nel mese di aprile 1944 e i Servizi Segreti della neonata Repubblica Sociale riuscirono a scovarlo e ad arrestarlo. Il Tribunale di Bergamo, nell’udienza del 20 marzo 1945, lo condannò a ventiquattro anni di detenzione. Trasferito presso il carcere di Parma ebbe anche la spudoratezza di scrivere ripetutamente a Mussolini, implorando il perdono. A guerra finita, i pochi mesi di detenzione per una sentenza emessa da un Tribunale fascista furono sfruttati egregiamente per farsi passare da “vittima”. Reintegrato nei ruoli della Polizia, raggiunse il grado di Questore ed era a Roma, nel 1953, quando sulla spiaggia di Tor Vajanica fu uccisa la giovane Wilma Montesi. Tra i principali sospettati dell’omicidio vi era Piero Piccioni, figlio di un alto esponente della DC. Polito fece di tutto per depistare le indagini e fu arrestato nel 1954, insieme con Piccioni e il complice. Al processo, però, furono tutti assolti e Polito ha potuto così concludere l’esistenza terrena con la soddisfazione di aver vissuto impunemente, operando in alti ranghi della Pubblica Amministrazione per un quarantennio, facendosi beffa della legge e della morale, appagando ogni bieca deviazione della sua ignobile vita.


Caserta, 1983: Vittorio Mussolini e Lino Lavorgna

Caserta, 1983: Monca Buzzegoli e Lino Lavorgna


Caserta, 1983: Lino Lavorgna, Vittorio Mussolini, Michele Falcone. **** L’articolo, qui proposto nella versione integrale, nel magazine è presente solo nella prima parte.


Nella mia camera vi sono quattro foto appese alle pareti: tre ritraggono mio Padre, mia Madre e mio Fratello; la quarta Falcone e Borsellino. Ogni mattina, quando mi sveglio, i loro sguardi mi ricordano ciò che sono, da dove vengo, ciò che “devo essere”. Punto. La premessa è d’obbligo, mentre mi accingo a commentare la recente sentenza della Corte di Cassazione che ha revocato la condanna a dieci anni inflitta all’ex numero due del Sisde, Bruno Contrada, accusato di concorso in associazione mafiosa. All’epoca dei fatti il reato non “era sufficientemente chiaro”, secondo quanto stabilito anche dalla Corte europea dei diritti umani, che nel 2015 condannò lo Stato italiano a risarcire Contrada. Un risarcimento irrisorio economicamente, del tutto inutile essendo stata la pena già scontata e importante solo sotto il profilo sostanziale: la decisione della Corte di Strasburgo, alla base della recente sentenza della Corte di Cassazione, inevitabilmente si ripercuoterà su altre vicende che presentano analoghi aspetti. In linea di principio non vi è nulla da eccepire: “Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali” è un concetto così scontato, da non consentire nemmeno di essere messo in discussione, a prescindere dalla controversa vicenda di cui è stato protagonista Contrada, che ha sostenuto la stessa tesi senza però riuscire a farla accettare dai giudici. La disquisizione giuridica sulla norma, in verità, a me interessa poco, soprattutto ora che ha messo tutti d’accordo. Il punto focale è un altro: Contrada è innocente o colpevole? Ho sempre seguito con molta attenzione l’iter giudiziario dell’ex agente segreto, cercando di “entrare” nei meandri di una matassa intricata e pregna d’insidie che facilmente potevano mandare fuori strada. Da un lato il mio “intuito” propendeva per la sua innocenza; dall’altro, la forte stima nutrita nei confronti di alcuni suoi accusatori – sia ben chiaro: “alcuni”, non tutti – m’induceva a pensare che forse mi sbagliavo; che forse non avendo elementi sufficienti per un’approfondita analisi avevo preso fischi per fiaschi; che non potevo considerare il mio intuito “infallibile”, seppur mi aveva dato ragione tante volte. Il dubbio era l’unica certezza e quindi mi compenetravo nella difficoltà oggettiva di chi, per mestiere, era costretto a scioglierlo in un modo o nell’altro, dando per scontato un aspetto che comunque scontato non poteva essere: la buona fede e l’estrema correttezza procedurale dei soggetti chiamati a decidere.


Sono trascorsi venticinque anni dall’inizio della vicenda e il dubbio persiste, anche se devo ammettere che la bilancia pende “abbastanza” dal lato dell’innocenza. Vi sono vicende, purtroppo, destinate a restare irrisolte perché gli unici che potrebbero chiarirle, evidentemente, hanno tutto l’interesse a che restino tali. Permane il tormento di un uomo che, se innocente, ha trascorso venticinque anni d’inferno, non certo riparabili con la sentenza assolutoria. Permane il tormento, inoltre, di altri “Grandi Uomini” che, sempre in caso d’innocenza, sono stati indotti a dubitare, a temerlo senza ragione, a considerarlo un nemico di quello Stato che hanno servito con onore, invece che un compagno di strada con il quale condividere la battaglia contro il male. Se Contrada è colpevole, la Giustizia ha subito l’ennesima sconfitta per non essere stata in grado di fare piena luce, a prescindere dalla pastoia interpretativa sul concetto di “concorso esterno”. Il fatto che vi siano persone che sanno e non parlano contribuisce non poco a far pendere la bilancia da un lato anziché dall’altro. Voglio citare, a tal proposito, un episodio che mi riguarda direttamente. Correva l’anno 2004. In quel periodo abitavo nella periferia Sud di Caserta, a poca distanza da un albergo che, di fatto, costituiva una “dependance” della mia villetta, in virtù del rapporto amicale con il proprietario e dei tanti eventi che vi organizzavo. Nel corso di una delle tante cene con amici diretti e indiretti mi fu presentato un personaggio – un militare: per privacy non riferisco di quale arma – con il quale nacque subito una forte empatia. Solo qualche settimana dopo il nostro primo incontro mi rivelò che non ci eravamo conosciuti per caso e che gli ero stato “segnalato” da un amico comune, del quale ovviamente mi fece il nome. Fu in quella circostanza che mi rivelò il perché del suo interesse nei mei confronti. Era un convinto assertore dell’innocenza di Contrada – chissà: forse era stato un suo collaboratore: non me l’ha mai rivelato e se anche lo avesse fatto, ovviamente, ora scriverei comunque il contrario – e sapeva che anch’io, in alcune circostanze, mi ero espresso in tal senso. Di me sapeva tutto; sapeva anche del colloquio sostenuto per entrare nel SISDE, quando ero dipendente del Ministero dell’Interno, e che i miei trascorsi politici pesarono negativamente ai fini dell’ammissione. Mi riferì che voleva girare un film su Bruno Contrada e aveva pensato a me per scrivere la sceneggiatura, dirigerlo e ritagliarmi un ruolo come attore, scegliendo il personaggio che più mi aggradava. Non male come progetto. Gli sorrisi e gli feci la classica domanda che sempre si pone a qualcuno che ti espone belle idee: “Un film costa e non poco. Chi lo produce?” Annuì per far comprendere che si aspettava la domanda e replicò con una frase che evidentemente aveva elaborato in precedenza. “Partiamo dal presupposto che nel film ci sarà un solo attore più o meno famoso e che non devi preoccuparti per le “location” ma solo per troupe, cast e tutto il resto. Quanto pensi ti serva per realizzarlo?” Gli spiegai che non era semplice parlare di costi senza sviluppare un progetto articolato e che mi sembrava prematuro sparare cifre a casaccio. “Ti capisco – disse lui – allora te la comunico io: hai a disposizione un budget di centocinquantamila euro; non sono tanti, ma in sala arrivano film che sono


anche costati di meno e tu ne sai qualcosa”. Pronunciò l’ultima parte della frase sorridendo, facendo intendere che alludeva al film da me interpretato nel 2001, “Come Sinfonia”, diretto dal compianto Ninì Grassia, bravissimo nel produrre film low-budget. Ci accomiatammo concordando di vederci con metodica frequenza. Non nascondo il tumulto di quei giorni. Mi misi subito al lavoro per reperire quanto più materiale possibile, in attesa di quello che avrebbe messo lui a mia disposizione. Il tumulto, però, durò poco: dopo una settimana esatta, infatti, il tipo mi telefonò per dirmi che il progetto era stato annullato. “Come mai?” chiesi un po’ ingenuamente. “Ne parliamo da vicino. Torna al tuo lavoro e non pensarci più”. Intuii subito che non l’avrei più rivisto e così fu.
 Bruno Contrada ha ottantasei anni ed è un uomo stanco e malato. Non sono facilmente predisposto all’umana pietas nei confronti di coloro che operano al servizio del male e il mio rigore esistenziale non fa sconti a nessuno. I presupposti di civiltà, però, impongono sia l’estrema cautela quando il dubbio è più forte di ogni evidenza sia di evitare esternazioni non supportate da chiari elementi probanti. Questa regola l’ho sempre rispettata. Mi concedo ora un’eccezione, perché proprio non me la sento di non dare fiducia al mio intuito. Mi sono di conforto, altresì, l’immagine di quella bilancia che prepotente si forma nella mia mente, con il peso maggiore sul lato dell’innocenza, e l’espressione del vecchio poliziotto che vedete nella foto in alto, che proprio non trasmette la sensazione di essere al cospetto di un delinquente.


GIUSEPPINA FEDERICO: LA MAESTRA

(2 giugno 2007. Mamma con i suoi allievi dopo 58 anni)

Michele Di Leone, ex allievo della mia Mamma, mi ha fatto omaggio di un libro dedicato al suo paese natio nel quale parla di tempi lontani, ma ben nitidi nella memoria. Nel 2007 si rese promotore di una riunione con i compagni di classe e la Maestra, ben rievocata nel libro.


Ringrazio Michele Di Leone per la testimonianza di affetto nei confronti della sua Maestra e mi complimento per il bel libro dedicato al paesello natio. Nel 2007, quando fu organizzato l’evento, vivevo altrove, ma di esso ben mi giunse l’eco, perché non vi era giorno che non mi sentissi con l’adorata Mamma. Me ne parlò con entusiasmo e palese emozione, ben comprensibile del resto, considerato che aveva rivisto molti suoi allievi a distanza di 58 anni!!! Mi riferì, però, anche un aneddoto che mi fece ridere molto. Come si sa il mondo è pieno di tipi strani ed è davvero difficile che della loro presenza resti immune un contesto caratterizzato da un numero cospicuo di persone. In occasione dell’evento organizzato da Michele Di Leone, il tipo strano di turno non trovò di meglio che avvicinare tutti i convenuti, riferendo che la maestra presente nella foto del 1949 non era mia Madre ma la sua. Il fatto generò viva apprensione perché accadde prima di pranzo e tutti si chiesero, pertanto, cosa sarebbe accaduto dopo qualche bicchiere di buon vino. Per fortuna non accadde nulla e il vino, caso mai, servì a placare le turbe psichiche del tipo strano, il cui tentativo di appropriazione indebita di Mamma altrui generò solo umana pietas. Chi mi segue sa che un mio aforisma, concepito in chiave antirazzista, recita testualmente: “Nessuno ha colpe o meriti per dove nasce ma solo colpe o meriti per come vive”. Se fossi stato più cattivo lo avrei leggermente modificato per l’occasione e lo avrei inviato al tipo strano: “Nessuno ha colpe o meriti per i Genitori che si ritrova e può solo ritenersi fortunato se gliene capitano due straordinari e speciali come Lorenzo Lavorgna e Giuseppina Federico. Posso comprendere l’invidia e la tristezza di chi tale fortuna non abbia avuto, ma non per questo è possibile impossessarsene, sia pure a posteriori”. Anche io provai umana pietas, tuttavia, pensando alla madre vera del tipo strano, che forse non meritava quel gesto insulso da parte di un figlio ingrato. Contai fino a dieci, pertanto, e non gli scrissi nulla. Dopo tutto sono buono e misericordioso e la mia bontà ha sì gran braccia da prender tutto ciò che si rivolge a essa. Detto questo, devo aggiungere altro. Appartengo a una scuola di pensiero che rappresenta una sintesi tra la teoria innatista di Cartesio e quelle sviluppatesi in epoca recente, che privilegiano il condizionamento ambientale quale fattore primario del comportamento umano. A mio avviso, ferma restando la pregnante importanza dell’ambiente, il retaggio ancestrale – l’eredità di sangue – sia pure in forme diverse tra i vari soggetti, incide a sua volta sul comportamento, oltre a condizionare i tratti somatici e a trasmettere, talvolta, quelle che generalmente vengono definite “malattie ereditarie”. Nella fattispecie si registra un fatto curioso. Il tipo strano di cui sopra è figlio di un soggetto non meno strano. A suo tempo tentò letteralmente di impossessarsi, con un sotterfugio, dell’abitazione avita, costruita dai miei nonni ed ereditata dal mio Papà. A seguito dell’acquisto di un terreno appartenente alla mia famiglia,


infatti, non si sa come, nell’atto notarile, con definizioni sibilline furono inserite le particelle catastali della casa e del terreno circostante, nonostante fossero distanti circa due chilometri dal terreno venduto! L’imbroglio fu scoperto molti anni dopo, nel 1984, ma non fu possibile classificarlo come tale: si trattò – fu detto – di un “involontario” errore perpetrato dal notaio. “Nulla di grave – disse l’infame, con la voce tremula di chi viene colto con le mani nella marmellata – basta una semplice rettifica”. Gli ingenti costi per il nuovo rogito, però, – sette milioni delle vecchie lire – necessario per riappropriarsi di qualcosa che già si possedeva, furono tutti a carico dei miei Genitori! Anche il notaio (una donna) si comportò in modo subdolo e criminale, sfruttando una situazione che aveva sconcertato non poco i miei Genitori. Nell’atto di vendita è scritto che l’intero corpo immobiliare fu “riacquistato” per quattro milioni. Ovviamente si trattava di sanare quello che, “ufficialmente”, si configurava come un pregresso errore di un collega oramai non più in servizio. La parcella, pertanto, avrebbe dovuto essere stabilita in funzione dell’eccezionalità dell’evento o, al limite, della cifra registrata sull’atto!!! La malandrina, invece, pretese una somma quasi doppia di quella trascritta nel rogito, chissà, forse divisa con il tipastro che, zitto zitto e mogio mogio, lasciava passare gli anni tenendosi intestato impropriamente un bene di ingente valore! Questo fatto, insieme con tanti altri, è stato scoperto da me in epoca recente. In quel periodo vivevo una vita “iperdinamica” che mi teneva impegnato su più fronti. Nel 1984, tra l’altro, abitavo a Siena, dove dirigevo l’ufficio economato della locale Questura. Le vicende di famiglia venivano gestite esclusivamente dai miei genitori. Se solo fossi stato messo al corrente di quanto stava avvenendo, mi sarei letteralmente mangiato il “tipo strano appropriatore indebito di beni altrui” e il notaio disonesto, che avrei senz’altro fatto radiare dall’albo. (Blog www.galvanor.wordpress.com – 1 Agosto)





Condividere il dolore di genitori che perdono un figlio ventenne attiene alla civiltà e quindi l’abbraccio forte ai genitori di Niccolò Ciatti è doveroso. (So bene quanto possano sentirsi devastati, avendo perso mio Fratello a poche settimane dal suo diciottesimo compleanno). Ciò premesso, occorre dire alcune cose senza contorcimenti diplomatici perché la “sacralità della vita” merita un rispetto ancor maggiore di quello che va tributato a chi soffra per una grave perdita. Cose che vanno dette ai giovani, in primis, in ossequio all’antico monito: “Quisque est faber fortunae suae”, e poi ai genitori e a chiunque, nell’esercizio delle proprie funzioni, abbia a che vedere con la formazione dei ragazzi. LA VITA E’ SACRA Il “divertimento”, termine che deriva da quello latino “divertĕre”, ossia allontanarsi, volgere altrove le proprie attenzioni, assume una valenza rispettabile solo quando costituisce una parte, e non certo la più importante, delle attività espletate dagli esseri umani, per di più nel rispetto di regole che privilegino la sua funzione primaria: ritemprare corpo e mente in modo gradevole. Quando si trasforma in sballo, grazie anche all’utilizzo di droghe e alcool, va condannato senza riserve. Troppi giovani adottano una scala di valori completamente “sballata” rispetto a quella che dovrebbe caratterizzare il quotidiano agire, rovinandosi in tal modo la vita. La loro e quella altrui. LlORET DE MAR E I LUOGHI DELLO SBALLO Parliamo della cittadina catalana perché ancora una volta assurta alla ribalta della cronaca per una tragedia, ma è ben chiaro che essa è solo uno dei tanti luoghi che meritano un’attenzione particolare da parte di chi realmente abbia a cuore l’integrità psicofisica dei giovani. In questi posti, droga e alcool, sono reperibili con la stessa facilità con la quale si comprano noccioline nelle sagre di paese. Non solo. Il clima che si genera, grazie all’euforia innescata da una miscela esplosiva di vari elementi, annulla l’effetto dei “freni inibitori”, lasciando i singoli soggetti in preda a incontrollato delirio. Ci si allontana dalla realtà e ci si lascia andare a comportamenti abnormi, non usuali e spesso pericolosi. Senz’altro pericoloso è accompagnarsi con facilità a chicchessia, fidandosi ciecamente, come


accadde alla povera Federica Squarise, che proprio a Lloret de Mar trovò la morte per essersi allontanata con un peruviano, ritenendo di concedersi solo una passeggiata e non di dover subire pressanti avances sessuali. Senz’altro deprecabile, invece, abbandonarsi al sesso facile con sconosciuti. Non si tratta di essere retrogradi e bacchettoni. Un conto è concedersi una scappatella trasgressiva, che oggi non scandalizza nessuno, altra cosa è quella di cui sono stato diretto testimone in una discoteca, sempre in Spagna, ma non a Lloret de Mar: parte il classico trenino e quindi ciascuno si trova davanti e dietro perfetti sconosciuti. Una ragazza bellissima con minigonna stratosferica ha alle sue spalle un giovane sui venti anni che, a un certo punto, trasferisce le mani dalle spalle al seno dopo essersi sbottonato i pantaloni e spinto il suo membro nell’ano di lei, che si gira sorridendo ed estasiata, per poi staccarsi dal trenino e trascinare il suo improvvisato partner su un divano. (Un esempio emblematico tra i mille che tanti potrebbero raccontare). Lo so che per un genitore è difficile “imporre divieti” ai propri figli, ma è evidente che a certi livelli occorra imporsi, anche se è preferibile partire da lontano, sin dalla più tenera età, inculcando valori e princìpi che contribuiscano quanto meno a tenere lontano droga e alcool. E’ già un primo passo. Poi occorrerebbe far nascere il “disgusto” per quel rumore che viene spacciato per musica, magari inducendo i ragazzi a innamorarsi di quella vera. E questo è già più difficile. Chi vi riesca, però, vince la partita e alleva figli sani, che inevitabilmente diventeranno a loro volta “vincenti” nelle sfide che dovranno affrontare nel corso della vita. IL LASSISMO E’ UNA COLPA. NON SOLO QUELLO DEI GENITORI Se è vero che ciascuno è artefice del proprio destino e in posti come Lloret del Mar è preferibile non andare, vi è da restare stupefatti nell’apprendere che due degli aggressori del povero Niccolò abbiano già lasciato il carcere. Forse il magistrato ha operato nel rispetto di leggi ben precise: in questo caso sono sbagliate le leggi. Occorre reprimere, e in modo incisivo, azioni scellerate come quelle che hanno causato la morte di Niccolò. Il lassismo, in tal senso, si trasforma in incentivo a delinquere. Lo stesso dicasi per i troppi imbecilli che provocano disastri sulle strade. Non si è ancora spenta l’eco dell’ubriaco che, pochi giorni fa, ha travolto e ucciso un giovane avvocato a Milano e già siamo costretti a registrare una nuova tragedia: un altro ubriaco ha causato la morte di tre persone a Trani, rimaste intrappolate nell’auto che ha preso fuoco. E’ decisamente troppo e chi resta inerme al cospetto di siffatte tragedie, di esse si rende, in qualche modo, corresponsabile.



L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ESSERE UNA PAROLA NUOVA PER VIZI ANTICHI. “Cari Amici, il prossimo tema di copertina sarà: "Mal'aria". Il riferimento è all'immigrazione e ai costi spropositati che si abbattono sul sistema sanitario, a quanti in Europa rifiutano la redistribuzione dei migranti, al clima politico sempre più teso, alle iniziative illiberali della sinistra, a una ripresa economica che sembra essere solo un abbaglio, alle devastanti conseguenze dei cambi climatici...”. Mal’aria, neologismo coniato dal Direttore quanto mai pertinente. La lingua deve evolversi per meglio rappresentare la mutevolezza dei tempi. E il termine incarna in pieno quell’insostenibile pesantezza del tempo contemporaneo, che atterrisce perché non lascia più intravedere l’unico vero sostegno dell’umanità: la speranza.


Mal’aria, quindi: aria malata, avvelenata, irrespirabile. Aria che uccide. Parliamone, ma senza fronzoli retorici, proposizioni di ricette impossibili, accuse e difese di ufficio, facile ironia sui contaballe, ennesimo pubblico ludibrio per malfattori e delinquenti comodamente assisi sulle poltrone del potere. Sarebbe tempo perso e, onestamente, poco vi è da aggiungere al tanto già detto e scritto. Tutti i giorni paghiamo le conseguenze della malapolitica, quella di oggi e quella di ieri; tutti i giorni la malasanità conquista la ribalta della cronaca, gettando nello sconforto migliaia di famiglie; tutti i giorni ascoltiamo l’insulso bla-bla-bla di ciarlatani sulla cui malafede nessuno ha dubbi, a cominciare da chi li sostiene. Che senso ha ribadire sempre le stesse cose? SINISTRA: UN’ILLUSIONE CHE DURA DA TROPPO TEMPO Parliamone, di mal’aria, stendendo un velo pietoso anche sulle iniziative illiberali della sinistra, perché non ha più senso (ammesso che ne abbia avuto in passato) parlare di sinistra, e ne ha ancor meno nella rappresentazione della sua illiberalità, che tra l’altro renderebbe oltremodo lunga e complessa l’analisi. Ogni persona culturalmente evoluta sa bene che la sinistra è sempre stata e sempre sarà inutile e dannosa. Punto. Le sue varie e spocchiose anime hanno degli elettori in buona fede - l’ingenuità alberga ovunque – che la vorrebbero semplicemente al servizio del bene, di chi non ce la fa a correre a trecento all’ora, come richiesto da una società incancrenita dalla degenerazione di un sistema nato già malato: il capitalismo. Non è certo con “politiche liberali” che si vedrebbero realizzati gli ambìti propositi, perché è stata proprio la degenerazione dei princìpi sanciti dal liberalismo delle origini a inquinare la società contemporanea. Ma su questo campo fermiamoci qui: le distonie del liberalismo meritano ben altro spazio. Va ben evidenziata, invece, l’anomalia di cui la sinistra beneficia per colpe altrui e che a essa può essere ascritta come merito, essendo stata capace di impossessarsi del “potere culturale”, monopolizzato e gestito a proprio uso e consumo grazie anche all’assenza di competitors validi. Occorre riconoscere che molti intellettuali di area trascendono i confini dell’appartenenza politica e producono analisi serie e oneste, facilmente condivisibili in virtù del loro rigore scientifico. Da qui, poi, a vedere presi in considerazione i loro suggerimenti dalla (pseudo)sinistra al potere, ce ne corre. Quella ortodossa quanto meno è caratterizzata per buona parte da soggetti di una certa levatura culturale e più “umani”. Nondimeno la loro capacità di governare un paese è prossima allo zero e quindi, lo dico affettuosamente soprattutto per i tanti che non ho difficoltà a considerare amici, vanno benissimo solo per trascorrere una gradevole serata discutendo sui massimi sistemi; sui grandi poeti che fanno vibrare le corde dello spirito; per una partita a scacchi; per una grigliata al tramonto, degustando senza esagerare dei buoni vini. DESTRA: L’ISOLA CHE NON C’E’ Parimenti non ha più senso parlare di destra, o almeno di quella che si spaccia per tale. Dov’è la destra in Italia? Una vera destra moderna, sociale ed europea?


Se qualcuno ne conosce l’indirizzo, me lo invii, ma per favore non commetta l’errore commesso da qualcuno su “Facebook”, quando posi la stessa domanda: mi segnalò “Europa Nazione”, ossia casa mia. Su questo argomento proprio non è il caso di dilungarci, essendo stato più volte trattato. BURATTINAI E BURATTINI A cosa serve rampognare continuamente i ciarlatani che parlano di ripresa economica, arzigogolando intorno a diagrammi astrusi, zero virgola e baggianate varie, infischiandosene della gente che muore di fame? Non solo è tempo perso, ma è anche autolesionistico. Quanto più si cerchi di sbugiardarli con dati di fatto concreti, che richiedono analisi complesse e molto lavoro, tanto più si esaltano e godono: le argomentazioni serie scivolano via senza essere nemmeno recepite; sulle loro baggianate si costruiscono lunghi talk-show e si consumano fiumi d’inchiostro. Non vi è partita, non vi è mai stata, tra chi conta balle e chi racconta la verità. La mente umana risponde a meccanismi che tendono sempre a privilegiare la semplicità. Ciò che non si comprende facilmente viene respinto istintivamente, lasciando spazio agli slogan a effetto di chi ha ben compreso come prendere per i fondelli le masse. Accade ciò che, con termine scientifico, si definisce “scotomizzazione”, ossia l’estensione psicologica di un concetto oculistico che riguarda una particolare patologia: l’occhio vede solo ciò che la mente vuole vedere. Anche le orecchie producono lo stesso effetto e si predispongono precipuamente all’ascolto di ciò che si preferisce ascoltare. E’ storia vecchia, già nota agli antichi greci e agli induisti. I primi scolpirono sull’architrave del Tempio di Apollo, a Delfi, la celebre massima “γνῶθι σαυτόν” perché solo attraverso la conoscenza di se stesso si può sviluppare una visione del mondo che non sia il riflesso di una mistificazione prodotta ad arte per ingannare. I secondi, molto più prosaicamente, sostenevano che: “La drammaticità della vita è frutto della nostra proiezione mentale.” Si dannerà l’anima, Jung, per rendere più fruibili questi concetti, ai quali, nel 1931, dedicò l’opera: “Il Problema dell’Inconscio nella Psicologia Moderna”. A cosa è servito tutto ciò e il tanto altro lavoro svolto da autorevoli pensatori, per segnare il cammino? Qualcuno, forse - a prescindere da uno sparuto numero di eletti, che però non hanno inciso sulla storia dell’umanità - ha tratto insegnamento dal “Mito della Caverna” e dall’opera di Nietzsche, con tutto quello che vi è stato in mezzo? Tutto lavoro andato perduto nel tempo, come le famose lacrime nella pioggia di “Blade Runner”, considerati gli uomini senza qualità capaci di conquistare il potere con barzellette e balle grosse come catene montuose. La percezione della realtà è sempre falsata per i limiti propri della natura umana e per l’incapacità di compiere una semplice azione che, per altri versi, compiamo con naturalezza in mille circostanze, quando, per esempio, ci affidiamo a un meccanico, a un idraulico, a un muratore, al giardiniere. Tranne casi eccezionali non ci salta mai per la mente di mettere in discussione il loro operato. Li chiamiamo, li paghiamo e ci godiamo il lavoro eseguito. Basterebbe seguire la stessa regola anche per la delega del potere, che dovrebbe riguardare solo persone


di alto profilo sotto tutti i punti di vista, alle quali affidarci con fiducia, senza avere la presunzione di voler comprendere le loro scelte in campo politicoeconomico-sociale, nella gestione degli scenari globali e delle complesse relazioni internazionali. Se le persone sono caratterizzate da un alto spessore eticoculturale, opereranno per il bene comune, adottando i provvedimenti più giusti in quel dato momento; uomini senza qualità non potranno che produrre azioni senza qualità. Sono questi ultimi a prevalere, tuttavia, perché le loro capacità affabulatorie hanno maggiore presa. Si passa in tal modo una vita intera a commettere sempre gli stessi errori, per poi lamentarsi quando le mezze cartucce al potere depredano la sanità; chiudono gli ospedali lasciando intere zone prive di assistenza, per magari aprirli dove non servono e solo per sporchi giochi utili solo al loro tornaconto; rubano a man bassa; conferiscono ruoli importanti ai babbei di turno, purché a loro asserviti, obbligando i veri talenti all’oblio o a emigrare; legiferano ad personam e si guardano bene dal produrre una vera riforma dello Stato, funzionale alle reali esigenze dei cittadini. A cosa servono comuni con poche centinaia o poche migliaia di abitanti? Non sarebbe più logico accorparli in modo da raggiungere almeno quindicimila abitanti? Invece di una decina di sindaci incapaci e lestofantelli può darsi che si riesca a eleggerne uno decente, ottenendo ingenti risparmi anche nella gestione dei dipendenti e dei servizi, magari rendendoli addirittura più efficienti. Prendiamo l’isola d’Ischia come esempio estendibile in ogni zona d’Italia: 64mila abitanti suddivisi in 46 kmq. Di fatto meno abitanti di quanti non ve ne siano nel quartiere Arenella di Napoli e una superficie pari a quella del comune di Frosinone. Che senso ha la presenza di ben sei comuni in quell’isola? E’ facile dedurre la risposta, anche alla luce di recenti vicende. A cosa servono le province e le regioni? A sprecare soldi per consentire a poche migliaia di persone di arricchirsi indebitamente e di fare la bella vita, complicandola in modo indecente a tutte le restanti, che però hanno la responsabilità di non fare nulla per impedire che ciò accada. Lo sfacelo della sanità regionalizzata, come già detto, oramai ha raggiunto punti di non ritorno. Atterriscono e disorientano i comportamenti di troppi soggetti che agiscono nel dispregio più assoluto di ogni canone etico. E’ di pochi giorni fa, per esempio, la notizia dei medici arrestati a Monza, ben dodici, perché compravano protesi di bassa qualità in cambio di soldi e regali. Con notizie simili accumulatesi negli ultimi decenni, tuttavia, si potrebbe scrivere un’enciclopedia più corposa della Treccani. Che razza di uomini sono costoro? Possibile che la bramosia di denaro consenta di non provare il minimo ritegno nel tradire la propria missione? I politici sono cinici per natura e non vi è da sorprendersi se si “vendono” alle multinazionali per imporre obbligatoriamente ben dieci vaccini ai bambini, di eguale dosaggio a prescindere dalle caratteristiche del bambino, oltre ad avallare tante altre schifezze in campo farmacologico e non solo, periodicamente (e invano) denunciate. I medici che tradiscono il giuramento di Ippocrate proprio non si reggono. Scrivo queste righe con la gola che brucia e il cuore che sanguina: la malasanità ha ucciso un mio carissimo Amico nel 2003 e più recentemente mio Cognato e mia Madre. Sto ancora aspettando giustizia, convivendo ogni giorno


con il malessere generato dai complessi di colpa per scelte che una persona come me avrebbe dovuto evitare, essendo ben consapevole delle penose condizioni in cui versa la sanità nella mia regione. A cosa è servito privatizzare servizi primari come le comunicazioni telefoniche e la fornitura di energia elettrica? Il mercato libero avrebbe dovuto consentire di contenere i prezzi e invece ha solo alimentato un grande caos, con aziende che addirittura insegnano ai dipendenti “come truffare i clienti”, facendo cartello con quelle concorrenti per sfruttare meglio un popolo che in materia di consumi risulta impreparato e indifeso. Il digital divide nel nostro paese è mostruoso; la fibra ottica è un mero sogno per molte zone, alcune delle quali presentano seri problemi anche per la connessione tradizionale. Nazionalizzare tali servizi, con regole che non ricalchino gli sprechi e le gestioni clientelari pre-privatizzazione, costituirebbe un grande vantaggio per i cittadini, in particolare per coloro che risiedono nelle aree più penalizzate. Analogo discorso vale anche per i trasporti pubblici, a cominciare dai treni per finire alla compagnia aerea di bandiera, le cui disastrose gestioni fanno venire il voltastomaco. Moralizzare i banchieri è solo un ridicolo ossimoro; non sbatterli in galera, però, quando depredano a man bassa i risparmi dei cittadini e per altri reati non meno gravi, è sintomatico di “affinità elettive” semplicemente vergognose. LA PAURA DELL’ALTRO Fanno paura i flussi migratori degli ultimi anni. E’ inutile negarlo. Il razzismo esiste e va combattuto senza indugio. Ai razzisti di mestiere, tuttavia, si è aggiunto un nutrito gruppo di persone che rifugge da tale ignobile sentimento e ha semplicemente paura. La paura non è un reato. Nessuno può condannarmi perché mi rifiuto di salire su aerei e barche di piccole dimensioni: al massimo può prendermi in giro. Anche l’egoismo, ancorché deprecabile, non costituisce un reato. Le cose cambiano solo quando sfocia in atteggiamenti che, finalizzati a tutelare i propri interessi, danneggiano quelli degli altri. Sulla crisi determinata dai flussi migratori oramai esiste una florida letteratura: seria, faceta, farlocca, ignobile. Ogni giorno si scrive di tutto e di più. Ritengo superfluo aggiungere chiacchiere alle chiacchiere e voglio sforzarmi di individuare una chiave di lettura del problema che possa realmente offrire nuovi spunti, analizzandolo freddamente, senza lasciarmi trasportare dai sentimenti e rifuggendo dalla trappola dell’ipocrisia buonista. Anche io ho paura e lo dico senza riserve. Con pari sincerità, però, posso aggiungere che la mia paura non m’induce ad assumere atteggiamenti tout-court ostili nei confronti dell’altro, alterando in modo assoluto quei concetti serenamente accettati quando il problema non esisteva ed era possibile avere rapporti con chiunque o viaggiare più o meno dappertutto, eccezion fatta per le aree vessate da sanguinosi e duraturi conflitti. Sono stato fidanzato con due donne musulmane, tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso, con le quali l’interazione non presentava alcuna difficoltà. Di certo non mi sono preoccupato nel visitare la Turchia e non mi sarei preoccupato nel visitare anche altri paesi nei quali non sono mai stato. Oggi, al solo pensiero


di mettere piede a Istanbul (con tutto quello che ho scritto contro l’attuale classe dirigente), mi tremano le gambe. E per quanto possa essere culturalmente attrezzato per accettate il fatto che non tutti i musulmani siano terroristi, è inutile girarci intorno, la paura, come ben anticipato, ha condizionato il pensiero. Se ho paura io, non posso pretendere che non ne abbiano gli altri e anche ciò che scrivo deve tenere conto di questo banale assioma. La distinzione tra paura e razzismo, quindi, è fondamentale per inquadrare in una corretta ottica lo spinoso problema, perché è del tutto evidente che in molti casi è il secondo aspetto che assume valenza prioritaria, altrove in Europa più ancora che in Italia. E questo non va bene. E’ davvero importante, quindi, saper distinguere il grano dal loglio e trovare il coraggio di affermare concetti anche duri, ma che possano configurarsi in un’ottica di “realtà” e “civiltà”. A tal fine vanno deprecati tanto il buonismo ipocrita quanto il rifiuto assoluto, da chiunque praticati. Non si può tollerare che si pretenda di cambiare il nostro stile di vita per adeguarlo a quello di chi viene a vivere nel nostro paese; che si pretenda di non rispettare le nostri leggi e le nostre consuetudini. Non si può accettare che una donna, quale che sia la sua provenienza, non possa comportarsi come qualsiasi altra donna. Non si può accettare che non si possano condannare apertamente le lapidazioni, le torture e tutte le altre nefandezze che sistematicamente sono perpetrate in tanti paesi orientali. Qui non si tratta di difendere esclusivamente i nostri valori ma presupposti di civiltà che dovrebbero albergare dappertutto. Parimenti va inculcato e difeso il principio che non esistono popoli superiori agli altri, ma solo persone buone e persone cattive, in tutti i popoli, e che il problema della “redistribuzione dei migranti” è un falso problema: non si possono trasferire in Europa tutte le vittime della follia tirannesca che imperversa in Africa e in Medio Oriente. Occorre bonificare quelle aree e renderle vivibili.

LA CECITA’ DELL’UOMO CHE NON RISPETTA LA NATURA Avevo diciannove anni quando fondai l’Associazione Nazionale Salvaguardia Ecologica e prospettai i rischi connessi al mancato rispetto della natura. I disastri ambientali non sono una conseguenza dei cambi climatici ma della scempiaggine umana. Ne sono trascorsi oltre quaranta e ripeto sempre le stesse cose. L’ultima volta nel numero 55 di questo magazine, risalente ad appena due mesi fa. L’articolo s’intitola: “Uomo e natura – Occasioni perdute e cupi orizzonti”. Non vi è alcun bisogno, pertanto, che ne ricalchi i concetti. LE RADICI ANTICHE DELLA MAL’ARIA La foto che accompagna l’articolo è emblematica. Si vedono due personaggi la cui espressività è ben percepibile anche da chi non sia un esperto d’arte o uno psicologo. A sinistra si vede un uomo con il volto tagliato, segnato da incisive


rughe, che accenna un sorriso sardonico appena percettibile. Ha labbra serrate e occhi spenti, che generano turbamento. Non ha certo l’aria di un condottiero; molto più verosimilmente è assimilabile a un mafioso. Ben altre suggestioni, invece, scaturiscono dalla statua sulla destra della foto. Fierezza, forza, bellezza, virilità. I capelli al vento rivelano una personalità che ama la libertà e la spontaneità, doti di leader, orientamento al “bene”. Ispira spontanea fiducia ed è lontano mille miglia dalla fisiognomica del tiranno. Lo sguardo fiero e le labbra leggermente incurvate dimostrano che il personaggio ha avuto poche occasioni di ridere o sorridere, nel corso della sua vita: di sicuro è stato un condottiero con grandi responsabilità. Abbiamo, quindi, almeno figurativamente, un mafioso a sinistra e un eroe a destra. (Del punto interrogativo parleremo alla fine dell’articolo). Grazie a questo confronto è possibile compiere un veloce viaggio nel tempo, lungo più di duemila anni, estremamente rivelatore. A sinistra vi è Marco Licinio Crasso, politico e comandante militare della Repubblica Romana; miliardario (acquisì gli ingenti beni dei proscritti di Silla, da lui sostenuto nella guerra civile dell’83-82 A.C.); finanziatore di uomini potenti, tra i quali Cesare che, per restituirgli i soldi ricevuti in prestito, utilizzò il bottino della guerra gallica; cinico e spregiudicato nella gestione degli affari pubblici; corruttore impenitente: si comprava i senatori con la stessa disinvoltura con la quale è possibile comprare un chilo di mele al mercato; puttaniere incallito e bisex (a quel tempo i rapporti omosex erano una consuetudine soprattutto tra le classi sociali più alte e fa scuola la famosa citazione di Svetonio che riguarda Cesare: “L’uomo di tutte le donne, la donna di tutti gli uomini”); spregevole nei rapporti; spietato con chi non lo assecondava; ammalato di delirio di onnipotenza e, come spesso accade ai personaggi che si sentono Dio in terra, in talune circostanze incapace di vedere cose le cui effettive peculiarità appaiono ben evidenti a chiunque: muovere guerra ai Parti senza cavalleria anticipa le follie politiche e belliche di tanti futuri personaggi a lui simili. A destra vi è Spartaco, lo schiavo trace divenuto gladiatore e fomentatore della famosa rivolta che sfociò nella terza guerra servile, conclusasi con la sua morte e il trionfo di Crasso. La vicenda è nota e non serve rievocarla, anche perché ampiamente sfruttata dalla cinematografia, a cominciare dal capolavoro di Stanley Kubrik, del 1960. Cosa ci rivelano, pertanto, questi due personaggi? Che da sempre sono i “Crasso” a dominare (salvo poi cadere a causa dei propri errori) e gli “Spartaco” a soccombere, a morire in battaglie perse in partenza, a essere crocifissi. Una volta la crocifissione era materiale, ma con l’avvento della democrazia tale necessità è andata via via scomparendo. I “Crasso” si sono evoluti e hanno affinato la gestione del potere in modo molto più subdolo e raffinato, inducendo i nemici a crocifiggersi da soli, a combattersi tra loro, facendosi legittimare nella gestione del potere, direttamente o indirettamente, con libere elezioni. Roba da premio Nobel per capacità affabulatoria. La domanda che sorge spontanea, pertanto, è la seguente: se da oltre duemila anni accadono sempre le stesse cose, sarà mai possibile cambiare il corso della storia? Nel prologo ho scritto che l’umanità è


atterrita perché vede sparire giorno dopo giorno siffatta speranza, facendo ricorso a un’iperbole per meglio caratterizzare la drammaticità del momento. Il concetto espresso, in realtà, se pur avvalorato da dati di fatto incontrovertibili, non potrà mai raggiungere una valenza assoluta, anche se dovessero verificarsi catastrofi sociali ben più gravi di quelle che segnano le nostre giornate. Per l’essere umano – come traspare dalla saggezza di Lin Yutang – la speranza non potrà mai sparire perché è come una strada nei campi, che di fatto non esiste e prende forma quando molte persone li attraversano. I giovani, soprattutto, hanno il “diritto” di non perderla. Più di ogni altra cosa, però, hanno il “dovere” di alimentarla con le loro azioni. L’effettivo cambio di rotta dipende dall’armonica coniugazione tra il diritto a sperare e il dovere di lottare per cambiare veramente le cose. Quelli della mia generazione non possono suggerire “ricette” perché sono tutti colpevoli per il pessimo mondo che si lascia loro in eredità. Sono colpevoli anche quelli come me, che il male hanno sempre combattuto, non fosse altro perché non sono stati capaci di sconfiggerlo. E per questa incapacità, cari giovani, possiamo solo invocare il vostro perdono. Un’esortazione è lecita, tuttavia, formulata con tutto l’amore che il cuore di un vecchio è in grado di partorire: scegliete bene la foto che deve sostituire il punto interrogativo. Esso, di fatto, incarna tutti voi, perché tutti voi, insieme, dovete trovare la strada maestra da percorrere negli anni a venire. Ma ogni marcia ha bisogno di un capo-carovana e la meta da raggiungere è la più impegnativa tra le tante che potrete e dovrete prefiggervi: mettere tutti i Crasso in condizione di non nuocere e rendere onore ai tanti Spartaco che hanno immolato la loro vita, secolo dopo secolo, per difendere i valori più nobili e sacri di ogni essere umano. Sceglietelo bene, il capo-carovana, o saremo sempre punto e a capo. (Confini, Nr. 57 – Settembre)


REFERENDUM IN CATALOGNA: PREVALGA IL BUON SENSO

(Dalla dichiarazione d’indipendenza americana – 4 luglio 1776) Non starò qui a cianciare sulle ragioni (legittime, sia ben chiaro) che spingono i catalani a invocare l’indipendenza. Su tutti i giornali, più o meno chiaramente, sono esposte le “semplici” ragioni di natura economica che fungono da motore alla volontà secessionista. Non starò nemmeno a confutare le arrampicature sugli specchi di coloro che si oppongono al referendum, farraginosamente espresse da un mortificante articolo pubblicato da “El Pais”, intitolato “10 falsi miti sull’indipendentismo catalano”. Mortificante perché quando il giornalismo manifesta un asservimento che attenta alla democrazia, mortifica le coscienze. Non vi parlerò di queste cose, pertanto, che potete trovare, cucinate in tutte le salse, su ogni media. Ovviamente occorre fare molta attenzione nel discernere il grano dal loglio, ma ciò vale sempre, del resto. Per manifestare il mio sostegno alla causa catalana, pertanto, vi parlerò di un’altra cosa; di quella cosa che move il sole e l’altre stelle e sempre vince contro tutto. Vi parlerò di Amore e del diritto di ogni essere umano a ergersi, (anche in armi, se necessario) in un mare di triboli, per disperderli. I concetti sopra esposti, come hanno già intuito le menti più illuminate, non sono farina del mio sacco e vengono da lontano: da Dante, da Virgilio, da Shakespeare. Sono concetti, quindi, eleggibili a “dogma”, non tanto per doveroso ossequio alla Grandezza di chi li ha coniati, quanto per la legittimazione conquistata secolo dopo secolo, grazie al comportamento umano. Sono europeo, prima ancora di essere italiano, e in quanto tale, come ben noto a chi mi onora della sua attenzione, da circa mezzo secolo predico l’ineluttabilità degli “Stati Uniti d’Europa” e combatto l’Europa dei mercanti, che umilia e vessa l’Europa dei Popoli. Non vi potrà mai essere una vera Europa Unita se si coltiva la sub cultura della tirannide, che alimenta solo odio. Queste cose le sanno bene tutti, a Madrid come a Bruxelles e come in qualsiasi altra capitale del continente. Perché, allora, non si recepisce un messaggio così semplice, che risolverebbe d’incanto problemi secolari? Potere? Soldi? Beh, se fossero queste le ragioni, ancorché deprecabili,


varrebbero come attenuante per chi è pronto a correre il rischio di una guerra civile pur di tutelare i propri interessi. E’ già successo e vi è, ovviamente, chi ha fatto di peggio. Nossignori, questi sono solo aspetti marginali, che hanno la loro importanza, certo, ma che non bastano a spiegare comportamenti assurdi e scellerati. La ragione primaria è un’altra e si definisce con un termine molto eloquente: stupidità. A Mariano Rajoy vengono crisi d’ansia al solo pensiero di governare un paese di 39milioni di abitanti anziché di 47milioni e non gli interessa che la stragrande maggioranza dei catalani oggi lo infilzerebbe volentieri con un spiedo per rosolarlo a fuoco lento, mentre domani potrebbe sorridergli senza più vedere in lui un nemico, un tiranno, un affossatore della democrazia. Come chiamate tutto questo, voi? Io non so trovare un termine diverso da “stupidità”. La Catalogna non è Spagna e la Spagna non è Catalogna. La storia è quella che è. Occorre conoscerla e regolarsi di conseguenza. Coloro che la negano, in buona o mala fede, contribuiscono solo a rendere questo mondo sempre più invivibile. Sono europeo e in quanto tale mi sento fratello di tutti gli europei, che vorrei vedere passeggiare mano nella mano, sorridendosi: inglesi, irlandesi, scozzesi, fiamminghi, valloni, italiani del Nord, italiani del Sud, sardi, cechi, slovacchi, baschi, catalani, tirolesi, bretoni, corsi, bavaresi, fiamminghi e tutti gli altri popoli che hanno segnato la storia d’Europa. Cosa vi è di più bello dell’Europa e degli europei, su questo Pianeta? Nulla. Sanguina, l’Europa, tuttavia, perché troppi stupidi consentono a chi stupido non è di farne strame. Continuerà a sanguinare, pertanto, fin quando gli stupidi non saranno sostituiti da soggetti capaci di cacciare i mercanti dal Tempio. E quel giorno sarà l’Amore a trionfare. Amore per la Libertà. Amore per l’altro, che resta sempre il modo più nobile per amare se stesso. (Blog www.galvanor.wordpress.com – 30 settembre)



LORENZO LAVORGNA: L’UOMO DELLA LUCE


Al termine della Seconda Guerra Mondiale, in molte zone dell’Italia, soprattutto nel SUD, non era ancora giunta l’energia elettrica. Le case erano illuminate con le classiche candele di cera, con le lampade a olio o a petrolio. Nei mesi freddi il tepore domestico era assicurato dai camini, dalle stufe a petrolio e dai bracieri, nei quali venivano riversati tizzoni di fuoco ardente. Anche a Cancello Massone e nelle altre zone rurali di San Lorenzello, piccolo paese del Sannio beneventano, mancava l’energia elettrica. Nella casa avita abitavano i miei Genitori e i nonni paterni, Pasquale e Pasqualina Festa, che avevano costruito la casa nel 1920, sul terreno ereditato dalla nonna, un tempo appartenente ai Massone, stimata famiglia insignita del lignaggio baronale che vantava molti personaggi illustri: docenti universitari, militari di carriera nell’esercito borbonico, giuristi, diplomatici d’alto rango. La casa sorge sulla provinciale che congiunge Telese Terme a San Lorenzello e Cerreto Sannita, in una posizione equidistante dai centri abitati. In mancanza di edifici scolastici, ospitò la scuola elementare dal 1933 al 1960. Mamma Giuseppina frequentò la casa come allieva nel 1933 e 1934. Dopo le dimissioni dal Ministero delle Corporazioni, nell’agosto del 1943, vi tornò come insegnante fino al 1945 e poi ancora dal 1957 al 1960, alternando il ruolo di “Beneamata Maestra” a quello di “Regina della casa”, avendone sposato il proprietario nel 1950. Nel 1957 si rese anche promotrice del “Centro di Lettura”, istituito per favorire l’alfabetizzazione degli adulti che non avevano frequentato le scuole primarie. Nel 1950, dopo pochi mesi dal matrimonio, Papà Lorenzo decise che era giunto il momento di non tergiversare oltre nell’allinearsi con il progresso e così, con l’entusiastico fervore dei suoi trenta anni, fondò una Società Cooperativa per favorire l’elettrificazione delle zone rurali. Immancabilmente, come sempre accade alle persone che sono “avanti”, dovette faticare non poco per rimuovere gli ostacoli frapposti dai mestatori di turno, che mal sopportano gli spiriti liberi, orientati al Bene. Lorenzo Lavorgna era soprattutto un benefattore e i benefattori sono invisi ai perfidi, adusi a sfogare con una condotta immorale le frustrazioni scaturite dai propri limiti e dalla vita miserabile. In ogni epoca storica, poi, non sono mai mancati i “lazzari”, per ignoranza incapaci di discernere il grano dal loglio, sempre in ritardo sui tempi e spaventati dal “nuovo che avanza”. Davvero una bella guerra, per il mio Papà! Un uomo che conosceva sin da ragazzino, tanto per citare solo uno dei tanti aneddoti che mi sono stati raccontati, non esitò a puntargli il fucile in faccia, minacciandolo di morte se avesse continuato a chiedergli l’autorizzazione per l’istallazione dei pali nel suo terreno. Era saggio, il mio Papà, temprato dagli anni di guerra, dalla dura campagna in Libia e soprattutto da un retaggio ancestrale che affonda le radici nella notte dei tempi. Non poteva certo temere un fucile mantenuto da mani tremanti e sudaticce. Sorrise al poveretto e lo “disarmò” con la sua voce pacata, facendogli comprendere che un giorno lo avrebbe ringraziato per l’utile opera che stava producendo, anche per lui! Il


poveretto abbassò fucile e capo, rendendosi conto di essere un nano al cospetto di un Gigante. Nondimeno quelli furono anni fastidiosi, soprattutto per la cara Mamma, che proprio non riusciva ad accettare lo spirito altruistico ed eccessivamente “romantico” del marito, che continuava l’opera entusiasticamente intrapresa nonostante fosse costantemente osteggiato da chi avrebbe dovuto portarlo in palmo di mano. Nel 1954 la RAI iniziò i programmi televisivi, ma la televisione era ancora un miraggio perché i lavori di elettrificazione procedevano a rilento. Papà non esitò a intervenire con i suoi capitali per fronteggiare i mille ostacoli artatamente orditi dagli squallidi individui che volevano far fallire il progetto. Dopo sette anni di dure battaglie, finalmente, l’impresa poté ritenersi compiuta. Tutte le aree rurali furono “illuminate” grazie all’opera indefessa di un Uomo eccezionale. Aveva promesso che il secondo figlio sarebbe cresciuto senza candele e lampade a petrolio e mantenne la promessa. Non mancarono cattiverie e tiri mancini anche a lavori ultimati ma Papà non si curava dei meschini e guardava avanti. Il 31 ottobre 1957, presso il Grand Hotel delle Terme di Telese, si tenne la cerimonia inaugurale. Il ruolo di “Madrina” fu affidato alla Donna che, nonostante la ripugnanza nei confronti di troppe persone che erano lì a gozzovigliare dopo aver boicottato per anni il progetto, non aveva mai mancato di supportare Papà, dandogli forza nei momenti di sconforto. Dietro ogni Grande Uomo, infatti, vi è sempre una Grande Donna: nella fattispecie, Giuseppina Federico, mia Madre. Nel marzo del 2016, dopo cinquantanove anni, non senza un pizzico di emozione, di buon mattino mia sorella Annalisa e io vedemmo gli operai dell’ENEL che ammodernavano la rete realizzata grazie al mio Papà, sostituendo pali e cavi. Oggi, 31 ottobre 2017, scrivo questo ricordo con il cuore in sussulto, come sempre quando parlo della mia Famiglia, e con tanto orgoglio. Sono trascorsi sessanta anni da quando mio Padre poté esclamare, con quel suo sorriso più unico che raro: “E LUCE FU”. Avevo poco più di due anni, allora, e ovviamente non ricordo nulla. Ma è come se vedessi un film perché riesco a immaginare tutte le scene di quei momenti, che si assomigliano sempre: sono le scene nelle quali gli Uomini destinati a essere ricordati in eterno si ergono con la semplicità del loro essere, brillando di luce propria, mentre, tutt’intorno, i nanerottoli con le facce tese e il perenne mal di pancia mugugnano sottovoce, rosi e corrosi dall’invidia e dalla cattiveria. E’ la storia dell’umanità, del resto, che si ripete ciclicamente. Oggi di Uomini come Lorenzo Lavorgna ne nascono sempre di meno, perché il male sta trionfando in ogni latitudine e l’odio acceca gli animi. Ancorché pochi, tuttavia, sono loro che consentiranno di tenere accesa la fiammella della speranza per un mondo migliore e alla fine vinceranno, perché il male può vincere qualche battaglia, ma non vincerà mai la guerra. Ciao, Papà. Grazie di tutto. (Blog www.galvanor.wordpress.com – 31 ottobre)


(Video su Vimeo)



AS TIME GOES BY! AS TIME GOES BY? PROLOGO: TEMPO TERRESTRE. TEMPO SPAZIALE. Da giovane amavo trascorrere molte ore a rimirar le stelle, assiso sulla sponda del mare, in quel luogo ameno della costa campana già caro a Ibsen, Nietzsche e Wagner. Proiettavo lo sguardo verso l’Infinito e raggiungevo fette di Spazio inesplorato. Lì, dall’altra parte, scorgevo qualcuno che mi guardava proprio come io guardavo lui e riconoscevo me stesso, bambino. Mi affascinava quel gioco “irreale”, che dava significanza “reale” a un sogno antico: viaggiare nel “Tempo”. Furono queste suggestioni che mi suggerirono di far nascere il protagonista di “Prigioniero del Sogno” in una galassia lontana milioni di anni luce dalla nostra, per poi farlo arrivare sulla Terra in pochi attimi, grazie a quelle crepe spaziotemporali che si formano in prossimità dei buchi neri. E’ su questo mondo, poi, che l’extraterrestre dovrà misurare il suo “essere” con un tempo diverso da quello che conosceva: il “tempo” degli uomini. ESISTE DAVVERO IL TEMPO? Per i fisici, ovviamente, la domanda è meramente retorica. Il tempo, così come concepito nel linguaggio comune dalla maggioranza delle persone, non esiste. Non serve certo ribadire qui la progressiva evoluzione del concetto da Aristotele a Einstein, passando per Newton. Non è il caso nemmeno di penetrare nel melmoso mare del “motore immobile”, tematica indicata nella proposizione del tema mensile: non riuscirei a sviluppare l’analisi senza offendere i lettori affini a coloro che il pensiero aristotelico hanno strumentalizzato a proprio uso e consumo, trattandolo come una fisarmonica dalla quale fare uscire solo le note gradite. Nessuna volontà, sia ben chiaro, di privilegiare il “politically correct” nei confronti di un’importante struttura secolare, ma solo la consapevolezza che si tratterebbe di “tempo perso”: le mie parole sarebbero inevitabilmente destinate a rimbalzare contro un muro granitico senza nemmeno scalfirlo. Occorreranno ancora molti secoli prima che quel muro si disintegrerà per un processo naturale di consunzione, pari a quella che determina il degrado del cemento armato. Le stesse parole risulterebbero del tutto superflue, invece, per coloro che non hanno bisogno di muri protettivi, da molti dei quali potrei io imparare qualcosa. Qui basti ribadire, perché ciò è sempre giusto, l’importanza di “abbandonarci” ancora e sempre alla “meraviglia” di Aristotele e sforzarci di farla nostra, non solo nello studio, che ci eleva e ci consente di essere migliori, ma anche nella vita quotidiana, fonte di continui spunti “meravigliosi” che spesso ci sfuggono a causa di inutili distrazioni. Quanto più saremo capaci di “cercare il sapere al solo fine di sapere e non per trarne un utile” (1) tanto più si accorcerà il tempo necessario a buttare giù quel terribile muro sul quale rimbalzano le idee più possenti, contribuendo sensibilmente allo smarrimento che angustia una buona fetta dell’umanità. Rimandiamo ad altri contesti, pertanto, le complesse disquisizioni dottrinarie che, per quanto interessanti, poco possono aggiungere al tanto già detto e scritto e soffermiamoci su argomenti più intriganti.


Il tempo non esiste, quindi, e la separazione tra passato, presente e futuro è un’illusione. Per quale ragione, però, non riusciamo a staccarci da questa illusione e ci lasciamo condizionare da essa in ogni momento della nostra esistenza? E’ la natura umana, rispondono gli scienziati, precisando che gli uomini non sono in grado di emanciparsi dalla “complessità del mondo” e vivere a livello elementare, la qualcosa consentirebbe di “accettare tutto”, serenamente. La risposta dei filosofi è solo apparentemente simile, ma l’aggiunta di un termine ne sancisce la sostanziale differenza: “Sono i limiti della natura umana” che non ci consentono di staccarci dall’illusione temporale. E su quei limiti si gioca tutta l’essenza della nostra esistenza, rapportata al tempo. “Limite”, in questo caso, va inteso nell’accezione etimologica più pregnante: il confine ideale al di là del quale si verifica un determinato fenomeno. Nella fattispecie la trasformazione dell’essere umano in qualcosa di sostanzialmente diverso, capace di nascere, vivere e morire senza provare emozioni. Si sconfiggerebbe il dolore, certo, perché anche il dolore, atomisticamente parlando, è un’illusione. Cionondimeno nessuno è disposto a varcare quel limite e resta caparbiamente attaccato alla propria illusione, tenendosi tutte le palpitazioni che la vita gli offre, nel bene e nel male. L’ESSERE RAPPORTATO AL TEMPO: IL DILEMMA INSOLUTO E’ un vero peccato che Heidegger non abbia ultimato il pregevole testo, manchevole della seconda parte, di carattere storico, ma soprattutto della terza sezione della prima parte, quella destinata a sviluppare il pensiero espresso nelle prime due parti e chiudere il cerchio sul problema del senso dell’essere in generale. Pietro Chiodi (2) ha giustamente osservato che l’opera del grande pensatore si può paragonare a un edificio interrotto dopo lo scavo delle fondamenta e prende per buona la spiegazione fornita dallo stesso Heidegger: il linguaggio disponibile non consentiva di passare dalla discussione sul senso dell’esistenza, ossia la temporalità, al problema del senso dell’essere in generale. La disquisizione non consente una facile decantazione, anche perché qui non si tratta di un’interpretazione soggettiva effettuata a posteriori, ma dell’esplicazione di un concetto espresso direttamente dall’autore, che ovviamente può solo essere accettato tout-court o confutato con argomentazioni poco digeribili, perché potrebbero solo evidenziare una resa di Heidegger, strumentalmente giustificata con i limiti del linguaggio. Nessuno oserebbe tanto. Fra qualche secolo, però, dalle ceneri del decadentismo contemporaneo dovrà necessariamente svilupparsi la fiammella che impedirà al genere umano di autodistruggersi prima del “Tempo” (due miliardi di anni più o meno, secondo gli scienziati); avremo nuovi grandi filosofi e sarà possibile cesellare il pensiero di Heidegger. Oggi, necessariamente, occorre spostarsi dal campo speculativo dell’essere visto come “ente” rapportato al tempo, a quello più arabile dell’essenza dell’essere umano, costituita dalla relazione con se stesso e con gli altri. Non tragga in inganno, tuttavia, l’espressione “campo più arabile”. Essa vuole solo sancire la possibilità di costruire un discorso di senso compiuto sull’essenza dell’essere, sia pure nell’esteso ambito delle diverse teorie e interpretazioni


propugnate da scienziati, teologi e filosofi, la cui trattazione è possibile in saggi specifici e non certo in un articolo. Ci limiteremo, pertanto, a una veloce rimembranza di “cogito ergo sum”, che vede il concetto di essere in una posizione subalterna a quella del pensiero, ed “essere o non essere”, che spalanca le porte tanto sulla debolezza dell’uomo quanto sulla possibilità che egli possa dare un senso al proprio tempo (e quindi alla propria vita) levandosi in armi in un mare di triboli e, combattendo, disperderli. Sorvolando su Shakespeare per amor di sintesi, è appena il caso di spendere qualche parola sia sui numerosi e “ingiusti” strali tributati a Cartesio, a partire da Giambattista Vico (3), sia sulle testimonianze di affetto troppo sfacciate, che proprio in virtù della loro “assolutezza”, paradossalmente, si trasformano in una “negazione” dei presupposti razionalistici propugnati dal pensatore. Fa scuola, a tal proposito, l’enfatica espressione di Hegel: “Qui possiamo dire che siamo a casa e, come il navigante dopo una lunga peripezia su un mare tumultuoso, possiamo gridare “Terra”. Magari fosse così facile! Un corretto e onesto approccio al pensiero, del resto, è uno dei grandi dilemmi dell’umanità, da sempre. L’uomo si è sempre sforzato di “dissacrare” ciò che non riteneva funzionale al proprio essere e “impossessarsi”, anche impropriamente, di ciò che riteneva plasmabile. Emblematica, a tal proposito, l’analisi di Hume. Nell’antichità, personaggi come Anassagora e Socrate, che sostenevano la liceità del teismo e negavano il valore religioso delle stelle, dei pianeti e delle divinità mitologiche, venivano accusati di ateismo. Viceversa, chi ateo lo era davvero, come Talete, Anassimandro, Eraclito, ma evitava di negare il valore religioso condiviso dalla maggioranza della popolazione, non fu mai perseguitato.(4) Il paradosso più grande è che sono trascorsi circa tre millenni da quei tempi e non siamo stati ancora capaci di affrancarci dalla volontà di “piegare” il pensiero dei grandi, che a prescindere dal campo in cui hanno pascolato è stato sempre espresso “in buona fede”, alle nostre miserabili esigenze, per lo più gestite in “cattiva fede”. NON ESISTE UN TEMPO PER TUTTE LE COSE Mi si perdoni la dissacrazione di un concetto ben radicato nella cultura occidentale, che alcuni attribuiscono addirittura a Salomone, altri si manifestano scettici su tale ipotesi e altri ancora, tra i quali chi scrive, non hanno difficoltà a negarla senza eccezioni. I capisaldi dell’Ecclesiaste sono suggestivi e di rapida presa per l’immaginifico della moltitudine, che predilige ciò che ben si predispone all’anima, senza sforzarsi di comprenderne la reale essenza. Evitando a piè pari inutili disquisizioni, quindi, per passare agevolmente oltre basti e avanzi quanto affermato da Voltaire: “ […]Quel che sbalordisce è che quest'opera empia sia stata consacrata fra i libri canonici. Se si dovesse stabilire oggi il canone della Bibbia, non ci si includerebbe certo l'Ecclesiaste; ma esso vi fu inserito in un tempo in cui i libri erano molto rari, ed erano più ammirati che letti. Tutto quel che si può fare oggi è mascherare il più possibile l'epicureismo che prevale in quest'opera. Si è fatto per l'Ecclesiaste come per tante altre cose ben più rivoltanti; esse furono accettate in


tempi d'ignoranza; e si è costretti, ad onta della ragione, a difenderle in tempi illuminati, e a mascherare l'assurdità o l'errore con allegorie”. (5) Se non esiste il Tempo e non esiste un tempo per tutte le cose, dall’Ecclesiaste possiamo secernere l’unica intuizione che meriti una certa attenzione: “Vanitas vanitatum et omnia vanitas”. La frase consente di meglio sostenere il più celebre detto “sic transit gloria mundi” e porre in risalto l’insipienza del genere umano. Comprendere bene quanto siano fatue le cose del mondo, del resto, aiuta molto a dare un senso al proprio tempo, ma anche in questo caso si combatte una battaglia persa in partenza (ancora tempo perso, quindi) perché la stragrande maggioranza degli uomini non pensa in quale cimitero vuole essere sepolto ma in quale piazza vorrebbe la propria statua. O TEMPORA O MORES Duemila anni fa Cicerone si arrabbiava tantissimo costatando la corruzione che dilagava in ogni ambito. Non riusciva proprio a digerire che quel farabutto di Catilina vivesse impunemente e impunemente continuasse a tessere le sue trame, senza che il Senato lo condannasse a morte, come sarebbe stato giusto, visto che per la congiura erano stati condannati a morte dei diretti collaboratori. Spassoso vero? Mi ricorda “tizio” condannato a una severa pena per essere stato presente all’omicidio compiuto da “caio e sempronia”, che però girano impuniti perché giudicati “innocenti” e quindi meritevoli anche di essere corteggiati da editori e registi, per raccontare le proprie gesta, lautamente retribuiti. Oppure mi ricorda un mattacchione che si lasciò corrompere (con una somma di tutto riguardo, a onor del vero) per raccontare minchiate ai giudici e preservare il corruttore da sicure pesanti condanne. Smascherato, si beccò la giusta pena, che ovviamente sarebbe dovuta servire come prova per quella ancora più severa da infliggere al corruttore. Aspetta tu! Devo continuare? Non serve. “O Tempora o Mores”, diceva Cicerone, pensando al suo Tempo e senza prevedere che sarebbe stato sempre così. I TEMPI BELLI DI UNA VOLTA Quali sono? Non so rispondere a questa domanda: proprio non li conosco. Non so nemmeno se vi siano stati. Penso che ogni tempo abbia avuto il bello e il brutto contemporaneamente e poi, l’uomo, invecchiando, ha imparato a cullarsi nell’illusione dei tempi belli di una volta. La mente modifica i ricordi in funzione dello stato d’animo del presente. Agli uomini piace illudersi! In realtà, qualsiasi cosa dovessimo fare nella nostra vita, arriva sempre il momento in cui, realmente o metaforicamente non importa, ci ritroveremo a strimpellare le note di “Come passa il tempo”, con un pizzico di malinconia, anche se circondati da pareti ricche di trofei. E a quel punto davvero diremo, semplicemente: “Come passa il tempo!”, con il punto esclamativo, perché proprio non avremo più né la voglia né la forza di chiederci: “Come passa il tempo?” NOTE


1) Il concetto di meraviglia, come ispirazione per la sapienza, è sviluppato nel primo libro della “Metafisica” (982 b, 10) “Basta guardare a quelli che per primi hanno esercitato la filosofia, perché risulti chiaramente che la sapienza non è un sapere produttivo. Gli uomini, infatti, sia da principio sia ora, hanno cominciato a esercitare la filosofia attraverso la meraviglia […]. Chi si pone problemi e si meraviglia crede di non sapere, perciò anche colui che ama i miti è in certa misura filosofo, perché il mito è costituito da cose che destano meraviglia”. 2) Martin Heidegger, Essere e Tempo, Introduzione. Classici UTET su licenza Longanesi, 1978 3) Per Vico la natura è opera di Dio e quindi, secondo lui, l’uomo non può conoscerla e deve solo far riferimento alla storiografia, che consente di analizzare fatti realmente accaduti. 4) David Hume, Storia naturale della religione, Editore Laterza, 2007 5) Voltaire, voce “Salomone” del Dizionario filosofico (Confini, Nr. 57 – Ottobre)


IL SESSO MALATO: STUPRI, MOLESTIE, ACCONDISCENDENZA PREMESSA So bene che mi tirerò addosso gli strali delle femministe incallite e degli pseudo intellettuali che vorrebbero un mondo perfetto e pretendono di vivere come se davvero lo fosse, ma non me ne frega niente. Ciò che scrivo in quest’articolo, del resto, lo ripeto da decenni. Nihil novi sub sol, quindi, ma la recrudescenza delle violenze sessuali impone il ribadimento di concetti che, per quanto duri e poco gradevoli, sfondino la barriera dell’ipocrisia sociologica che a nulla serve se non a riempire pagine di giornali, mentre la lista delle vittime cresce a dismisura. I FATTI Partiamo da un recente episodio assurto alla ribalta della cronaca. Una venticinquenne di Catania si reca in discoteca con una persona conosciuta su un social network. Durante la serata, secondo prassi ben consolidate negli ambienti giovanili, beve abbondantemente e fa amicizia con un altro uomo, che si offre di accompagnarla a casa. (Non ho reperito notizie sulla fine fatta dal primo tipo). Lei accetta e l’uomo la fa accomodare in auto, nella quale entrano anche due suoi amici. I tre, lungi dall’accompagnare la ragazza a casa, la conducono in una zona isolata dell’entroterra etneo e la violentano ripetutamente, con immancabile videoripresa dello stupro. Appagati i sensi, si dileguano abbandonando la sventurata nel cuore della notte, in una zona isolata. Un passante, alle cinque del mattino, la soccorre e chiama i Carabinieri. Seppure in stato di shock, la ragazza riesce a fornire elementi utili per l’identificazione degli stupratori, che vengono arrestati nel giro di poche ore. LIBERTA’ NON VUOL DIRE FARE SEMPRE CIO’ CHE SI VUOLE. La vicenda non necessita di commenti. E’ ben chiaro che ciascuno è libero di vivere la propria vita come meglio ritenga opportuno. Il discorso, quindi, necessariamente va improntato sulle modalità comportamentali attuate in talune circostanze, perché nessuno agisce volontariamente per farsi del male o vivere esperienze terribili e mortificanti. Si tratta di stabilire una dimensione “culturale” del problema, per farne recepire l’essenza alla luce della realtà contingente, come avviene per tante altre fenomenologie sociali, che determinano azioni serenamente accettate e addirittura praticate con uno zelo che talvolta appare decisamente eccessivo. A titolo di esempio cito un episodio che risale a qualche anno fa, verificatosi in una grande città italiana. Le protagoniste sono due diciassettenni, figlie di miei conoscenti, brillanti studentesse, ligie ai doveri familiari e ben orientate verso percorsi di vita che riflettono le aspettative dei genitori. Sono anche bellissime e periodicamente si cimentano in quel mondo della moda che affascina tutte le ragazzine, concedendosi qualche sfizio con i proventi delle sfilate e dei servizi fotografici. Grace (nome non reale) abita al quinto piano di un edificio ubicato all’interno di un parco “iperprotetto”, con tanto di guardiano all’ingresso principale, che è anche l’unico dal quale si possa accedere. I furti, in quel parco, costituiscono impresa ardua anche per le bande più specializzate. Nondimeno quasi tutti gli appartamenti sono muniti di porte blindate e sofisticati impianti antifurto. Alle diciassette di un pomeriggio qualsiasi Grace riceve una telefonata dalla sua amica del cuore, che le chiede di accompagnarla in un negozio per degli acquisti. La mamma di Grace lavora in ospedale e sarebbe rientrata tardi. Il papà è bancario, prossimo al rientro, ed è a lui che telefona per dirgli che si appresta a uscire. Nonostante l’imminente arrivo del papà, tuttavia, chiude


la porta attivando “istintivamente” sia l’antifurto elettronico sia la doppia serratura. Diciamo che in tale circostanza sarebbe bastato tirarsela dietro in modo da poterla aprire con un semplice giro di una sola chiave. La “formazione” impartitale per difendere i propri beni, però, è tale da indurla ad attivare le protezioni ogni volta che in casa non resti nessuno, anche per poche decine di minuti. Raggiunta l’amica, mentre passeggiano serenamente, vengono affiancate da due giovani che iniziano a fare i pappagalli. Sono due fusti niente male, in perfetta simbiosi con le potenti moto che padroneggiano con maestria. In men che non si dica le due ragazze sono in sella ed è facilmente immaginabile cosa sia successo dopo. Cosa spinge due ragazze di buona famiglia, che proteggono oltre il necessario un’abitazione a prova di furto, a fidarsi di due sconosciuti sol perché “avevano la faccia dei bravi ragazzi”? Il punto cruciale di tutta la problematica è proprio questo. Vi sono senz’altro le violenze perpetrate a donne che subiscono “anche” il rapimento o l’aggressione; è molto alto, tuttavia, e forse addirittura più consistente, il numero delle violenze subite da coloro che si siano improvvidamente fidate di uomini appena conosciuti. Per oltre trenta anni ho diretto un’agenzia di modelle e conosco bene il modo di ragionare di tante ragazze. Per loro è normale accettare l’approccio di uno sconosciuto, “per amicizia”, senza avere alcuna intenzione di finirci a letto, almeno non subito. Per quanto possa sembrare paradossale, non si ritiene che sia molto difficile incontrare dei “gentleman” in discoteca o per strada e quindi è sempre opportuno non fidarsi. La sfilza degli esempi è davvero lunghissima e qui basti solo ricordare la studentessa di Tivoli che fu stuprata all’esterno di una discoteca, all’Aquila, e abbandonata nella neve. La ragazza si recò nel locale da sola e fu brutalizzata con strumenti metallici dopo essersi appartata con un militare appena conosciuto. Il militare è stato condannato a otto anni di carcere, ma lei dovrà convivere per sempre con il fardello di quella terribile esperienza, che indusse il ginecologo del pronto soccorso a dichiarare di non aver mai visto lacerazioni di tale portata. UN MESSAGGIO CHIARO Il messaggio, nella sua drammaticità, è molto semplice. Occorre accettare l’idea che esiste un profondo gap culturale e comportamentale tra femmine e maschi. Una ragazza può essere pronta a socializzare, a fare amicizia, senza per questo essere disponibile a fare sesso con chiunque. La stragrande maggioranza dei maschi non è pervasa da analoghi presupposti e l’accettazione di un invito a bere un drink da parte di una ragazza, magari avvenente e sexy, per loro prelude a un rapporto sessuale. Spesso ciò accade con serena consonanza d’intenti. In tante occasioni, però, l’approccio sessuale è respinto e ciò lascia affiorare gli istinti primordiali non sedati dal processo evolutivo. Questo è quanto. E’ facile far comprendere anche a un bimbo di cinque anni che esistono i ladri e pertanto occorre prestare molta attenzione per tutelare i propri beni. E’ così difficile far accettare i presupposti di cui sopra? La domanda è retorica, almeno per me, perché so bene quanto sia difficile, avendo ben analizzato le reazioni delle dirette interessate quando ho spiegato loro, in modo ancora più esplicito e composito, la problematica esposta. Insistere su quest’analisi e renderla ricettiva, tuttavia, risulta di fondamentale importanza per arginare in modo significativo il triste fenomeno della violenza sulle donne. Prevenire, come sempre, è meglio che curare. Poi, va da sé, vanno compiutamente affrontati anche altri aspetti, connessi alle norme che disciplinano il reato di stupro,


troppo blande, e all’eccessiva propensione delle ragazze a ubriacarsi e drogarsi, facilitando di molto la vita a chi intenda abusare di loro. Come sempre, chi è causa del suo mal poi può solo piangere se stesso. A prescindere: il lassismo con cui si tollera l’uso di droga e alcool da parte dei giovanissimi, quando non addirittura lo si favorisce, è colpa grave degli adulti. SESSO E POTERE: UN RAPPORTO ANTICO Non si è ancora spenta l’eco dello scandalo che ha travolto Hollywood grazie alle dichiarazioni di alcune tra le tanti attrici che sono state molestate sessualmente dal produttore Harvey Weinstein. Gli argomenti pruriginosi “tirano” e la stampa si è gettata a capofitto sulla vicenda, producendo una messe enorme di analisi e interviste. E’ facile presagire che i tanti settimanali di gossip camperanno bene per molti mesi, con questa storia, in attesa della prossima. Il fulcro della vicenda, in effetti, è che anche in questo caso non vi è niente di nuovo sotto il sole. A scanso di equivoci è bene ribadire ciò che ho già detto e scritto decine di volte: chiunque abusi del proprio potere per portarsi a letto una donna è un essere spregevole, indegno di vivere in un consorzio civile e meritevole, prima ancora di rispondere penalmente delle sue azioni, di essere “trattato” clinicamente con procedure particolari sui cui dettagli non scendo, precisando solo che metterebbero al sicuro chiunque dovesse trovarsi al suo cospetto. Detto questo, passiamo al secondo aspetto della vicenda, che appare addirittura banale nella sua enunciazione: “Se tutti coloro che ricevono molestie, invece di assecondare i porci, li denunciassero subito, il fenomeno si ridurrebbe drasticamente”. Il dato fondamentale, pertanto, è che esistono i porci ma anche le zoccole, che con i porci non si fanno alcuno scrupolo di accompagnarsi, pur di far carriera, di accelerare il percorso universitario, di ottenere una parte in un film. Certo, può costare caro dire “NO” (e io lo so per esperienza diretta, come spiegherò tra poco) ma è una questione di scelta: chi dice “SI’” non è una vittima ma una che si prostituisce. Alcune amiche avevano iniziato una brillante carriera nel mondo dello spettacolo, con numeri davvero alti sotto qualsivoglia profilo: talento reale, buona scuola, physique du rôle, grande personalità, indiscusso fascino. Hanno ricevuto, come tante, ricatti e molestie e si sono rese conto che se non avessero ceduto sarebbero state scavalcate dalle mezze cartucce pronte ad aprire le gambe a un semplice schiocco di dita. Hanno visto i loro sogni infranti sul mefitico altare di un sistema schifoso, popolato da essere immondi, e hanno deciso di non accettarne le regole. Si sono realizzate professionalmente in altri contesti, nei quali sono loro a dirigere la baracca e quindi non corrono alcun rischio. Hanno dovuto rinunciare, però, a ciò che più bramavano. Da giovane, le mie sorti di teatrante, che vivevano momenti difficili per la propensione a mettere in scena le cose che piacevano a me e non quelle che piacevano agli altri, subirono un radicale cambiamento quando incontrai una persona che dimostrò di apprezzare i miei lavori e si rese disponibile a produrre anche l’opera più importante da me realizzata, ossia la trasposizione in prosa della tetralogia wagneriana (L’anello del Nibelungo). Un’opera che mi era costata quasi un anno di lavoro e che induceva a scomposte reazioni tutti coloro ai quali la proponevo: “Tu sei pazzo”; “Ma chi te lo fa fare? Scrivi una cosuccia allegra e cerchiamo di avere anche qualche contributo”. Quelli più importanti, poi, erano i peggiori (e ritorniamo al solito discorso): “Linuccio, ma tu nun tien pure nu giro e’ belle figliole? E faccimm’ nu bell musicàl, nu can can! A chi cazz vuò che interess sta cosa strevza che m’hai purtat! Ca nun se capisce nient! Si vulimm fa caccosa io sto ccà”. “Ma no guardi, lei è un importante produttore teatrale e io “solo” di teatro


sono venuto a parlare con lei”. “E vabbuò, e nui dint a nu teatro facimm o’ spettacul, ma porta doie belle figliole… lassa sta’ sti cose strevze”. (Chiedo scusa ai napoletani veraci per gli errori, ma presumo che il concetto traspaia. Per i non napoletani: “strevz” vuol dire “strano”). Può immaginarsi la mia gioia, pertanto, quando finalmente trovai qualcuno che mi prese seriamente in considerazione. Avrebbe potuto essere un uomo, magari felicemente sposato o fidanzato e invece era una donna. Professionalmente era un vero portento e me ne resi conto subito. Purtroppo si prese una brutta scuffia per me e mi fece chiaramente capire che il nostro rapporto doveva marciare su due binari. Non si può parlare di molestie, ovviamente, perché i suoi sentimenti erano reali ed espressi educatamente, sia pure con ferma determinazione, inducendomi a effettuare una scelta ben precisa: avrei potuto assecondarla e beneficiare del suo “insostituibile supporto” o troncare subito. Optai per la seconda ipotesi e dissi “NO”: non mi andava di “prostituirmi”, tanto più nei confronti di una persona che era sinceramente innamorata di me. Correva l’anno 1988 e i miei sogni di “teatrante” finirono lì. Se si può dire “NO” in simili circostanze è ancora più facile dirlo al cospetto di un porco che generi profondo disgusto. E’ solo una questione di scelta. Il mondo dello spettacolo da sempre funge come icona di questo diffuso malcostume, ma ciò rappresenta la più colossale delle leggende metropolitane. Non vi è ambiente che ne sia immune, come ben sanno soprattutto le vere “vittime” di un lercio sistema, che non sono certo le donne “molestate” dagli uomini ricchi e potenti, bensì quelle che, dicendo “NO”, lasciano loro campo libero per fulgide carriere in ogni settore: artistico, professionale e politico. (Confini, Nr. 57 – Ottobre) POST SCRIPTUM Questo articolo ha suscitato qualche critica per il riferimento alla necessità di denunciare subito le molestie. Pur essendo ben chiaro il pensiero espresso (basta leggere attentamente per rendersene conto), ritengo opportuno replicare alle critiche in modo ancora più esaustivo. Se una donna viene molestata, se le vengono chieste prestazioni sessuali in cambio di favori, promozioni, parti importanti in film, etc, qualora non intenda “prostituirsi”, dovrebbe denunciare subito il porco di turno. Ben altro discorso, invece, è subire una violenza fisica che si configuri come stupro: in questo caso può rendersi necessario anche moltissimo tempo prima di trovare la forza di denunciare quanto subito. Ho affrontato il problema in un altro articolo, spiegando bene che la vigente normativa, in tema di limite temporale per la denuncia, va rivista in modo da assicurare alle donne il tempo necessario a metabolizzare un’esperienza traumatica. Nel succitato articolo, invece, il riferimento era esclusivamente alle molestie, che possono essere respinte e denunciate subito, se si vuole.


ERNST JUNGER: QUEL POMERIGGIO DI OTTOBRE, TRENTA ANNI FA "La storia autentica può essere fatta soltanto da uomini liberi. La storia è l’impronta che l’uomo dà al destino. In questo senso possiamo dire che l’uomo libero agisce in nome di tutti: il suo sacrificio vale anche per gli altri”. (Il trattato del ribelle – 1951) Spesso mi chiedo come sarebbe il mondo se tutti leggessero alcuni libri, traendone spunti per le proprie azioni, in special modo quando si occupino importanti posizioni di potere. E’ pazzesco costatare come l’umanità, possedendo antidoti sicuri per curare le proprie malattie più gravi, se ne privi in modo così sfacciato. Mi si obietterà che la storia non si fa con i “se” e le cose accadono perché l’uomo risponde a impulsi e condizionamenti che contemplano anche l’ignoranza. E’ senz’altro vero, ma il pregiudizio sul “se” non mi ha mai convinto. Una bella fetta della storia dell’umanità, di fatto (ma forse sarebbe più corretto dire tutta), non è altro che una variabile del “se”. Come sarebbe cambiata la storia del mondo “se”, in Palestina, al posto di Ponzio Pilato, corrotto, licenzioso, crudele e non certo pervaso da grandi doti di lungimiranza, vi fosse stato un prefetto realmente capace di valutare le conseguenze delle proprie azioni e gestire gli eventi in modo appropriato, salvando Gesù dalla croce? Wellington avrebbe mai vinto a Waterloo “se” non si fossero verificate una serie infinita di circostanze “casuali” solo a lui favorevoli? (1) Henry Tadney è un nome misconosciuto, ancorché legato a un evento che ha segnato, e non poco, la storia dell’umanità. Il 28 settembre 1918, sul finire della prima guerra mondiale, un plotone d’assalto inglese (faceva capo al reggimento “Duca di Wellington”), attaccò una trincea nemica a Marcoing, nei pressi di Cambrai, in Francia. Tra i soldati inglesi vi era proprio il ventisettenne Henry Tadney, già veterano di tante battaglie e più volte ferito in azione. L’assalto fu letale per i tedeschi, sopraffatti in pochi minuti. Henry, entrato in trincea, si trovò davanti a un caporale ferito, sanguinante e impaurito, già presago della sorte che lo attendeva. Il soldato inglese, invece, pronto per sferrare il colpo mortale, indugiò e abbassò l’arma, lasciandolo vivere. “Non potevo sparare a un uomo ferito”, dirà in seguito. La battaglia di Marcoing gli valse la “Victoria Cross”, la più alta onorificenza militare assegnata per il valore "di fronte al nemico". Peccato che il caporale cui salvò la vita si chiamasse Adolf Hitler. Il 15 agosto 1944, 200mila soldati invasero la Provenza, per accerchiare l’esercito tedesco in Francia, già in rotta grazie allo sbarco in Normandia del 6 giugno. Winston Churchill fece di tutto per convincere Roosevelt che l’operazione “Dragoon" (nome in codice dell’invasione alleata) era sostanzialmente inutile e che sarebbe stato preferibile dirottare le truppe nei paesi dell’Europa dell’Est, per occuparle prima che cadessero nelle mani dei russi. Come sarebbe cambiata la storia del mondo “se” il presidente degli USA avesse dato retta al primo ministro inglese? Ritornando ai libri: Hitler avrebbe invaso la Russia se avesse letto “Guerra e Pace?” Cinque esempi, piuttosto significativi, di una lista infinita.


Mi ero preparato bene, alla vigilia di quel 5 ottobre 1987, che vide Ernst Jünger protagonista di un convegno organizzato dall’Istituto “Suor Orsola Benincasa” di Napoli. Volevo porgli tante domande, tra le quali proprio quella sul “se”, che risultava oltremodo interessante, visto che era stato capace di vivere la vita che aveva voluto. Ma era stato proprio così? E in caso affermativo, a che prezzo? Al convegno mi recai con due carissimi amici, Bruno e Annamaria. Bruno era già un apprezzato docente universitario e Annamaria muoveva i primi passi della brillante carriera accademica. Bruno era stato docente di entrambi, quando, a soli ventidue anni, già fungeva da assistente di Ricardo Campa nel corso di Storia delle Dottrine Politiche, presso la facoltà di Scienze Politiche della Federico II. Poi scoprì che Annamaria non era solo una bravissima allieva, ma una donna eccezionale con rare virtù, e la sposò (2). L’aula magna dell’Istituto era gremita e, per quanto capiente, non poteva contenere la marea umana che si assiepava ovunque fosse possibile, per ascoltare la voce del Ribelle che combatte il Leviatano; la voce di quel gigante del pensiero, capace di spiegare la storia con la “visione” del testimone diretto e predire il futuro (3). Compresi subito che i miei propositi colloquiali erano destinati a fallire miseramente, considerato l’alto numero di eminenti studiosi che popolava le prime file e relatori che palesavano eloquenti intenti di monopolizzare il convegno. Dopo la prolusione del Rettore, il filosofo e futuro parlamentare europeo Biagio De Giovanni, a turno presero la parola gli altri. Di Giacomo Marramao ricordo la lunga esposizione in un perfetto tedesco e le domande poste a Jünger, sempre in tedesco, che poi traduceva in italiano. Carlo Galli (4) disquisì sulla “Mobilitazione totale”, testo scritto nel 1930, del quale aveva curato la traduzione. Il saggio mette in risalto le straordinarie mutazioni insorte nella società con lo scoppio della I Guerra mondiale, che non vide solo gli eserciti combattersi su un campo di battaglia, ma la mobilitazione dell’intera umanità, quale che fosse il ruolo dei singoli individui. Non vi è alcuna differenza tra il soldato che combatte in trincea e “l’operaio” che costruisce armi in fabbrica. Ecco comparire, quindi, “Der Arbiter”, la figura umana che sarà sviluppata in uno dei testi più famosi, pubblicato nel 1932: “L’Operaio. Dominio e forma”. In entrambe le opere Jünger registra il dinamismo delle forze primordiali della vita che, tornando alla ribalta, danno il colpo di grazia a una società già decadente. “La mobilitazione totale” investe tutti gli spazi della vita, che trascende la mera catastrofe rappresentata da qualsiasi guerra, contribuendo a creare una coscienza nuova in ogni individuo, proprio nel momento in cui l’individualità inizia a perdere forma e ciascuno è come nessuno. Lo spirito dei tempi, incarnato dall’Operaio che combatte sui campi di battaglia e del lavoro, avvia un processo di transizione epocale (Ubergangstand) che assomiglia a una sorta di catartica palingenesi, la ricostruzione dopo l’immane distruzione, caratterizzata da grandi fermenti, da un forte dinamismo e da una terribile inquietudine, con ripercussioni che si perpetueranno decennio dopo decennio, amplificandosi a macchia d’olio. Un processo che, sia pure con diverse connotazioni e intensità, non ha ancoro


esaurito il percorso. Galli, che ovviamente ha ben decantato le pur complesse visioni e pre-visioni espresse tanto nel saggio da lui tradotto quanto in quello successivo, chiede soprattutto delle conferme alle interpretazioni degli studiosi, ottenendo, però, una risposta lapidaria e fortemente esplicativa: “Sono stato solo il sismografo che ha registrato il terremoto”. Aveva ben percepito, il grande pensatore, che nell’uditorio si stava incuneando una distonia interpretativa sul ruolo ricoperto al cospetto della storia: in tanti lo vedevano come un attore corresponsabile di fatti straordinari accaduti in un secolo che si avviava al crepuscolo e non come il testimone attento ma distaccato. Quella risposta contribuì, nei limiti del possibile, a mettere le cose a posto. Il convegno durò oltre due ore e i relatori, purtroppo, non solo non gli formularono nessuna delle domande che io ritenevo davvero importanti, ma occuparono gran parte del tempo con le loro relazioni, sicuramente interessanti, ma poco opportune in quel momento. Al termine vi fu il prevedibile arrembaggio per ottenere autografi sui testi e sulle locandine. Mi feci coraggio e riuscii a raggiungerlo, seguito da Annamaria. Bruno, invece, sicuramente più seccato di me per come si era svolto il convegno, per natura schivo e riservato, restò al suo posto, a meditare, come spesso gli accadeva. Fattomi largo con grande determinazione, gli porsi la locandina e una “Parker lacca cinese” per l’autografo, pregandolo di accettare la penna in omaggio. Scattai velocemente qualche foto e poi, alzando leggermente la voce affinché il mio inglese fungesse da subliminale monito per sedare il vociare convulso di chi mi attorniava, riuscii a formulare, finalmente, due domande. Avevo considerato, velocemente, che dovevano essere brevi e secche e che proprio non vi era la possibilità di modularle in modo articolato, come mi sarebbe piaciuto. Gli chiesi, pertanto, una riflessione sul rapporto con Hitler e cosa pensò quando seppe che il dittatore lo aveva cancellato dalla lista dei condannati a morte per l’attentato alla “Tana del lupo”, ordito dall’amico Claus von Stauffenberg. Le domande fecero effetto, perché, con mio grande piacere, tutti tacquero in attesa della risposta. Sapevo che non amava molto le domande sul nazismo e su Hitler, ma in quel periodo era l’argomento che trovavo più intrigante. La risposta, per quanto interessante, eluse considerazioni di carattere storico-filosofico: si limitò a dire che, nel 1932, Hitler gli offri un seggio al Reichstag, cortesemente rifiutato perché “la politica non gli interessava”. Pronunciò la frase calcando volutamente la parola “politica”, per rendere meglio l’idea che non gli interessava la politica di Hitler, al quale, per inciso, avrebbe fatto molto comodo averlo come sostenitore (5). Ancora più evasiva fu la seconda risposta e non avrebbe potuto essere altrimenti. Vi sono vicende della storia destinate a restare avvolte nel mistero e il coinvolgimento di Jünger nell’attentato a Hitler del 1944 è uno di questi. E’ assodato che egli venne a conoscenza del progetto, visti i rapporti con il colonnello Claus Schenk Von Stauffenberg, l’aristocratico e raffinato conte bavarese che vantava legami di sangue con la dinastia imperiale sveva degli


Hohenstaufen e con il feldmaresciallo Von Gneisenau, anch’egli conte e artefice della riforma dell’esercito prussiano. Ma fino a che punto si spinse il coinvolgimento? Fu un protagonista “attivo” o un semplice spettatore? L’enigma è destinato a restare irrisolto e si può procedere solo per ipotesi, partendo dai pochi dati certi. Per sua stessa ammissione sappiamo che la notizia del piano per assassinare il Führer la apprese dopo un colloquio con il fratello Friedrich Georg e l’avvocato Adam von Trott zu Solz, uno dei protagonisti del complotto. Durante il colloquio, che presumibilmente affrontava in chiave critica le vicende belliche, non si fece cenno al complotto. Solo dopo, in un colloquio riservato, Georg rivelò al fratello che si stava progettando di assassinare Hitler. Evidentemente l’idea non gli dispiaceva, ma da qui a ritenerlo attivamente coinvolto, come si legge in molti testi, ce ne vuole. In un’intervista, rilasciata in occasione del centesimo compleanno, rivela che il complotto gli suggerì l’idea di scrivere un romanzo. (6) Un evento che avrebbe potuto incidere in modo sensibile su un’immane tragedia, quindi, viene da lui recepita come semplice pretesto per una “trama letteraria”. Onestamente stento a credere che si possa pensare ad altro, tributando a quella risposta un fine strumentale, distante dalla realtà. La visone elitaria del mondo traspare alla pari del distacco dalle umane vicende, pur gravi, che tormentavano le coscienze di tanti contemporanei. Prima di rispondere si concesse un leggero sorriso e pochi secondi di riflessione, per poi replicare senza alcun riferimento all’amico colonnello: “L’attentato del 1944... fu fortunato, il Führer, in quella circostanza…”. Forse avrebbe aggiunto qualche altra cosa, ma non gliene fu data l’occasione. I docenti organizzatori del convegno lo portarono via quasi di peso e io rimasi con un pizzico di amaro in bocca, leggermente attutito da quel barlume di risposta che, in parte, avallava la mia tesi sul “se”. Fu davvero fortunato, il Führer in quella circostanza: il forte caldo indusse a spostare il luogo della riunione in un edificio di legno, con le finestre aperte, e non nel bunker dove avvenivano di solito, che avrebbe reso devastante l'esplosione; la riunione, inoltre, fu anticipata di trenta minuti perché nel pomeriggio sarebbe giunto Benito Mussolini in visita ufficiale e Stauffenberg non ebbe il tempo di armare la seconda bomba; il tavolo ubicato in quel locale era molto più solido e resistente dell’altro e attutì la forza d'urto dell'esplosione. “Se solo non avesse fatto caldo”; “se solo la riunione non fosse stata anticipata”. E vi è anche un terzo “se”, ancora più beffardo. La bomba, contenuta all'interno di una valigetta, fu posizionata vicino a Hitler dallo stesso Stauffenberg, che poi, con una scusa, abbandonò la stanza. Tra gli ufficiali che presero parte alla riunione vi era il colonnello Heinz Brandt. Mentre visionava la mappa sul tavolo, attorniando Hitler con gli altri convenuti, urtò la valigetta con il piede e la spostò di pochi centimetri, per evitare che gli desse fastidio. Dopo sette minuti la bomba esplose, investendo in pieno lui e non Hitler. Una gamba gli venne amputata di netto e il giorno dopo morì per le ferite riportate. Il gesto, però, salvò la vita a Hitler, che lo promosse Maggiore Generale post mortem. I principali congiurati dell’operazione “Valchiria” (7) furono arrestati e giustiziati nel giro di poche ore. La ferocia di Himmler e Göring si scatenò soprattutto nei


confronti di Von Stauffenberg. Il primo voleva massacrare tutti i membri della famiglia; il secondo dispose che le ceneri del colonnello fossero mischiate ad acqua di fogna e gettate in mezzo al marciume agricolo affinché non contaminassero il suolo tedesco. Altre esecuzioni, circa duecento, avvennero dopo un processo sommario, che vide coinvolte oltre cinquemila persone. Di fatto si colse l’occasione per chiudere i conti con molti nemici del regime. Tra i nomi degli inquisiti figurava anche Jünger, che Goebbles e Himmler volevano condannare a morte. Ancora una volta, però Hitler, depennò il nome dalla lista. “Jünger non si tocca”, disse, e a malincuore i gerarchi dovettero ubbidirgli. (Vedi nota nr. 5 circa la prima volta che Hitler gli salvò la vita). La loro vendetta, però, fu più terribile della stessa condanna a morte. Gli furono tolti i gradi di ufficiale della Wehrmacht e il figlio diciottenne, Ernestel, fu spedito a combattere in Italia e perse la vita a Carrara. E’ naturale che un soldato possa morire in azione, ma forse per il giovane figlio del grande “Ribelle” avvenne proprio quello che ciascuno di voi sta pensando in questo momento, anche se non sarà mai possibile dimostrarlo. Jünger riuscì a recuperare il corpo solo nel 1951, grazie all’aiuto di Henry Furst, Giovanni Ansaldo e Marcello Staglieno (8). Fu proprio il poliedrico intellettuale statunitense che portò le spoglie di Ernestel a Wilflingen. Lo scrittore si era trasferito nel villaggio dell’Alta Svevia nel 1950 e abitava nel castello dei von Stauffenberg, dove rimase sino alla morte e dove invece non misero piede la vedova del colonnello e i cinque figli, cui toccò ben triste sorte, anche se riuscirono a scampare alla morte (9). L’incontro con Ernst Jünger, ancorché breve, è stato senz’altro uno dei momenti più emozionanti della mia vita. Toccare un Uomo che è stato il testimone dell’epopea più tragica vissuta dall’umanità, ascoltarne la voce, sentirlo respirare, ha generato sensazioni mai assopite. Il suo pensiero, approfondito sui tanti testi scritti, ha costituito una vera medicina per lo spirito, rivelatasi molto utile quando si è dovuto fare i conti con la caducità della vita. I confronti epocali risultano sempre stucchevoli e fuori luogo. L’uomo prosegue il cammino, scrivendo pagine di storia, a volte belle e spesso tragiche. Sarà sempre così. Non si commette alcun peccato mortale, tuttavia, quando si afferma che, “al di là del bene e del male” e solo come mera analisi sociologica, in meno di cinquanta anni, si è registrata una straordinaria accelerazione del processo di mutazione del comportamento umano, rispetto ai secoli precedenti, che ha inciso profondamente nel modo di pensare e di concepire la vita, alterando sensibilmente princìpi, scale di valori, rapporti interpersonali e rapporti con la propria coscienza. Oggi, per dirla in breve, uomini come Ernst Jünger non se ne trovano, proprio in virtù del fatto che la realtà sociale condiziona in ben altro modo gli individui. Coloro che appartengono alla mia generazione hanno potuto registrare con maggiore chiarezza il passaggio epocale, in quanto, da giovani, hanno ancora avuto modo di “respirare” un’aria che sapeva d’antico. La veloce trasformazione sociale, poi, in molti ha generato seri problemi di adeguamento: si può imparare a utilizzare bene un computer a qualsiasi età, ma è molto più difficile cambiare radicalmente non tanto un’idea, quanto “il modo di pensarla”, nonché l’approccio con il fluire delle vicende umane.


Sotto questo profilo voglio citare un aneddoto che mi riguarda da vicino e chiarisce meglio il concetto. Qualche anno fa mi recai a far visita a un amico, sottufficiale dei Bersaglieri, nella caserma presso cui prestava servizio. Mentre discorrevamo sorseggiando un caffè, giunse un giovane ufficiale al quale mi presentò come ex Bersagliere “dell’eroico” 18° Battaglione Poggio Scanno. Il tenente, stringendomi la mano, mi disse subito che oramai quel battaglione non esisteva più. Pronunciò la frase con il sardonico sorriso di chi viva pienamente ed entusiasticamente il presente e veda fatti e avvenimenti del passato ancor più lontani di quanto non lo siano nella realtà. “Lo so bene - replicai, con un sorriso ancor più sardonico - e fu per me, come presumo per tanti altri commilitoni, un motivo di grande gioia lo scioglimento del Battaglione”. “Ma come – aggiunse, visibilmente sorpreso – non le è dispiaciuto? “Tutt’altro! Vede, caro tenente, noi soldati del 18° Poggio Scanno siamo stati gli ultimi con lo spirito dei soldati di un tempo, quelli del glorioso 3° Reggimento, per esempio, del quale abbiamo ereditato “non solo” le insegne, e allo spirito del soldato “guerriero”. Voi giovani militari, invece, siete pervasi da un altro spirito, che si esalta encomiabilmente in occasione delle alluvioni e dei terremoti. Ed è senz’altro meglio così, mi creda, perché la Pace è un bene supremo da tutelare e preservare. Mi sembra giusto, tuttavia, che quell’aura mistica e così particolare del vecchio Battaglione sia stata preservata con lo scioglimento, invece di essere dispersa come lacrime nella pioggia, perpetuandone il nome nei tempi attuali”. Il tenentino balbettò qualcosa e, inventandosi un improvviso impegno, produsse un rapido dietro-front e si allontanò velocemente. Questa differenza sostanziale tra due epoche così vicine e, allo stesso tempo, così lontane, fu resa ancor più chiara e palpabile proprio grazie all’incontro con Ernst Jünger, che di quel passato, alcuni sentori dei quali era ancora possibile percepire negli anni sessanta e settanta, fu un magistrale interprete. La locandina con la firma autografa mi fa compagnia nello studio, alle mie spalle, da allora. Non ho mai smesso di leggere e rileggere i suoi libri e di godermi il suono della voce grazie alle numerose testimonianze reperibili in rete. Mi capita spesso di pensare a quell’incontro e a tutte le domande che mi avrebbe fatto piacere porgli, immaginando anche le risposte, perché, dopo tutto, i Grandi Uomini hanno sempre una sola risposta per ogni domanda, quella giusta, e non è difficile intuirla una volta che si sia riusciti ad entrare nel loro universo. L’incontro con Jünger avvenne, come ho scritto in precedenza, il 5 ottobre 1987. Da circa un anno avevo terminato di scrivere “Prigioniero del Sogno”, che è rimasto nel cassetto per un trentennio, prima di vedere la luce (10). La sera, rientrato a casa ebbro di sensazioni contrastanti e con la testa che scoppiava per i tanti pensieri che si succedevano con ritmo vertiginoso l’uno dietro l’altro, dopo essermi sforzato di recuperare un minimo di serenità, presi un foglio bianco e lo inserii nella “Olivetti ET112”, che si apprestava a cedere il passo, di lì a poco, a un pesantissimo personal computer. Dai diari scritti in Francia, nel 1942, copiai uno degli aforismi più belli di Jünger e collocai il foglio all’inizio del romanzo. “Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con


pietre, rocce e montagne all'orlo dell'infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d'avanguardia, sull'estremo limite del nulla: sull'orlo di quell'abisso combatto la mia battaglia". Sentinella perduta sull’ultimo avamposto, quello che non è segnato su nessuna mappa, forse perché a nessuno interessa conquistarlo. O forse perché può essere visto solo da chi sappia guardare oltre l’orizzonte più lontano. NOTE 1) Napoleone con le emorroidi che non riusciva a stare in sella per controllare la battaglia e non riuscì mai ad avere un quadro chiaro, a differenza di Wellington, che galoppava in lungo e in largo tra le truppe. La pioggia, che rese il terreno fangoso limitando l’utilizzo dell’artiglieria e determinò lo spostamento dell’inizio della battaglia, favorendo il rientro dei Prussiani. La morte di Berthier, capo di stato maggiore, pochi giorni prima della battaglia, non si sa se per incidente, suicidio o omicidio (propendo per la terza ipotesi) sostituito da Soult, che del predecessore non aveva né la competenza né il carisma. Con Berthier non si sarebbe mai verificata l’idiozia perpetrata dal Maresciallo Ney: attaccare con la cavalleria senza il sostegno della fanteria, all’insaputa di Napoleone che si era dovuto allontanare perché gli bruciava il sedere. Tutto ciò premesso, sarebbe bastato che il generale Grouchy avesse intercettato i prussiani, impedendo loro di raggiungere il campo di battaglia, invece di starsene fermo a Wavre, e gli eventi avrebbero preso tutta un’altra piega. Significativa, sotto questo profilo, la frase che Napoleone pronunciò dopo che ebbe chiesto a Soult se avesse fatto recapitare l’ordine a Grouchy. Alla di lui risposta: “Sì, ho mandato un ufficiale”, replicò piccato e deluso: “Un ufficiale! Ah mio povero Berthier! Se fosse stato qua ne avrebbe mandati venti!" Va detto, di converso, che il “se” non riguarda solo Napoleone. Wellington ebbe l’opportunità di “risolvere la partita” prima che iniziasse, quando un ufficiale gli disse che l’Imperatore era a tiro di cannone mentre perlustrava le truppe. Famosa la risposta nel rifiutare l’autorizzazione a sparare la salva: “I comandanti hanno di meglio da fare che spararsi a vicenda". Capriccio da Lord che non avrebbe cambiato la storia, (per Napoleone non vi sarebbe stato futuro anche in caso di vittoria, perché le monarchie alleate non gli avrebbero comunque lasciato scampo) ma che avrebbe impedito la morte di circa settantamila uomini, il che non è cosa da poco. 2) Il matrimonio fu celebrato tre giorni dopo il convegno, l’8 settembre, e curai io la regia dell’evento, in quel di Formia. Bruno è deceduto a causa di un infarto nel 2003. 3) In Eumeswil, uscito nel 1977 (concepito nel 1972), si trovano sconcertanti premonizioni che riguardano la tecnologia, l’avanzamento della decadenza, il destino di globalizzazione, le forme di resistenza. Jünger descrive


minuziosamente macchinari e tecnologie che si sarebbero affermati solo dopo qualche decennio: i personal computer, internet, i telefoni cellulari. 4) Filosofo politico e docente universitario. 5) Oltre al seggio gli fu offerta anche la presidenza dell’Accademia Tedesca dei Poeti, ma egli rifiutò entrambe le cariche. Anche Goebbles lo aveva corteggiato a lungo, invano, per indurlo a sostenere il nazionalsocialismo, come ammise pubblicamente: “Abbiamo offerto a Jünger ponti d’oro, ma lui non li volle attraversare”. A Jünger, di fatto, ripugnava lo stile volgare e demagogico del nazionalsocialismo e non nutriva alcuna fiducia circa i progetti grandiosi che enunciava. Il rifiuto generò una sorta di risentimento nei dignitari del regime, che iniziarono un sottile ostracismo. L’abitazione fu perquisita dalla Gestapo e l’uscita dei libri messa sotto silenzio dalla stampa. Nel 1939, Goebbels, a una conferenza pubblica, gli domandò: “E ora, Herr Jünger, cosa ne pensa?” Lo scrittore rispose con un romanzo: “Sulle scogliere di marmo”. In esso si parla di una terra idilliaca che passa, violentemente, dall’ordine tradizionale a un regime barbarico e totalitario. A questo punto, Göring e Goebbels avrebbero voluto liquidarlo, come già era stato fatto con altri esponenti della destra tedesca, quali Niekisch, imprigionato, e E.J. Jung, assassinato. Hitler, tuttavia, che ne subiva il fascino di scrittore e di uomo integerrimo, gli salvò la vita. 6) Rete televisiva Zdf - Intervista rilasciata al drammaturgo Rolf Hochhuth e al critico Gero von Boehm. 7) Operazione Valchiria. Stauffenberg e la mistica crociata contro Hitler – Michael Baigent Michael; Richard Leigh – Edizioni “L’età dell’Acquario” – 2009. (Molto valido anche il film “Operazione Valchiria diretto da Bryan Singer nel 2008, con Tom Cruise nel ruolo del colonnello Stauffenberg). 8) Antonio Gnoli - Franco Volpi: “Il tempo dei titani. Conversazioni con Ernst Jünger”. Adelphi, Milano. Vedere anche il testo di Luigi Iannone: “Jünger e Schmitt. Dialogo sulla modernità. Introduzione di Marcello Staglieno. Armando Editore, 2009. 9) Dopo l'esecuzione sommaria del marito, la contessa Von Stauffenberg fu arrestata dalla Gestapo e presa in custodia secondo l'antica legge del Sippenhaft, (arresto per motivi di parentela) ristabilita dal governo nazista. I cinque figli furono inviati in un orfanotrofio a Bad Sachsa, in Bassa Sassonia, con il cognome mutato in "Meister". A guerra finita la contessa fu trasferita in provincia di Bolzano, dove fu trattenuta come ostaggio, in cambio del riscatto di alcune proprietà naziste. In seguito raggiunse la famiglia a Lautlingen, nella casa di proprietà. La contessa morì il 2 aprile del 2006 a Kirchlauter, in Baviera, all'età di 92 anni. 10) “Prigioniero del sogno” – Edizioni Albatros, marzo 2015. (Confini, Nr. 57 – Ottobre)











AUTONOMIA: METASTASI DEL REGIONALISMO “Guarderò tutte le terre come fossero mie, le mie come se fossero di tutti. Io vivrò come se sapessi di essere nato per altri e a motivo di ciò ringrazierò la natura: in qual modo, infatti, essa avrebbe potuto curare i miei interessi? Me solo ha donato a tutti, a me solo ha donato tutti”. Seneca inizia il paragrafo del “De vita Beata” che contiene l’incipit con le seguenti frasi: “I filosofi non fanno quel che dicono. Pur tuttavia fanno già molto a dire ciò che dicono e pensano onestamente. Se poi il comportamento fosse all’altezza delle parole, chi sarebbe più felice di loro? Intanto non sono da disprezzare le parole buone e l’animo colmo di buone intenzioni”. Sicuramente pensava anche a se stesso quando le ha scritte; non era certo uno stinco di santo e anche per lui si può dire, sia pure in modo molto ridotto rispetto a tanti altri: “Predicava bene e razzolava male”. Nondimeno, il suo lascito culturale, come ben noto, è di altissima valenza. Le sue riflessioni, pertanto, consentono di affrontare le tematiche sulla voglia di autonomia con un approccio più sereno di quello generalmente inferto da chi privilegia le spinte emotive, nella migliore delle ipotesi semplicemente irrazionali e spesso retaggio esclusivo di quelle sub-culture intrise d’ignoranza che tanti guasti producono in ogni contesto sociale, specialmente quando gli annaspamenti della storia sono foriere di largo consenso popolare. Suona retorico l’incipit, certo, alla pari di tutti i pensieri profondi che anelano al bene e si scontrano con una realtà che, sistematicamente, li riduce a frasi da incorniciare in qualche polverosa sala di attesa, ché ovviamente il predicare bene e razzolare male è un vizio diffuso. Non vi è scelta, tuttavia: se non si parte da un concetto “positivo” e si dà per scontato che i buoni princìpi sono tanto più irrealizzabili quanto più si elevano nella scala del bene, si lascia campo libero a chi, non essendo attrezzato per entrare in modo congruo nella complessità dell’essere, tende a gestire semplicisticamente problematiche vitali, che richiedono in primis l’impegno esclusivo di menti eccelse e poi, cosa ancor più complicata, la traduzione sul piano pratico delle loro decisioni. LA QUESTIONE TERMINOLOGICA: AUTONOMIA NON VUOL DIRE INDIPENDENZA. Come sempre, la questione terminologica assume fondamentale importanza. La confusione generata dal potere politico inadeguato e dalla stampa distratta, essendo tutti più attenti ai giochi di bottega che a comprendere i veloci mutamenti epocali, è una causa primaria del diffuso e ben percepibile disorientamento che attanaglia l’opinione pubblica. En passant è appena il caso di ricordare che tale presupposto riguarda anche il concetto di “ius soli”, entrato prepotentemente nel lessico quotidiano, per definire qualcosa che con lo “ius soli” nulla ha a che vedere. La definizione di “autonomia” ricalca analogo scenario quando viene confusa con l’indipendenza o la secessione, che sono ben altre cose. Le supposte analogie tra le vicende catalane e il referendum in Lombardia e Veneto, per esempio, ne sono una prova evidente. E’ opportuno chiarire, pertanto, che l’autonomia riguarda la capacità di un dato territorio, all’interno di un singolo stato, di perseguire interessi propri, con norme che riguardano precipuamente la materia economica. L’attuale normativa già contempla siffatti presupposti, ma alcune regioni, soprattutto nell'Italia del Nord, ne chiedono una più marcata estensione perché, ritenendosi virtuose, non sono disposte a finanziare, con il proprio gettito fiscale, gli sprechi notoriamente registrati in quelle con “gestione allegra”. L’indipendenza, invece, presuppone il distacco radicale di un territorio dallo


stato in cui è inserito. Di fatto nasce un “nuovo stato”, che necessita del riconoscimento internazionale, alla pari di quanto avvenuto con la dissoluzione dell’URSS e della Jugoslavia. In Catalogna non si chiede “autonomia” ma “l’indipendenza dalla Spagna”. L’Irlanda del Nord (o almeno buona parte di quel territorio) non vuole “autonomia”; vuole staccarsi dal Regno Unito, visto come stato occupante, e ricongiungersi con l’Éire, per formare lo Stato d’Irlanda e realizzare l’antico sogno di: “A Nation once again”. Lombardia e Veneto, con il recente referendum promosso dalla Lega, non chiedono “indipendenza” dalla Repubblica Italiana ma di avere nuove competenze, oltre a quelle già previste per tutte le regioni. Chiedono maggiore “autonomia”, la qualcosa, è bene sottolinearlo, non necessitava di un referendum, essendo già possibile ottenerla su determinate materie tramite l’articolo 116 della Costituzione. L’Emilia Romagna, per esempio, ha avviato tale procedura agli inizi di ottobre. Che poi nel Nord, di là dai proclami ufficiali, la stragrande maggioranza della popolazione sarebbe ben felice di staccarsi dal Sud e costituire uno stato indipendente, è un dato di fatto incontrovertibile che nessuno può negare. IL FALLIMENTO DEL REGIONALISMO Sistemata la questione terminologica è possibile inquadrare la voglia di autonomia nel suo alveo più naturale, alimentato da controversi affluenti, che vanno ben definiti per comprendere la portata del fenomeno. Prima, però, è necessario spendere qualche parola sulle regioni ordinarie che, secondo i padri costituenti, avrebbero creato i presupposti per avvicinare maggiormente il cittadino allo Stato e favorito lo sviluppo economico dell’intero Paese. Il dibattito tenne banco per lunghissimo tempo, producendo uno stallo sull’applicazione della norma che prevedeva le elezioni dei Consigli regionali entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione. L’indifferenza dell’opinione pubblica si sommava alla paura della DC di vedere un’occupazione territoriale da parte del PCI e così, di rimando in rimando, il nodo si sciolse solo nel 1970. Mentre il larvato antiregionalismo della DC (o almeno di buona parte di essa) era di carattere puramente strumentale, l’unico partito che intuì il baratro nel quale stava precipitando l’Italia fu il Movimento Sociale Italiano. La storia di quegli anni è generalmente narrata in modo artatamente distorto e del MSI si dice che fosse precipuamente preoccupato per la tenuta dello Stato unitario. Niente di più falso. Nell’elettorato missino, e ovviamente nella classe dirigente del partito, il sentimento unitario era molto marcato, ma nessuno temeva la “dissoluzione” della Patria: in quegli anni non esistevano forze che agissero apertamente in tal senso e i sentimenti antinazionali riguardavano gruppi sparuti di scarsa importanza e quei singoli individui che troveranno nella Lega Nord, solo a partire dal 1989, il terreno fertile per dare sfogo alle proprie frustrazioni. Ciò che si temeva, sostanzialmente, era la disgregazione politica, economica e sociale del Paese. Giorgio Almirante, che ben conosceva la natura e i limiti del popolo italiano, intuì con largo anticipo ciò che sarebbe accaduto e lo disse più volte nei suoi numerosi e memorabili discorsi, come quello del 26 gennaio 1970, quando affermò che: “Le regioni tanto più costeranno quanto più saranno politicizzate; tanto meno costeranno quanto più rappresenteranno o potranno rappresentare o potrebbero rappresentare (poiché la mia credo sia oramai una vana illusione) degli organismi meramente amministrativi. […] Nel momento stesso, infatti, in cui si attribuisce alle regioni una potestà legislativa praticamente indiscriminata […] nessun ragionevole contenimento di spesa sarà pensabile, il che potrà andare benissimo per i sostenitori di un federalismo tra l'altro piuttosto spinto e incontrollato, potrà andare ancora meglio per i sostenitori del caos e dell'anarchia che siedono all'estrema sinistra, ma non so quanto andrà bene per il cittadino, per il


contribuente e per quella larga parte tra voi che, in buona fede, continua a essere regionalista in senso pluralista e disaccentratore, in senso articolato, e non si rende conto che la legge è stata portata via di mano alla vecchia maggioranza democristiana regionalista nell'antico senso, ed è stata presa nelle mani dell'estrema sinistra della Democrazia cristiana e dei socialisti di entrambe le specie”. La lungimiranza di Giorgio Almirante, purtroppo, è stata confermata dai fatti ben oltre le drammatiche previsioni. Il fallimento dello stato regionale è cronaca quotidiana sin dagli albori. Siamo tutti vittime dello sfascio sanitario grazie alle ruberie senza ritegno perpetrate dai politici senza scrupolo. A nessuno sfugge il clientelismo indiscriminato che ha riempito gli uffici di scaldasedie nullafacenti ed è diventata una barzelletta planetaria la storia dei 24mila forestali in Sicilia, regione di 25.711 Km2, mentre il Canada, con i suoi 9.984.670 Km2, dei quali ben 400mila costituiti da foreste, ne ha solo quattromila! Anche la Calabria non scherza, in tal senso, con i suoi 10.500 forestali. Finiamo qui, perché del tutto inutile ribadire fatti arcinoti. L’AMARA REALTÀ E QUALCHE BUONA RICETTA. Rebus sic standibus si possono individuare i profili psicologici dei fautori delle autonomie. 1) Autonomisti duri e puri. Sono coloro che, seppur caratterizzati da alta scolarizzazione, si convincono della bontà di alcuni princìpi e li difendono con argomentazioni articolate e ben strutturate. La buona fede è fuori discussione e traspare evidente, nei discorsi, alla pari della loro visionaria percezione della realtà. Un tipico esempio di siffatto profilo psicologico è quello di un giovanissimo e affascinante filosofo, dotato di eccelsa proprietà di linguaggio, spesso ospite di programmi televisivi nei quali sostiene la giusta critica al capitalismo e alla sua degenerazione con le anacronistiche e irrealizzabili teorie marxiste. 2) Gli strateghi ipocriti. Sono per lo più i politici, che guardano all’autonomia come manna dal cielo per incrementare la propensione truffaldina, ovviamente mascherando le reali intenzioni con fiumi di argomentazioni farlocche. 3) I furbetti. Parlano di autonomia, ma pensano alla secessione perché, soprattutto al Nord, proprio non ce la fanno a sentirsi connazionali dei meridionali. 4) Gli arrabbiati. Per lo più residenti nel Nord, sono presenti in tutte le categorie succitate. Sono ben consapevoli di alimentare, con le loro tasse, gli sprechi e le ruberie nelle regioni meridionali e ciò li manda in bestia. Con questi presupposti, è possibile parlare seriamente di autonomia? Domanda retorica, ovviamente, perché una maggiore autonomia delle regioni significherebbe solo aumentare gli sprechi e il divario tra Nord e Sud. Gli italiani sono quel che sono ed è inutile girarci intorno: fatte le debite e sporadiche eccezioni, se si trovano nella possibilità di “frodare”, lo fanno senza ritegno e in modo “patologico”, comportandosi alla stregua di quei crocieristi che vanno al buffet con due piatti tra le mani, anziché uno nel quale inserire “tutto” ciò che si desidera mangiare, nel rispetto degli standard internazionali del piatto unico, per poi fare bis e ter fino a scoppiare, suscitando ilarità e schifo nei crocieristi non italiani. I politici che inseriscono nella rendicontazione delle spese mutande, caramelle, ricariche telefoniche, gratta e vinci, pupazzi di peluche, piatti di cristallo, pandoro, panettoni, spumanti, le multe prese con le auto private, cravatte, foulard, biglietti di autobus, parcelle di estetiste e


barbieri, piante, vasi, candele, i fumetti “Diabolik”, la retta dell’asilo, le maniglie delle porte, le cene con gli amici ivi compreso il cenone di capodanno, prima di essere dei ladri sono dei malati (delirio di onnipotenza e disturbo ossessivo compulsivo generato dal potere acquisito) ai quali va comminata l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per palese incapacità nella gestione di qualsivoglia potere, anche minimo. L’istituzione delle regioni ordinarie, proprio come aveva previsto Giorgio Almirante, ha esaltato questa deprecabile propensione, che via via ha dato forma a un inestricabile caleidoscopio di elementi umani nel quale, molto spesso, “carnefici” e “vittime” coincidono. La malasanità, per esempio, ha colpito chiunque e si è potuto sottrarre a essa, in particolare nel Sud, solo chi sia stato in grado, economicamente, di fuggire dalle deficienze locali. La cattiva gestione dei servizi, le strade dissestate, le opere incompiute, penalizzano tutti. I 24mila forestali della Sicilia saranno ben felici di percepire uno stipendio senza fare nulla, ma di certo imprecheranno contro i loro stessi benefattori per la criticità dei trasporti pubblici e le strade senza illuminazione e senza segnaletica, con manto deformato e ponti che cadono per mancanza di manutenzione. Cosa fare quindi? Anche questa è una domanda retorica perché dietro ogni azione si cela la qualità di chi la pone in essere: uomini di qualità potranno risolvere i problemi, anche più gravi; uomini senza qualità, che dei problemi fanno il loro “core business”, non potranno che perpetuare quanto di più negativo da decenni si registra nel nostro paese. Se le regioni ordinarie, pertanto, costituiscono il “cancro” del sistema, si possono solo eliminare per evitare che minino ancor più il “corpo” nel quale sono inserite, ossia lo Stato. Altro che parlare di autonomia! Occorre rivedere l’impianto costituzionale per riparare i guasti prodotti tanto dai padri costituenti quanto dalle successive riforme del 1999 e 2001. Ovviamente vanno abrogate anche le regioni a statuto speciale, salvaguardando i diritti delle minoranze linguistiche con apposite leggi nazionali. Insieme con le regioni vanno abolite le amministrazioni provinciali e va ridefinita la geografia dei comuni, con accorpamenti che prevedano non meno di 12-15 mila abitanti. In pratica si tratta di ridurre drasticamente il numero di persone che, grazie agli enti locali, vive di politica, soprattutto clientelare. Da qui, però, a celebrare il rito di uno stato completamente centralizzato ce ne corre, perché senza il filtro delle province e delle regioni il rapporto tra comuni e potere centrale sarebbe complicato e fonte sicura di ben altri problemi. Bisogna tenere in considerazione, inoltre, che l’Italia veramente unita è tale solo quando gioca la nazionale di calcio e, per quanto amaro possa apparire, fatte le doverose tare che riguardano il razzismo (sempre deprecabile) e l’ignoranza (che va sì combattuta a tutte le latitudini, ma richiede tempi lunghi), il divario “culturale” ed “economico” tra Nord e Sud non può essere gestito accademicamente e va inquadrato nell’ottica più realistica possibile. Amore e rispetto non possono essere imposti: vanno conquistati. Una riforma dello Stato che possa essere funzionale alla reale consistenza della classe sociale italiana, pertanto, dovrebbe prevedere un vero federalismo e dar vita a quattro o cinque macro-regioni (o stati, che dir si voglia) con poteri ben definiti e limitati rispetto a quelli che caratterizzano oggi le attuali regioni. Sanità, Trasporti e Istruzione devono ritornare a essere gestiti a livello centrale con norme univoche che valgano sull’intero territorio nazionale. Le Ferrovie devono recuperare “anche” una funzione sociale, senza per altro cadere nei tipici “errori” del passato, ed essere modernizzate lì dove ancora, proprio per la malsana gestione, vigono in stato pietoso, come nemmeno nel terzo mondo. La liberalizzazione del mercato energetico e


telefonico, con annessi servizi scaturiti dall’avvento della rete, lungi dal determinare un contenimento dei costi, ha solo creato caos, sprechi, disservizi, truffe e malcostume. Non è un mistero per nessuno che molte società “insegnano” ai giovani collaboratori come “truffare” i clienti ed estorcere loro i contratti in modo fraudolento. Non serve sprecare troppo spazio per spiegare quanto ciò risulti deleterio per la società, perché non siamo lontani dal lavaggio di cervello che gli integralisti religiosi fanno ai bambini per trasformarli in futuri terroristi. Rinazionalizzare tali servizi, pertanto, gestendoli con mentalità raziocinante, anche qui senza reiterare gli sprechi del dopoguerra, sarebbe quanto mai opportuno e contribuirebbe a risolvere l’annoso problema del digital divide, che è una vera vergogna. E’ evidente, altresì, che una riforma del genere si configura meglio con l’elezione diretta del Capo dello Stato, che fungerebbe anche da capo dell’esecutivo, con un Parlamento monocamerale, perché l’attuale Senato è solo una palla al piede dell’impianto costituzionale. Il tema di questo articolo prevede la trattazione della sola “autonomia” e quindi non è il caso di scendere articolatamente nei dettagli di una radicale e sostanziale riforma dello Stato, argomento che può essere compiutamente trattato in altra occasione. Quanto detto, tuttavia, basterebbe e avanzerebbe per risolvere annosi problemi e fornire, se non in toto per buona parte, l’unica “autonomia” che davvero serve al Paese: quella dai farabutti al potere, che sono davvero tanti. (Confini, Nr. 59 – Novembre)


GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

ASCOLTA LA STORIA DI CYNTOIA BROWN ARTICOLO SU HUFFPOST “There are many things of which the whole of humanity must be ashamed wherever they happen. This woman in handcuffs does not only testify one of the many social discrepancies that afflict the United States of America, but also the unbearable lightness of being of the billions of people that these things tolerate turning their face on the other side. Let us therefore strongly scream, our anger; a scream of civilization able to overwhelms as a swollen river the other face of evil, the most dangerous one, that you can find in the gilded rooms of every power, clad in hypocrisy and false respectability”. (Sono tante le cose di cui deve vergognarsi l’intera umanità, ovunque accadano. Questa donna in manette non testimonia solo una delle tante distonie che affliggono gli Stati Uniti d’America, ma anche l’insostenibile leggerezza dell’essere di miliardi di persone che queste cose tollerano girando la faccia dall’altra parte.


Gridiamolo forte, allora, il nostro sdegno, affinché l’urlo della Civiltà travolga come un fiume in piena l’altra faccia del male, quella più pericolosa, facilmente reperibile nelle dorate stanze di ogni potere, ammantata di ipocrisia e falso perbenismo). Sono tanti i volti del male. Oggi, celebrando come ogni anno la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, giriamo pagina rispetto alla solita solfa che si ripete in modo stancamente rituale e affrontiamo il problema da una diversa prospettiva, relegando in secondo piano gli orchi adusi a stuprare e uccidere, perché figure di secondo piano sono. Portiamo alla luce, quindi, grazie alle vicende che da qualche mese hanno conquistato ribalta mediatica planetaria, orchi ben più pericolosi: quelli che rappresentano il lato oscuro dell’uomo, spesso nascosto da maschere di perbenismo. Non solo coloro che si approfittano del loro potere per ridurre in schiave sessuali le donne, ma anche coloro che, invece di perseguire i carnefici, umiliano le vittime nelle aule dei tribunali. Non conosco il giudice che ha condannato all’ergastolo Cyntoia Brown e correttezza “imporrebbe” che non si esprimessero valutazioni in siffatte circostanze. La vicenda, tuttavia, consente almeno di manifestare seri dubbi sul suo equilibrio psicologico e sulla “visione del mondo”, che forse non legittimano il delicato ruolo che riveste. Parimenti non conosco gli avvocati che, secondo quanto riferito da un loro collega, hanno “torturato” con domande oscene le studentesse statunitensi stuprate a Firenze, inducendo il Giudice a richiamarli severamente e a rifiutare la traduzione delle morbose domande, per non consentire loro di fare un passo indietro nel tempo di oltre cinquanta anni. Stupratori e assassini sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Il vero nemico delle donne, però, è bene che lo si dica senza tanti giri di parole, è quell’universo maschile che non è stato ancora capace di emanciparsi dal proprio lato oscuro e dalle proprie frustranti debolezze che, tracimando in “vera violenza” contro le vittime, lasciano affiorare quegli impulsi incontrollati che li trasforma da esseri umani in bestie. In orchi. LA RIVOLUZIONE DELLE FARFALLE – VERSIONE IN INGLESE Questo film, che narra le vicende verificatesi nella Repubblica Dominicana negli anni sessanta, è introvabile nella versione italiana. Sarebbe ora che fosse riproposto perché è proprio da quei tragici eventi che è nata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Conoscere quella storia aiuta a meglio comprendere la meschinità degli uomini e fino a che punto siano capaci di spingersi. Serve anche a comprendere come tali atrocità trovino la complicità di chi dovrebbe combatterle. E’ forse anche per questa ragione che questa storia, come tante altre, viene occultata. E possibile acquistare, tuttavia, il libro di Julia Alvarez che ha ispirato il film: IL TEMPO DELLE FARFALLE. (Blog www.galvanor.wordpress.com – 25 novembre)


Il fallimento degli accordi di Sunningdale pesa sulle vicende attuali. Non vi saranno frontiere rigide tra le due Irlande. Così è stato sancito nei recenti accordi per la Brexit, risolvendo uno dei punti più spinosi all’ordine del giorno, che per mesi ha tenuto con il fiato sospeso i repubblicani che lottano per l’Irlanda unita, i quali temevano di essere allontanati ancor più di quanto non lo siano ora dall’Unione Europea. E’ una fake news quanto si legge da più parti circa il timore, più o meno dello stesso spessore, anche da parte degli unionisti per il possibile ritorno dell’Irlanda del Nord sotto l’egida di Dublino. Tale ipotesi non è stata presa mai seriamente in considerazione da nessuno. Prescindendo dai sospiri di sollievo che traspaiono unanimi, vi è poco da stare allegri: i problemi restano ed è difficile prevedere gli sviluppi futuri. Oggi* ricorre l’anniversario di un momento storico, purtroppo naufragato nel peggiore dei modi grazie alla colpevole complicità di Londra che, come Hagen con Sigfrido, un attimo dopo aver pronunciato parole di amicizia, pugnalava alla schiena. Nella piccola cittadina di Sunningdale, 38 km a Ovest di Londra, il 9 dicembre 1973 si riunirono i rappresentanti del Governo Inglese e dell’Irlanda del Nord per sottoscrivere un accordo, passato alla storia come “Sunningdale Agreement”, che avrebbe gettato le basi per un futuro di pace e, soprattutto, di possibile riunificazione dell’Irlanda, come chiaramente espresso dall’articolo cinque del Trattato: “Il Governo Irlandese ha pienamente accettato e solennemente dichiarato che non vi sarebbe stato alcun cambiamento nello status dell’Irlanda del Nord fino a quando la maggioranza del popolo dell’Irlanda del Nord non avesse desiderato un cambiamento di tale status. Il Governo Britannico ha dichiarato solennemente che la sua politica è sempre stata quella di sostenere la volontà della maggioranza del popolo dell’Irlanda del Nord e tale sarebbe rimasta. Attualmente l’Irlanda del Nord è parte del Regno Unito. Se in futuro la maggioranza del popolo dell’Irlanda del Nord dovesse esprimere il desiderio di diventare parte di una Irlanda unita, il Governo Britannico sosterrebbe tale desiderio”. Il trattato fu osteggiato dagli Unionisti dell’Irlanda del Nord, senza che l’Inghilterra muovesse un dito per impedire l’azione disfattista.


Detenendo il controllo dei principali servizi pubblici, a cominciare dalla fornitura dell’energia elettrica, nel maggio del 1974 misero in ginocchio tutto il territorio con un prolungato sciopero che determinò le dimissioni di Brian Faulkner, Primo Ministro Nord Irlandese. Il trattato decadde e riprese la battaglia tra le due fazioni. Una terra martoriata perse l’unica occasione seria, per riconciliarsi con se stessa, dopo gli accordi del 1921. Oggi la situazione è resa ancora più grave dalla mancanza di un governo a causa della prolungata crisi politica. Le elezioni di marzo scorso sono state vinte dal Partito Democratico Unionista, nonostante la perdita di dieci seggi e la forte avanzata del Sinn Féin, lo storico partito guidato dal sanguigno Gerry Adams, che persegue il sogno di “A Nation Once Again”. Un chiaro segnale che il sentimento di ricongiunzione con l’Éire sta riconquistando vigore, nonostante l’ineluttabile processo di omologazione che l’ha deteriorato negli ultimi decenni, soprattutto tra i giovani, pervasi da altre priorità e in maggioranza immuni dai fremiti ideali dei loro genitori e nonni, pronti a rischiare la vita e la galera nella secolare lotta contro gli occupanti. Tutto ciò avvantaggia gli unionisti, che potranno contare, dal prossimo anno, anche sull’assenza del loro rivale più autorevole. Gerry Adams, infatti, dopo trentaquattro anni d’indiscussa leadership, ha deciso di ritirarsi a vita privata e di lasciare la guida del Sinn Féin. Non sarà facile sostituire un uomo con il suo carisma, ultimo esponente di quella generazione di “combattenti” che ha guadagnato un posto nella Storia grazie alla militanza nell’Irish Republican Army. Tutto sarebbe stato diverso se non fossero naufragati gli accordi di Sunningdale e se le ultime elezioni fossero state vinte dal Sinn Féin. La storia, però, non si scrive con i “se” e pertanto nuove minacciose nubi si addensano sul cielo della parte nordica dell’Isola verde. Se scaricheranno soltanto pioggia, lo vedremo nei prossimi mesi. * “Oggi” si riferisce al 9 dicembre. A causa di un disguido l’articolo è stato pubblicato il 12 dicembre.


CREDITS www.lavorgna.it www.europanazione.eu www.galvanor.wordpress.com www.confini.info Raccolta numeri arretrati “Confini”


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