Raccolta articoli 2019

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ANGELA ROMANO: L’INNOCENZA INFRANTA INCIPIT 3 gennaio 1863, Castellammare del Golfo, contrada Fraginesi. Angela Romano, nove anni, figlia di Pietro e di Giovanna Pollina, fu fucilata dai bersaglieri del generale Pietro Quintino insieme con sei concittadini: Maria Crociata, anni trenta, analfabeta; Marco Randisi, anni quarantasei, bracciante agricolo, storpio, analfabeta; Benedetto Palermo, anni quarantasei, sacerdote, agonizzante per più di un’ora, finito con un colpo di baionetta alla gola; Angela Catalano, anni cinquanta, contadina, zoppa, analfabeta; Angela Calamia, anni settanta, disabile, analfabeta; Antonino Corona, anni settanta, disabile. Furono tutti considerati dei pericolosi briganti. Nel registro dei defunti della Chiesa Madre di Castellammare del Golfo è riassunta la triste fine della povera Angela: “Romano Angela filia Petri et Joanna Pollina consortis. Etatis sua an.9 circ.Hdie hor.15 circ in C.S.M.E Animam Deo redditit absque sacramentis in villa sic dicta della Falconera quia interfecta fuit at MILITIBUS REGIS ITALIE. Eius corpus sepultum est in campo sancto novo”. Non sapremo mai se i caratteri maiuscoli utilizzati per scrivere che fu uccisa dai soldati del Re d’Italia volessero significare, nella mente di chi redasse la nota, rispetto per il ruolo ricoperto, e di converso rispetto per il sovrano, oppure il disgusto e il disprezzo per un gesto ignobile compiuto da adulti, in rappresentanza di un Re, nei confronti di una povera bambina. CONOSCI TU LA TERRA DOVE FIORISCONO I LIMONI? (Goethe) Sono tanti i luoghi ameni della nostra penisola e tra di essi figura Castellammare del Golfo, meta prediletta di turisti raffinati, estasiati dai suggestivi panorami su un mare cristallino, che s’infrange su una lunga costa la cui bellezza è sacra anche agli Dei. Nel 1718 la Sicilia era al centro della contesa tra Filippo V di Spagna e Amedeo di Savoia, entrambi con ambizioni dinastiche per il suo possesso. Il 13 luglio, cinque navi inglesi, giunte in soccorso dei piemontesi, stavano per colare a picco un bastimento spagnolo, che cercò riparo in un’insenatura nei pressi del castello, di fatto mettendosi in cul-de-sac. Il fuoco congiunto dei cannoni inglesi atterrì i cittadini, che già presagivano una triste sorte. All’improvviso, però, una figura femminea di bianco vestita, seguita da una schiera di angeli, prese forma sulla sommità del monte delle Scale, abbagliando l’intero tratto di mare presidiato dalle navi inglesi, i cui comandanti, spaventati, ordinarono subito di invertire la rotta. Resta da capire come mai le Alte Sfere dell’Onnipotente, dopo aver dato cospicua mano alle pretese di Enrico V, assegnarono poi la corona a Vittorio Amedeo di Savoia. Ma queste sono cose cui nessuno può dare risposta e che non vanno nemmeno discusse. A prescindere dall’esito finale della guerra di successione spagnola, comunque, ancora oggi, con cadenza biennale, si tengono riti di ringraziamento per la “Madonna del Soccorso” e rievocazioni storiche dell’evento dal forte richiamo turistico.


Nel 1863, purtroppo, sempre per gli inspiegabili motivi di cui sopra, nessuna divinità venne in soccorso di quei poveri e inermi cittadini massacrati dalle forze governative, assurti a un’imperitura fama della quale avrebbero fatto volentieri a meno. I FATTI Nel 1861 fu varata la legge che prevedeva la leva obbligatoria, assente nel Regno Borbonico, invisa ai poveri contadini meridionali, costretti ad abbandonare per ben sette anni il lavoro nei campi, unico sostentamento familiare. La legge prevedeva l’esonero per i giovani rampolli dell’alta borghesia, definiti “cutrara”, ovvero possessori della “coltre” del potere, grazie al “collaborazionismo” prestato prima e dopo la conquista del regno. Nei primi due giorni di gennaio si ebbe una sommossa fomentata dai “surci” filoborbonici, che presero d’assalto le case dei notabili e gli edifici pubblici. Gli scontri furono violenti e generarono numerosi morti da ambo le parti, ivi compresi il commissario della leva e il comandante della Guardia Nazionale. Il Governo reagì duramente inviando i bersaglieri e due navi cariche di truppe: la pirocannoniera Ardita e la pirocorvetta Monzambano. Il compito di sedare la sommossa fu affidato al generale Pietro Quintino, la cui ferocia e soprattutto il “disprezzo” per i meridionali erano ben noti. Con uno spiegamento di forze adatto a un vera guerra contro nemici di pari livello, il compito assegnatogli si trasformò in un gioco da ragazzi. I briganti, al di là dell’alone leggendario che accompagna le loro gesta, erano poveri cristi delusi, affamati e male armati e solo alcuni di loro potevano vantare qualche esperienza militare nell’esercito borbonico. Nella fattispecie, per i fatti di Castellammare, è addirittura improprio definire “briganti” le vittime della repressione. Gli atti concernenti il processo, purtroppo, sono andatati quasi tutti distrutti e sono disponibili solo poche notizie, dalle quali si evincono le accuse rivolte ai prigionieri: sostegno ai rivoltosi e omertà per non aver svelato il loro nascondiglio, che ovviamente non conoscevano: non siamo certo al cospetto di “eroi” pronti a sacrificare la vita per difendere i propri ideali. La pena di morte fu decisa direttamente da Pietro Quintino e pur volendolo considerare il più bieco tra gli uomini è davvero azzardato ritenere che la condanna riguardasse anche la piccola Angela. Si sono formulate varie ipotesi, tutte senza prove concrete. Quella più plausibile, tuttavia, è che la bimba avesse visto qualcosa che non doveva vedere, nella villa che fu teatro dell’esecuzione, e quindi fu aggiunta all’elenco dei condannati per farla tacere. Per meglio comprendere il clima sociale di quel periodo fa testo il giudizio espresso dal generale Giuseppe Govone, che giustificò il massacro affermando che “la Sicilia non è ancora uscita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni dalla barbarie alla civiltà”. Govone era un altro carognone ancora più spietato di Quintino, inviato in Sicilia nel 1862 e subito distintosi per la sua ferocia, che gli valse l’accusa di “criminale di guerra”. Il Parlamento, però, dopo alcune sedute di facciata lo assolse e, tanto per far comprendere quale fosse la reale considerazione dei territori annessi, lo gratificò con una promozione.


COSA INSEGNA QUESTA STORIA Ho indossato la prima divisa di bersagliere all’età di sei anni, dono di compleanno del mio adorato Papà, soldato d’Italia tempratosi tra le assolate dune libiche. Dei bersaglieri ho sempre sentito decantare le gesta eroiche e pertanto, a venti anni, indossarne la divisa, presso il più glorioso dei battaglioni, mi sembrò la cosa più naturale del mondo. Districare la complessa matassa della nostra storia non è impresa facile, soprattutto se si abbia la pretesa di codificare uomini, epoche ed eventi senza contestualizzarli, utilizzando un metro di giudizio valido oggi, che però è fonte solo di fallaci generalizzazioni se rapportato al passato. Questo errore si commette con metodica frequenza, generando una sequela impressionante di “falsità e leggende”, spesso volutamente, per adattare la storia alle esigenze di chi la scrive o a quelle dei suoi padroni; a volte , però, la distorsione non è frutto di “malafede” e quindi risulta ancora più pericolosa: non vi è nulla di più pericoloso, infatti, dell’essere convinti di avere ragione. Conosciamo tutti, poi, l’orgogliosa fierezza dei militari e il rispetto tributato alla propria divisa, al corpo di appartenenza. So bene quanto siano forti questi sentimenti perché, da giovane, ne ero pervaso anche io. Solo l’esperienza maturata nel faticoso incedere lungo i sentieri della vita ha reso possibile mettere ordine nel retorico ginepraio che abbaglia la vista e annebbia la mente: una divisa è solo della stoffa, magari di buona fattura, lavorata in modo da essere indossata per svolgere determinati compiti, a volte molto terribili. Una divisa non va onorata; vanno onorati gli uomini che la indossano “con onore”. E’ l’uomo la misura di tutte le cose ed è solo lui che va giudicato, nel bene e nel male, per le azioni che compie. La mia fierezza per aver servito la Patria indossando la divisa di bersagliere rimane immutata, ma solo perché non ho mai tradito i precetti di civiltà che ogni essere umano, con o senza divisa, dovrebbe sempre rispettare. Altri uomini, che pure l’hanno indossata, macchiandosi però d’immani crimini, non posso sentirli in alcun modo vicini e prenderne le distanze, senza riserve, è doveroso. Con i bersaglieri che si sono trasformati in assassini, durante la repressione post-unitaria, non ho nulla a che vedere e voglio ribadirlo con chiarezza. La verità, come sempre, rende liberi.


EUROPA ALLA DERIVA? L’Europa è alla deriva e lo si può scrivere senza punto interrogativo. (Chiedo venia agli “evoluzionisti” del linguaggio, ma trovo orribile l’espressione “punto di domanda”, alla pari di tante altre moderne forzature sintattiche che, dietro la maschera del nuovo che avanza, lasciano solo trapelare un difficile rapporto con le vecchie e chiare regole). La domanda, caso mai, potrebbe essere la seguente: “Quando l’Europa non è stata alla deriva?” Impero Romano, Impero Carolingio, successivi e variegati conati imperialistici, guerre mondiali, progetti federativi post-bellici che antepongono gli interessi economici all’unione politica, evidenziano una continua disgregazione continentale, labilmente fronteggiata solo da pochi spiriti eletti che, sempre con la disperazione nel cuore, dovendo fare i conti con la tragicità del proprio tempo, hanno tentato di trasformare in realtà un sogno. L’Europa, mentre da un lato “illuminava il mondo” grazie a uomini straordinari, dall’altro si è degradata, secolo dopo secolo, fino a trasformarsi in una vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni ideologiche, per lo più culminanti in “ismo”, volendo sorvolare sugli altri nefasti aspetti: rivolte medievali dei Comuni; decadenti e oscene monarchie nazionali; massoneria; esaltazioni irrazionali delle masse, che spesso hanno preso lucciole per lanterne, scambiando i nemici per amici e viceversa. Come è stato possibile tutto questo? UN PO’ DI STORIA Un po’ di storia partendo dalla leggenda, non fosse altro per richiamare alla mente un concetto che accomuna tante leggendarie origini, dell’uomo e di luoghi, tutte – diciamo così – “eticamente discutibili”. Europa, principessa fenicia, fece perdere la testa a Zeus, che si trasformò in toro, la rapì e la trombò a raffica in quel di Cnosso, rendendola madre di tre figli, Minosse, Radamanto e Serpedonte, poi adottati dal marito mortale e cornuto, Asterione, re di Creta. Il nome “Europa”, con il quale furono designati i territori occidentali, avrebbe la sua genesi, pertanto, in uno stupro. La leggenda, infatti, ancora oggi definita con fastidiosa leggerezza “il ratto di Europa”, genera l’immagine di una donna spaventata, presaga di essere preda di uno stupratore. Tanti grandi pittori, invece, con un approccio più realistico, hanno raffigurato la giovane principessa sorridente e ben felice di volare in groppa al toro. Se è lecito ritenere, infatti, che nessuna donna saprebbe resistere alle avances di uomini affascinanti e famosi, come, per esempio, Brad Bitt, George Clooney o Cristiano Ronaldo, stendendo un velo pietoso su quelle che la danno allegramente anche a porci bavosi e vegliardi, purché detentori di un qualche potere, risulta davvero difficile credere che ve ne fosse una capace di dire “no” a un DIO. Il primo documento scritto in cui compare il termine Europa, in realtà, risale a un poemetto greco dell’800 a.C., denominato “Inno ad Apollo”, nel quale il poliedrico Dio afferma testualmente: “Qui ho deciso di costruire un tempio glorioso, un oracolo per gli uomini, e qui porteranno offerte pubbliche coloro i quali vivono nel ricco Peloponneso, coloro che


vivono in Europa”. Trecento anni dopo, grazie al geografo Ecate di Mileto, si ha la distinzione netta tra Asia in Oriente ed Europa in Occidente. IL CONCETTO DI EUROPA NELL’ANTICHITÀ Quando si parla di progetti federativi, soprattutto a soggetti intrisi del più malsano nazionalismo, una delle obiezioni ricorrenti è la differenza sostanziale che caratterizza i popoli europei, a loro dire impossibile da armonizzare. Inconsapevolmente, di fatto, compiono un salto indietro nel tempo di ben XX secoli, perché già Strabone distingueva gli europei delle pianure, pacifici e inclini allo studio delle arti, dagli europei montanari, forti e propensi alla guerra. Contrariamente a quanto asserito da molti storici, poi, non si può parlare di Roma come elemento di coesione tra i popoli assoggettati: il termine “assoggettato”, di fatto, stride fortemente se associato a “coesione”, che invece indica il legame profondo da cui deriva univocità di sentimenti e di atti. Lo stesso discorso vale per il Cristianesimo, che apparentemente “creò un forte legame politico e spirituale tra i popoli”, secondo la visione di coloro che amano narrare i fatti storici adeguandoli ai propri “desiderata”, in questo caso senza tenere conto delle guerre di religione, della Riforma e della Controriforma, dell’Inquisizione, dell’oppressione di interi popoli. DAL XIII AL XVI SECOLO Occorre distinguere bene, pertanto, le azioni dei vari popoli europei, intesi come masse di cittadini e classi dominanti, dalle “visioni e suggestioni” di singoli soggetti, veramente esigui, propositori di una Europa immaginifica, che non ha mai trovato oggettivo riscontro in un progetto politico. Già Dante, nel “De Monarchia”, pur nella palese forzatura relativa alla presunta “volontà divina”, con la quale aveva giustificato anche l’espansione romana, riserva all’Europa il compito di formare un impero universale destinato “ad una missione comune di ordine, di civiltà e di armonia”. Peccato che questo nobile proposito sia stato costantemente smentito negli otto secoli successivi, caratterizzati da sanguinose lotte intestine e dallo scisma che indusse molti cristiani a seguire il teologo di Eisleben e le sue novantacinque tesi. Contemporaneo di Martin Lutero era un bizzarro teologo olandese, Erasmo da Rotterdam, il cui pensiero, non dissimile da quello dantesco per quanto concerne l’importanza tributata alla componente religiosa, esalta il concetto di patria comune per l’Europa cristiana: “Non gli inglesi, né tedeschi, né francesi; perché ci dividono questi stolti nomi, quando il nome di Cristo ci ricongiunge?” Nessuno gli diede ascolto, lasciandolo nella triste condizione di chiunque si senta un incompreso, per di più esasperata dai giudizi tranchant di chi, non avendo la capacità di vedere il grigio, sceglie solo tra il bianco e il nero. Erasmo, invece, pur restando cattolico, condivideva molti punti della riforma protestante, della quale però non accettava il punto cruciale, relativo alla negazione dell’esistenza del libero arbitrio: condizione ideale per essere inviso sia ai cattolici, che lo consideravano luterano, sia ai luterani, che non tolleravano la sua volontà di mantenersi neutrale per conferire un impulso più autorevole alla


riforma della religione, scegliendo il meglio delle due parti. Quando le posizioni di qualcuno rappresentano un problema per il potere costituito, la propensione è quella di cancellarle e così avvenne nel 1543: i suoi libri furono dati alle fiamme a Milano, insieme con quelli di Lutero. Per cinque secoli Erasmo è stato oggetto di studio prevalentemente in ambito accademico, ma, nel 1993, un certo Silvio Berlusconi, affermando che proprio da un suo saggio aveva tratto l’ispirazione per entrare in politica, perché “le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia”, lo ridestò dall’oblio, inducendo il popolino che incantò con il suo istrionismo a fare incetta de “L’elogio della follia”, non prima di aver provveduto ad acquistare la casa editrice che deteneva i diritti dell’opera (Einaudi), in modo da essere il primo beneficiario del massiccio successo editoriale. IL XVII SECOLO Tra il XVI e il XVII secolo l’Europa precipitò in un periodo ancora più buio dei precedenti, caratterizzato da una lunga guerra che, dopo l’iniziale contrasto tra stati protestanti e cattolici, vide coinvolte quasi tutte le grandi potenze e fece riemergere la rivalità franco-asburgica per l’egemonia continentale. Nel 1568 iniziò la guerra tra le sette province unite, che oggi costituiscono il territorio dei Paesi Bassi, e la Spagna; nel 1618, poi, il conflitto si estese al resto d’Europa (guerra dei trenta anni). La pace di Vestfalia, nel 1648, pose fine a ottanta anni di macelleria continentale, segnati da non meno di dodici milioni di vittime, tra militari e civili. Nondimeno fu proprio in quel periodo che, il visionario di turno, concepì il “GRAN DISEGNO”. Massimiliano di Béthune (1559-1641), duca di Sully, già potente ministro delle finanze, alla morte di Re Enrico IV di Borbone, nel 1610, fu nominato membro del Consiglio di reggenza. Ben presto, però, entrò in contrasto con la vedova del sovrano, Maria de’ Medici, la cui politica estera, del tutto opposta a quella del defunto marito (molti storici le imputano la sua morte), fu improntata al riavvicinamento con la Spagna, che favorì addirittura con due matrimoni: il figlio Luigi con l’infanta Anna e la figlia Elisabetta con l’infante Filippo, che divenne re di Spagna nel 1621. Costretto alle dimissioni, il duca si ritirò nel suo stupendo Hôtel de Sully, non distante dalla Piazza della Bastiglia, ed ivi redasse il progetto federativo, conferendone però la paternità a Enrico IV, non si sa se dicendo la verità o mentendo, per rendere più esaltante la figura di un sovrano che, evidentemente, amava molto. Aggiunse anche che Enrico IV aveva elaborato il progetto grazie a un’idea della regina Elisabetta d’Inghilterra, da lui incontrata nel 1601. Il “Gran Disegno” consisteva in un Consiglio d’Europa composto da cinque monarchie elettive (Sacro Romano Impero Germanico, Stati Pontifici, Polonia, Ungheria, Boemia) e quattro repubbliche sovrane (Venezia, Italia, Svizzera e Belgio). I propositi si possono riassumere nella volontà di dirimere le controversie tra gli stati e i contrasti interni tra il sovrano e il popolo. Il tutto condito dalla necessità di elaborare progetti comuni per il perfezionamento della Repubblica Cristiana. Nel 1693, infatti, William Penn, con il suo “Essay towards the Present and Future Peace of Europe by the Establishment of an


European Diet, Parliament or Estates”, propose ai sovrani d’Europa un’assemblea legislativa con il compito di emanare norme giuridiche vincolanti per gli stati aderenti, che prevedeva sanzioni punitive nei confronti dei sovrani inadempienti. Anche il suo progetto era ancorato al primato della cristianità, ma non difettava di principi senz’altro forieri di un serio processo unitario: eliminazione delle spese di guerra e ovviamente risparmio di vite umane (l’unione avrebbe annullato sul nascere ogni possibile conflitto); possibilità di viaggiare tra i vari stati con un semplice lasciapassare: nasce così il prototipo del futuro passaporto. IL XVIII SECOLO Nel XVIII secolo il primato dei progetti federativi destinati a restare lettera morta, in un continente che continua a scannarsi in guerre fratricide, ritornò alla Francia grazie al “Memoire pour rendre la paix perpetuelle” dell’abate Ireneo Castel di Saint-Pierre (1658-1748), che riprese il “Gran Disegno” di Enrico IV (o del Duca di Sully), perfezionandolo e arricchendolo con una nutrita serie di articoli, tutti protesi a creare una più marcata coesione tra i popoli e a favorire “la pace perpetua”. Se ne omette l’articolata esposizione per amor di sintesi, rimandando il lettore agli “Scritti politici” di Jean-Jacques Rousseau, che alle tesi dell’abate dedica ampio spazio, mettendone in risalto i limiti, l’ingenuità congenita e l’impossibilità di una pratica attuazione, considerato che “in Europa c’è troppa gente interessata alla guerra in vista di personali profitti. Una pace perpetua non farebbe che estendere gli stessi vantaggi economici a tutti, mentre ognuno è invece sempre alla ricerca di beni esclusivi”. Un cardinale la sa più lunga di un abate e ciò traspare evidente nel pensiero di Giulio Alberoni, che paventa l’unione spirituale del continente e ne parla nello studio intitolato: “Dieta perpetua per mantenere la pubblica tranquillità”. In Europa, secondo Alberoni, non potrà esservi pace sino a quando i singoli stati non avranno soddisfatto i loro appetiti espansionistici. Ergo: occorreva liquidare in fretta l’Impero ottomano e dividere i territori tra i vari stati europei. Il pragmatismo cristiano è esplicito, tanto meglio se suffragato da dati di fatto oggettivi: “I turchi non possiedono nel mondo un piede di terreno che non sia stato conquistato a forza di sacrilegi, imposture, minacce e oppressioni”. Con lungimiranza degna di un raffinato stratega, poi, nella concezione del nuovo equilibrio europeo non assegna al Papa nemmeno uno straccio di territorio eventualmente strappato ai turchi: vuole rappacificare cattolici e protestanti all’insegna di un nuovo spirito di tolleranza e quindi è necessario “porre gli interessi de’ Protestanti ad una condizione medesima con li Cattolici”, con quanta gioia per il pontefice e quante effettive possibilità di successo è facilmente intuibile. L’ultimo visionario del XVIII secolo è l’abate fiorentino Scipione Piattoli (17491809), che fece fortuna in Polonia come influente consigliere di re Stanislao. Soggetto quanto mai singolare e di difficile decantazione, vede ancora oggi molti storici, forse con ragione, mettere in dubbio la sua effettiva adesione all’ordine degli Scolopi. La vocazione religiosa, in effetti, sembra in netto contrasto con un


marcato laicismo e con l’adesione alla massoneria. Fu anche un importante esponente dell’illuminismo polacco, che però si differenziava sostanzialmente da quello diffusosi nel resto d’Europa. Legatissimo anche alla corte imperiale russa, ricevette dallo Zar Alessandro l’incarico di trovare una soluzione definitiva al problema europeo. Non è che avesse molte scelte, considerata la natura del committente e pensò bene, quindi, di redigere due progetti che assegnavano alla Russia il ruolo primario nel nuovo assetto politico-geografico: considerato che la naturale zona d’influenza era l’Asia, poteva reggere la politica generale d’Europa garantendo un equilibrio sostanziale in virtù del fatto che non aveva interessi diretti da difendere. Era il primo, ovviamente, a non credere alla fattibilità del progetto, redatto per mera piaggeria, per giunta ben retribuita. VISIONI EUROPEE POST CONGRESSO DI VIENNA Il XIX secolo si apre con l’Europa che deve riprendersi dal tornado napoleonico. Il Congresso di Vienna avrebbe dovuto sancire il principio dell’equilibrio e della pace, ma vide solo prevalere le rispettive rivalità e il rigurgito del nazionalismo. La Francia si riprese prepotentemente la scena con un filotto portentoso. Il conte Claude-Henri de Saint Simon (1760-1825), nel 1814, con il progetto denominato “De la reorganisation de la societé europeenne”, sulla scia di quanto già era stato fatto da Rousseau, mise in luce i pregi e i difetti insiti nell’opera dell’abate di Saint-Pierre. Saint Simon riteneva impossibile convincere i sovrani ad unirsi in una confederazione che limitasse il loro potere, essendo tutti pervasi da logiche egoistiche. Con un’alchimia normativa farraginosa e lacunosa, e quindi inevitabilmente destinata al fallimento, affermò che l’unione europea poteva realizzarsi conferendo a Francia e Spagna il compito di stipulare un accordo fraterno, valido per tutti. Per salvaguardare gli egoismi nazionali ogni stato avrebbe preservato il proprio Parlamento, sia pure riconoscendo la supremazia di un Parlamento generale istituito al di sopra dei governi nazionali e investito del potere di giudicare le controversie. Egli stesso si rese conto che un principio enunciato, ancorché valido, per essere recepito ha bisogno di conquistare i cuori prima della mente e spiegò, pertanto, che l’istituzione avrebbe funzionato solo sviluppando una più grande generalità di vedute, capace di trasformare il patriottismo nazionale in patriottismo europeo. Il Parlamento europeo prevedeva due camere e della prima avrebbero fatto parte magistrati, negozianti, sapienti e amministratori: “Per ogni milione di uomini in Europa che sappiano leggere e scrivere, dovranno essere mandati alla Camera dei comuni del grande parlamento un negoziante, un dotto, un amministratore e un magistrato. Così, supponendo che in Europa vi siano sessanta milioni di persone che sappiano leggere e scrivere, la camera sarà composta da 240 membri”. Ciascun parlamentare doveva possedere non meno di 25.000 franchi di rendita in terreni, al fine di garantire la sua piena indipendenza e incorruttibilità, eccezion fatta per coloro che, pur privi di beni, si fossero distinti per talento e ingegno. Al re, posto al vertice del Parlamento europeo, spettava la scelta dei membri che avrebbero composto la Camera dei Pari. Non sapremo mai, però, come sarebbe stato scelto il re cui conferire cotanto


prestigioso incarico: Saint-Simon rimandò la soluzione a un’opera successiva, che non scrisse mai. Il pensiero di Saint-Simon, nel suo insieme, non presenta alcun tratto passibile di pratica attuazione e, di fatto, venne stroncato da tutte le correnti sociali. Di lui ha dato una importante e caustica definizione l’urbanista italiano Paolo Sica (1935-1988), nel saggio “Storia dell’urbanistica”: “La dottrina sansimoniana diviene la veste filosofica e culturale della tecnocrazia (sia di marca autoritaria che connaturata al liberismo) e questo sarà anche il destino personale di gran parte dei seguaci del maestro”. Questo concetto è utile per presentare colui che gli funse da segretario dal 1817 al 1824, per poi tentare di brillare di luce propria. In effetti Auguste Comte è riuscito a conquistarsi il suo posticino nella storia, grazie anche alle continue maledizioni che ancora oggi tanti studenti universitari, costretti a studiare le sue astruse e bislacche teorie, riversano sulla povera guardia reale che, nel 1827, lo salvò dalle gelide acque della Senna, nelle quali si era buttato per porre fini ai suoi giorni, avendo scoperto la deliziosa disponibilità della consorte nei confronti di chiunque le chiedesse di aprire le gambe. Non poteva essere altrimenti, del resto, dal momento che Caroline Massin, di basso ceto sociale ("grisette" in francese), zoccola lo era di mestiere, con postazione fissa nei pressi del Palazzo Reale e tanti clienti rinomati, tra i quali proprio il filosofo positivista, che sposò nel 1825. Ai dotti lettori di “CONFINI” non è il caso di ribadire le sue elucubrazioni dottrinarie e quindi, solo per dovere di cronaca, mi limiterò a citare esclusivamente il progetto federativo, che conferiva alla Francia un ruolo prioritario in quanto "centro dell'Europa" e prevedeva una sola flotta militare, una moneta unica, una stretta alleanza con gli Stati Uniti d’America. Il più noto europeista del XIX secolo è Victor Hugo, autore di un memorabile discorso all'Assemblea Costituente, il 21 aprile 1849, nella veste di Presidente del Congresso della Pace: “L'edificio del futuro si chiamerà, un giorno, Stati Uniti d'Europa. Giorno verrà in cui la guerra sembrerà tanto assurda e tanto impossibile tra Parigi e Londra, tra Pietroburgo e Berlino, tra Vienna e Torino, come oggi lo sarebbe quella tra Ruàn e Amiéns, tra Boston e Filadelfia. Giorno verrà in cui Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania o non importa quale altra Nazione del continente, senza perdere le loro qualità peculiari e la loro gloriosa individualità, si fonderanno strettamente in una unità superiore e costituiranno la fraternità europea. Giorno verrà in cui le pallottole e le bombe saranno rimpiazzate dai voti, dovuti al suffragio universale dei popoli. Un Senato sovrano sarà per l'Europa quello che il Parlamento è per l'Inghilterra, la Dieta per la Germania, quello che l'Assemblea legislativa è per la Francia. Giorno verrà in cui si vedranno questi due gruppi immensi, gli Stati Uniti d'America, gli Stati Uniti d'Europa, uno di fronte all'altro tendersi la mano attraverso i mari”. Belle parole. Prima di passare al XX secolo e ai giorni nostri dedichiamo poche righe, per completezza informativa e senza bisogno di scendere nei dettagli, ai progetti federativi concepiti in Italia, i cui autori, emulando i francesi in tema di autoreferenzialità, a seconda della matrice culturale, conferivano un ruolo guida


o alla Chiesa o alla nazione. Antonio Rosmini (1797-1855) fu un convinto assertore di una “società teocratica” che guardava precipuamente a una comunanza morale e religiosa sotto l'egida del Papa, visto come guida spirituale e politica. Il ruolo guida spettava all'Italia perché, nel concerto europeo, “fu sempre il migliore e più fedele sostegno del Papato”. Emblematica la chiosa: “L'interesse della Religione e della Santa Sede Apostolica vuole che si salvi l'Italia a preferenza di ogni altra nazione”. Per Vincenzo Gioberti (1801-1852) la supremazia italiana scaturisce dal papato: “La dittatura del Pontefice, come capo civile d'Italia e ordinatore d'Europa, è richiesta a fondare le varie Cristianità nazionali”. È l'Italia, quindi, che deve guidare “quella lega di Nazioni che chiamasi Europa”. Per Cesare Balbo (1789-1853), l'Europa costituisce un “tutto, una repubblica complessa da venticinque e trenta secoli in qua”. Nel saggio "Le speranze d'Italia" descrive l'interdipendenza degli stati europei che, di fatto, costituiscono una unità continentale governata da leggi i cui pilastri sono il diritto internazionale e il cristianesimo. Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), diplomatico a tutto campo che teme le rivoluzioni in quanto disgregatrici degli assetti da lui ritenuti validi, individua nella Polonia e nel Piemonte, quest'ultimo quale espressione della nazione italiana, i punti di riferimento per un assetto politico dell'Europa, basato sulla pace e sull'equilibrio: la Polonia “antemurale contro il moto lentamente invasore della potenza moscovita” e l'Italia con lo stesso scopo contro la potenza austriaca. Lo spazio tiranno consente solo la citazione di altri personaggi che, a vario titolo, completano il quadro dei “visionari europeisti”, ciascuno con la propria ricetta, purtroppo sempre condizionata, e quindi inficiata, dalla mancanza di una seria progettualità che sancisse un esclusivo primato dell'Europa Unita, senza riferimenti a stati guida: Terenzio Mamiani (1799-1885); Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888); Gian Domenico Romagnosi (17611835); Giuseppe Ferrari (1811-1876). Un discorso a parte meriterebbero Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, che però non può essere affrontato esaustivamente in questo contesto. IL XX SECOLO Le lacerazioni delle due guerre mondiali crearono i presupposti per una presa di coscienza protesa a tutelare, innanzitutto, la pace. Nel 1946 si riunirono a Hertenstein, in Svizzera, federalisti europei appartenenti a diverse nazioni. Per la prima volta fu affrontato il problema del trasferimento di sovranità a un organismo federale. Nello stesso anno Winston Churchill propose la creazione degli “STATI UNITI d'EUROPA”. I successivi passi, con la nascita della CECA, della CEE, dell'EURATOM, dell'UNIONE EUROPEA, della moneta unica e dei trattati ancora oggi in vigore, costituiscono la storia che noi contemporanei abbiamo vissuto direttamente, nel bene (poco) e nel male (tanto). La realtà della vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli la patiamo quotidianamente ed è proprio in virtù di questa realtà che possiamo affermare, serenamente, che l'Europa è alla deriva. E altrettanto serenamente possiamo affermare, alla luce di quanto scritto nelle pagine precedenti, che alla deriva è


sempre stata. Una deriva che scaturisce dai limiti della natura umana, che portano l'individuo a considerare come centro del mondo se stesso, il proprio quartiere, la propria città, la propria regione e talvolta, ma non sempre, la nazione nella quale vive. Pensare che la stragrande maggioranza dei cittadini europei possa sentirsi a casa propria, in qualsiasi angolo dell'Europa, come accade a pochi grandi, grandissimi uomini, è mera utopia. I progetti federativi del passato ci appaiono quasi tutti patetici e ridicoli, ancorché concepiti da uomini sicuramente colti, ma incapaci di allargare i confini mentali e, di conseguenza, quelli geografici. Con questo retaggio, dove vogliamo andare? Dietro ogni azione si cela la qualità di chi la pone in essere. E gli uomini al potere oggi, in Europa, li conosciamo. Per ritenere che un serio progetto federativo possa prendere corpo con loro e che siano capaci di trascinare entusiasticamente settecento milioni di persone verso l'unità politica, occorre avere più fantasia di quella che ha consentito a Tolkien di concepire le sue opere. Cosa accadrà, quindi? La sfera di cristallo non la possiede nessuno, ma è lecito ritenere che l'attuale stagnazione, senza prospettive risolutrici, andrà avanti ancora a lungo, peggiorando gradualmente. Contrariamente al ritornello di una canzonetta degli anni sessanta, cantata da Rita Pavone, "un popolo affamato "non" fa la rivoluzione", ma cerca di tirare a campare. Gli esempi, in tal senso, non mancano. Le prossime elezioni europee daranno sicuramente un forte scossone al canceroso establishment comunitario, ma da qui a sperare che le cose cambieranno in modo radicale, ce ne corre. Negli anni cinquanta del secolo scorso non si è avuto il coraggio di anteporre l'unione politica a quella economica e si sono creati i presupposti per i successivi disastri. Gli europei non erano ancora pronti a ritrovarsi sotto un'unica bandiera, con un presidente, un unico esercito, un governo federale, un parlamento vero dotato di veri poteri. Non erano ancora pronti, insomma, per gli “STATI UNITI d'EUROPA” e non lo sono neppure ora. Vi è da considerare, altresì, che dal 1941, anno in cui Altiero Spinelli concepì il famoso "Manifesto di Ventotene", vi è stato un lungo periodo di “buio ideologico”, che ha visto solo dilatarsi smisuratamente il primato dell'economia sulla politica. Nel manifesto di Spinelli, tra l'altro, la definizione di “STATI UNITI d'EUROPA” non compare proprio. Occorrerà attendere ben settantadue anni, affinché, nel 2013, un vecchio europeista fondasse un movimento politico denominato "EUROPA NAZIONE", dotandolo del più bel progetto federativo mai concepito nel continente. Più bello proprio perché sancisce il primato dell'Europa, vero faro del mondo, grazie a un organigramma istituzionale che prevede compiutamente la realizzazione degli “STATI UNITI d'EUROPA”. Uniti nella diversità, certo, perché la storia non si cancella, ma capaci di guardare avanti sorridendosi e tenendosi per mano, avendo consapevolezza che, se davvero unita, l'Europa è imbattibile, economicamente e militarmente. Culturalmente non serve scriverlo perché lo è da sempre, nonostante tutto. Sembrerebbe tutto facile, ma così non è, perché quel movimento, creato da un visionario il cui nome non cito per modestia, dovrebbe avere proseliti in tutti i paesi d'Europa e invece può contare solo su un esiguo numero di adepti, al massimo buoni per convegni di alto profilo culturale. Con


questi presupposti, di cosa vogliamo parlare? Cara vecchia baldracca, continua pure a puttaneggiare nei nuovi bordelli. Vi sono nuove infezioni che ti aspettano. Sono così virulente che non bastano i profilattici per arginarle. Senza contare che a te, da sempre, piace un sacco infettarti. Nessuna speranza, quindi? No! Continuare a sognare non costa nulla, magari cantando sempre lo stesso ritornello: “Da Praga a Stettino, da Roma a Berlino, un sol grido si leva, un solo grido si leva: Europa, Nazione sarà; Europa, Nazione sarà; Europa, Nazione sarà”.


FRANCE, MON AMOUR (Lettera aperta all’ambasciatore di Francia e al direttore de “Le Figaro”) PREMESSA Il presidente Macron, lo scorso 7 febbraio, sentendosi offeso “per gli attacchi senza precedenti del governo italiano”, ha richiamato in patria l’ambasciatore. Non ha digerito, di fatto, l’incontro tra il ministro Di Maio e alcuni esponenti del movimento “Gilet Gialli”. Gli ha fatto da eco Nathalie Loiseau, ministro degli esteri, con l’invito al Governo italiano a “far prevalere la preoccupazione per gli affari del proprio Paese, del benessere della propria popolazione e di fare in modo di avere buone relazioni con i vicini”. Di Macron ricordiamo tutti le volgari e reiterate ingiurie nei nostri confronti; di Nathalie Loiseau, invece, è opportuno citare quanto asserito in occasione del World Economic Forum, tenutosi a Davos dal 22 al 25 gennaio 2019, in replica al presidente Conte, che propose l’istituzione di un solo seggio all’ONU, in rappresentanza dell’Unione Europea, e non un seggio per ogni stato: “Non giochiamo a chi è più stupido", lasciando chiaramente intendere che di favorire il processo d’integrazione europea con un segnale dal forte valore simbolico non se ne parla proprio, rivelando in tal modo il vero volto dei falsi europeisti. In psicologia esistono seri studi per inquadrare le patologie di chi sia aduso a imputare agli altri le proprie azioni sconce, per lo più racchiuse nei concetti di “gaslighting” e “proiezione”. Il primo termine indica una sporca tattica di manipolazione protesa a distorcere la percezione della realtà, insinuando dubbi che possono diventare tanto più forti quanto più autorevole è il ruolo di chi la metta in pratica. La “proiezione”, invece, evidenzia la meschina incapacità di acquisire consapevolezza delle proprie mancanze e la propensione a riscontrarle negli altri. Apparentemente il gaslighting potrebbe essere recepito come uno strumento maligno razionalmente utilizzato per fini biechi, mentre per la proiezione risulta più evidente la matrice psico-patologica. In realtà anche il gaslighting va considerato alla stregua di una malattia mentale: chi lo pratica, infatti, in linea di massima è avviluppato totalmente nel proprio pensiero e nei propri convincimenti. Quando la Loiseau afferma “non giochiamo a chi è più stupido”, non pronuncia una frase con la consapevolezza di giocare sporco ma con la convinzione di “avere ragione”. Per lei, infatti, come per tanti altri falsi europeisti, è inconcepibile una vera Europa Unita e una Francia priva del suo potere di veto all’ONU. Stiamo parlando, quindi, di soggetti che, a prescindere dai limiti etico-culturali che li rendono inadeguati al delicato ruolo ricoperto, sono dei sociopatici affetti da gravi disturbi mentali, tipici dei narcisisti vendicativi e degli psicopatici che adottano comportamenti disadattativi nelle proprie relazioni. Sono dei malati, di fatto, che andrebbero innanzitutto curati da bravi psicoterapeuti. E’ importante sottolineare questo aspetto perché non è giusto, per loro colpa, inficiare gli stretti legami che, da sempre, affratellano due popoli. LETTERA APERTA ALL’AMBASCIATORE DI FRANCIA E AL DIRETTORE DE “LE FIGARO”


Egregio Ambasciatore Christian Masset, Gentile Direttore Alexis Brézet, per rigida disposizione medica devo stare lontano dalle fritture, dagli insaccati, dai grassi saturi e dai cretini di ogni ordine e grado, soprattutto da quelli di alto grado che, rispetto ai cretini ordinari, sono molto più dannosi. Per distanza non s’intende solo quella fisica ma anche mentale e pertanto, non potendo indirizzare direttamente questo messaggio al più grande tra i cretini che popolano il vostro meraviglioso paese, lo affido a voi, in modo che gli sia recapitato. Sarei felice, inoltre, di vederlo pubblicato affinché fosse letto soprattutto da quella parte colta e illuminata del popolo francese che, sin dal 1826, trova nel quotidiano “Le Figaro” un solido e serio punto di riferimento mediatico. Mi sia consentito di accompagnare la richiesta di pubblicazione con una dedica a un glorioso giornalista della testata, nonché grandissimo storico e prezioso mentore di tanti giovani europei che, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, ebbero la capacità di capire il mondo meglio di quanto non fosse riuscito ad altri, scattando in avanti, e non di poco, rispetto ai tempi. Quei giovani, che ora hanno i capelli bianchi e con i quali ho condiviso mille battaglie, ancora oggi costituiscono il patrimonio più prezioso di questa sgangherata Europa che stenta a trovare la strada maestra. Grazie, Jean-Calude Valla, per tutto ciò che ci hai insegnato. Se tu fossi ancora vivo faresti senz’altro sentire la tua autorevole voce per mettere in riga i cretini, sulla scia di ciò che sempre hanno fatto i grandi francesi, in ogni epoca. Egregio Ambasciatore, gentile Direttore, chi scrive, sin da quando indossava i pantaloni corti, della Francia ama tutto: il suo incantevole territorio, parte del quale raggiunge livelli di suggestione che trascendono la bellezza e sconfinano in una magia travolgente, capace di far perdere ogni cognizione spazio-temporale; la cultura, che trasuda da ogni contesto e quindi non solo dai testi dei grandi romanzieri; la musica, che grazie alla poetica degli chansonnier alberga ancora oggi su vette irraggiungibili dai comuni mortali; il cinema, che ha donato al mondo la straordinaria bravura di registi e attori ineguagliabili, meritevoli occupanti di quell’Olimpo indegnamente popolato da troppe mezze cartucce graziate dalle mistificazioni, artate e involontarie, di quel variegato e disordinato caleidoscopio umano che gravita intorno alla settima arte. In questo sviscerato amore so di essere in buona compagnia, non solo tra i confini del mio Paese. La Francia, è addirittura banale sottolinearlo, per milioni di persone è sempre stata e sempre resterà una terra incantevole. E non è certo un caso, tra l’altro, se uno tra i più grandi uomini mai nati su questo pianeta, se non il più grande in assoluto, in un celebre saggio, argutamente argomentando, sostanzialmente scrisse che la Germania può sempre vincere una guerra contro la Francia, ma culturalmente non potrà mai sconfiggerla. (Friedrich Nietzsche, “Considerazioni Inattuali”, capitolo I). Per decenni, le vicende interne, anche quando hanno generato aspetti sociali non condivisibili, non hanno mai condizionato i reciproci buoni rapporti. Parimenti non hanno mai fatto testo le sortite degli zelanti soggetti improvvidamente definiti “intellettuali” o addirittura “nuovi filosofi”, tipo Bernard-Henry Lévi che,


recentemente, nel programma televisivo condotto da Lucia Annunziata, ha avuto l’ardire di considerare Matteo Renzi, Carlo Calenda ed Eugenio Scalfari dei fulgidi esempi della “buona élite”. Ora, però, il cretino che occupa le meravigliose stanze nelle quali un tempo si sollazzavano Madame de Pompadour e i suoi amici, sta dando troppo fastidio. “Certo – direte voi – è un cretino, ma ha preso oltre 20milioni di voti, espressi proprio da quel popolo che dici di amare tanto e quindi la colpa è principalmente dei francesi se oggi accadono certe cose”. Parole sante, ovviamente, e inconfutabili, soprattutto da uno come me, che per decenni ha visto il suo popolo delegare il potere alla peggiore congerie di rifiuti umani. Sul comportamento delle masse nelle varie epoche storiche sono state scritte pagine memorabili, che non devo certo ricordare a voi. La democrazia ha fatto i conti con le debolezze umane e con l’ignoranza dei più sin dai tempi di Pericle e con questa triste realtà dovremo convivere fin quando il sole non si stancherà di illuminarci e, spegnendo la luce, spegnerà tutte le nostre vacue illusioni. Nel frattempo è opportuno che ci si sforzi per dare un senso alle nostre azioni. Si può sbagliare, si può cadere, ma l’importante è porre rimedio agli errori e rialzarsi: quando ciò non accade ci si trasforma in zombi, ossia in morti viventi. Sia ben chiaro che, di là da ciò che traspare sui social, gli italiani di peso, con solide radici e grande valenza culturale, non si sentono minimamente offesi per le squallide e volgari esternazioni del cretino, dal momento che gli tributano la stessa considerazione tributata a una cacca di mosca. Nondimeno, tuttavia, siccome non tutti conoscono i fatti nella loro essenza più recondita e complessa, per amor di verità va ben spiegato anche in cosa consista quella “proiezione” di cui parlavo in premessa. Pazienza se i fatti narrati colpiranno non solo lui e potranno ferire l’amor patrio di tanti di voi: la verità a volte fa male, ma non per questo può essere sottaciuta. Per il cretino dell’Eliseo noi saremmo “irresponsabili, vomitevoli, cinici”. Quale meraviglioso esempio di proiezione perfetta! “Irresponsabile”, infatti, è un termine che si addice benissimo a chi ha bombardato la Libia per mera gelosia nei confronti dell’Italia in virtù del rapporto privilegiato che con essa intercorreva, creando le premesse per il disastro dell’invasione migratoria; “cinico”, casomai, è chi manda la Gendarmerie a Ventimiglia per respingere con modi bruschi qualsiasi straniero tenti di entrare nel vostro “sol sacré”, magari sconfinando anche in territorio italiano; “vomitevole”, e non solo, è chi sfrutta indecorosamente l’Africa stampando moneta per quattordici nazioni, beneficiando del signoraggio e “cinicamente” sfruttando il lavoro di bambini nelle miniere. Dal Niger, per esempio, proviene il 30% dell’uranio che serve per le centrali nucleari, mentre il 90% della popolazione nigerina vive in condizioni miserrime, senza nemmeno l’energia elettrica. Scegliete voi, infine, il termine più adatto per dei governanti che offrono ospitalità a una quarantina di terroristi, negando la loro estradizione. Può, dunque, un Paese come la Francia essere rappresentato da una cacca di mosca che parla a vanvera e ha più rogna addosso di quanto non se ne trovi in un canile mal curato? E voi, non vi vergognate un po’ per essere parte integrante di un sistema così


marcio? Il “romanticismo” di un amore per le tante cose belle che la Francia ha prodotto e continua a produrre resta intatto, ma sarebbe ora di porre fine alle cose brutte, che fanno male. A tutti. Il popolo francese ha il dovere di fare ammenda dei propri errori, come in parte già sta avvenendo, e creare i presupposti affinché il cretino sia rimosso nel più breve tempo possibile, lasciando campo libero a chi possa veramente agire al servizio del Bene, stoppando l’indecorosa, sporca e criminale politica estera, soprattutto per quanto concerne le vicende africane. Questa non è ingerenza, ma tutela dei nostri interessi, perché le scelleratezze dei vostri governanti condizionano la vita dell’intera Unione Europea e risultano oltremodo dannose proprio per noi italiani. Chiunque eserciti un qualsivoglia potere, in qualsiasi contesto, pertanto, si assuma le proprie responsabilità al cospetto non solo del suo popolo ma del mondo intero. Il non farlo vuol dire rendersi complici di malandrini affetti da turbe psichiche, indegnamente insigniti di un potere che non meritano e che non sono in grado di esercitare in modo corretto. Fate in fretta, quindi. Non vediamo l’ora di ritornare a pensare alla Francia senza disgusto.



LE PAROLE INGANNEVOLI: CRESCITA E DECRESCITA PAROLE AL VENTO E FARNETICAZIONI. Partiamo da lontano, anche se di poco rispetto alla storia dell’umanità, perché non vi è problema di oggi che non sia stato già affrontato ieri o l’altro ieri o prima ancora. Con le debite proporzioni, infatti, si potrebbe addirittura andare indietro nel tempo di molti secoli, avendo da sempre l’uomo fatto i conti con la propria sopravvivenza. Perché di questo si tratta. 1967. Paolo VI pubblica l’enciclica “Populorum progressio”, dedicata alla cooperazione tra i popoli e al problema dei paesi in via di sviluppo. In particolare mette in evidenza il forte squilibrio tra ricchi e poveri, i disastri causati dal neocolonialismo, dal capitalismo e dal marxismo. Sancisce il diritto di tutti i popoli a vivere decentemente e propone la creazione di un fondo mondiale per gli aiuti ai paesi in via di sviluppo. 1972. Il Massachussetts Institute of Thechnology pubblica il “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, commissionato dal “Club di Roma”, associazione non governativa, fondata nel 1968 da Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King con l’intento di studiare i cambiamenti globali, individuare i problemi futuri dell’umanità e suggerire adeguati provvedimenti preventivi. Il rapporto, scioccante, predice le conseguenze nefaste del progressivo incremento demografico senza la mancata adozione di misure che tengano conto della “finitezza della Terra”. 1975. L’autore di questo articolo, già da tre anni attivamente impegnato nelle battaglie ecologiche, stanco dell’atteggiamento dilatorio delle più importanti associazioni ecologiche (1), protese esclusivamente a non andare oltre la nobile ma insufficiente attività di difendere leprotti e uccellini e organizzare ritempranti scampagnate agresti, fonda l’ASSOCIAZIONE NAZIONALE SALVAGUARDIA ECOLOGICA con l’intento di diffondere i dettami sanciti dal MIT nella società civile, per scuotere le coscienze dei cittadini, non nutrendo alcuna fiducia nella classe politica. Nel 1976 amplifica l’impegno ambientalista aderendo ai neo costituiti GRUPPI DI RICERCA ECOLOGICA, fondati dal biologo Alessandro Di Pietro con finalità affini a quelle dell’ANSE. Nel novembre del 1977, in occasione del PRIMO SEMINARIO DI STUDI ECOLOGICI (2), tenutosi presso l’Hotel Terminus di Napoli, cui partecipa come relatore in qualità di presidente dell’ANSE e di dirigente nazionale dei GRE , espone dettagliatamente le tematiche insite nel rapporto del MIT e utilizza per la prima volta l’espressione “sviluppo sostenibile”, che incomincia a far breccia nel linguaggio comune, anche se si dovrà attendere il 1987 per il suo utilizzo a livello planetario. Pazienza se la paternità se la fregò l’ex primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland, presidente della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, autrice del “Rapporto Bruntland”, nel quale il concetto di sviluppo sostenibile viene spiegato esattamente con gli stessi parametri utilizzati dallo scrivente a partire da quindici anni prima: “Soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.


1984. Renato Federico, alias “Parsifal”, personaggio immaginario protagonista del romanzo “Prigioniero del Sogno” (3) asserisce: “Quando un uomo sceglie quotidianamente di prendere l’automobile, sapendo di restare imbottigliato nel traffico, evidentemente non ha più nulla da dare al prossimo. Uomo inutile e dannoso, quindi”. 2007. Fabio Mini (4), su “Limes”: “Il conflitto fra chi aspira al benessere e chi difende il proprio è il paradigma di questo secolo. La manipolazione dell’ambiente ne è il fronte centrale. Da Cartagine all’Iraq, via Vietnam, si distrugge la natura per annientare il nemico. E se stessi. […]La grande paura del buco dell’ozono che ci ha tenuto in ansia per decenni è stata superata da quella del riscaldamento globale.[…] Esso dipende dall’aumento delle emissione dei gas serra, che dipende dalle emissioni inquinanti di biossido di carbonio, che sono in diretta connessione con ciò che consumiamo ed emettiamo tutti: dall’anidride carbonica che espiriamo ai gas che emette la nostra auto nonostante le spese folli per renderla ecologica. […] Si tendono a giustificare le emissioni di chi produce ricchezza e si tende a criminalizzare coloro che inquinano per il solo fatto di dover respirare, scaldarsi, cuocersi un piatto di minestra o soltanto tentare di emanciparsi. Molti si chiedono: se non producono ricchezza che respirano a fare? Se assorbono risorse e inquinano per produrre cose che mi fanno concorrenza perché farli continuare? E se non hanno avuto la macchina fino ad ora perché non continuano ad andare in bicicletta? Si tende anche ad assegnare la responsabilità dell’inquinamento non tanto a chi produce la massa delle emissioni, ma a chi produce il differenziale che la trasforma in massa critica. Siccome ciò che emettiamo è esattamente ciò che consumiamo (e tutto ciò che gli esseri viventi consumano è energia), dovrebbe essere facile trovare i veri responsabili dell’inquinamento: basterebbe individuare chi consuma e quindi emette di più. Ma anche questo non è così semplice. La nostra società è detta dei consumi proprio perché il livello di vita e perfino la felicità è misurata in consumi. Ridurre i consumi porta inevitabilmente alla rinuncia ad alcune gratificazioni e ad un abbassamento del tenore di vita misurato su quello standard. Poco importa se si tratta di uno standard insostenibile e insulso in cui il benessere si fonda sul superfluo e sullo spreco. Sono ancora pochi quelli che seriamente pensano di ridurre i propri consumi o di allineare il proprio stile di vita ad uno standard che misuri la felicità e il benessere anche in termini spirituali, di solidarietà, di rispetto dell’ambiente e di umanità”. 2010. Romano Prodi, su Limes (5). “La globalizzazione polarizza i punti di vista: alcuni credono che essa conduca ai cancelli della salvezza, che il consumismo sia il lasciapassare per la felicità e che frenare gli eccessi del mercato sia fonte di disagi; altri credono che essa sia una «falsa alba», una distruttrice di posti di lavoro, e che i vincenti in un sistema finanziario globalizzato siano le corporazioni di avventurieri e di speculatori i quali capitalizzano sulla volatilità del mercato a spese degli investitori e dei lavoratori produttivi. Queste opposte visioni sono il terreno di coltura dell’attuale crisi della governance. […]Secondo me, dobbiamo incoraggiare la ricerca del profitto, ma al tempo stesso fare in modo di darle un


volto umano, e aiutare e provvedere a coloro che sono meno capaci di competere e che si trovano marginalizzati”. 2011. Laura Penacchi (6), introduzione a “Globalizzazione”, saggio di Joseph E. Stiglitz: “Per avere crescita occorre più disuguaglianza, perché solo più disuguaglianza è in grado di imprimere il necessario dinamismo alla società”. 2013. Furio Colombo, su “Il Fatto Quotidiano” (7): “Abbiamo aspettato la crescita come un Messia salvatore sotto forma di prodotti, di vendite, di profitti, di lavoro che torna, una terra promessa per la quale bastano alcune leggi, alcune sagge mosse di governo, alcuni sacrifici, magari duri ma necessari, che ti traghettano sulla parte salva del mondo. Su una sponda la corsa della civiltà lascerà indietro i neghittosi di un mondo antico e obsoleto che vogliono garanzie prima di dare. Sull’altra il mondo orgoglioso del nuovo profitto e del nuovo reddito, dove ognuno è protettore di se stesso, dunque affidabile. […] Ecco allora schierati tutti i protagonisti del drammatico momento che stiamo vivendo. Il meno discusso dei protagonisti del dramma è la crescita. “Ammettiamo che il suo piano funzioni. Dove metterà tutte quelle auto?” ha chiesto un analista finanziario a Gianni Agnelli durante un incontro a Wall Street negli anni Settanta. “Dove le metterebbero i miei concorrenti”, ha risposto l’Avvocato. […] Il pensiero comune vuole “grandi sacrifici” quasi completamente a carico del lavoro, del reddito fisso e dei senza lavoro, e una forte remunerazione ai più forti che si prenderanno l’impegno di trainare il carro fuori dal pantano. “Non è accaduto, perché dovrebbe accadere adesso, quando deregolamentazione e finanza globalizzata, praticamente non rintracciabile, non hanno alcuna ragione di autodenunciare il proprio immenso vantaggio?” si domandano i Nobel Krugman, Stiglitz e Sen. È nella fossa di questa contraddizione che si è incastrato il mito della crescita. Persino chi ci crede poco non riesce a visualizzare o anche solo a concepire come mito e ideale, la “decrescita”. Prima cosa, la senti come una perdita. La contraddizione è dirompente e ovvia: milioni di nuove auto sono necessarie per mettere o rimettere al lavoro milioni di lavoratori a tutti i livelli. Per milioni di nuove auto non c’è posto né per parcheggiare né per respirare. Eppure Marchionne, capo della Fiat, può ancora minacciare “me ne vado, con tutta la mia produzione” e seminare il panico. 2018. Steve Morgan (8), su Limes: “La crescita in numero e in dimensioni dei grandi aggregati urbani – particolarmente dinamica in Asia e in Africa – genera più di un motivo di preoccupazione. In questi aggregati vivono popolazioni con consumi superiori alla media, si producono più rifiuti e si emettono più gas serra, si consuma suolo con velocità doppia a quella della crescita della popolazione. Nei paesi meno sviluppati, quasi un terzo della popolazione vive in baraccopoli o in insediamenti informali, con servizi rudimentali, precario accesso a fonti idriche sicure, pessima igiene. Queste persone sono soggette a rischi ambientali, spesso senza titolo a stabile dimora e quindi a rischio di espulsione. In teoria le aree urbane dovrebbero avvantaggiarsi delle economie di scala generate dalle loro dimensioni. La costruzione di strade, di reti di trasporto, di distribuzione di acqua e di energia, se ben pianificata è in teoria relativamente meno costosa, così come


l’erogazione di servizi di base per la salute e l’igiene. È però ben noto che la mancanza di un’adeguata pianificazione e di un efficiente governo ha impedito quasi ovunque di godere di questi teorici benefici di scala. Il rapido sviluppo della megaurbanizzazione prevedibile per i prossimi decenni minaccia quello “sviluppo sostenibile” che la comunità internazionale si è solennemente impegnata a perseguire. LA SINDROME DELLA CAVERNA DI PLATONE. Il paragrafo precedente potrebbe essere molto più lungo, ma quanto riportato basta e avanza per inquadrare la problematica nel giusto alveo: quello della mancanza di prospettive serie, sia per la cinica protervia di chi è attento esclusivamente al proprio arco temporale terreno e se ne frega dei posteri sia per la difficoltà oggettiva a farsi ascoltare e rispettare da coloro che il problema affrontano onestamente e con la giusta cognizione scientifica. Glissiamo sui primi, perché con loro è inutile perdere tempo, e soffermiamoci sui secondi, su coloro, cioè, che il problema se lo pongono e si adoperano per risolverlo, comportandosi, però, come i prigionieri incatenati nella famosa caverna di Platone, che avevano un visione parziale e distorta della realtà. Parlare di crescita e di decrescita, secondo le modalità che il dibattito tra i fautori delle contrapposte tesi ha assunto negli ultimi trenta anni non ha senso, come dimostrano le pietose condizioni del pianeta e le politiche dilatorie di governanti incapaci di guardare al di fuori dei propri orticelli. I limiti umani e l’errato approccio al problema sono le principali cause del fallimento dei vari vertici intergovernativi e dei numerosi congressi scientifici dedicati all’ambiente. E’ sbagliato ancorare la crescita sostenibile a presupposti che di sostenibile non hanno nulla, perché non prevedono il cambiamento di malsane abitudini; è sbagliato, altresì, utilizzare il termine “decrescita” per sancire una possibile alternativa, anche quando i concetti associati al termine risultino efficaci e condivisibili, come nel caso, per esempio, di una possibile “decrescita del debito pubblico e degli sprechi”, concetto valido solo sotto un profilo ideale e propositivo, ancorché destinato a restare tale. E’ il termine che spaventa e vanifica anche i buoni propositi. La prima battaglia da combattere, pertanto, è proprio quella delle parole, affinché non si creino pregiudizi condizionanti. Non mi piacciono le autocelebrazioni, ma non è colpa mia se, dall’analisi della realtà contingente, emergono come concetti sensati quelli che, sostanzialmente, rievocano le tesi già propugnate nel convegno del 1977 e nel rapporto del MIT, con i successivi aggiornamenti, ancora oggi la linea guida più valida per migliorare la vivibilità del pianeta. Basta, quindi, con “crescita” e decrescita” e iniziamo a parlare, semplicemente, di “progresso” associato alla “conservazione della specie”, privilegiando esclusivamente i concetti positivi. Sostenere la crescita con una più equa redistribuzione del reddito, per esempio, teoria cara a Furio Colombo, tanto per citare qualcuno presente nel precedente paragrafo, è uno dei tanti esempi di mistificazione insulsa che non porta da nessuna parte, perché il concetto è inficiato all’origine da un errore prospettico: ogni crescita, arrivata a un certo livello, si arresta, per esaurimento delle risorse,


per eccesso delle emissioni di sostanze non metabolizzabili dalla biosfera o per semplice processo della natura. Ogni essere umano non cresce “fisicamente” in eterno, il che non impedisce a tanti di “migliorarsi” anche dopo la cessazione della crescita fisica, crescendo, quindi, sotto altre forme in modo “sano”, senza penalizzare gli altri. Se non accettiamo questo semplice enunciato, valido anche in economia, è inutile girarci intorno, non ne usciamo. Una volta acquisito, però, non è che abbiamo risolto il problema: abbiamo solo misurato la febbre. Occorre, infatti, convincere centinaia di milioni di persone, per lo più collocate nell’emisfero occidentale, che devono cambiare abitudini e stili di vita. E’ una parola! Come spiegare agli statunitensi, per esempio, che è non solo stupido ma oltremodo dannoso l’utilizzo smodato dell’aria condizionata? La riduzione dei consumi non può essere legiferata, ma può essere solo inculcata come principio educativo e queste sono altre parole al vento: quanti secoli occorreranno per questa maturazione civile? Non è possibile nemmeno perseguire gli sciagurati che lasciano l’aria condizionata accesa dal venerdì alla domenica sera (negli USA è diffusa questa propensione), perché quando rientrano dal week end non possono permettersi di aspettare cinque minuti per raffreddare la casa: la devono già trovare come una cella frigorifero. Parsifal del romanzo di cui sopra sosteneva, già oltre trenta anni fa, che è “inutile e dannoso” chi decida coscientemente di restare quotidianamente imbottigliato nel traffico. Andrebbe eliminato, quindi, ma i presupposti di civiltà legati ai nostri convincimenti etici non lo consentono e quindi anche le sue sono parole al vento. EDUCAZIONE AI CONSUMI In attesa (lunga attesa) che si creino i presupposti per educare l’umanità a ridurre i consumi e soprattutto gli sprechi, un compito che forse può raggiungere qualche barlume di successo è quello proteso a “orientare i consumi”, in modo che le risorse economiche disponibili aumentino il potere d’acquisto. Nel campo psicologico è ben nota una modalità di “problem solving” elaborata dallo psicologo maltese Edward de Bono, denominata “pensiero laterale”. Grazie ad essa si giunge alla risoluzione di un problema complesso, dopo averlo affrontato in modo sostanzialmente diverso da quello tradizionale. Per atavico costrutto mentale noi siamo portati a ragionare in line diretta, cercando di individuare la soluzione più logica a un singolo problema. In campo economico, per esempio, il bisogno di possedere più cose c’induce a desiderare di possedere più denaro per acquistarle. Una volta sviluppata l’esigenza, cerchiamo di individuare tutte le possibili soluzioni, adottandone alcune o tutte: richiesta di aumento salariale, con snervanti lotte; tentare la sorte investendo delle somme nel gioco (spesso aggravando la propria posizione); fare ricorso ad attività illecite, a furti e rapine, etc. Questo è un tipico processo di ragionamento verticale, il più delle volte infruttuoso. Con il pensiero laterale, invece, siamo in grado “di aggirare l’ostacolo” e raggiungere la meta per altre strade. Quante persone conoscono i costi effettivi dei prodotti più comuni? Davvero poche. Un’azione “educativa”, pertanto, protesa a far comprendere il pazzesco gap


tra prezzo equo di un singolo prodotto e prezzo effettivo, che consente ai produttori di incrementare sensibilmente gli utili, sarebbe quanto mai opportuno. Quel surplus improvvido, infatti, contribuisce sensibilmente ad aumentare la distanza tra poveri e ricchi, mentre con prezzi equi il divario si ridurrebbe, senza penalizzare i consumi! In pratica, invece di aspirare all’aumento del reddito (cosa molto difficile) si dovrebbe aspirare alla riduzione dei prezzi, obiettivo non certo facile, ma più raggiungibile sol che si creassero i giusti presupposti. Facciamo alcuni esempi. Milioni di persone spendono fino a mille euro per uno smartphone, che viene utilizzato più come must che non per la sua precipua funzione. Questa è una distonia sociale favorita dal mercato, che sfrutta le debolezze dei consumatori. Se si riuscisse a far comprendere che gli smartphone più cari potrebbero essere tranquillamente venduti a meno della metà del prezzo, senza che nessuno ci perda, forse la scossa potrebbe produrre qualche effetto. Non si tratta di ripiegare su prodotti meno costosi, ma di acquistare il prodotto desiderato pagandolo “il prezzo giusto” perché, ovviamente, la riduzione dovrebbe riguardare tutta la linea produttiva, dal prodotto meno caro a quello più caro. Una famiglia di quattro persone, marito, moglie e due figli, va in crociera pagando settemila euro per imbarcarsi su una nave che ospita almeno 3500 persone. Calcolando una media di duemila euro a persona, in funzione delle varie tipologie delle cabine, la compagnia incasserebbe, solo per i costi fissi, sette milioni di euro, ai quali vanno aggiunti gli utili ricavati dalle varie attività di marketing. Volendo calcolare una media di ottocento euro a persona, per le spese varie a bordo, si arriva a circa dieci milioni di euro. (E’ appena il caso di ricordare che basta sostituire 3500 con 4mila o 5mila persone, considerato che la maggioranza delle navi raggiunge tale capienza e i sold-out sono una costante, e si raggiungono cifre intorno ai venti milioni di euro). Ritornando all’esempio proposto, sottraendo anche il 70% di costi tra ammortamento e spese varie (e presumo di essere stato molto severo), alla compagnia restano comunque tre milioni di utile netto. Cosa succederebbe se l’armatore si accontentasse di guadagnare “solo” 1,5milioni di euro, e quindi tra il 40 e il 60% in meno a settimana sulla sua flotta? Lui vivrebbe lo stesso da nababbo, ma quella famiglia che ha speso settemila euro, potrebbe permettersi la crociera spendendo non più di 5.800 euro, ottenendo, quindi, un risparmio di ben 1.200 euro. In base a quale logica, se non lo sfruttamento del consumatore rincitrullito, SKY divide lo Sport in ben tre sezioni, facendosi pagare profumatamente per ciascuna di esse? I tifosi (ossia soggetti “deboli”, perché il tifo sportivo è comunque una psicopatologia) pur di guardare una partita, anche brutta e senza gol, sarebbero capaci di indebitarsi; se tutti, però, avessero il coraggio di disdire l’abbonamento e far trapelare l’idea che lo sport comprende tutte le discipline sportive e che sarebbe logico avere un unico abbonamento, con costo “onesto”, per tutti gli eventi trasmessi, sicuramente il vertice societario sarebbe indotto a rivedere le strategie commerciali. Allargando questi presupposti a tutti i prodotti è facilmente intuibile il grosso vantaggio per i consumatori e non solo: la riduzione dei prezzi favorirebbe l’acquisto di altri prodotti, sostenendo l’economia di mercato e


migliorando la qualità della vita. Mi sa, tuttavia, che anche queste, come quelle pronunciate nell’ultimo mezzo secolo, resteranno parole al vento. DEDICA Mentre scrivo la parte finale di questo articolo, all’alba del 15 marzo, in tutto il mondo milioni di giovani si apprestano al “Global Strike for future”. In virtù del fuso orario sono già disponibili le immagini delle manifestazioni che stanno avendo luogo in Australia e Nuova Zelanda. L’iniziativa è stata promossa da una giovane ambientalista svedese, Greta Thunberg, che al vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici tenutosi a Katowice, in Polonia, il 14 dicembre 2018, così rampognò i grandi della Terra: “Voi parlate soltanto di un'eterna crescita economica verde poiché avete troppa paura di essere impopolari. Voi parlate soltanto di proseguire con le stesse cattive idee che ci hanno condotto a questo casino, anche quando l'unica cosa sensata da fare sarebbe tirare il freno d'emergenza. Non siete abbastanza maturi da dire le cose come stanno. Lasciate persino questo fardello a noi bambini. [...]La civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare a fare profitti. La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. Molti soffrono per garantire a pochi di vivere nel lusso. Se è impossibile trovare soluzioni all'interno di questo sistema, allora dobbiamo cambiare sistema”. Avevo venti anni quando fondai “l’Associazione Nazionale Salvaguardia Ecologica” e per quarantaquattro anni sono stato il più giovane ambientalista al mondo a capeggiare un movimento ambientalista. Greta, nel settembre 2018, ha fondato il movimento studentesco “Fridays for Future” e di anni ne aveva solo quindici. Le passo con commosso affetto lo scettro dell’ambientalista impegnata più giovane al mondo, quindi, ben felice che il suo movimento si stia affermando a livello planetario. Le dedico di tutto cuore questo articolo e spero sinceramente che le sue “azioni” siano suffragate da grande successo, proprio nel rispetto di una sua precisa esortazione: “Abbiamo certamente bisogno della speranza. Ma l’unica cosa di cui abbiamo bisogno più della speranza è l’azione”. La dedica è sentita, ma anche opportuna e doverosa. Come italiano, infatti, ho la presunzione di parlare a nome della parte sana del paese e quindi, idealmente, è tutta la “buona Italia” che plaude alla giovane ambientalista. Fino a questo momento, però, l’unica dedica ufficiale partita dall’Italia in suo onore è quella di un certo Nicola Zingaretti, dopo la nomina a segretario di un partito nefasto e pericoloso. Un gesto offensivo, quindi, falso e strumentale, non fosse altro perché subito dopo si è precipitato a manifestare per la realizzazione del TAV, opera che, come noto, contrasta nettamente con i principi di un sano ambientalismo, di un corretto uso del pubblico denaro e dello sviluppo sostenibile. In pratica il tipastro si è comportato alla stregua di quei delinquenti che dormono con la bibbia sul comodino e il quadro di Padre Pio alle pareti, cercando di mascherare le proprie malefatte spacciandosi per rispettosi osservanti dei precetti cristiani. Non era proprio possibile glissare su questo scempio, che sporcava la candida figura di una


persona pura. Tanti auguri, Greta. Il mondo intero, quello buono, attende di vederti nel Municipio di Oslo, a dicembre, mentre ritiri il Premio Nobel per la Pace. Te lo sei meritato. NOTE 1) Va ben spiegato, a tal riguardo, che il rapporto sui “limiti dello sviluppo” subì un sistematico boicottaggio dal potere politico, supportato anche dai soliti “servi titolati” che, dall’alto del ruolo accademico, dietro laute prebende, cercavano di sminuirne la portata. Molte primarie associazioni ecologiche erano in stretta connessione con il potere politico, con quante possibilità di una seria attività ancorata alle tematiche proposte dagli scienziati del MIT è facilmente intuibile. 2) Mi fa piacere citare gli altri relatori, tutti insigni studiosi e per buona parte cari amici anche del direttore di questo magazine: Antonio Parlato, avvocato, futuro parlamentare (1979 -1986) e presidente regionale dei GRE; Giuseppe Campanella, neurologo, psichiatra, psicologo, docente universitario; Luciano Schifone, avvocato, giornalista, direttore di Radio Odissea, direttore del centro culturale “La Contea”, futuro consigliere regionale e parlamentare europeo; Pietro Lignola, magistrato, docente universitario; Giuseppe Sermonti, biologo, docente universitario; Domenico Orlacchio, architetto, docente universitario; Marcella Zanfagna, avvocato, consigliere regionale e futuro parlamentare; Gabriele Addis, esperto problematiche nucleari; Alessandro Di Pietro, presidente nazionale GRE e futuro conduttore televisivo. Presente anche il dottor Arcella, che parlò del problema delle droghe come mistificazione delle coscienze, del quale non ricordo il nome, purtroppo non reperito nel carteggio relativo all’evento, parte del quale smarrito. 3) Lino Lavorgna, “Prigioniero del Sogno”, Edizioni Albatros, 2015. Il romanzo nacque come sceneggiatura cinematografica candidata al concorso “Rai 3 per il Cinema”, 1983. Furio Scarpelli, presidente della giuria del concorso, suggerì di trasformarlo in un romanzo, cosa che è avvenuta molti anni dopo. 4) Fabio Mini è un generale di corpo d’Armata che ha svolto importanti missioni al servizio della NATO e dell’Esercito Italiano. E’ tra i massimi esperti di geopolitica e strategia militare. I brani citati sono tratti dall’articolo “Owning the Weather: la guerra ambientale globale è già cominciata”; Limes, novembre 2007. 5) “La fame ci sfida”, Limes, settembre 2010 6) Farneticante economista sinistrorsa, parlamentare per tre legislature e sottosegretario di stato nel Governo Prodi. 7) “Crisi, l’ora della scelta tra crescita e decrescita”. Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2013.


8) Steve Morgan è un analista di scenari globali, nato in Martinica, membro di “NEODEMOS”, associazione che si occupa di popolazione, società e politica, legata al periodico “Limes”. I brani citati sono tratti dall’articolo “Le conseguenze delle megalopoli”, Limes, gennaio 2018.


MOBBING: URGE UNA LEGGE INCIPIT Tra le tante distonie della società contemporanea, il mobbing nei posti di lavoro sta registrando una crescente espansione, meritevole di maggiore attenzione da parte delle Istituzioni, essendo l’attuale quadro normativo del tutto insufficiente a fronteggiare il fenomeno. DEFINIZIONE DEL FENOMENO Il mobbing definisce i comportamenti registrati in ambito lavorativo da soggetti vittime di soprusi continui da parte di colleghi o superiori, posti in essere con l'intento di un annientamento psicologico, quasi sempre foriero di gravi degenerazioni patologiche, a livello fisico e mentale. Da un punto di vista clinico esistono varie definizioni del fenomeno, più o meno simili, riscontrabili nei principali modelli di riferimento. Il modello Leymann lo caratterizza in quattro fasi, comunque non ancora sufficienti a stabilire i termini per la messa in stato di accusa dei colpevoli, pur rappresentando un ottimo punto di partenza per il legislatore. La teoria elaborata dallo psicologo Harald Ege è molto più fluida e maggiormente adeguata alla realtà sociale italiana, grazie a sei fasi che inquadrano la problematica in un contesto più articolato. Le fasi sono legate logicamente tra loro e precedute da una sorta di pre-fase, detta “Condizione Zero”. CONDIZIONE ZERO È una pre-fase diffusa nella realtà lavorativa italiana e sconosciuta nella cultura nordeuropea: il conflitto quotidiano, anche per futili motivi. Nelle aziende e nella pubblica amministrazione la conflittualità è una regola e tale condizione non costituisce ancora mobbing, anche se ne favorisce fortemente lo sviluppo. Si tratta di un conflitto generalizzato, retaggio di un atavico vizio che induce a sopravvalutare se stesso e a denigrare gli altri: un “tutti contro tutti” per banali diverbi d’opinione, piccole accuse, ripicche, grotteschi tentativi di primeggiare a ogni costo e la presunzione di avere sempre ragione. I lavoratori italiani vivono con sofferenza la moderna propensione al gioco di squadra, essendo diffidenti per natura, e ciò alimenta i contrasti. Nella “condizione zero” non vi è la volontà di distruggere, ma solo quella di prevalere sugli altri. FASE 1: IL CONFLITTO MIRATO Nella prima fase del mobbing si individua una vittima e verso di essa si orienta la conflittualità generale. Il conflitto, quindi, si evolve oltre la mera volontà di emergere e tende a distruggere il soggetto preso di mira, anche con l’utilizzo improprio di elementi afferenti alla vita privata. FASE II: L’INIZIO DEL MOBBING Gli attacchi da parte del mobber non causano ancora sintomi o malattie di tipo psicosomatico sulla vittima, pur suscitandole un senso di disagio e fastidio. Essa


percepisce un inasprimento delle relazioni con i colleghi ed è portata a interrogarsi su tale mutamento. FASE III: PRIMI SINTOMI PSICO-SOMATICI La vittima comincia a manifestare dei problemi di salute e questa situazione può protrarsi anche per lungo tempo. Questi primi sintomi riguardano in genere un senso di insicurezza, l’insorgere dell’insonnia e problemi digestivi. FASE IV: ERRORI E ABUSI DELL’AMMINISTRAZIONE DEL PERSONALE Il caso di mobbing diventa pubblico e spesso viene favorito dagli errori di valutazione da parte dei responsabili delle risorse umane. La fase precedente, che porta in malattia la vittima, è la preparazione di questa fase, in quanto sono le sempre più frequenti assenze per malattia a generare sospetti, ovviamente infondati (1). FASE V: SERIO AGGRAVAMENTO DELLA SALUTE PSICO-FISICA DELLA VITTIMA. In questa fase il mobbizzato entra in una situazione di vera disperazione. Di solito soffre di forme depressive più o meno gravi e si cura con psicofarmaci e terapie, che hanno solo un effetto palliativo in quanto il problema sul lavoro non solo resta, ma tende ad aggravarsi. Gli errori dei dirigenti, infatti, sono dovuti alla completa ignoranza del fenomeno, sempre che non siano i primi responsabili delle azioni delittuose. Conseguentemente, i provvedimenti presi sono non solo inadatti, ma anche molto pericolosi per la vittima. Essa finisce col convincersi di essere la causa di tutto o di vivere in un mondo di ingiustizie contro cui nessuno può nulla. FASE VI: ESCLUSIONE DAL MONDO DEL LAVORO. L’ultima fase implica l’uscita della vittima dal posto di lavoro tramite dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al pre-pensionamento. Nei casi estremi si sviluppano manie ossessive che posso determinare eventi traumatici quali il suicidio o l’omicidio del mobber. LA LEGISLAZIONE IN ITALIA In Italia non esiste una legislazione specifica in materia di mobbing e quindi il fenomeno non è configurato come fattispecie tipica di reato a sé stante. Il quadro di riferimento è il seguente: Costituzione: artt. 32, 35, 41, 42, 97; Codice Civile: artt. 2087, 2043, 2049; Legge n. 300/1970 “Statuto dei Lavoratori” art. 13; d.lgs. n. 626/1994. Per la Cassazione civile (sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785) il mobbing indica sistematici e reiterati comportamenti del datore di lavoro o del superiore gerarchico, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psico-fisico e del complesso della sua personalità. Sotto il profilo penale vi è la sentenza emessa dal Tribunale Ordinario di Torino - sezione Lavoro, nel 2002 (causa iscritta al n.


8262/01 R.g.L.), che culminò con la condanna dell’azienda a reintegrare la ricorrente nelle mansioni e a un risarcimento danni che, per quanto irrisorio, ha la sua valenza in linea di principio. È ben evidente, tuttavia, che siamo ben lontani da una chiara definizione del fenomeno e da una disciplina che consenta la comminazione di pene adeguate, che necessariamente devono contemplare anche la detenzione, l’interdizione dai pubblici uffici e cospicui risarcimenti per i danni subiti dalle vittime. IL MOBBING NEL RESTO DEL MONDO I primi fenomeni di mobbing si registrarono in Scandinavia agli inizi degli anni ottanta. In Svezia, si è stimato che il mobbing sia all'origine del 10-15% dei suicidi. Nel 2000 la Confederazione australiana dei sindacati pubblicò uno studio nel quale si imputava allo stress la causa principale delle altre patologie insorte in ambito lavorativo. Per quanto concerne la tutela dei lavoratori vittime di mobbing, in Svezia, già dal 1993, è attiva un’ordinanza che prevede severe misure contro qualsivoglia forma di “persecuzione psicologica” e degli obblighi che ciascun datore di lavoro è tenuto ad osservare: 1)

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il datore di lavoro è tenuto a pianificare e organizzare il lavoro in modo da prevenire, per quanto possibile, ogni forma di persecuzione nei luoghi di lavoro; il datore di lavoro deve informare i lavoratori, con forme adeguate ed inequivocabili, che queste forme di persecuzione non possono essere assolutamente tollerate nel corso dell'attività lavorativa; devono essere previste procedure idonee a individuare immediatamente i sintomi di condizioni di lavoro persecutorie, l'esistenza di problemi inerenti all'organizzazione del lavoro o eventuali carenze per quanto riguarda la cooperazione che possono costituire il terreno adatto all'insorgere di forme di persecuzione psicologica durante l'attività lavorativa; qualora poi, nonostante l’attività preventiva, si verifichino ugualmente fenomeni di mobbing, dovranno essere adottate immediatamente efficaci contromisure volte anche ad individuare le eventuali carenze organizzative causa dell’insorgere del fenomeno; il datore di lavoro dovrà, infine, prevedere forme di aiuto specifico ed immediato per le vittime del mobbing. L'intervento normativo svedese può, dunque, essere considerato un vero e proprio codice comportamentale per la gestione delle relazioni sociali all’interno dei luoghi di lavoro. In Norvegia, invece, è stata introdotta una specifica previsione nella legge sulla tutela dell'ambiente di lavoro del 1977 ad opera del § 12 della legge 24 giugno 1994, n. 41, che recita testualmente: "I lavoratori non devono essere esposti a molestie o ad altri comportamenti sconvenienti”. Apparentemente la norma sembra


insufficiente per una proficua tutela dei lavoratori, ma in realtà essa scaturisce da una precisa scelta legislativa, protesa a garantire una tutela del lavoratore “a tutto campo” e ad “assicurare un ambiente di lavoro che non esponga i lavoratori a sforzi psicologici di entità tali da influire negativamente sul rendimento e sullo stato di salute”. In Austria il mobbing è trattato all’interno del piano d’azione per la parità uomodonna, approvato il 16 maggio 1998: “Tra i comportamenti che ledono la dignità delle donne e degli uomini nel luogo di lavoro vanno annoverati in particolare le espressioni denigratorie, il mobbing e la molestia sessuale. Le collaboratrici devono essere edotte sulle possibilità giuridiche di tutela delle molestie sessuali” (2). In Germania non esiste una specifica norma a difesa delle vittime di mobbing, tutelate solo da norme di carattere generale poste a garanzia della salute e sicurezza dei lavoratori: 1) 2)

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Art.1. La dignità dell'uomo è inviolabile. Rispettarla e proteggerla è dovere di ogni Stato. Art.2. (A) Tutti hanno diritto di esprimere liberamente la propria personalità, purché non violino i diritti altrui e non siano contrari alle regole del buon costume e dell'ordine pubblico. (B) Tutti hanno diritto alla vita e all'incolumità fisica. La libertà della persona è inviolabile. Art.3. (A) Tutti sono uguali davanti alla legge. Agli uomini e alle donne sono riconosciuti uguali diritti. (B) Nessuno può essere privilegiato o danneggiato per sesso, origine, razza, lingua, opinioni politiche e religiose. Nessuno può essere svantaggiato sulla base di impedimenti fisici. Per il lavoratore tedesco molestato si apre, in alcuni casi, anche la via della tutela penale qualora la condotta vessatoria rivesta i caratteri di un vero e proprio reato: lesione personali, ingiuria, oltraggio, discredito, diffamazione, violenza privata. In questi casi il lavoratore dovrà presentare una apposita denuncia alla polizia o al tribunale di prima istanza oppure la querela per l’attivazione del procedimento penale. Qualora, infine, le molestie patite dal lavoratore abbiano connotazione a sfondo sessuale, il Beschäftigtenschutzgesetz tedesco dispone che: "Il datore di lavoro e i dirigenti devono tutelare i dipendenti da molestie sessuali nel luogo di lavoro. Tale tutela include anche misure preventive. Molestia sessuale è ogni comportamento a connotazione sessuale che lede la dignità dei dipendenti sul lavoro. Sono sanzionati dal codice penale i comportamenti a connotazione sessuale che sono chiaramente respinti dalla persona molestata. La molestia costituisce una violazione degli obblighi contrattuali ed illecito disciplinare".

In Svizzera, Gran Bretagna, Spagna e Belgio il fenomeno è inquadrato nell’ambito delle leggi ordinarie a tutela dei lavoratori. Soprattutto in Belgio, tuttavia, sono forti


le spinte affinché si legiferi in modo più consono alle esigenze delle vittime di mobbing. La Francia è il secondo paese europeo, dopo la Svezia, ad essersi dotato di uno strumento legislativo specifico per combattere il mobbing, ivi definito harcèlement moral. La versione definitiva del testo, approvata il 19 dicembre 2001 dall’Assemblea Nazionale, recita testualmente: “Nessun lavoratore deve subire atti ripetuti di molestia morale che hanno per oggetto o per effetto un degrado delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i diritti e la dignità del lavoratore, di alterare la sua salute fisica o mentale o di compromettere il suo avvenire professionale. Nessun lavoratore può essere sanzionato, licenziato o essere oggetto di misure discriminatorie, dirette o indirette, in particolare modo in materia di remunerazione, di formazione, di riclassificazione, di qualificazione o classificazione, di promozione professionale, di mutamento o rinnovazione del contratto, per aver subito, o rifiutato di subire, i comportamenti definiti nel comma precedente o per aver testimoniato su tali comportamenti o averli riferiti.”. CONCLUSIONI Il mobbing, generalmente, si sviluppa in un contesto di sottocultura che alimenta gelosia, invida, cattiveria. Le distonie sociali – è noto a tutti – spesso generano situazioni imbarazzanti e paradossali in qualsiasi contesto lavorativo, in particolare quando dei subalterni si rivelano “molto” più abili e preparati dei colleghi e, soprattutto, dei superiori. Quando poi la superiorità dovesse manifestarsi eloquentemente anche a livello culturale o per eventuali riconoscimenti esterni in altri ambiti, i succitati elementi negativi si dilatano a dismisura e sfociano nel mobbing: annullando il soggetto carismatico si annulla la fonte di sofferenza e le coalizioni “contro” spesso vedono uniti i colleghi di pari grado con i loro capi. Alla luce di quanto sopra esposto traspare chiaramente la sottovalutazione di un fenomeno che, invece, ha forti ripercussioni negative in ambito sociale. La maggiore attenzione riservata alle molestie sessuali è riconducibile a molteplici fattori, tra i quali fanno gioco senz’altro “la quantità” dei casi registrati a livello planetario e la “morbosità” dell’argomento, di facile presa per l’opinione pubblica. Va benissimo reprimere con ogni mezzo possibile il sessismo e tutto ciò che afferisce al campo delle molestie sessuali, per le quali non sarebbe male una ridefinizione dell’attuale quadro normativo, con inasprimento delle pene. Analoga attenzione, tuttavia, deve essere dedicata anche al mobbing “tout court”, con una chiara e severa normativa legislativa. NOTE 1) Quanto esposto ha valore solo nel caso in cui il mobbing non nasca proprio nell’ambito delle risorse umane, o in strutture parallele, delle quali magari si diventi coscientemente complici. 2) Per amor di sintesi in questo articolo, eccezion fatta per alcuni specifici riferimenti, si omette il “capitolo” riguardante le molestie sessuali associate al


mobbing, che aprono la finestra su altre complesse problematiche. evidente, altresì, che nel momento in cui il legislatore si dovesse decidere ad analizzare il fenomeno per sanzionarlo adeguatamente, non potrebbe prescindere da esse, in modo da ridefinire organicamente anche l’attuale quadro normativo. BIBLIOGRAFIA BONA, MONATERI, OLIVA, Mobbing – Vessazioni sul luogo di lavoro, Giuffrè, 2000; CAPPELLO Maja, Spunti dalla normativa europea per una legislazione mirata sul mobbing, relazione al seminario “Le molestie morali (mobbing): uno dei rischi derivanti da una alterata interazione psicosociale nell’ambiente di lavoro”, Roma, 4 giugno 1999; CAPPELLO Maja, L’ambiente psicosociale: il c.d. mobbing e le molestie sessuali, estratto dalla tesi di dottorato “L’ambiente di lavoro tra mercato interno e politica sociale: esperienze scandinave e italiane a confronto”, Università di Firenze, 19971998, p. 151-165; In rete è reperibile un’ottima sintesi dell’argomento intitolata: “La tutela giuridica del mobbing in alcuni paesi europei, negli Stati Uniti e in Australia”, a cura di Luisa Lerda.



FAMIGLIA E AMORE NON SONO SINONIMI APPROCCIO SEMANTICO E ILLUSORIE CONVINZIONI. Marco Polo, in un brano de “Il Milione”, fa conoscere al mondo la figura di al-Ḥasani Ṣabbāḥ, Gran Maestro della setta degli “ismailiyyah" (gli “assassini”), ospitati in una sorta di paradiso terrestre nel quale si potevano provare tutti i piaceri della vita. Ernst Jünger, nello stupendo saggio “Il nodo di Gordio”, racconta un episodio che vide protagonista il conte di Champagne, nel 1194, quando fece sosta nel loro territorio, durante il viaggio verso l’Armenia. Il Gran Maestro, discendente di Ḥasan-i Ṣabbāḥ, volendo dimostrare all’ospite come i suoi sudditi gli obbedissero meglio di quanto non fosse possibile a un principe cristiano, con il semplice gesto di un braccio ordinò a due guardie di buttarsi dalla torre. Le guardie obbedirono all’istante, ben felici di poter servire il padrone in un modo così sublime ed estremo. Per rendere ancora più tangibile il suo potere, poi, Hasan chiese al Conte se desiderava una nuova e più significativa dimostrazione: con un secondo segnale avrebbe ordinato all’intera guarnigione di suicidarsi. Il Conte, già scosso, lo fermò riferendogli che gli credeva sulla parola. Non si può non restare atterriti al cospetto di siffatti episodi, salvo poi rendersi conto che essi sono ancora attualissimi in molte parti del mondo: ciò che per taluni è abominevole per altri è normale, e viceversa. Perché questa premessa? Perché arare il terreno è fondamentale prima di ogni semina: ciò che più condiziona le discussioni “sui massimi sistemi” o sui “problemi contingenti”, infatti, è la presunzione di avere ragione a priori e di poter giudicare persone e fatti in funzione della propria visione del mondo, che si trasforma in dogma. Gli altri, di converso, sono considerati dei rozzi incolti con scarso intelletto. Magari hanno tre lauree e hanno anche vinto un premio Nobel, ma se non la pensano come noi sono trattati alla stregua dello scemo del villaggio. Parimenti si analizzano fatti storici senza contestualizzarli e si esprimono valutazioni soggettive su aspetti di vita sociale che afferiscono a culture lontane mille miglia, senza considerare che noi appariamo agli occhi di chi aborriamo esattamente come loro appaiono a noi. Sia ben chiaro che non s’intende giustificare comportamenti più o meno estremi, censurabili da un buon senso che dovrebbe essere appannaggio di tutti, ma prendere atto che tali comportamenti esistono e non possono essere sconfitti con la logica del muro contro muro. A prescindere, vi sono persone che, educatamente e civilmente, espongono princìpi e convincimenti sulle varie problematiche etico-sociali che altri possono legittimamente non condividere. A maggior ragione le confutazioni dovrebbero essere ancorate a presupposti di rispetto e buona educazione, ma così non è, come dimostrano, per esempio, le recenti vicende legate al XIII Congresso Mondiale delle Famiglie, tenutosi a Verona dal 29 al 31 marzo, che ha visto un vero esercito di “oppositori” sparare ad alzo zero, con una violenza inaudita e ingiustificata e con argomentazioni che definire strumentali è davvero eufemistico. Oppositori che, a loro volta, partecipano


gaudenti in massa alle parate pacchiane dei “gay-pride”, offendendosi se qualcuno li critica, nonostante esse facciano inorridire tutti gli omosessuali “seri”, che non ricorrono a mascherate per difendere i loro diritti. L’uomo contemporaneo, sviluppatosi dopo i fermenti rivoluzionari del XVIII secolo, ha via via maturato una serie infinita di “illusorie convinzioni”, nelle quali si crogiola come se fosse un bambino che si diverta in un parco giochi, all’interno delle bolle di gomma. Solo che queste ultime sono ben protette e possono muoversi in uno spazio delimitato, mentre per le illusorie convinzioni non basta la spada con la quale Alessandro sciolse il “nodo di Gordio”, a meno che il fendente non cada sulla testa di chi ne sia detentore, cosa però consentita nel territorio degli “Assassini” e non nell’altra parte del mondo, nota come “Occidente”. Una primaria illusoria convinzione dell’uomo contemporaneo è quella che lo caratterizza nel rapporto con gli altri: tutti bramano la pace nel mondo, ripudiano la guerra, rispettano la vita e oggi, grazie alla comunicazione interpersonale facilitata dall’enorme quantità di strumenti mediatici, sono davvero tanti coloro che fanno propri gli aforismi inneggianti alla civiltà, alla tolleranza, all’amore per il prossimo, scegliendoli tra le migliaia che i grandi letterati, scienziati, filosofi e tanti altri personaggi famosi ci hanno lasciato in eredità. Questi stupendi aforismi troneggiano nelle copertine dei social e un po’ dappertutto, salvo poi essere sistematicamente contraddetti dagli atteggiamenti quotidiani, che riflettono essenze caratteriali di tutt’altra natura: violenza verbale e non solo, volgarità, intolleranza e molto altro ancora. In quanto alle guerre e alla pace nel mondo, la realtà sotto gli occhi di tutti consente di non sprecare ulteriore spazio. Una seconda illusoria convinzione è la presunta superiorità rispetto alle passate generazioni. L’uomo contemporaneo non accetta proprio il confronto con i suoi progenitori: si sente superiore in tutto, confondendo il progresso tecnologico (tra l’altro molto spesso utilizzato in modo “distruttivo” anziché “costruttivo”) con l’evoluzione della specie. Il processo mentale è così radicato che attanaglia quasi tutti, mentre le poche debite eccezioni rappresentano le classiche gocce nel mare. Una persona ignorante, che non abbia mai letto un classico della filosofia, non conosca la storia dell’uomo e la capacità di cogliere aspetti cosmogonici di grande complessità sin dagli albori della civiltà, è sicuramente indotto all’errore, che non può essere giustificato, invece, quando fosse perpetrato anche da chi abbia un elevato livello di “conoscenza”. Questi ultimi, tra l’altro, risultano particolarmente pericolosi perché, rispetto agli ignoranti tout-court, utilizzano la propria conoscenza come alibi per giustificare il gap. In campo filosofico, per esempio, nemmeno con la fantasia dei grandi romanzieri si può comparare la pseudofilosofia contemporanea con quella sviluppatasi nell’arco di tempo che separa i presocratici da Nietzsche. Senza perdersi in superflue analisi, poi, è opportuno stendere solo un velo pietoso sui settori dell’arte e della creatività: musica, letteratura, pittura, scultura, architettura, teatro. (Il cinema merita un discorso a parte, non fosse altro perché la sua nascita è recente, rispetto alle altre discipline).


IL DEGRADO ETICO-MORALE In campo etico-morale la comparazione tra diverse epoche è davvero complicata e non sviluppabile in un articolo. È bene essere chiari su questo punto perché, a differenza degli altri campi, non è possibile disegnare un grafico che veda gli alti e i bassi dei singoli processi, secolo dopo secolo, richiedendo esso complesse metodiche di indagine sociologica. Qui basti dire, semplicemente, che se si prendono come punto di riferimento i presupposti di civiltà e di pacifica convivenza sorti negli ultimi tre secoli, si può senz’altro parlare di un progressivo degrado eticomorale del genere umano, accentuatosi in modo vertiginoso in tempi recenti. Dal ventesimo secolo in avanti il concetto di “etica” è stato relativizzato fino ad annullarsi del tutto, creando scompensi esistenziali di grande portata in chi, testardamente, si ostinava (e si ostina) a vivere nel rispetto di “vecchie regole”, dalla maggioranza considerate inutili, pesanti, anacronistiche. La degradazione sociale ha tolto sacralità a concetti che per secoli hanno costituito il patrimonio esistenziale del genere umano, creando un’anomia etica che ha favorito il trionfo della ragione del più forte, indipendentemente da dove sia stata attinta la forza che garantisce il dominio. Da qui a cadere nella trappola della più illusoria delle convinzioni, il passo è breve: l’uomo contemporaneo si sente sostanzialmente libero. È convinto di aver spezzato tutte le catene che lo rendevano schiavo della tirannide; è convinto di aver contribuito al trionfo della democrazia che, anche quando risulta deludente, viene messa in discussione solo in un contesto relativizzato, preservandone la valenza. Delusione dopo delusione si cercano nuovi soggetti in grado di renderla fruibile nella sua essenza più nobile e decennio dopo decennio i tiranni di turno proliferano su questa illusoria convinzione. E POI GIUNSE IL SESSANTOTTO Ai guasti prodotti dai falsi miti del sessantotto è stato dedicato il numero 64 della rivista, pubblicato nel maggio 2018. Per evitare inutile ridondanza, pertanto, si rimanda senz’altro il lettore a quanto esaustivamente trattato in precedenza. Si può solo aggiungere, agganciandosi al paragrafo precedente, un aspetto che risulta fondamentale per meglio inquadrare il successivo. Una civiltà è fondata sulle regole sancite dai legislatori, accettate non solo grazie alla capacità persuasiva di chi le emani ma anche e soprattutto perché vengono recepite positivamente, acquisendo un senso che conferisce loro un forte potere condizionante. Il respingimento totale delle regole in vigore determina la fine di una civiltà e l’inizio di un nuovo corso. Non è detto che tale processo debba essere per forza negativo e la storia è piena di esempi che dimostrano il contrario. Cosa è successo, invece, con il sessantotto? Dobbiamo fare necessariamente un salto all’indietro, anche se poco piacevole, come sempre accade quando occorra fare i conti con amare verità. Non è piacevole, infatti, prendere atto che la civiltà occidentale incominciò quando un mistificatoreimbonitore, cinico e spietato, pluriassassino, sostituì le antiche regole dell’epopea romana con quelle che prendevano corpo nel tessuto sociale grazie alla predicazione dei Cristiani. Ovviamente, non essendo possibile associare la nascita


di una civiltà a un personaggio con queste caratteristiche, Costantino è stato artatamente tramandato ai posteri come il “Grande Imperatore”, gratificandolo addirittura con la favoletta dell’intervento divino nella battaglia di Ponte Milvio, che ancora s’insegna nelle scuole, alla pari di tante altre favolette. Le nuove regole, prevedendo il primato del cristianesimo nell’emisfero occidentale, mutarono radicalmente usi e costumi dei popoli: la frugalità e la castità sono virtù ammirevoli; l’indiscriminata uccisione di persone è gravemente sbagliata e rigorosamente proibita; le relazioni sessuali sono legittime solo nel matrimonio; le relazioni omosessuali sono considerate innaturali e ripugnanti; l’aborto è un atroce crimine; la pornografia un male degradante del quale bisogna proibire la circolazione; una ragazza che partorisca un figlio senza un padre che se ne faccia carico è una disgrazia; la nudità umana e le intimità corporee non vanno mostrate al pubblico, sebbene la nudità possa essere rappresentata decorosamente nell’arte; il lavoro degli uomini e il lavoro delle donne sono differenti; gli uomini hanno autorità e precedenza legale sulle donne; l’età conferisce autorità sui giovani. L’elenco, ancorché incompleto, è sufficiente a rendere l’idea. Era inevitabile che con il fluire dei tempi queste regole dovessero essere spazzate via ed è ciò che è avvenuto con la rivoluzione sessantottina. Il guaio è che si è buttato via tutto, anche ciò che andava preservato, creando i presupposti per un radicale sovvertimento di tutti i valori, le cui conseguenze sono ben evidenti nella società attuale. Come un pugno nello stomaco, proprio in questo mese, sono stati resi noti gli “appunti” del papa emerito Benedetto XVI, il quale, sia pure concentrandosi precipuamente sulla sfera sessuale, ha parlato del “collasso morale” insorto negli anni sessanta, quando si radicò l’idea che non esistesse più il bene, “ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio”. CROLLA IL MITO DELLA FAMIGLIA La famiglia, concepita storicamente come pilastro della società, inizia a essere travolta dal vento impetuoso del nuovismo, sgretolandosi progressivamente fino a perdere la sua vocazione carismatica. Le donne, in particolare, rivendicando diritti negati per secoli, mandano letteralmente in crisi uomini che stentano ad adattarsi al nuovo corso. Il numero dei divorzi aumenta progressivamente a mano a mano che la cultura dell’intolleranza soppianta quella della tolleranza, che a volte però si configurava come vera e propria “sopportazione”. L’emancipazione sessuale, che ha solide radici nel Nord Europa, si diffonde rapidamente anche a Sud del 48° parallelo e le donne, che per secoli subivano in silenzio i tradimenti dei partner, incominciano a trovare gradevole rendere pan per focaccia e concedersi delle divagazioni sessuali, generando scompensi e crisi, spesso con esito tragico. Prende corpo la famiglia allargata; gli omosessuali trovano il coraggio di uscire allo scoperto e reclamano con sempre maggiore forza il diritto di amare alla luce del sole. Le richieste di matrimonio tra persone dello stesso sesso creano una profonda frattura sociale, acuendo il divario tra i cosiddetti progressisti e i cosiddetti conservatori. Ciascuno ha la presunzione di essere depositario di verità assolute e disprezza


l’altro. La confusione trionfa e la crisi si allarga sempre più. I dibattiti pubblici pullulano di tuttologi, ciascuno con la propria ricetta per uscire dal tunnel. La caratteristica comune è che nessuno è disposto a considerare le ragioni dell’altro. La Chiesa, in evidente difficoltà per i troppi scandali, annaspa ed è costretta a concedere sempre più, rispetto al passato. Nel settembre 2018 Papa Francesco annuncia, per la prima volta dopo duemila anni di storia, che “la sessualità, il sesso, è un dono di Dio. Niente tabù. È un dono che il Signore ci dà”. Precisa, poi, in modo inequivocabile, che il sesso “ha due scopi: amarsi e generare vita. Il vero amore è appassionato. L’amore fra uomo e una donna, quando è appassionato, ti porta a dare la vita per sempre. E a darla con il corpo e l’anima”. Al di là dei giri di parole, il messaggio apre incontrovertibilmente ai rapporti sessuali liberi, che tra l’altro nella realtà dei fatti acquisiscono pregnanza già da molti decenni e riguardano sempre più gli adolescenti, essendosi sensibilmente abbassata l’età dei primi approcci sessuali. L’apertura genera nuove fratture sociali: è criticata sia da chi la trova “rivoluzionaria” e non in linea con i dettami del cattolicesimo sia dai progressisti, per i quali è ancora limitativa in quanto non contempla i rapporti sessuali e l’unione tra persone dello stesso sesso. Sul fronte politico le esigenze elettorali predominano su tutte le altre e ciascun partito è principalmente attento a non alienarsi le simpatie del proprio elettorato. Il resto è cronaca quotidiana attuale, scialba, misera, insulsa. COME USCIRE DAL TUNNEL Innanzitutto è lecito chiedersi: esiste una possibilità oggettiva di uscire dal tunnel? La risposta non è semplice: da un lato vi è la volontà di pensare positivo, sostenendo che ogni ciclo prima o poi esaurisce la sua corsa e una sorta di nemesi metterà le cose a posto; dall’altro vi è la consapevolezza che è sostanzialmente sciocco fare affidamento sulla nemesi e che, in mancanza di vere azioni forti, lo sbandamento sociale durerà ancora a lungo. Per le azioni forti, però, occorrono “uomini forti”, capaci di prendere decisioni che non possono accontentare tutti. Molto più semplici, quindi, le politiche dilatorie. L’Amore è una cosa meravigliosa, ma Famiglia e Amore non sono sinonimi, anche se una famiglia può considerarsi veramente tale solo se in essa alberghi e trionfi l’amore. Avere il coraggio di ripartire dalla Famiglia, conferendole di nuovo il ruolo primario di pilastro della società, è l’unica strada per uscire dal tunnel e mettere ordine nel caos. Non può e non deve essere la Chiesa a guidare questo nuovo processo sociale, ma la società civile, nelle sue massime Istituzioni, politiche e non. Si trovi il coraggio di recuperare un linguaggio abbandonato per paura di non essere al passo con i tempi e si stabiliscano chiare regole per una pacifica convivenza. Non l’uno contro l’altro, armati dei propri pregiudizi, ma tutti insieme, umilmente, per individuare il sentiero giusto da percorrere. Si dica con dolcezza, ma chiaramente, che la maternità surrogata è un abominio perché vede contrapposte coppie ricche e donne povere. Si spieghi con dolcezza, ma chiaramente, che il termine “matrimonio” deriva dal latino “matrimonium”, ossia la fusione di mater e munus: madre e compito; il


matrimonio, quindi, suggella il compito della madre di rendere legittimi i figli nati dall’unione con il “pater familias”, assegnatario del patrimonium, ossia del compito di sostenere “la famiglia”. Concetto antiquato? Certo: lo dimostrano le tante donne che da decenni contribuiscono al sostentamento familiare “anche” lavorando, ma da qui a parlare di “matrimonio” tra persone dello stesso sesso ce ne corre. Si spieghi con dolcezza, ma chiaramente, che permettere le adozioni alle coppie omosessuali non consente un sereno sviluppo dei bambini, che “antropologicamente” hanno bisogno di una madre e di un padre. A tal proposito è opportuno pubblicizzare un pregevole saggio scritto da Jean-Pier Delaume-Myard, omosessuale, dal titolo eloquente: “Non nel mio nome. Un omosessuale contro il matrimonio per tutti”, Rubbettino Editore. Sempre dalla Francia, nel bene e nel male comunque all’avanguardia, si leva alta e solenne la voce di Nathalie de Williencourt, lesbica e portavoce di “Homovox”, che in tante interviste e manifestazioni spiega bene il concetto di lobby e le strumentalizzazioni della LGBT, esprimendo il disappunto per norme ritenute liberticide, fuorvianti e pericolose per la stabilità della società: “La coppia omosessuale è diversa da quella eterosessuale. Ed è diversa per un semplice dettaglio: non può dare origine alla vita, per cui ha bisogno di una forma di unione specifica che non sia il matrimonio […] La pace si costruisce dentro la famiglia e per avere pace nella famiglia bisogna donare ai bambini il quadro più naturale e che più infonde sicurezza per crescere e diventare grandi. Cioè la composizione classica uomo-donna”. CONCLUSIONI Se è lecito augurarsi che i presupposti sopra enunciati trovino effettivo riscontro in azioni concrete, è doveroso aggiungere che nulla lascia presagire che ciò avvenga in tempi brevi. Per quanto concerne il nostro Paese, nonostante i flebili aneliti di cambiamento rappresentati dal nuovo corso politico, il marcio è ancora così diffuso da annichilire sul nascere qualsivoglia speranza. Non resta, pertanto, che contare sulle giovani generazioni che, per certi versi, quando non sono vittime di un autolesionismo delirante, dimostrano una maturità e una sensibilità che dovrebbe far vergognare gli adulti. A loro, quindi, il compito di prendere in mano le redini di un nuovo ordine sociale. Dopo tutto devono solo riparare i guasti prodotti dai loro genitori e nonni, conferendo pratica attuazione a un precetto lasciatoci in eredità da Aristotele, XXIII secoli fa: “La famiglia è l’associazione istituita dalla natura per provvedere alle necessità dell’uomo”.


LE PAROLE SONO IMPORTANTI INCIPIT Non se ne può davvero più di sentire utilizzare a sproposito termini come “élite”, “radical chic”, “populisti”. E anche sul termine “destra” vi è molto che non va. UN PO’ DI ORDINE NEL CAOS TERMINOLOGICO Mercoledì, 10 aprile. Ernesto Galli della Loggia, in un articolo sul “Corriere della Sera”, lancia quattro proposte per battere l’ignoranza. Le proposte, ovvie e scontate, non possono che essere da tutti condivise: buona scuola; lettura, libri, giornali, trasmissioni radiotelevisive ad hoc per combattere anche la disinformazione mediatica; eliminazione del degrado nelle periferie. Il quarto punto è un po’ meno condivisibile perché prevede una ridefinizione del ruolo delle giurie popolari nei processi, che andrebbero equiparate a quelle che operano nei sistemi di “common law”. Non sono d’accordo, ma è chiaro che ognuno è libero di pensarla come vuole. Nel costrutto dell’articolo è ben evidente la critica a coloro che, a suo giudizio, sono i primi responsabili della mancata attuazione di quei presupposti che avrebbero favorito l’ignoranza, accusandoli di non aver fatto nulla per difendersi e per attenuare l’immagine della propria lontananza dalla maggioranza dei cittadini. Per lo più si rivolge ai suoi amici di sinistra. Giovedì, 11 aprile, programma televisivo “Piazzapulita”. È ospite nello studio di Formigli l’ex presidente del Consiglio, Enrico Letta, che parla del suo ultimo libro, nel quale ha letteralmente massacrato l’area politica di sinistra, di cui fa parte. Apparentemente i due personaggi meriterebbero un plauso per quanto asserito, ma così non è. I destinatari principali del loro messaggio, infatti, sono coloro che, con un termine abusato, definiscono “l’élite” del paese. E qui casca l’asino, per molteplici ragioni. Se prendiamo un qualsiasi dizionario, la definizione ricorrente di “élite” è la seguente: “Ristretto gruppo di persone al quale, rispetto alla restante parte della popolazione di riferimento, vengono attribuite specifiche o generiche superiorità in fatto di raffinatezza, ricchezza e livello sociale”. Più esplicito è il dizionario Treccani: “L’insieme delle persone considerate le più colte e autorevoli in un determinato gruppo sociale, e dotate quindi di maggiore prestigio”. Per Vilfredo Pareto l’élite è composta “dagli individui più capaci in ogni ramo dell’attività umana, che, in una determinata società, sono in lotta contro la massa dei meno capaci e sono preparati per conquistare una posizione direttiva”. Sarebbe il caso, pertanto, che la si smettesse con la bufala di considerare “élite” coloro che, con termine più appropriato, si possono definire solo dei “parvenu”. Hanno provocato disastri; non hanno storie personali e familiari significative né retaggio ancestrale di peso; sono figli e nipoti del sessantotto, del sei politico, delle lauree comprate e regalate, di studi posticci e farraginosi. In poche parole, per il semplice fatto che idealmente si rifanno a politiche decadenti, dannose e anacronistiche, avendo dimostrato in mille occasioni di essere inadeguati alla gestione di qualsiasi potere, per inettitudine o per la propensione a utilizzarlo per fini personali (quando i “parvenu” conquistano il potere devono soprattutto sedare


la loro fame di ex poveracci), costituiscono una vera e propria zavorra della quale prima ci si libera totalmente e meglio è. Intanto, basta con “élite”. Allo stesso modo occorre smetterla di definirli anche “radical chic”. Radicale deriva da “radici” e le “radici” di quei soggetti, ben conoscendole, andrebbero essiccate con i più potenti pesticidi. In quanto al termine “chic”, la sua accezione positiva, che caratterizza eleganza e raffinatezza, davvero suona stonata se tributata a dei parvenu da quattro soldi, che avranno anche i soldi (spesso rubati) per comprarsi la barca, scarpe e abiti firmati, ma stanno alla vera raffinatezza e alla vera eleganza come un vinello da novanta centesimi, magari annacquato dall’oste disonesto, sta a un Granbussia Barolo Riserva DOCG Millennium Collection. Le parole sono importanti: usiamole correttamente. Il termine “populista” è utilizzato con intenti dispregiativi per definire tutti coloro che non si riconoscono “nell’armata brancaleone” dei parvenu di cui sopra. Chi scrive questo articolo, pertanto, sarebbe un “populista”. Va benissimo così e per amor di sintesi evito anche una lunga e complessa trattazione del termine, per caratterizzarne radici, sviluppo ed essenza, rimandandola ad altra occasione, magari in un numero speciale dedicato all’argomento, nel quale fare chiarezza anche su un altro termine utilizzato in modo distonico, insieme con i suoi derivati: “liberale”. Ho la presunzione di poter affermare, infatti, che se una persona come me viene definita “populista”, il termine potrà anche assumere mille forme, ma tutte resteranno confinate nell’area del “Bene”. Ne fa specie la storia personale e il prezzo salatissimo che coscientemente ho pagato e continuo a pagare per essere ciò che sono: una persona libera. LA DESTRA Dopo aver liquidato, senza sprecare troppo spazio, fastidiosi luoghi comuni, soffermiamoci con più attenzione sul termine “destra”, pregno di una distonia terminologica ben più grave di quelle succitate. Oggi si continua a parlare di “destra” riferendosi ad alcuni partiti presenti nel Parlamento e ad altri gruppi e partiti minori, per lo più operanti a livello associativo. Ognuno è libero di definirsi come vuole, per carità. È cosa buona e giusta, tuttavia, soprattutto per rispetto di chi del termine sia un legittimo tributario, e ancor più per i tanti che lo abbiano onorato in passato, magari rimettendoci la vita, fare chiarezza sulla sua vera essenza. L’argomento è stato diffusamente trattato più volte in questo magazine, ma evidentemente “repetita iuvant”. Innanzitutto sfatiamo l’ennesimo luogo comune, che si sente ripetere come un mantra da più parti: destra e sinistra sono concetti anacronistici, da sostituire con nuove definizioni della realtà sociale, più attinenti al tempo presente. Balle. È il vuoto ideale e culturale del tempo presente che non rende pienamente fruibili i termini “destra” e “sinistra”, grazie all’affermazione di marionette senz’arte né parte che, su entrambi i fronti, li hanno snaturati. La crisi sociale è oggetto di altre analisi, che continueremo a produrre con la dovuta attenzione. Qui, pertanto, ci soffermiamo solo sulla questione terminologica. Essere di destra non


vuol dire “occupare uno spazio politico”, ma essere portatore sano di valori autentici, che traspaiono senza eccessiva fatica, con estrema naturalezza. Un uomo “autenticamente” di destra non ha mai bisogno di alzare la voce e la sua autorevolezza gli viene riconosciuta senza riserve. Un uomo “autenticamente” di destra non ha complessi di inferiorità, ma soprattutto non ha “complessi di superiorità”: è superiore senza alcun complesso e, in ogni circostanza, rappresenta l’esempio da imitare. Ha la vista lunga, ha la capacità di capire gli scricchiolii della storia e quelli del proprio tempo, è raffinato, colto, intelligente. Un uomo “autenticamente” di destra non è razzista, perché riconosce una sola razza: quella umana; ha una grande apertura mentale e sa ben coniugare la migliore Tradizione con il mondo in perenne evoluzione, senza mai lasciarsi travolgere e surclassare dagli eventi, che domina con il piglio e la fierezza di chi sappia andar per mare domando le onde. Il suo approccio con la scienza non è mai fuorviante e scioccamente ideologico, ma accorto e saggio. Può anche credere in qualche Dio, ma non si sogna di mettere in discussione le scoperte scientifiche per mero opportunismo fideistico e non infonde al suo credo alcun radicalismo intriso di violenza. Un uomo “autenticamente” di destra è onesto e la sua onestà non è una conquista: è nel DNA. Conservo ancora, in una vecchia agenda dei primi anni settanta del secolo scorso, una romantica definizione della destra, concepita dal compianto avvocato Franco Franchi, deputato del MSI dal 1963 al 1992. Mi fa piacere riproporla, nel commosso ricordo di tempi lontani, intrisi di sincera idealità. Destra: segno della vita, dell’ordine, dell’intelligenza, del coraggio, della fedeltà. 1) Segni della vita. Il tempo scorre a destra: per misurarlo le lancette dell’orologio girano a destra; le piante rampicanti si attorcigliano al sostegno con spirali a destra; le conchiglie univalve dei gasteropodi mostrano la spirale a destra; i motori ruotano verso destra; in inglese, per definire un “galantuomo”, si dice “right hand man”; 2) Segni dell’ordine. Il figlio dell’uomo è seduto alla destra del padre; tenere la destra è garanzia di disciplina nel traffico automobilistico; cedere la destra è segno di cortesia. 3) Segni dell’intelligenza. Di un inetto si dice che è un “maldestro”; un artista crea quando gli viene il “destro”; destreggiarsi: superare con intelligenza le difficoltà. 4) Segni del coraggio. Destriero: cavallo da battaglia coraggioso, agile, generoso; 5) Segni della fedeltà. “Alicui fidem dextramque porrigere” (Cicerone) – Porgere la destra in segno di fedeltà; Ogni contratto d’onore si sancisce stringendo la mano destra; Si giura alzando la mando destra (in passato ponendola su un testo sacro). “Il saggio ha il cuore alla sua destra, ma lo stolto l’ha alla sua sinistra” (Ecclesiaste 10:2 – secondo i libri sapienziali della Bibbia il cuore ha la stessa valenza che per noi contemporanei ha la mente). Con questi presupposti, come si fa a definire di “destra” qualcuno che risulti amico intimo di Berlusconi, ne sia alleato si renda suo complice sostenendone le malefatte? Diciamolo a chiare lettere, pertanto, ancora una volta: in Italia, attualmente, non esiste una “destra”


degna di questo nome, con significativa rappresentanza politica. Esistono solo tante persone che, degnamente, possono definirsi di destra. CONCLUSIONI Nel 1995 è uscito un bel film diretto da Rob Reiner e interpretato da Michael Douglas: “Il presidente – Una storia d’amore”. Il popolare attore interpreta il ruolo di un presidente vedovo, con figlia dodicenne, che s’innamora di una brava avvocatessa ambientalista. Nel corso della campagna per l’elezione al secondo mandato, il suo antagonista, il senatore Bob Rumson, lo attacca in tutti i modi possibili con argomentazioni pretestuose, strumentali e calunniose. Con grande maestria il regista mette in luce la nobiltà d’animo del presidente in carica e la pochezza del senatore, che chiude ogni discorso affermando: “Mi chiamo Bob Rumson e sarò il presidente”. Nel discorso finale, un vero capolavoro di dialettica politica, il presidente uscente massacra letteralmente il rivale, facendo appello al carattere come elemento primario per poter guidare un paese complesso come l’America, invitandolo anche a riconsiderare le squallide modalità compartimentali. Nelle battute conclusive, afferma testualmente: “Se vuoi discutere di carattere, dell’America e dei suoi valori, avanti: dimmi solo dove e quando e subito apparirò. È il momento di persone serie, questo, Bob, e i tuoi quindici minuti sono passati. Io mi chiamo Andrew Sheperd e sono il presidente”. Da troppo tempo vedo somari che si danno arie da cavalli da corsa, pennivendoli che si spacciano per giornalisti, portaborse che si credono politici e a volte lo diventano, per poi sentirsi statisti. Essendo veramente stufo, voglio anche io rivolgere un messaggio ai parvenu di ogni ordine e grado: “L’Italia è un grande paese, egregi parvenu inutili e dannosi. È il momento di persone serie, questo, che devono riparare i tanti danni da voi causati. Il vostro quarto d’ora, che è durato anche troppo, è passato. Io mi chiamo Pasquale Michele Pompeo Lavorgna detto Lino, alias Galvanor da Camelot il cavaliere errante, figlio di Lorenzo detto il Buono e di Giuseppina Federico, la Maestra, discendente della stirpe di Gambara, Ibor e Aio e di quel fiero popolo che, sin dalla notte dei Tempi, dalle sponde della Scania s’irradiò nel cuore dell’Europa, per poi calare in Italia quindici secoli orsono, al seguito di Re Alboino, e faccio parte “dell’Élite” di questo Paese. Quella vera”.



PROSPETTIVE EUROPEE* PROLOGO Nel numero 71 di “CONFINI”, pubblicato lo scorso mese di febbraio, sono stati illustrati i molteplici progetti federativi europei succedutisi dall’antichità al XX secolo, caratterizzandoli con l’unico dato che li accomuna: il fallimento. L’articolo si conclude anelando la speranza che, prima o poi, si possano creare i presupposti per la realizzazione degli STATI UNITI d’EUROPA: una vera unione dei popoli sotto un’unica bandiera, con una lingua ufficiale, un governo federale, un parlamento con pieni poteri legislativi, un efficace esercito, forze dell’ordine e intelligence armonicamente strutturate per fronteggiare le minacce interne ed esterne. “Uniti nella diversità”, l’attuale motto della derelitta Unione Europea, va benissimo anche come motto dell’agognato progetto federale, purché associato a contesti formativi che sviluppino una vera coscienza europea e facciano percepire a ciascuno l’importanza di poter affermare: “La mia patria si chiama Europa”. In questo articolo, tuttavia, non si parlerà di “sogni e speranze”, non fosse altro per non ribadire concetti abbondantemente reiterati, un po’ dappertutto, nell’ultimo mezzo secolo. Il prossimo 26 maggio si terranno le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo: è molto più opportuno, quindi, fare i conti con la realtà contingente e cercare di comprendere cosa serva per dare una effettiva e definitiva spallata ai mercanti che hanno violentato il continente e tramano per continuare a tenerlo sotto scacco. Non sarà facile sconfiggerli e dare avvio a quella catartica palingenesi che, dopo il necessario cupio dissolvi di tutte le nefaste strutture che ci hanno avvelenato la vita, possa davvero configurarsi come preludio per una “Nuova Europa”. Di seguito, pertanto, si riportano delle linee guida varate dal movimento “Europa Nazione”, di cui l’autore dell’articolo è presidente, che però non è presente nella competizione elettorale. Quanto più qualche partito dovesse contemplare nel proprio programma dei principi similari tanto più meriterebbe di essere preso in considerazione da chiunque realmente tenga a cuore la sorte del continente, il proprio futuro e soprattutto quello dei propri figli. A scanso di equivoci, tuttavia, è bene precisare che nel panorama politico in competizione, sia in Italia sia nel resto d’Europa, non esiste un solo partito compiutamente affine ad “Europa Nazione”. I partiti “cosiddetti” europeisti, proprio perché caratterizzati dal termine “cosiddetti”, inglobano tutto il marcio che va spazzato via. Tra i partiti giustamente ostili all’attuale Unione Europea, poi, non sono pochi quelli intrisi di un nazionalismo così marcato, da renderli refrattari a ogni progetto federativo. Bisogna prendere atto, pertanto, che in tempi brevi non è possibile realizzare nessun “serio” progetto unitario, ma solo chiudere i conti con la vecchia Europa. Correndo qualche rischio, certo. Ma alternative non ve ne sono. BASTA CON SPRECHI E ASSURDI PRIVILEGI I ladri rubano rischiando la galera; i politici lo fanno allegramente e senza rischi, legittimando i furti con leggi ad hoc. Non basterebbe un saggio di mille pagine per illustrare tutti gli sprechi scaturiti dalle norme che assicurano assurdi privilegi a chiunque operi, a qualsiasi titolo, nei contesti comunitari. Il Parlamento europeo ha due sedi: una a Bruxelles e una a Strasburgo. Il che vuol dire che ogni parlamentare ha due uffici, attrezzati al meglio. Le trasferte di parlamentari, assistenti, funzionari e personale vario sono costose e, ovviamente, impattano anche sulla qualità del lavoro. Come se non bastasse vi è anche una sede amministrativa a Lussemburgo. Siccome l’ingordigia è insita nella natura umana, si organizzano “missioni” con il solo scopo di consentire ai “missionari” di beneficiare delle cospicue indennità di trasferta. Gli studi per calcolare lo spreco sono molteplici e per lo più si valuta che il risparmio annuo, qualora il Parlamento operasse in una sola sede, ammonterebbe a oltre duecento milioni di euro. La sede unica, ovviamente, spezzerebbe le ali anche ai furbetti delle missioni fasulle. Il Presidente degli USA percepisce uno stipendio annuo di 400mila dollari: più o meno 350mila euro. Il presidente della Commissione europea, sommando stipendio e indennità varie (residenza, espatrio, sussidio per i figli, spese di rappresentanza) raggiunge la bella cifra di circa 400mila euro. A cascata seguono gli stipendi dei commissari, dirigenti e funzionari, tutti altissimi, a prescindere dai disastri che provocano mentre si godono la vita a nostre spese. Un parlamentare europeo, mensilmente, percepisce i seguenti emolumenti: stipendio di 6.824,85 euro netti, 4.513 euro per spese di rappresentanza, 320 euro per ogni giorno di


presenza, 24.526 euro per gli assistenti. Il totale, calcolando una media di 15-20 presenze mensili alle sedute, ammonta a circa 42mila euro netti. Niente male, soprattutto per chi concepisca il ruolo come “vacanza” (la maggioranza, considerato che il Parlamento non ha poteri effettivi), non produca nulla di concreto e pensi solo a sfruttarlo a proprio beneficio. A questo cospicuo importo, poi, vanno aggiunte le spese di trasferta, vitto e alloggio, rimborso delle spese mediche, utilizzo dell’auto di rappresentanza e tante altre prebende, qui non meglio specificate, retaggio della ben tollerata propensione allo spreco, che, da sole, valgono ancor più di quanto esposto perché consentono ai beneficiari di provare un sentimento da tutti ambito: “la felicità”. Il delirio di onnipotenza che ne scaturisce, ovviamente, è una logica conseguenza. Mettere ordine in questo scempio è il primo passo da compiere per ridurre la distanza siderale che separa i cittadini da chi li rappresenta. CONSIGLIO, COMMISSIONE E PARLAMENTO: RIEQUILIBRIO DEI POTERI Il Parlamento europeo non ha il potere dell’azione legislativa, espletato dalla Commissione europea, tra l’altro spesso “eterodiretta” dal Consiglio europeo, che dovrebbe limitarsi a definire l’orientamento politico generale e le priorità dell’Unione. Essendo composto, però, dai capi di Stato o di Governo dei paesi aderenti, con l’aggiunta del presidente della Commissione, di fatto assume funzioni che vanno ben al di là di quelle previste dai trattati e, sostanzialmente, stabilisce le direttive che la Commissione si limita a fare proprie, per poi sottoporle al Parlamento, che può solo emendarle. La sintesi non rende l’idea del “vero casino” che scaturisce dalla confusione dei ruoli, ma se scendo nei dettagli corro il rischio di procurare dolorose emicranie. In buona sostanza ciò che bisogna sapere è che il vero potere è esercitato dal Consiglio europeo, il Parlamento conta quanto il due di spade a briscola se la briscola è di un altro palo e la Commissione danza al ritmo imposto dal Consiglio, attenta sola a tutelare i propri privilegi. In tutto questo “baillamme” va anche detto che Francia e Germania la fanno da padroni, con le conseguenze che ben conosciamo. Mettiamo le cose a posto. Si conferisca al Parlamento il potere legislativo e il ruolo esercitato dal Consiglio, che va abolito perché occorre ridurre in toto il condizionamento esercitato dai vari governi. I parlamentari, avendo cura di porre all’attenzione generale i problemi dei paesi di provenienza, devono trovare soluzioni in un contesto di sano equilibrio. Alla Commissione siano riservati esclusivamente funzioni di vigilanza e controllo degli atti. Può anche continuare ad esercitare il ruolo di negoziazione degli accordi internazionali, purché ciò avvenga nel pieno rispetto delle direttive ricevute dal potere legislativo. ECONOMIA La realtà è sotto gli occhi di tutti e solo i mestatori possono ignorarla: le politiche di austerity hanno indebolito il ceto medio, reso i poveri più poveri e avvantaggiato esclusivamente i ricchi. Il passaggio all’euro si è dimostrato disastroso per l’errato rapporto di cambio, che ha creato gravi diseguaglianze nei vari stati. La disoccupazione e il crollo dei consumi ne sono stati la logica conseguenza. La Banca centrale europea è precipuamente al servizio delle banche e non dei cittadini e questo aumenta gli squilibri. Il suo ruolo deve essere completamente riveduto affinché funga da motore di spinta per l’economia reale e non per sostenere il sistema finanziario, che sappiamo essere marcio in ogni dove, come dimostrano i tanti scandali quotidianamente alla ribalta della cronaca. Parimenti, va assolutamente evitato che il Fondo Salva Stati si trasformi nel Fondo Monetario Europeo, come proposto dall’attuale Commissione, fomentata da Francia e Germania. Il compito del fondo sarebbe quello di salvaguardare la stabilità finanziaria nell’Eurozona, attivando linee di credito per salvare gli Stati a rischio di default. Questi ultimi, a loro volta, dovrebbero accettare riforme decise a tavolino, quasi sempre “insostenibili”, come ha dimostrato il caso Grecia. Di fatto si tratta di un vero e proprio ricatto che, se fosse perseguibile penalmente, secondo il nostro codice penale prevederebbe la reclusione da cinque e dieci anni. Vanno analizzate, invece, le cause reali dei disequilibri, combattute le distonie lì dove esistano e attuate soluzioni che prevedano, prima di ogni altra cosa, la tutela delle fasce più deboli. Poi è ben chiaro che non si debbano fare sconti a nessuno: la corruzione e l’improvvida gestione del potere politico in stati come Grecia e Italia sono state senz’altro concause importanti dello sfacelo, ma occorre perseguire i colpevoli senza penalizzare interi popoli. L’ingresso


nell’Unione di paesi dove il costo del lavoro è basso e lo sfruttamento tollerato ha creato il triste fenomeno della delocalizzazione. È un fenomeno che va arginato con provvedimenti adeguati, perché non è possibile mantenere una Europa a due velocità e tollerare che gli industriali pratichino sfruttamento e schiavismo. SVILUPPO SOSTENIBILE L’argomento è stato diffusamente trattato nel numero 72 di “CONFINI” (marzo 2019). Qui basti dire che è ineludibile attuare al più presto un cambio di rotta a favore della “Green economy”, premiando le aziende che si convertano al nuovo corso. Più di ogni altra cosa, comunque, è importante perseguire duramente le aziende che inquinano e producono immani disastri ambientali. Questo processo investe necessariamente anche un’adeguata formazione sociale. È ben evidente, infatti, che i consumatori, se esaustivamente informati sui rischi che corrono nell’utilizzo di “certi prodotti”, anche in campo alimentare, smettessero di acquistarli, fornirebbero un utilissimo impulso al necessario rinnovamento. AUMENTARE I SALARI E ARMONIZZARE I PREZZI DEI PRODOTTI L’Unione europea ha fronteggiato la crisi economica iniziata nel 2008 in modo disastroso, togliendo risorse economiche ai servizi primari. Ospedali chiusi, mancati sussidi a scuole e tribunali, mancati interventi per la tutela dell’ambiente, abbandono degli anziani al loro triste destino, costituiscono solo gli esempi più eclatanti dei disastri causati dagli pseudo pacchetti anti-crisi - “Six Pact”, “Fiscal Compact” e “Two Pack” - varati dai burocrati di Bruxelles, che dovrebbero essere processati per crimini contro l’umanità, avendo rovinato la vita a milioni di europei e provocato decine di migliaia di morti. Bisogna invertire la rotta per rilanciare gli investimenti e favorire i consumi, che ovviamente risentono della mancanza di liquidità. Aumentare i salari non solo è possibile ma è doveroso, perché è importante soprattutto combattere lo sfruttamento “legalizzato”, che coinvolge tutta la sfera produttiva e assume connotazioni insostenibili in piccole aziende, aduse a praticare un vero e proprio ricatto nei confronti dei dipendenti. Reprimere questo triste fenomeno vuol dire compiere un atto di giustizia e dare una mano all’economia reale: con più soldi a disposizione le famiglie potranno soddisfare più bisogni, acquistando prodotti e servizi. Un ulteriore aiuto può venire da una drastica riduzione dei prezzi, che sempre più sfuggono alla logica del rapporto tra domanda e offerta e scaturiscono esclusivamente dall’abilità dei produttori, che fanno leva soprattutto sulla facilità con la quale oggi sia possibile gabbare i consumatori, disorientati dalla globalizzazione. Anche per questo argomento, al fine di evitare inutili ridondanze, si fa riferimento all’articolo pubblicato nel nr. 72 di “CONFINI”. I GIOVANI Noi adulti abbiamo fatto solo disastri e non abbiamo alibi. Siamo tutti colpevoli, anche se al servizio del “bene”, non fosse altro per non essere stati capaci di cacciare i mercanti dal tempio, lasciando che l’Europa deperisse, anno dopo anno, sotto i colpi nefasti dei poteri malati. Ora, se davvero una sorta di Nemesi riparatrice volesse darci un’ultima occasione, non sprechiamola e puntiamo tutto sui giovani, favorendo il “loro” processo di integrazione con iniziative mirate e ben studiate. Il progetto “Erasmus” è una delle poche cose buone partorite dall’attuale Unione, ma va potenziato economicamente e arricchito culturalmente. Servono più soldi per estenderlo a un numero maggiore di studenti e serve una preparazione propedeutica precipuamente orientata a inculcare l’idea dell’unione politica. Questa fase è molto importante perché, qualora trovasse pratica applicazione, consentirebbe di conferire ai giovani italiani un ruolo più caratterizzante rispetto a quello esercitato dai colleghi degli altri paesi, per i quali il progetto continuerebbe a essere solo un’occasione per allargare gli orizzonti conoscitivi di luoghi e persone e reperire possibili sbocchi professionali. Non dimentichiamoci mai che la meta si chiama “STATI UNITI d’EUROPA”. Quelli elencati (lo ribadisco: insieme con quanto già scritto negli articoli citati) sono i punti principali che dovrebbero costituire l’ossatura programmatica di un partito che voglia davvero cambiare l’Europa. Non ho parlato della politica migratoria e di una equa redistribuzione dei migranti perché l’argomento merita ben altro spazio rispetto a quello disponibile in un paragrafo di un articolo. È ben chiaro, tuttavia, che la nuova


Europa, se davvero prenderà corpo, dovrà affrontare seriamente il problema, senza perdersi nelle attuali catastrofiche azioni dilatorie. Parimenti non aggiungo nulla relativamente al possibile ruolo della nuova Europa nello scacchiere internazionale, che potrebbe essere quello di “faro del mondo”, non fosse altro che per scaramanzia. Per ora cerchiamo solo di chiudere i conti con la vecchia Europa, ossia quell’ansimante baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni. *Questo articolo è scritto dall’autore nelle sue vesti di presidente del movimento politico “Europa Nazione”.



ANAMNESI DI UN POPOLO COMPLICATO PROLOGO Le distonie sociali di qualsiasi popolo e le qualità intrinseche manifestate da una parte o dalla maggioranza dei cittadini, se analizzate nel contesto temporale in cui si manifestano, possono solo caratterizzarsi come “cronaca”. Per comprenderne le cause, invece, conferendo all’analisi una valenza sociologica, occorre necessariamente partire da lontano, proprio come si fa in qualsiasi ospedale con un paziente: gli si chiede un po’ di tutto, a partire dalla nascita. Non solo: gli si chiedono anche notizie sui suoi familiari. L’insieme dei dati, comprensivi degli esami effettuati al momento, consente di definire la natura della malattia e stabilire una opportuna cura. Gli italiani di oggi, nel bene e nel male, portano nel DNA il retaggio ancestrale di quelli di ieri, solo in parte alterato dai condizionamenti ambientali, che perdono consistente efficacia, tuttavia, quando le tensioni sono molto acute e lasciano affiorare la vera essenza di ciascuno o, per meglio dire, “la sua natura”. Un viaggio nel tempo, pertanto, sia pure con pochi esempi presi a campione tra le migliaia disponibili, si rende necessario. Apparentemente gli esempi potrebbero apparire fuori contesto, ma così non è: tutto ciò che incarnano è emblematico di una realtà che presenta impressionanti analogie in ogni epoca storica, come intuito da Vico, il cui pensiero sui corsi e ricorsi storici, tra l’altro, è frequentemente distorto e frainteso, non intendendo egli certo asserire che la storia si ripeta ma che l’uomo è sempre uguale a se stesso, a prescindere dagli eventi che lo vedono protagonista o spettatore, secolo dopo secolo. In Italia, questo presupposto, che ovviamente riguarda il mondo intero, si può riassumere con una semplice espressione coniata da Guicciardini cinque secoli orsono: “Franza o Spagna purché se magna”. UN PO’ DI STORIA 133-121 A.C. Tiberio Sempronio Gracco, talentuoso e brillante aristocratico, nipote di Scipione l’Africano, aveva ben compreso i malanni che affliggevano l’Italia: l’estensione dei latifondi e il massiccio utilizzo degli schiavi, penalizzante per i contadini, i quali non trovavano né lavoro né terre da coltivare; la riduzione delle coltivazioni a favore dei pascoli; l’abbandono delle campagne da parte dei piccoli proprietari, impoveriti dai privilegi dell’aristocrazia e costretti a trasferirsi a Roma in cerca di fortuna. Siffatto processo, ingiusto nella sostanza per esclusiva colpa dei nobili, riduceva anche l’efficienza del fortissimo esercito romano, che reclutava i soldati proprio tra i contadini. La riforma agraria promossa da Tiberio Gracco, protesa a stabilire un limite al possesso privato di agro pubblico, era “giusta e opportuna”. I “poteri forti”, però, che ovviamente pensavano solo ai fatti propri, si opposero, temendo di perdere parte dei latifondi e le clientele formate dai nullatenenti. Una legge giusta, pertanto, fu applicata solo grazie a una forzatura del proponente, costretto a commettere un atto illecito: chiedere la decadenza del losco tribuno della plebe Marco Ottavio, prezzolato servo dei nobili, che si era opposto alla promulgazione


(1). Tiberio, proprio come pochi romantici idealisti del tempo moderno, pensò anche ai poveracci, ai nullatenenti, a quelle persone vessate dalla vita e dalla protervia dei potenti. A Pergamo, in Asia minore, passò a miglior vita Attalo III, lasciando il suo regno in eredità ai romani. I nobili sarebbero stati ben lieti di fare incetta dell’immenso tesoro e dividerselo allegramente, né più né meno come accaduto tante volte nei secoli a venire e anche ai giorni nostri, in circostanze non certo di pari portata, ma sostanzialmente simili nei presupposti. Quel romanticone di Tiberio, però, pensò di utilizzare le ingenti somme ricevute in eredità per finanziare i poveri contadini e migliorare le loro infauste condizioni di vita. Si possono immaginare i mal di pancia provocati da questo antesignano di Robin Hood. Come sia andata a finire non vi è bisogno di scriverlo. Sorte non diversa toccò al fratello Caio, dieci anni dopo, che pensò bene di anticipare gli assassini chiedendo a uno schiavo di ucciderlo. (Mi concedo una pausa per effettuare opportuni riti apotropaici a favore degli attuali Tiberio e Caio Gracco, affinché trovino la forza per resistere ai quotidiani attacchi e non deroghino di un passo dai loro propositi di ridurre la povertà, combattere il male ovunque si annidi e far recuperare al paese quella credibilità avvilita da troppi decenni di malgoverno). 101-44 A.C. Abbiamo tutti trascorso molte ore degli anni scolastici a tradurre interi brani del “De Bello Gallico”, idealizzando nelle nostre menti il grande condottiero che conquistò la Gallia, impropriamente immaginata come terra popolata da rozzi buzzurri meritevoli di essere schiavizzati da Roma. Nessun docente, infatti, ha mai spiegato agli alunni delle scuole medie e superiori che Cesare, indebitato fino al collo con l’Enrico Cuccia del tempo, Marco Licinio Crasso, che gli prestò 25 milioni di sesterzi al tempo della campagna di Spagna, andò in Gallia anche e soprattutto per acquisire potenza economica, pagare i debiti e contrastare i nemici interni. “Era braccato dai creditori come una lepre spelacchiata”, disse Crasso in Senato, alla vigilia della guerra civile. Cesare in Gallia condusse una campagna spietata, per la quale non è azzardato utilizzare il termine “genocidio”. Siccome il suo mandato consolare stava per scadere e per lui era molto importante la rielezione, chiese di essere rieletto console “in absentia”, senza abbandonare l’esercito: richiesta illegale, prima sostenuta da Pompeo e poi da quest’ultimo respinta, anche per le pressioni dei senatori, che del condottiero ne avevano le tasche piene. Luciano Canfora sarà anche un marxista ortodosso, ma in tema di conoscenza della storia antica gli si deve riconoscere l’autorevolezza che merita e certe sue asserzioni sono davvero illuminanti. Spiegando le cause della lotta tra Pompeo e Cesare, asserisce testualmente: “La base della lotta politica a Roma sono i soldi. Chi ha più quattrini fa campagna elettorale e compra il voto. In Gallia Cesare ha pensato anche alla propria personale ricchezza. La gestione di una provincia può essere anche disinvolta, però prima o poi si paga, perché ci sarà un processo promosso dai nemici a Roma. Ed è per questo che Cesare non poteva trovarsi come privato cittadino a Roma (senza la protezione dell’esercito, ndr) per le elezioni dell’anno 49 a.C. Prima


sarebbe dovuto passare per il Tribunale. Il Tribunale è l’altra faccia della politica romana, molto più importante dei comizi. Tutto si risolve, alla fine, sul terreno giudiziario”. Da qui l’attraversamento del Rubicone, con quel che ne seguì. Se nella spiegazione di Canfora non comparisse il nome “Cesare, sarebbe davvero molto difficile, per chiunque, comprendere che lo storico si riferisce ad eventi di duemila anni fa e non a quelli attuali. 274-337. Alla pari di Cesare, un altro personaggio che abbiamo imparato a venerare grazie a ciò che è scritto sui libri di storia è “Costantino”, non a caso detto “il Grande”. Di lui ci hanno sempre tessuto le lodi, magnificandone gesta e virtù. Anche il buon Dio, addirittura, sarebbe rimasto così incantato dalla sua fulgida figura di uomo eccelso, probo e retto, da tributargli adeguata protezione nella famosa battaglia di Ponte Milvio, contro il povero Massenzio. Ancora oggi, nelle scuole, si parla di “Costantino il Grande” e a nessun docente viene in mente di spiegare che nessun Dio disegna croci in cielo, stabilendo chi debba vincere una battaglia; che la sua ferocia nel distruggere le città che non gli aprivano le porte, quando partì dalla Gallia per contrapporsi a Massenzio, non è proprio un atteggiamento consono a qualcuno definito “grande”; che per mantenersi al potere, senza tanti scrupoli, fece uccidere l’antico rivale Licinio; il figlio primogenito Crispo; Liciniano, figlio della sorella Costanza e di Licinio; la moglie Fausta (sorella di Massenzio), ingiustamente sospettata di aver avuto una relazione con Crispo, figlio della prima moglie Minervina. Sarebbe un’offesa all’intelligenza dei lettori scrivere anche “perché” se ne esaltino le fasulle virtù, obnubilando i tratti reali del suo essere e pertanto mi fermo qui. 1494-1495 Carlo VIII, re di Francia, dopo aver sistemato le diatribe interne e i rapporti precedentemente non idilliaci con Inghilterra e regno d’Aragona, per non annoiarsi pensò bene di far valere il diritto ereditario sul regno di Napoli, in quanto nipote di Maria d’Angiò, la figlia di Luigi I, re di Napoli dal 1352 al 1362. Messosi alla testa di un esercito di ben trentamila uomini, entrò in Italia il 3 settembre 1494, da tutti festosamente accolto. Ad Asti alloggiò nel palazzo dei Solari e la figlia undicenne del padrone di casa ne restò così affascinata da scrivere, per lui, “Le lodi del matrimonio”. Fu ben accolto dal cardinale Giuliano della Rovere, il futuro papa Giulio II, anche se l’accoglienza più calorosa gli fu riservata da Ludovico il Moro e Beatrice D’Este, sostenuti nella diatriba con Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona. Molti storici, sicuramente a giusta causa, sostengono che Gian Galeazzo sia stato avvelenato proprio in virtù della combutta tra Ludovico e Carlo VIII. Nella marcia trionfale in territorio italiano, senza mai sfoderare la spada, il re francese giunse nei pressi della fortezza di Sarzanello, limitandosi a chiedere al pavido Piero de’ Medici campo libero per Firenze. Si può immaginare la sua sorpresa, pertanto, quando, senza batter ciglio, si vide offrire le fortezze di Sarzana, Sarzanello e Pietrasanta; le città di Pisa e Livorno, oltre, naturalmente, il via libera per Firenze, dove accaddero quelle cose tipicamente


“italiane” che risultano incomprensibili nel resto del mondo. I fiorentini, indignati, cacciarono Piero de’ Medici per il servilismo nei confronti di Carlo VIII, al quale, però, subito dopo spalancarono loro stessi le porte della città, festeggiandolo con tutti gli onori e riconoscendogli il merito di averli liberati dalla dominazione medicea, cosa non vera dal momento che Carlo VIII non si era proprio posto il problema di interferire nelle beghe cittadine. A Roma regnava papa Alessandro VI, tristemente famoso per la sua condotta immorale. Girolamo Savonarola non perdeva occasione per sputare fuoco e fiamme contro di lui e siccome il re francese per andare a Napoli doveva attraversare lo Stato Pontificio, a Firenze fu d’uopo considerarlo anche un possibile riformatore della Chiesa, esposta alla vergogna per la condotta dello scellerato Borgia, indegnamente assurto al soglio pontificio grazie all’abilità nella corruzione dei cardinali. Carlo, però, molto più pragmaticamente, temeva che un eventuale contrasto con il papa lo avrebbe esposto alle ritorsioni delle potenze europee e si guardò bene dal soddisfare le richieste dei fiorentini e di Savonarola. Solo per una fortuita coincidenza riuscì comunque a entrare a Roma: Giulia Farnese, amante del papa e moglie del suo alleato Orsino Orsini, fu catturata insieme con la suocera, Adriana Mila, durante un viaggio da Bassanello verso Roma. Il re le usò come merce di scambio: le due donne furono liberate e l'esercito francese entrò a Roma, preoccupando non poco Alessandro VI, che tollerò un po’ di soprusi perpetrati dalle truppe, si mostrò compiacente e concesse subito il via libero verso Napoli, dove si verificarono altri eventi tipicamente italiani. Re Alfonso II, quando le truppe erano ancora ben lontane dalla città, cadde in profonda depressione, aggravata da incubi e cattivi presagi. Pensò bene, quindi, di scapparsene a Messina, lasciando il regno nelle mani del giovane ed inesperto figlio Ferdinando II (Ferrandino) che, a sua volta, con l’arrivo dei francesi, se ne scappò a Ischia, con buona pace degli apologeti, i quali, ancora oggi, ne esaltano la figura negando l’evidenza. Manco a dirlo, re Carlo e i suoi soldati furono accolti a braccia aperte dai napoletani, sempre pronti a sorridere agli invasori di turno, nella vana speranza di migliorare le condizioni di vita. Alessandro VI, a questo punto, incominciò davvero a preoccuparsi e corse ai ripari chiamando a raccolta i principi dei vari stati. In un baleno fu composta una poderosa armata che, a Fornovo sul Taro, affrontò l’esercito francese in ritirata. Trentacinquemila soldati italiani, ben armati e senza problemi di rifornimenti, fronteggiarono novemila francesi privi di ogni sostentamento e con armamento nemmeno lontanamente comparabile a quello avversario. Se i bookmakers fossero esistiti anche allora non avrebbero accettato puntate sulla vittoria degli italiani, essendo ben chiaro che i nemici, accerchiati, sarebbero stati sterminati in poche ore. Con somma sorpresa, invece, l’esercito francese riuscì ad aprirsi un varco, a far fuori ben quattromila italiani, perdendo solo mille uomini, e soprattutto a salvare la vita al re. In Francia, ovviamente, nelle scuole s’insegna che la battaglia fu vinta dai francesi. In Italia, però, si esalta l’amor patrio dei principi che risposero al sacro appello del papa contro l’invasore e la splendida vittoria ottenuta a Fornovo! Francesco II di Gonzaga, addirittura, commissionò ad Andrea Mantegna un quadro commemorativo e il grande pittore non deluse le


aspettative, realizzando una splendida pala d’altare, alta ben 280 centimetri, intitolata “La Madonna della Vittoria”, che fu collocata nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Mantova. Nel periodo napoleonico fu oggetto delle famose espoliazioni, che riguardarono oltre cinquecento opere d’arte. Ora fa bella mostra di sé al Louvre, mettendo sempre in seria difficoltà le guide che ne devono spiegare la genesi. AHI, SERVA ITALIA, DI DOLORE OSTELLO. Fermiamoci qui, con gli esempi. Già nel 1300, del resto, Dante aveva compreso che l’Italia è un luogo di dolore, assimilabile sia a una nave senza guida in un mare tempestoso sia a una donna non più rispettabile, divenuta prostituta. I secoli successivi non hanno fatto altro che confermare, costantemente, quanto descritto dal poeta nel VI canto del Purgatorio, confinando nelle eccezioni il pur tanto di buono che, in tutti i campi, è stato partorito. Ben diciassette secoli prima di lui, però, Aristofane, nella commedia “I cavalieri”, parlò di un salsicciaio immorale, cinico e ignorante, il quale, con beceri discorsi di bassa demagogia, riuscì a primeggiare in una disputa che prevedeva la conquista di una posizione di potere. Quanti salsicciai abbiamo conosciuto, dal dopoguerra ad oggi? Soprattutto, quanti sono stati gli italiani che si sono fatti abbagliare dal salsicciaio di turno? Per meglio entrare nei complessi meandri dell’Italia di oggi, tuttavia, molto più pertinente risulta la fiaba di Esopo sullo scorpione e la rana, magistralmente sfruttata dall’ineffabile Marco Travaglio nell’editoriale del 5 giugno scorso. Risparmio la fiaba, considerato l’alto livello culturale dei lettori di questo magazine. Sono trascorsi 2600 anni, sostiene Travaglio, ma essa descrive alla perfezione la realtà attuale. Il premier Giuseppe Conte rappresenta la maggioranza degli italiani che vorrebbero arrivare incolumi e sereni sull’altra sponda del fiume, salvaguardando il governo della speranza e del cambiamento nato nel 2018 e sublimato dal voto del 26 maggio 2019 con consensi addirittura superiori, sia pure con equilibri rovesciati. Durante la traversata, però, può accadere di tutto e Conte, per non correre il rischio di essere punto, ha chiesto ai due vice-ministri di consegnargli i pungiglioni, inducendoli ad interrogarsi se siano ancora scorpioni, come ai tempi delle origini dei rispettivi partiti, o siano riusciti a trasformarsi in rane. I pungiglioni sono stati consegnati e si va avanti, sia pure tra mille problemi e il continuo fuoco ad alzo zero di chi rema contro, perché l’Italia di oggi più che al porto delle nebbie assomiglia al Titanic prima di affondare. Il caos è spaventoso e in tanti, per lo più quelli che occupano le cabine di terza classe, stanno annaspando tra i flutti in attesa di essere ripescati da qualche scialuppa. Le multinazionali, cinicamente, licenziano e dislocano altrove la produzione, magari dopo aver ottenuto lauti incentivi statali a tutela dell’occupazione (non hanno fatto i conti con Gigino Di Maio, però, che al di là del sistematico dileggio mediatico dei tanti malpancisti, sta dimostrando di sapere il fatto suo); gli speculatori giocano sporco, come sempre; i vecchi partiti vomitano spudoratamente tonnellate di menzogne, anelando al tanto peggio tanto meglio,


perché non vedono l’ora di tornare a depredare il paese. Di scialuppe per i meno fortunati, onestamente, se ne vedono poche in giro, anche se vi è tanta buona volontà in chi si sia assunta la responsabilità di tutelare quelli della terza classe. In queste situazioni, come scritto all’inizio, emergono ben evidenti i limiti e le qualità di ciascuno. Ogni giorno – ogni giorno! - le Forze dell’ordine arrestano decine di politici, del centro destra e del centro sinistra, che proprio non ce la fanno a onorare il ruolo senza commettere gravi reati. Sono un esercito così numeroso che sorge spontaneo chiedersi se, prescindendo da coloro che vengono presi con le mani nella marmellata, anche gli altri non siano della stessa pasta. Domanda doverosa nel rispetto del politically correct, che vieta ogni forma di generalizzazione. Al di fuori delle regole imposte dalla deontologia professionale, tuttavia, la domanda si rivela puramente retorica: sfido a trovare un solo italiano, che non sia in qualche modo complice degli uni o degli altri, disposto a credere che da quelle parti vi siano persone per bene. La società “cosiddetta civile”, a sua volta, evidenzia un tasso di inciviltà e di arretratezza culturale che spaventa e atterrisce. I social media sono diventati una vera manna per analisti, sociologi, psicologi, consentendo, senza tanti sforzi, approfondite indagini sugli umori e i comportamenti di milioni di cittadini, con risultati non certo esaltanti. La scuola ha fallito il suo ruolo primario, che è quello di educare i giovani ad assumersi delle responsabilità, fornendo loro adeguata formazione. I genitori non sono in grado di educare i figli e sciaguratamente li assecondano viziandoli in modo assurdo, fino ad accompagnarli, per esempio, ad ascoltare rifiuti umani che si spacciano per cantanti, purtroppo in qualche circostanza pagando con la vita la propria inadeguatezza al ruolo (2). Invece di ringraziare i docenti che cercano di “correggere” comportamenti scorretti degli alunni più impertinenti, li braccano e li picchiano, con quali conseguenze sulla psiche dei figli è facilmente immaginabile. Si dovrebbe davvero istituire una scuola di formazione genitoriale. Le nuove generazioni crescono nell’incertezza, che genera disperazione, soffocata dal massiccio uso di droghe e alcool. Stiamo lasciando crescere degli autentici zombi, che un domani si scanneranno vicendevolmente, proprio come si vede in tanti film apocalittici. Siamo proprio messi male, come non mai. Riusciranno i rari nantes in gurgite vasto a raddrizzare la barca che affonda, a recuperare dai flutti quante più persone possibile, a mettere fuori gioco i seminatori di morte e inculcare valori sani soprattutto alle nuove generazioni? La domanda, per ora, resta sospesa e senza risposta. CRISI MAGISTRATURA Primo incipit “Che val perché ti racconciasse il freno, Iustiniano, se la sella è vota? Sanz’esso fora la vergogna meno”. Secondo incipit Magistrati uccisi dalla mafia e dai terroristi, dagli anni sessanta del secolo scorso: Agostino Pianta, Pietro Scaglione, Francesco Ferlaino, Francesco Coco, Vittorio Occorsio, Fedele Calvosa, Riccardo Palma, Girolamo Tartaglione, Mario Amato,


Emilio Alessandrini, Cesare Terranova, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Bruno Caccia, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Gaetano Costa, Alberto Giacomelli, Rocco Chinnici, Antonio Saetta, Antonio Scopelliti, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, Luigi Daga, Paolo Adinolfi. Terzo incipit “Io credo che gran parte di questo sentimento di astio, che poi ha portato Giovanni Falcone in tanti momenti della sua vita all’isolamento, sia dovuto a questo sentimento che è molto diffuso nell’uomo e quindi anche nei magistrati, cioè l’invidia”. (Dichiarazione di Mario Almerighi nel programma “La storia siamo noi – Giovanni Falcone, un giudice italiano”, reperibile in un mio vecchio articolo del 2012: https://galvanor.wordpress.com/2012/09/12/488/) Quarto incipit Un ex giudice del Consiglio di stato, destituito, come facilmente reperibile nelle cronache on line e in tanti servizi televisivi, obbligava le allieve dei suoi corsi di formazione a indossare tacchi a spillo, minigonne, a lasciare i fidanzati. Con alcune di loro ha avuto anche rapporti sessuali. Quando si parla di magistrati e magistratura occorre andare con i piedi di piombo, soprattutto se non si hanno le spalle coperte. Molto meglio affidarsi, pertanto, a fatti inconfutabili, limitandosi a poche opinioni strettamente necessarie. Ciascuno, poi, potrà trarre le conclusioni che vuole. Il sommo poeta, sempre nel VI canto del Purgatorio, si chiede a cosa sia servito il Codice giustinianeo, se nessuno rispetta le leggi. Vi sarebbe addirittura minore vergogna se le leggi non fossero mai state emanate. Il mancato rispetto delle leggi è storia vecchia e i magistrati sono coloro chiamati, da sempre, a punire chi le infranga, secondo le norme stabilite dal potere politico che, quando è composto da soggetti infami, ne promulga alcune per consentire di commettere reati senza correre gravi rischi. I magistrati, strutturalmente, sono soggetti ben diversi dai politici, perché la loro vocazione “iniziatica” è protesa a trovare appagamento nell’operare al servizio del bene. Quando il terremoto è troppo forte, tuttavia, anche le strutture antisismiche traballano. I tanti magistrati assassinati da mafia e terrorismo costituivano una sorta di “nazionale della magistratura”. Erano uomini davvero speciali, senza ombre, che brillavano per senso del dovere, serietà professionale, alta cultura. In questa squadra di eccellenze ve n’erano due, poi, capaci di elevarsi ancor più, sconfinando in qualcosa che trascendeva i limiti del possibile: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gli splendidi magistrati Guarnotta e Di Lello hanno evidenziato siffatta sublimazione del loro “essere” con grande onestà intellettuale: “Noi eravamo una squadra nella quale sapevamo che c’erano dei fuoriclasse, come Maradona, e dei portatori d’acqua”. (Leonardo Guarnotta). “Emergeva molto, ma molto prepotentemente, la personalità dei due Giudici Istruttori, Falcone e Borsellino. Avevano insieme delle qualità che noi non avevamo: grande intelligenza, grandissima memoria, grande capacità di lavoro. Sarebbe stato sciocco, da parte nostra, mettere in dubbio questa gerarchia di fatto, perché forse,


poi, mettendola in dubbio, potevamo essere sfidati a sostituirli e avremmo fallito miseramente”. (Giuseppe Di Lello; vedi link nel terzo incipit). È stato un duro colpo, per la magistratura e per l’Italia tutta, perdere tanti magistrati eccellenti e questo è un dato di fatto inoppugnabile: l’assenza dei fuoriclasse riduce la qualità di qualsiasi squadra; la loro presenza aiuta gli altri a crescere e a diventare più bravi. I fuoriclasse, come dignitosamente asserito da Almerighi, dovevano fronteggiare due nemici: fuorilegge palesi e poteri occulti all’interno dello Stato, forse ancora più pericolosi. Ogni anno, per commemorare Giovanni Falcone, in tanti corrono a Palermo. Se uno studente straniero, tuttavia, decidesse di dedicargli la propria tesi di laurea, effettuando delle ricerche si troverebbe in seria difficoltà per comprendere tutto l’amore “postumo”. La carriera di Giovanni Falcone, infatti, fu funestata da una sequela di brucianti sconfitte ed è significativo, sotto questo profilo, quanto asserito da Ilda Boccassini nel corso di un’intervista effettuata da Giuseppe D’Avanzo e pubblicata su “la Repubblica” il 21 maggio 2002: “Dal 1971 ad oggi, se non sbaglio, sono stati uccisi in Italia ventiquattro magistrati. Mi chiedo perché soltanto per Giovanni Falcone, anno dopo anno, tanti onori, celebrazioni, accensioni polemiche. Credo che la ragione vada rintracciata nell'ipocrisia del Paese, nel senso di colpa della magistratura, nella cattiva coscienza della politica. Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. È soltanto il più macroscopico paradosso della vita e della morte di Giovanni Falcone: la sua breve esistenza, come oggi la sua memoria, è stata sempre schiacciata dal paradosso, a ben vedere. Ce ne sono di clamorosi... Non c'è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. È stato sempre "trombatissimo". Bocciato come consigliere istruttore. Bocciato come procuratore di Palermo. Bocciato come candidato al Csm, e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso. Dieci anni fa, per dar conto delle sue sconfitte, Mario Pirani dovette ricorrere a un personaggio letterario, l'Aureliano Buendìa di Cent'anni di solitudine che dette trentadue battaglie e le perdette tutte: ancora oggi, non c'è similitudine migliore. Eppure, nonostante le ripetute "trombature", ogni anno si celebra l'esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c'è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di "amici" che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito". Anche Borsellino fu “abbandonato” alla sua triste sorte e ancora oggi, quando si vedono i filmati dell’epoca, che evidenziano la mancata adeguata protezione della strada dove abitava la madre, e si legge tutto ciò che è emerso nel corso degli anni, si prova solo un senso di profondo sgomento.


Per quanto riguarda la vicenda “pruriginosa” dell’ex consigliere di Stato con propensioni che non è nemmeno il caso di citare, il dato importante è la disponibilità dimostrata da troppe allieve nell’accettare le sue scandalose regole. Queste donne un domani saranno magistrati. Alcune già lo sono. Vi è qualcuno disposto a fidarsi della loro capacità di giudizio e della loro capacità a resistere ad “ulteriori tentazioni” durante i processi? L’attuale crisi della magistratura è senz’altro figlia dei tempi attuali per quanto concerne lo scontro feroce per le poltrone nel palazzo dei Marescialli, ma ha radici antiche relativamente a taluni comportamenti, in particolare quelli che, essendo indegni di qualsiasi essere umano, risultano oltremodo insopportabili se perpetrati da un magistrato. Qualche corrotto è sempre esistito, perché in ogni grande famiglia vi possono essere delle pecore zoppe. Ricordiamo, tutti, per esempio, “l’ammazzasentenze” Corrado Carnevale, inquisito e… assolto. Poche rondini non fanno mai primavera. Se le rondini abbondano in cielo, però, vuol dire che in primavera siamo e se la metafora si riferisce a una “primavera” sgradevole, qualche correttivo s’impone. Quando fondai “Europa Nazione” (www.europanazione.eu), nel 2013, inserii nel programma una bozza di riforma costituzionale. Per quanto concerne la giustizia gli elementi essenziali riguardano una ridefinizione delle competenze del relativo ministero, in modo che non “sia” e non “appaia” un organo gerarchicamente superiore al CSM. Vanno rimodulati l’articolo 107 della costituzione e l’articolo 14 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, in modo che sia revocata al Ministro della giustizia la titolarità dell’azione disciplinare, che deve restare di esclusiva pertinenza del procuratore generale presso la Corte di cassazione. Affinché la legge sia davvero uguale per tutti occorre ridurre i tempi dei processi e abolire la prescrizione dei reati. Tre gradi di giudizio sono davvero troppi e le sentenze devono diventare esecutive dopo il processo di appello, riservando alla Corte di cassazione l’eventuale esame del ricorso anche durante la detenzione del condannato. Vanno riconsiderati, inoltre, tutti gli aspetti cosiddetti “etici”, sublimati da un esagerato formalismo dogmatico, che rappresenta una manna per i delinquenti e una grave offesa per le vittime. La riforma del codice penale è “urgentissima”, affinché si sancisca un sensibile inasprimento delle pene che, associato alla riduzione dei gradi di giudizio, costituirebbe un valido deterrente per chi abbia una propensione delinquenziale. Per una effettiva attuazione della “separazione dei poteri”, inoltre, il CSM deve essere indipendente in toto dalla politica e quindi va abolita la nomina parlamentare di un terzo dei membri. Tutto ciò, insieme con altri non meno importanti provvedimenti qui non indicati per amor di sintesi, ma che ricalcano i principi ispiratori di quelli descritti, consentirebbe davvero di togliere molte deleterie incrostazioni nei palazzi del potere, migliorando la vita dei cittadini e, soprattutto, riducendo sensibilmente quel frustrante senso di impotenza che nasce quando si percepisca che “i rapporti di forze” hanno il sopravvento sulla “giustizia”. CONCLUSIONI


Nulla di buono sarà mai possibile, tuttavia, se non saremo noi cittadini a compiere il primo passo. Affinché cambino le regole che ci angustiano occorre che il primo cambiamento avvenga in noi, perché, come traspare chiaramente dalla storia patria, siamo noi i primi responsabili delle nostre sventure, magari vigliaccamente rifugiandoci dietro il comodo alibi delle colpe altrui. Ettore andò ad affrontare Achille ben consapevole che non sarebbe sopravvissuto. Salutando i genitori che tentavano di dissuaderlo, disse loro: “Ohimè, se mi ritiro dentro la porta e il muro, Polidàmante per primo mi coprirà d’infamia […] Ora che ho rovinato l’esercito col mio folle errore, ho vergogna dei Teucri e delle Troiane lunghi pepli, non abbia a dire qualcuno più vile di me: “Ettore ha rovinato l’esercito, fidando nelle sue forze”. Ah sì, così diranno. E allora per me è molto meglio o non tornare prima d’aver ucciso Achille o perire davanti alla rocca, di sua mano, con gloria”. Qui siamo al cospetto di qualcosa che trascende gli umani limiti: Ettore si sacrifica per espiare l’errore tattico commesso quando impegnò le truppe nella battaglia presso le navi, nonostante il parere contrario del saggio Polidàmante; anche in un diverso contesto, tuttavia, avrebbe comunque affrontato Achille, senza alcuna speranza di sconfiggerlo. Con riferimento a un’epoca a noi molto più vicina, è appena il caso di ricordare che, Paolo Borsellino, quando si rese conto che la sua ora stava per suonare, lungi dal “fuggire”, cosa che nessuno avrebbe potuto contestargli, incominciò a trattare con crescente durezza i figli, ritenendo, ovviamente invano, di rendere loro meno doloroso il distacco. Quando l’amico Falcone era ancora in vita, i due scherzavano spesso su ciò che sarebbe potuto accadere, parlando senza paura di due cadaveri che camminavano. Non si può chiedere a nessuno di raggiungere la statura etico-morale di Falcone e Borsellino, ma tutti sono tenuti a capire la differenza siderale che separa gli “uomini” dai “quaquaraquà” e a smetterla di predicare bene e razzolare male, dando sempre la colpa agli altri. Ciascuno si guardi allo specchio e si faccia un serio esame di coscienza circa il proprio modo di pensare e di agire e poi si regoli di conseguenza, magari dando una mano a chi seriamente lotti per cambiare le cose, invece di “sopravvivere” indecorosamente, elemosinando favori e raccomandazioni. Combattere a viso aperto comporta qualche rischio? Questo è sicuro! Parola di uno che lo fa da oltre mezzo secolo. Ma se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui. E avrà solo vissuto invano, da miserabile accattone. 1) Notoriamente si diche che Bene e male sono due facce della stessa medaglia. In realtà sono collocati alle punte estreme di un asse con pari zone di grigio degradanti verso il centro, che si (con)fondono senza distinguersi quando s’incontrano. Sulla necessità, a volte, di trasgredire le leggi a fin di bene, esiste una corposa letteratura, la più significativa delle quali è l’opera di Tolkien “Il Signore degli anelli”. Nel romanzo “Prigioniero del Sogno”, scritto dall’autore di questo articolo, il confronto tra Bene e male viene rappresentato in una luce ancora più estrema e controversa: un autorevole rappresentante dello Stato commette un grave reato per


compiere il suo dovere, che consisteva nel catturare qualcuno che “agiva al di fuori delle leggi”. Lo cattura, provando grande disagio esistenziale, non solo per l’azione delittuosa commessa: l’uomo, infatti, usava le sue risorse per combattere il male, risolvendo quindi grossi problemi sociali che, però, essendo di pertinenza altrui, lo ponevano in una posizione di “fuorilegge”. 2) Nella notte tra il sette e l’otto dicembre 2018, presso una discoteca di Corinaldo, morirono sei persone mentre attendevano di assistere a un concerto demenziale. Proprio il protagonista di quella serata è sotto indagine per istigazione all’uso di sostanze stupefacenti. Tra le vittime vi è la mamma di una bimba di soli undici anni, che non fu capace di opporsi alle insistenze della figlia, “violentata” nell’animo dalla forte capacità attrattiva esercitata da testi inneggianti al sesso libero tra adolescenti, alle droghe e al disfacimento dell’essere.


POVERA EUROPA PROLOGO A distanza di un mese dalle elezioni europee si è avuta la possibilità di scandagliare con calma le complesse dinamiche che hanno caratterizzato il voto. Al netto di quanto sciorinato dai soliti pennivendoli, adusi a far passare per fatti le loro opinioni e i desideri, non sono mancate le analisi oneste, protese a spiegare cosa sia effettivamente successo e perché, nonché i possibili scenari che si approcciano all’orizzonte. Anche gli analisti più corretti, tuttavia, hanno solo parlato di ciò “che è accaduto”. Per comprendere bene il disastro europeo, invece, occorre allargare il campo speculativo, inserendo nelle analisi anche “ciò che non è accaduto”, spiegandone il perché. LA MANCANZA DI RIFERIMENTI VALIDI Partiamo da una iperbole che, come sempre, ritorna utile per meglio illustrare concetti complicati. Facciamo finta che, in tutto il mondo, non si producano più scarpe con suola di cuoio e siano immesse nel mercato solo quelle con suola di gomma, realizzate in vari modelli per essere calzate anche sotto lo smoking, gli abiti eleganti e quelli da cerimonia. Vi sarebbe poco da cianciare: chi fosse aduso a utilizzare le scarpe con suola di cuoio anche sotto i jeans, come l’autore di questo articolo, dopo averle modificate con la comoda mezza suola in gomma, sia pure a malincuore, dovrebbe rassegnarsi al nuovo corso. Per le elezioni europee si è verificato qualcosa di analogo. I circa 427milioni di elettori europei avevano a disposizione una miriade di partiti, ciascuno con un proprio programma, riuniti nei vari gruppi continentali ritenuti affini. Oltre 215milioni di cittadini (50,5%), tuttavia, non ne hanno trovato nemmeno uno degno del proprio consenso e, a differenza di coloro che si sarebbero dovuti comunque accontentare di scegliere tra le varie scarpe con suola di gomma, hanno deciso di restare a casa o concedersi una mini-vacanza. Questo dato è molto grave e molto significativo perché registra la crescente sfiducia nelle politiche comunitarie, spesso espressa nei vari paesi con proteste non scevre di violenza. Una sfiducia ben evidenziata dal grafico che ne caratterizza l’andamento, a partire dal 1979, quando votò il 61,99% degli aventi diritto, per poi scendere progressivamente: 58,98 nel 1984; 58,41 nel 1989; 56,67 nel 1994; 49,51 nel 1999; 45,47 nel 2004; 42,97 nel 2009; 42,61 nel 2014; 50,5 nel 2019. La leggera ripresa del 2019 non deve trarre in inganno. Da una parte vi è stata la massiccia campagna del Parlamento europeo con spot televisivi inneggianti al motto “Stavolta voto”; dall’altra vi è stato il sensibile incremento di votanti in Croazia (nel 2014 partecipò per la prima volta alle elezioni europee, con un’affluenza pari al 25,24%) e in Gran Bretagna, paese in cui si è registrato il forte sostegno al partito pro-brexit di Farage (33%), grazie anche al consenso di molti vecchi astensionisti che, contestualmente, hanno contribuito all’incremento dei votanti nelle aree in cui prevalse il “remain”, in occasione del referendum. In


sintesi, sia per sostenere la “Brexit” sia per creare i presupposti affinché la Gran Bretagna resti in Europa, si è registrato un aumento dei votanti. LE SCELTE OBBLIGATE Coloro che hanno deciso di votare si sono trovati al cospetto di due gruppi di partiti: quelli che, a parole, si professano “europeisti” e nei fatti, come ampiamente illustrato negli articoli pubblicati nei mesi scorsi, sono tra i massimi responsabili di tutti i guai che affliggono l’Europa; quelli ipernazionalisti che, pur essendo legittimamente critici nei confronti dell’attuale Unione Europea, non sono certo favorevoli al processo federativo che consentirebbe, realmente, di spianare la strada verso gli Stati Uniti d’Europa. È bene precisare, inoltre, che questi ultimi partiti sono in perfetta sintonia con i loro elettori, incapaci di concepire la frase “La mia patria si chiama Europa” e considerare “fratelli” altri europei. Elettori che, al solo pensiero di anteporre una bandiera continentale al vessillo nazionale, si farebbero venire l’orticaria (figuriamoci se si tentasse di indurli ad avere una lingua ufficiale che non sia la loro), che non riuscirebbero nemmeno a capire, infine, l’importanza di avere un esercito europeo, nonché altri organismi, come le Forze dell’ordine, l’Intelligence, le scuole di ogni ordine e grado, organizzati su scala sovranazionale. COSA È MANCATO In nessun paese dell’Unione Europea, di fatto, era presente un partito che incarnasse i princìpi e i valori della vera “unione dei popoli”. Un partito che fosse apertamente europeista e propugnasse seriamente la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa secondo le modalità più volte illustrate in questo magazine. Se anche vi fosse stato, tuttavia, è lecito ritenere che non avrebbe raccolto grandi consensi, magari restando al di sotto delle soglie di sbarramento, lì dove presenti, o superandole di poco. Di sicuro in Italia non sarebbe riuscito a superare la soglia minima del 4%, perché il vero spirito europeista è ancora prerogativa di pochi “illuminati”. Nondimeno la sua presenza sarebbe stata importantissima perché anche una pattuglia minima di parlamentari avrebbe iniziato a “segnare il cammino”. Se mai inizia il viaggio, mai si raggiungerà la meta. Questa è l’amara realtà. COSA SAREBBE DOVUTO ACCADERE Pur in assenza di un partito organizzato su scala continentale, che fungesse da collante per stimolare un reale progetto federativo, gli europei avevano comunque la possibilità di fare qualcosa di buono: chiudere la partita con chi dell’Europa ha fatto strame. Va chiarito subito che questo processo non era di facile attuazione perché presupponeva una capacità analitica non certo alla portata di tutti. In buona sostanza si trattava di votare per i partiti “apertamente” contrari all’Unione Europea e poi partire da lì, per iniziare, per quanto possibile, un discorso nuovo e correggere le gravi distonie poste in essere dalle attuali istituzioni comunitarie. Non si è avuta questa capacità e i principali artefici del disfacimento europeo,


Partito Popolare e socialisti, pur avendo perso complessivamente settantadue seggi, sono ancora in grado di costituire una maggioranza grazie all’aiuto della “banda” liberale, che ha guadagnato 38 seggi raggiungendo quota 107. Non si è capito, di fatto, quanto sarebbe stato importante dare una spallata alla vecchia Europa e a poco sono serviti gli exploit di Marine le Pen in Francia e Matteo Salvini in Italia che, con il 23,53% e 34,3%, hanno sì conquistato il primato nei rispettivi paesi, ma con percentuali troppo basse per determinare un significativo cambiamento di rotta. Altri fattori negativi sono scaturiti dalla débâcle del Movimento 5 Stelle - ben sei milioni di voti in meno rispetto alle elezioni politiche di un anno fa - dovuta all’elettorato umorale, instabile e volubile, che ha pensato precipuamente al proprio orticello, senza proprio porsi il problema europeo, anche perché in massima parte incapace di concepirne le dinamiche. Parimenti, la confusione politica che da tempo si registra in Spagna ha favorito la logica del “divide et impera” di Pedro Sanchez, che manda a Bruxelles ben 20 deputati, rendendo meno dolorosa la sconfitta dei socialisti e complicando maledettamente la vita alle forze del cambiamento. Che dire? Come sempre, chi è causa del suo mal pianga se stesso. SCENARI FUTURI Vi è poco da stare allegri. Il Parlamento europeo ha il compito di eleggere il nuovo presidente della Commissione, che dovrà prendere il posto dell’ubriacone JeanClaude Juncker. Molto probabilmente il prossimo presidente ci risparmierà le imbarazzanti scene di un uomo così importante che barcolla alla presenza dei grandi del mondo, mette le mani addosso a tutti e riesce finanche a insidiare il primato di Berlusconi per i giochini stupidini durante importanti eventi. Nel momento in cui viene redatto questo articolo non si conosce ancora il nome del nuovo presidente. Sarà l’insipido e mediocre bavarese Manfred Weber, sostenuto da una indomita Merkel, che negli ultimi tempi perde sistematicamente voti, riuscendo però sempre a mantenere la maggioranza relativa? L’uomo, manco a dirlo, ha la doppia faccia dei vecchi politici: il suo europeismo da maniera è poca cosa rispetto alla continuità con le vecchie logiche, che hanno consentito alla Germania di egemonizzare l’Europa grazie all’asse franco-tedesco, che ha dominato la scena politica continentale sin dai tempi del “Contratto dell’Eliseo” tra Konrad Adenauer e Charle de Gaulle, rafforzato nel gennaio 2019 con il “Trattato di Aquisgrana”, sottoscritto da Merkel e Macron. L’asse, però, scricchiola in virtù del progressivo indebolimento della Merkel. Macron, dal suo canto, pur essendo anche lui in difficoltà, è un giocatore spregiudicato che non si lascia intimorire e si comporta come se fosse lui l’imperatore d’Europa. Per la Commissione europea punta su Michel Barnier, meglio noto come “il cretino delle Alpi”. La Merkel potrebbe essere costretta a cedere, magari ottenendo come contropartita la nomina dell’attuale presidente della Bundesbank, Jens Weidman, al vertice della Banca centrale europea. Comunque vada a finire, per l’Europa si apprestano giorni cupi. Si dovrebbe iniziare a spiegare che il suffragio universale,


in un mondo cosÏ difficile da comprendere, è una vera mannaia autolesionistica. Ma a chi lo diciamo?



C’ERA UNA VOLTA LA QUESTIONE MERIDIONALE. C’É ANCORA. PAROLE: VERE, FALSE, SCIOCCHE. “I governi italiani per avere i voti del Sud concessero i pieni poteri alla piccola borghesia, delinquente e putrefatta, spiantata, imbestialita, cacciatrice d’impieghi e di favori personali, ostile a qualunque iniziativa potesse condurre a una vita meno ignobile e più umana”. (Sergio Rizzo) “Il Sud è stato privato delle sue istituzioni; fu privato delle sue industrie, della sua ricchezza, della capacità di reagire; della sua gente (con un’emigrazione indotta o forzata senza pari in Europa); infine, con un’operazione di lobotomia culturale, fu privato della consapevolezza di sé, della memoria”. (Pino Aprile) “Il Sud è subordinato alla mafia e alla stessa idea che ha di sé. Una condizione che fa comodo al Nord peggiore e alla mafia”. (Pino Aprile) “Il rilancio, alla grande, dei comportamenti "mafiosi" è avvenuto all'epoca e nel quadro dello sbarco degli eserciti alleati in Sicilia e nel Meridione, durante la fase finale della seconda guerra mondiale: quando i capi-mafia, già trapiantati oltreoceano, si offrirono come tramite prezioso, per facilitare infiltrazione degli invasori fra i traballanti difensori del fronte meridionale”. (Gianfranco Miglio) “I vecchi governi hanno inventato, allo, scopo di non risolverla mai, la questione meridionale. Non esistono questioni settentrionali o meridionali. Esistono questioni nazionali” (Benito Mussolini) “L'ambiente fisico del Mezzogiorno d'Italia costituisce, per ragioni geografiche e geologiche, il presupposto naturale di quel complesso di problemi economici e sociali sinteticamente indicati con l'espressione «questione meridionale». Fin da quando, sullo scorcio del secolo scorso, una serie di insigni meridionalisti, tra i quali emerge Giustino Fortunato, affrontò lo studio sulla «questione», venne dissolta la leggenda di un Mezzogiorno ricco e altamente produttivo, perché difatti, dietro le cortine ubertose della Terra di lavoro o della Conca d'oro, si succedono montagne aspre e dirute, terreni secchi e franosi, poggianti su di un sottosuolo povero di risorse naturali, energetiche o minerarie” (Felice Ippolito) “Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti”. (Antonio Gramsci; la frase è del 1920) “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”. (Giuseppe Garibaldi) “É vero che noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano dopo la conquista dell'unità e dell'indipendenza nazionale, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale, con la conseguenza di impoverire l'agricoltura, unica industria del Sud; è vero che


abbiamo spostato molta ricchezza dal Sud al Nord con la vendita dell'asse ecclesiastico e del demanio e coi prestiti pubblici”. (Luigi Einaudi) “Se dall'unità il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata: ha perduto la capitale, ha finito di essere il mercato del Mezzogiorno, è caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone”. (Gaetano Salvemini) “Dei Greci, i meridionali hanno preso il loro carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita che in realtà è disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l'accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così bello”. (Corrado Alvaro) “Or, poiché si diceva che il Nord fosse meno ricco del Sud e si credeva che molto avesse sacrificato alle lotte della indipendenza e della unità, parve anche assai naturale che i meridionali pagassero il loro contributo. Così i debiti furono fusi incondizionatamente e il 1862 fu unificato il sistema tributario ch'era diversissimo. Furono venduti per centinaia di milioni i beni demaniali ed ecclesiastici del Mezzogiorno, e i meridionali, che aveano ricchezza monetaria, fornirono tutte le loro risorse al tesoro, comprando ciò che in fondo era loro; furon fatte grandi emissioni di rendita nella forma più vantaggiosa al Nord; e si spostò interamente l'asse della finanza. Gl'impieghi pubblici furono quasi invasi dagli abitanti di una sola zona. La partecipazione ai vantaggi delle spese dello Stato fu quasi tutta a vantaggio di coloro che avevano avuto la fortuna di nascere nella valle del Po”. (Francesco Saverio Nitti) “Conoscendo i limiti del proprio diritto, e misurando su quei limiti, senza alcuno zelo servile, il loro dovere, le popolazioni meridionali vogliono soltanto quel che loro spetta come facenti parte della famiglia italiana, nella quale, con l'Unità, si sono illuse di entrare a parità di diritti, non avendone che lo sfruttamento e la degradazione. Tutto questo è stato reso possibile dal tradimento della classe politica che aveva in mano le sorti del Mezzogiorno. La borghesia terriera del Sud accettò lo sfruttamento perpetrato dal protezionismo industriale del Nord per avere, in cambio, qualche posticino nel branco delle maggioranze governative, il possesso indisturbato della terra e la continuità dell'oscurantismo. «In omaggio alla verità, nostra sola padrona, aggiungeremo che, al banchetto protezionista, se pur prendendo solo le briciole, parteciparono alcune aristocrazie operaie del Nord portate dalla dinamica di classe a realizzare migliori salari, anche se ottenuti con una maggiorata soffocazione economica delle popolazioni rurali del Sud. […] La Questione Meridionale è tutta la questione italiana. Se la piaga della degradazione non si chiude, la cancrena che potrebbe seguirne non minaccerebbe solo la distruzione della parte malata ma l'intero organismo nazionale. (Leonida Rèpaci) “Per cause molteplici (unione di debiti, vendita dei beni pubblici, privilegi a società commerciali, emissioni di rendita) la ricchezza del Mezzogiorno, che potea essere il nucleo della sua trasformazione economica, è trasmigrata subito al Nord. Le imposte gravi e la concentrazione delle spese dello Stato fuori dell'Italia meridionale, hanno continuato l'opera di male”. (Francesco Saverio Nitti)


“Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C'è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl'intimi legami che corrono tra il benessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale”. (Giustino Fortunato) Ho lottato anch'io contro l'idea fissa che esisteva nel mio Paese: che l'Italia fosse condannata a essere povera per mancanza di materie prime e di fonti energetiche. Queste fonti energetiche le ho individuate e le ho messe in valore e ne ho tratto delle materie prime. Ma, prima di far tutto questo, ho dovuto fare anch'io della decolonizzazione perché molti settori dell'economia italiana erano colonizzati, anzi, direi, che la stessa Italia meridionale era stata colonizzata dal Nord d'Italia! Il fatto coloniale non è solo politico: è anche, e soprattutto, economico. Esiste una condizione coloniale quando manca un minimo d'infrastruttura industriale per la trasformazione delle materie prime”. (Enrico Mattei) “I meridionali hanno spesso qualità dissociali o antisociali: poco spirito di unione e di solidarietà, tendenza a ingrandire le cose o addirittura a celarle, per amore di falsa grandezza; per poco spirito di verità. [...] Manca lo spirito del lavoro nelle classi medie; manca la educazione industriale. Si sopporta che l'amministrazione e la politica siano spesso nelle mani di persone indegne, pure di averne piccoli vantaggi individuali. [...] Manca spesso la buona fede commerciale; manca più spesso ancora l'interesse di ogni cosa pubblica”. (Francesco Saverio Nitti) “Salerno è diversa da Napoli, nell'apparenza e nello spirito. Qui veramente cadono molti luoghi comuni sull'Italia meridionale. L'aspetto è infatti quasi settentrionale, e la pulizia quasi svizzera. I discorsi sono secchi, brevi, propri di persone attive. [...] Coloro che conoscono la vita salernitana nell'intimo mi dicono ch'essa è un miscuglio, tipico dell'Italia meridionale in questa fase di passaggio, e nei luoghi di punta, di usanze ancora patriarcali e di modernismi talvolta anche strani ed eccessivi. [...] Osservando bene Salerno, si ha dunque l'impressione di un centro abbastanza tipico della fase di trasformazione dell'Italia meridionale. L'industrializzazione e il benessere sono in progresso, anche se le antiche passività gravino ancora fortemente”. (Guido Piovene) “Scordatevi la possibilità di avere nel Sud partiti puliti e lustri se la realtà meridionale, per tante parti, resta quella che è. Anche se una certa, diffusa mentalità legalistico-formalistica porta tanti a non comprenderlo, una nuova «regola», quale che essa sia, per esempio in materia di composizione delle liste, se cade in un ambiente con essa incompatibile, verrà necessariamente aggirata o stravolta. Passata l'emergenza, tutto ricomincerà più o meno come prima”. (Angelo Panebianco) “Ricordo che un giorno, a Teano, mentre con un italiano si stava contemplando il superbo panorama, feci qualche osservazione sul fatto che tutte le rovine romane


sono situate nelle fertili piane della valle, mentre i castelli medioevali sono appollaiati sulle nude colline. – Già, – commentò il mio compagno, – all'età delle aquile era successa quella degli avvoltoi –. Era un'ottima sintesi; e dello stato di anarchia e di violenza seguito alla caduta di Roma imperiale il rifugio per il bestiame nella valle del Sabato era un'eloquente testimonianza”. (Leonard Woolley) “L'Italia meridionale entrò disgraziatamente a far parte del nuovo Regno in condizioni assai diverse da quelle che il Nitti lascia credere. Essa viveva di una economia primitiva, in cui quasi non esisteva la divisione del lavoro, e gli scambi erano ridotti al minimo: si lavorava più spesso per il proprio sostentamento, anziché per produrre valori di scambio e procurarsi, con la vendita di prodotti, quello di cui si aveva bisogno”. (Giustino Fortunato) “L'Italia meridionale ha poca ricchezza e poca educazione industriale: pure lo Stato quando ha speso per essa, ha speso più per mantenere il parassitismo, che per combatterlo. Invece è l'educazione industriale che bisogna formare”. (Francesco Saverio Nitti) “Nei climi meridionali sotto un cielo come questo di Napoli che invita così potentemente alla pigrizia ed a quel dolce far niente di che ci han fatto una colpa gli stranieri, il vagabondaggio è così esteso che noi disperiamo che possa il governo giungere ad estirparlo del tutto in un paese come il nostro dove si vive così a buon mercato. Dove con dieci centesimi di maccheroni, dove con cinque centesimi di pane ed altrettanti di frutte un uomo ha messo a poco a poco il suo pranzo, non sappiamo come si possa sentire la suprema necessità e l'obbligo del lavoro”. (Francesco Mastriani) “Questa è la negazione di Dio eretta a sistema di governo”. (William Ewart Gladstone, riferendosi ai Borbone di Napoli) “Per secoli Napoli, capitale del regno, è stata una metropoli che lo stato borbonico riusciva a governare solo grazie alla camorra”. (Giorgio Bocca) “Nessun uomo ha colpe o meriti per dove nasce, ma solo colpe o meriti per come vive”. (Lino Lavorgna) APPROCCIO METODOLOGICO Diciamolo subito e a chiare lettere: non è ancora giunto il momento per affrontare le tematiche del Mezzogiorno d’Italia con formule che possano assumere una reale connotazione storiografica, essendo viva, vegeta e in costante evoluzione (o involuzione) quella che per comoda convenzione chiamiamo “questione meridionale”. È senz’altro un paradosso, visto che sono trascorsi quasi 160 anni da quando Franceschiello salutò Napoli per trasferirsi a Parigi, dove visse modestamente essendogli stati confiscati tutti i beni dal Governo italiano. Di paradossi, tuttavia, è piena la storia del mondo e di sicuro abbondano in quella italiana. Non si contano i saggi importanti, gli scritti minori e i reportage giornalistici dedicati all’Italia del Sud con lo scopo di svelarne gli aspetti più reconditi, a volte con marcata supponenza escatologica, senza per altro mai riuscire a inquadrare il fenomeno in una dimensione che esulasse dalla


partigianeria. I pensieri sopra riportati, seppure espressione di una piccolissima parte delle tante voci contraddittorie che si sono contrapposte nel corso dei decenni, sono comunque eloquenti e lasciano ben trasparire come le varie tesi risultino fortemente condizionate dal ruolo ricoperto, rifuggendo gli autori da qualsivoglia presupposto di obiettività. Non ho la presunzione, con questo articolo, di compiere alcun consistente passo in avanti, cosa comunque impossibile in un contesto giornalistico, e l’unico scopo che mi prefiggo è offrire una diversa chiave di lettura rispetto a quella più sfruttata, protesa a portare alla ribalta solo le luci “o” le ombre degli uni e degli altri e non, come sarebbe giusto, le luci “e” le ombre. Va da sé che il tutto è esposto con la necessaria sintesi imposta dallo spazio a disposizione e pertanto “le pennellate larghe” su fatti che meriterebbero, ciascuno per proprio conto, una lunga disamina, sono da considerare esclusivamente delle linee guida a disposizione di chi abbia la voglia di personali approfondimenti, tenendo ben presente, allorquando ci si dovesse immergere nell’intricata matassa, l’insegnamento di colui che quelle ancora più complicate ha districato con sorprendente maestria: “Gli uomini hanno, come gli alberi, il loro lato esposto al vento e, come le montagne, la loro parete Sud. Dobbiamo solo cercare l'accesso ai pendii dei loro vigneti, alle miniere dei loro tesori. Allora daranno l'oro e il vino là dove nessuno se l'aspettava. Gli uomini sono testi geroglifici, tanti però incontrano il loro Champollion. Diventeranno leggibili, diventeranno avvincenti, se la chiave sarà accordata con amore” (1). La metodologia utilizzata, scherzosamente denominata “corsie autostradali”, è quella che ho sviluppato gradualmente, nel corso degli anni, per lenire i mal di testa che scaturivano da letture poco chiare o palesemente fagocitanti. Immaginiamo tante corsie autostradali parallele, in ciascuna delle quali “viaggino” solo le problematiche afferenti a una singola categoria, qui trattate - ripeto – sinteticamente. Il risultato finale scaturisce dall’intreccio di tutte queste corsie e dalla miscelazione delle varie problematiche. L’articolo, pertanto, può solo configurarsi come una sorta di “introduzione” a un lavoro più composito e complesso, da sviluppare con la mente scevra di pregiudizi e odio recondito, che non portano da nessuna parte e servono solo a dare una visione distorta della realtà. UN PO’ DI STORIA Trascrivo un brano dell’articolo pubblicato nel numero 69 di “CONFINI” (novembre 2018) dedicato alla voglia di riscatto del Paese. “Nel Mezzogiorno d’Italia si pagano ancora oggi gli effetti nefasti di cinque colonialismi: quello Bizantino, che lo depredò di ogni possibile risorsa, non promosse alcuna attività, represse quelle floride già in essere e lasciò quel lascito genetico “levantino”, sulle cui caratteristiche è inutile soffermarsi perché già il termine le ingloba tutte; quello Angioino, non meno terribile del precedente; quello Aragonese e quello Spagnolo, che somma tutti gli elementi nefasti dei precedenti, amplificandoli (malcostume, malapolitica, gestione improvvida del potere, inefficienza, inettitudine, propensione truffaldina e criminale: in sintesi


tutte quelle peculiarità che sono ancora ben radicate in larghi strati sociali del Sud); gli Arabi, dal canto loro, è pur vero che hanno lasciato tracce tangibili della loro presenza sotto il profilo culturale, scientifico e sociale, ma si esagera in tali riconoscimenti, specialmente quando si scrive, per esempio, che “tenevano molto alle buone maniere e il comportamento a tavola era ineccepibile: mangiavano a piccoli bocconi, masticavano bene, non mangiavano aglio e cipolla, non si leccavano le dita e non usavano gli stuzzicadenti. Il gentiluomo musulmano si lavava ogni giorno, si profumava con acqua di rose, si depilava le ascelle e si truccava gli occhi. Per la strada ogni tanto si fermava davanti ai numerosi portatori di specchi per controllare e accomodare la propria acconciatura. Si vestiva con eleganza e non indossava pantaloni rattoppati”. Non si capisce, infatti, perché siffatti gentiluomini si dedicassero “anche”, con immenso piacere, a continue scorribande nei territori occupati e in quelli limitrofi, per trucidare gli abitanti d’interi villaggi e rapire le donne che, dopo l’inevitabile stupro, erano costrette a soggiacere ai loro piaceri in compagnia delle altre concubine. […] Ostrogoti, Longobardi, Normanni, Svevi, viceversa, sono stati protagonisti di quello sviluppo economico e sociale, del quale fu beneficiario non solo il Mezzogiorno ma l’intero Paese. Il confronto tra buono e cattivo sangue, tuttavia, nel corso dei secoli ha visto via via affermarsi, in modo preponderante, i soggetti più biechi e negativi”. Questa sintesi basterebbe, da sola, a spiegare tante cose del passato e a fungere da monito per quelle future. Cosa molto difficile, però, fin quando non si avrà il coraggio di cancellare con un colpo di spugna il tanto di marcio che emerge in scritti considerati pietre miliari della storiografia (tipo “La storia del reame di Napoli” di Benedetto Croce e di quasi tutti gli esegeti del Risorgimento, per esempio) e “bonificare” opere senz’altro pregevoli, ma condizionate da presupposti apologetici di segno opposto (le opere di Giacinto de Sivo e di molti saggisti filoborbonici). Un discorso a parte meriterebbero Vincenzo Cuoco (la voce critica della rivoluzione) e Pietro Colletta (il “general somaro”, come icasticamente fu definito dal visionario e sanguigno Principe di Canosa (2), figura meno nota del panorama intellettuale meridionale, la cui anacronistica concezione della vita pubblica gli procurò non pochi guai, offuscando le pur valide intuizioni che erano sfuggite a storici più affermati, in particolare quelle relative alla forte incidenza delle sette oscure nel determinare il corso degli eventi). Le opere di Cuoco e Colletta, seppure condizionate dalle vicende personali, sono importantissime per assimilare quelle sfumature che consentono di meglio contestualizzare le vicende narrate, purché affrontate con solide basi cognitive, necessarie per separare il grano da una consistente parte di loglio. PRIMA CORSIA: INFLUENZE STRANIERE Uno dei principali errori che condiziona l’analisi storiografica del Mezzogiorno d’Italia è la scarsa attenzione tributata alla massiccia influenza delle potenze europee. Sviluppando, tra l’altro in modo caotico, le tematiche e le azioni che


vedono come protagonisti esclusivamente i nostri connazionali, si perde di vista un elemento di fondamentale importanza, se non il principale, dal momento che Francia, Inghilterra e Austria, intervenendo incisivamente nei fatti di casa nostra avevano un unico scopo: difendere i propri interessi. Nel Congresso di Utrecht del 1713 l’Inghilterra impose che ai Savoia fosse concesso il possesso della Sicilia, poi scambiato con quello della Sardegna, per rafforzare uno stato in grado di fronteggiare l’eventuale espansione della Francia in Italia. Contestualmente flirtava con gli Asburgo, favorendone l’espansione in Italia, per ostacolare i Borbone, che governavano in Spagna e Francia. La guerra dei sette anni, dal 1756 al 1763, che anticipò concetti importanti quali “guerra mondiale” (di fatto fu la prima vera guerra mondiale) e “politica dei giri di valzer”, (espressione coniata dal cancelliere Bülow nel 1902, quando l’Italia, sotto la spinta delle agitazioni irredentistiche, iniziò a danzare al di fuori della Triplice Alleanza, in cerca di garanzie che né Austria né Germania potevano assicurarle) grazie allo spregiudicato rovesciamento delle alleanze, non vide direttamente coinvolta l’Italia ma i suoi effetti si fecero sentire lo stesso perché l’Inghilterra, dopo averle suonate alla Spagna a Cuba, per contrastare il riavvicinamento franco-austriaco, le promise aiuto nel riprendere il possesso delle province italiane passate all’Austria, in cambio di un’alleanza strategica. Le guerre napoleoniche determinarono altre ingerenze inglesi, che sostennero contestualmente l’Austria e i Borbone di Napoli, avendo bisogno dei porti meridionali per la sua flotta. “L’amore” filoborbonico, però, cessò subito dopo la caduta di Napoleone, trovando gli inglesi più consoni ai propri interessi l’ingrandimento del Piemonte in chiave anti francese e il consolidamento dell’Austria in Italia. I francesi, a loro volta, non sparsero lacrime amare per l’ingrandimento del Piemonte, che assorbendo la repubblica di Genova aveva tolto un importante punto di appoggio per l’esercito: pragmaticamente considerarono che il Regno di Sardegna potenziato sarebbe stato un formidabile baluardo contro le mire espansionistiche dell’Austria verso le Alpi Occidentali. In buona sostanza, dopo il Congresso di Vienna, in Italia le potenze straniere ballavano secondo i reciproci interessi: Francia e Austria si fronteggiavano aspramente per dominarla; l’Inghilterra, in chiave anti-francese, sosteneva l’Austria, aiutandola a reprimere sia i moti rivoluzionari che scoppiarono nel 1821 a Palermo, a Napoli, in Piemonte, sia quelli del 1831 nei Ducati e nello Stato Pontificio, che videro gli insorti italiani restare con un palmo di naso quando si resero conto che l’iniziale entusiasmo scaturito dalle promesse di aiuto profferite da Napoleone Luigi Bonaparte e da suo fratello Carlo Luigi, il futuro Napoleone III, non ebbero partica attuazione per volontà del re Luigi Filippo, che dimostrò sempre una chiara vocazione conservatrice e quindi ostile a ogni possibile alterazione dello spirito monarchico. SECONDA CORSIA: STATI E STATERELLI DEL CENTRO-NORD


Al di là dei patetici e vergognosi tentativi esperiti da molti storici per conferire alla storia italiana pre-unitaria una “dignità riformatrice” in linea con le evoluzioni che si registravano in tutta Europa, la realtà è ben diversa. Inerzia, baruffe locali, dispotismi di cinici signorotti arricchiti, beghe da bottega e soprattutto la marcata insensibilità degli agiati nei confronti di chi versava in condizioni miserrime, costituivano la regola e non l’eccezione. Nella repubblica di Venezia il clero si oppose fortemente alle riforme scolastiche e al potenziamento delle università, ritenendo che un popolo ignorante fosse più facile da gestire. Le quarantadue famiglie che detenevano il potere difesero con ogni mezzo i propri privilegi e repressero ferocemente i tentativi di restituire al “Maggior Consiglio”, ossia all’intero corpo aristocratico, quell’autorità che aveva gradualmente perduto. Per quanto concerne lo Stato sabaudo, anche i mistificatori più abili hanno difficoltà a reperire elementi che consentano di trasformare il forte spirito di conservazione in un sia pur labile presupposto d’innovazione, soprattutto per il periodo17301796, che vide alternarsi sul trono Carlo Emanuele III e Vittorio Amedeo III. Carlo Emanuele, soprattutto, deve la sua fama esclusivamente all’inganno con il quale attirò nel regno Pietro Giannone, per poi arrestarlo e imprigionarlo (3). Nella repubblica di Genova il più importante elemento “riformatore” fu rappresentato dal divieto dei testamenti a favore della Chiesa. Anche sullo Stato Pontificio non val la pena sprecare troppo spazio, se non per ribadire i problemi legati a un’azione governativa lenta, contraddittoria, lacunosa, fonte d’immani problemi per i meno abbienti e i contadini, costretti alla fame dalla pervicace volontà di ostacolare ogni cambiamento, ivi compresi quelli più agognati: revisione dei dazi interni, liberalizzazione del commercio dei grani, nuove tariffe doganali, bonifica delle paludi pontine. Alla luce di una realtà tanto nefasta, che condizionava la vita di milioni di persone, gli storici hanno avuto facile gioco nell’esaltare i modesti risultati innovatori che si ebbero nei ducati di Modena e Parma, soprattutto in chiave di limitazione dell’ingerenza ecclesiastica, che di certo non migliorarono più di tanto la qualità della vita. Qualcosa di più consistente, almeno nei propositi, avvenne nel Granducato di Toscana, in campo sociale, amministrativo e giuridico. I contadini, in particolare, beneficiarono della riforma agraria favorita da Pietro Leopoldo, che consisteva nel “dare la terra a chi lavora” grazie alle “allivellazioni”, ossia la concessione dei terreni in affitto perpetuo, con possibilità di riscatto, sottraendoli al patrimonio fondiario pubblico e privato, al clero. I buoni propositi, però, e gli effettivi benefici che da essi scaturirono, durarono molto poco. I funzionari incaricati delle cessioni erano legati (o per meglio dire: asserviti) ai ceti benestanti interessati ad approfittare della riforma per impossessarsi delle terre. Traffici illeciti e canoni annuali non sempre alla portata dei braccianti e dei mezzadri favorirono una tipica speculazione all’italiana, consentendo un ulteriore arricchimento degli aristocratici e dei borghesi, che s’impossessarono della maggior parte delle terre messe all’asta. TERZA CORSIA: IL REGNO DELLE DUE SICILIE


Per amor di sintesi glissiamo sull’esposizione di concetti arcinoti, soprattutto ai colti lettori di “CONFINI”, connessi alla inconfutabile “superiorità” del Regno sul resto d’Italia, in ogni campo (politico, amministrativo, giuridico, sociale, artistico, culturale…) soffermandoci precipuamente sulle cause che, nonostante le condizioni favorevoli, ne determinarono l’implosione. Qui è sufficiente ricordare che Carlo di Borbone trovò una società profondamente lacerata, vessata da quasi due secoli di dominazione spagnola caratterizzati dal mal governo, dallo sfruttamento, da continue tensioni sociali e dalla protervia dei baroni che del malgoverno si resero complici. Le profonde trasformazioni sociali avviate da Carlo III consentirono un graduale e consistente miglioramento della qualità della vita. Il ministro Tanucci, un toscano di grande ingegno che assunse la carica di ministro della Giustizia e degli Esteri, cesellò la volontà riformatrice di Carlo III, attaccando drasticamente le prerogative feudali, nel rispetto del principio: “Un re, un popolo e niun potere intermedio”. Il presupposto, sia pure con alterne fortune, fu perpetuato anche dai successori di Carlo III ed essendo impossibile (oltre che inutile, come anticipato) esporre compiutamente le vicende del regno fino alla sua caduta, soffermiamoci su di esso inquadrandolo in un’ottica che lo vede come principale elemento non solo della “ripresa” ma anche della successiva “crisi”. Per avere delle risposte occorre porsi delle domande ed esse devono essere “chiare e dure”. Come è stato possibile che un pugno di garibaldini, mal armati, riuscisse ad avere la meglio su uno degli eserciti più forti d’Europa? Perché i siciliani prima e i napoletani dopo acclamarono Garibaldi? Perché una imponente flotta, che avrebbe potuto da sola cambiare le sorti dell’invasione, non intervenne in modo adeguato nella difesa del regno? Perché nove milioni di sudditi, che avevano acclamato e sostenuto la dinastia in ogni circostanza, mandando alla forca i rivoluzionari giacobini (4) che si esposero al rischio mortale proprio per migliorare le condizioni di vita del popolo, voltarono le spalle votandosi anima e corpo ai nuovi dominatori, salvo poi pentirsene quando si resero conto dell’arduo prezzo da pagare? Senza dilungarci in una complessa disamina e mantenendo, quindi, il presupposto “introduttivo” dell’articolo, basti dire che il pensiero del Tanucci (nessun potere intermedio), se poteva considerarsi valido nella società del XVIII secolo, appariva oltremodo anacronistico nel XIX, dal momento che le nuove classi sociali spingevano per una più consistente condivisione dei poteri. Re Bomba (Ferdinando II) proprio non volle accettare l’idea che i tempi fossero cambiati e lo scrisse chiaramente a suo cugino Luigi Filippo, re di Francia, replicando all’invito di considerare il particolare momento di transizione e a “cedere qualcosa per non vedersi strappare tutto”. La mancanza di lungimiranza e la cecità nel capire il proprio tempo traspaiono evidenti nella risposta: “La Libertà è fatale alla famiglia dei Borboni […] il mio popolo obbedisce alla forza e si curva… il mio popolo non ha bisogno di pensare: m’incarico io del suo benessere e della sua dignità. Noi non siamo di questo secolo. I Borboni sono vecchi, e se volessero calcarsi sul modello delle dinastie nuove, sarebbero ridicoli. Noi faremo come gli Asburgo. Ci tradisca pure la fortuna, ma non ci tradiremo da noi”. Per il resto fanno aggio la natura umana e il retaggio ancestrale di quella parte di popolo che non


ha scrupoli nel vendersi al migliore offerente. Molto altro vi sarebbe da dire, ovviamente, ma di più non si può. AUTONOMIA E RISCATTO Autonomia è una bella parola, ma affinché possa avere senso compiuto deve necessariamente essere accompagnata da un altro termine. Se balla da sola, non significa nulla. Abbiamo, pertanto, l’autonomia giuridica, economica, patrimoniale, politica e finanche un’autonomia etica, che secondo la visione di Rousseau coincide con la libertà, perché si è veramente liberi soltanto quando si obbedisce alle leggi che ci si è dati, seguendo la ragione e rifuggendo dalla schiavitù delle passioni. Estendendo il concetto nella sfera politica, il pensatore ginevrino teorizza una democrazia nella quale il popolo sia sovrano e suddito: sovrano perché prende parte, direttamente e collettivamente, alla stesura delle leggi; suddito perché a esse, poi, obbedisce. Il concetto di autonomia, quindi, sublima quello di libertà e mette in discussione il sistema rappresentativo, che prevede la distinzione tra governanti e governati. Quando i governati non obbediscono alla propria volontà ma solo a quella dei deputati, non sono più liberi, non sono più autonomi. Kant li definirà “eteronimi”, ossia soggetti che ricevono le leggi da altri soggetti. “L’autonomia della volontà – scrive Kant nella Critica della ragion pratica - è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei corrispondenti doveri; al contrario, ogni eteronomia del libero arbitrio, non solo non fonda alcun obbligo, ma è invece contraria al principio dell’obbligo e alla moralità della volontà”. La moralità consiste nella capacità della volontà, che è libera, di seguire la legge dettata dalla ragione (intesa come facoltà dell’incondizionato, dell’assoluto), sottraendosi ai condizionamenti della legge naturale (la sfera sensibile, con i suoi impulsi, i suoi interessi, le sue passioni) o a quelli di una legge di tipo superiore ma esterna (la legge divina). Nel primo caso la volontà sarebbe mossa dalla ricerca di un vantaggio, nel secondo dal timore di una pena: in entrambe le circostanze sarebbe dunque eteronoma e non autonoma. Ma l’azione è morale soltanto quando, lottando contro l’inclinazione al proprio vantaggio, obbedisce a quella legge universale che la ragione indica a ciascuno in modo assoluto e perentorio e che ogni uomo, nel suo intimo, conosce da sempre. Ne consegue che una vera autonomia, in senso lato, presuppone una straordinaria capacità da parte di chi ne fosse beneficiario: concepire la felicità degli altri (il bene comune) come valore primario. Scrive ancora Kant: “Si raggiunge proprio l’opposto del principio della moralità se si assume quale motivo determinante della volontà il principio della propria felicità”. Usciamo dalla speculazione filosofica, che a questo punto richiederebbe anche l’esposizione delle “più alte tesi” nicciane, che destrutturano in toto la morale kantiana, affondando esse le radici nella vera natura umana, e fermiamoci alla comoda visione che più agevolmente consente di spiegare le dinamiche dell’uomo comune, soprattutto di quello inserito nell’attuale contesto epocale. Per farla breve: non è possibile una vera autonomia, in qualsivoglia contesto, senza una marcata propensione a non approfittare di essa per i propri vantaggi


personali. Le regioni a statuto ordinario, come noto, già previste dalla Costituzione, ebbero pratica attuazione solo dal 1970. I risultati del decentramento sono sotto gli occhi di tutti e non vi è alcun bisogno di ribadirli. A prescindere dalla distinzione tra regioni virtuose e non, che pure ha la sua importanza, in tutte le regioni si sono registrate quelle distonie tipiche della “malapolitica” che hanno determinato l’illecito arricchimento di politici e maneggioni. La sanità è stata distrutta e il fenomeno di depauperamento ha visto “primeggiare” le regioni del Sud. Non vi è spazio per una cronologia degli sprechi e delle infiltrazioni malavitose e pertanto citiamo esclusivamente il paradosso siciliano, con i suoi trentamila forestali, per un territorio di poco meno di 26mila chilometri quadrati, a fronte dei 4200 presenti in Canada, che di chilometri quadrati ne conta quasi dieci milioni. L’agognata maggiore autonomia, ovunque concessa, non farebbe altro che peggiorare le già disastrose condizioni del popolo italiano. Limitandoci a una mera riforma dello Stato, la strada da seguire è quella di “un sano federalismo” che riduca la possibilità di depredarne le casse, propensione diffusa e difficile da sradicare. Cinque macroregioni, rette da un “governatore” democraticamente eletto, possono rappresentare l’ossatura di uno stato federale, che preveda anche l’elezione diretta del Presidente, con funzioni di Capo dell’Esecutivo. L’abolizione del Senato e delle amministrazioni provinciali consentirebbe risparmio economico e contribuirebbe a ridurre il numero di parassiti che vivono di “politica”. Per una più efficace saldatura delle realtà locali con le macro regioni di appartenenza e il potere centrale, il ruolo e l’importanza delle amministrazioni comunali dovrebbe crescere sensibilmente. Un radicale riassetto federale dei comuni, pertanto, sarebbe una logica conseguenza della succitata riforma. Non avrebbero più senso i piccoli comuni, spesso espressione di una classe politica d’infima qualità, quando non asservita parzialmente o in toto alle organizzazioni criminali, e si dovrebbe creare un accorpamento che preveda comuni con una popolazione non inferiore ai 15-20mila abitanti. Ciò consentirebbe una naturale elevazione della qualità della classica politica, che raggiungerebbe livelli ancora più marcati se si riuscisse ad abolire l’abominio delle liste civiche e fosse consentita la competizione ai soli partiti presenti nel parlamento nazionale. Con la succitata riforma potremmo davvero “iniziare a respirare”, conferendo al paese, e quindi anche al Sud, gli strumenti per una radicale ripresa in tutti i campi. In quanto al “riscatto del Sud”, di cui tanti parlano, è bene ricordare che i guai e le sciagure sono dipesi e dipendono esclusivamente da chi nel Sud ha vissuto e vive e pertanto è molto più opportuno parlare di un nuovo processo educativo, che consenta di conquistare, con fatti concreti, rispetto e credibilità. Ma è inutile farci illusioni: il processo è lungo e laborioso e non basterà una pur valida riforma amministrativa dello Stato a favorirlo. Sic est, che ci piaccia o no. NOTE 1) Ernst Jünger - La capanna nella vigna. Gli anni dell'occupazione, 1945-1948. Guanda Editore, 2009.


2) Per Canosa i veri sovversivi non erano coloro che agivano allo scoperto, sostenitori in buona fede delle proprie idee, ma coloro che agivano nell’ombra, magari con ruoli importanti nelle corti reali e nel governo, pronti a tramare e a tradire per tornaconto personale e capaci di restare sempre a galla, a differenza di chi, professando apertamente le proprie idee, ne paga il prezzo quando esse contrastino con chi conquisti il potere. 3) Pietro Giannone, nella sua opera “Istoria Civile del Regno d’Italia” (1723), affrontò il problema del temporalismo pontificio, considerato anche causa primaria del degrado civile del Regno di Napoli sotto il dominio austriaco. L’opera gli costò l’ostracismo della Chiesa e fu costretto a trasferirsi a Vienna, per chiedere protezione alla corte asburgica. La sua opera ottenne vasta eco in tutta Europa ma ogni suo tentativo di ritornare a Napoli fu ostacolato dalla Chiesa e quindi soggiornò a lungo in molte città, prima di cadere vittima della trappola tesagli dal marchese d’Ormea, Gran Cancelliere dello Stato sabaudo, con la complicità di un doganiere che si guadagnò la simpatia di Giovanni, figlio del Giannone, quando i due abitavano a Ginevra. Il doganiere li invitò ad assistere alla messa della domenica delle Palme nella chiesa di Vésenaz, piccolo centro savoiardo sulla linea di confine, di fronte a Ginevra, offrendosi di ospitarli nella sua casa. Accettato l’invito, nella notte del 24 marzo 1736 i due furono arrestati e condotti a Chambéry, per poi esseri trasferiti nella fortezza di Miolans. 4) Gli eventi connessi alla Repubblica Napoletana del compiutamente trattati in un prossimo numero di CONFINI.

1799

saranno



EUROPA NAZIONE COME ANTIDOTO ALLA GLOBALIZZAZIONE PROLOGO In ogni epoca l'umanità si è messa, autonomamente e inconsapevolmente, una spada di Damocle sulla testa che, di volta in volta, ha assunto termini diversi. Molte spade si sono dissolte gradualmente e altre, invece, hanno resistito alla mutevolezza dei tempi, sommandosi a quelle successive. Attualmente l'umanità soggiace alla minaccia di vecchie e arrugginite spade e a quella più recente e più pericolosa, la globalizzazione, correndo seri rischi per il suo futuro. La globalizzazione va distinta dalla tirannide praticata da pochi uomini sulle masse, essendo di essa una variabile indipendente, anche se, per naturale flusso osmotico, ne rappresenta un valido e graditissimo alleato. Il rigurgito del sovranismo è la risposta istintiva che la società contemporanea contrappone ai disastri provocati dalla globalizzazione. Come ogni risposta che risenta dei condizionamenti contingenti, però, anche il sovranismo presenta delle ombre e la confusione che scaturisce da questo confronto-scontro è sotto gli occhi di tutti, evocando l'esempio del gatto che si morde la coda: popoli sempre più disorientati, confusi e incapaci di comprendere le complesse dinamiche di un mondo in rapidissima trasformazione, non riescono a scegliere una classe politica qualificata (anche a causa di una scarsa offerta, preferendo, gli uomini di alta qualità, tenersi lontano dalle squallide arene politiche) e si tirano costantemente la zappa sui piedi; una classe politica accomunata da un unico elemento sostanziale, la mediocrità, che sempre genera una malsana gestione del potere, corre dietro agli umori degli elettori immaturi, non avendo né il coraggio né la capacità di guardare lontano. Il problema è planetario e l'unica prospettiva risolutrice sarebbe un'Europa unita che fungesse da “faro del mondo”, secondo i principi più volte enunciati in questo magazine (1). Con siffatti presupposti, però, tale prospettiva perde gradualmente consistenza, alimentando la deriva di miliardi di persone, che sempre più assomigliano a naufraghi su barche senza timonieri. L'ESSENZA DEL FENOMENO “L'americanizzazione del mondo, l'omogeneità dei modi di produzione e di consumazione, il regno della merce, l'estensione del mercato planetario, l'erosione sistematica delle culture sotto l'effetto della mondializzazione mettono in pericolo l'identità dei popoli molto di più dell'immigrazione". (Alain de Benoist) “Noi non siamo in una società contemporaneamente multietnica e Benoist)

"multiculturale", ma in una società tristemente monoculturale”. (Alain de

“La globalizzazione è una procedura che permette ai potenti di sfruttare i deboli”. (Alejandro Llano - filosofo, docente presso l'università di Pamplona, fratello del più famoso filosofo Carlos Llano Cifuentes (1932-2010)


“La globalizzazione è stata per il capitalismo una tappa decisiva sulla strada della scomparsa di ogni limite. Infatti permette di investire e disinvestire dove si vuole e quando si vuole, in spregio degli uomini e della biosfera”. (Serge Latouche, economista e filosofo francese) “Il cosiddetto mercato globale, in senso stretto, non è affatto un mercato, bensì una rete di macchine programmate secondo un singolo valore - quello di far soldi al solo scopo di far soldi - a esclusione di ogni altro possibile valore”. (Fritjof Capra, fisico e saggista austriaco) “Apparentemente, la dignità della vita umana non era prevista nel piano della globalizzazione”. (Ernesto Sábato, - 1911-2011 - scrittore, filosofo e fisico argentino-italiano) “In realtà, la globalizzazione è un altro nome con il quale si esercita il ruolo dominante degli Stati Uniti”. (La frase è vecchia e questo concetto è ora molto meno valido, ma val comunque la pena di renderlo edotto) (Henry Kissinger) “La corsa dei popoli verso il brutto rappresenta il principale fenomeno della mondializzazione. Per rendersene conto basta girare in una città cinese, osservare i nuovi codici di decorazione delle Poste francesi o il modo in cui si vestono i turisti. Il cattivo gusto è il denominatore comune dell'umanità”. (Sylvain Tesson, scrittore, viaggiatore e "stégophile" (arrampicatore di tetti) francese) “Il futuro del sistema lavorativo è più incerto che mai a causa della meccanicizzazione del lavoro tramite i computer e della globalizzazione sempre maggiore”. (Robert James Shiller, economista statunitense, premio Nobel 2013) “Per noi ricchi la globalizzazione è qualcosa di buono per via di internet, il cellulare, il computer. Peccato che ciò non riguardi circa il 75% della popolazione mondiale”. (Jimmy Carter.) (Frase datata: ora sarebbe il caso di sostituire "circa" con "oltre") “La globalizzazione e l'individualismo postmoderno favoriscono uno stile di vita che rende molto più difficile lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone e non è favorevole per promuovere una cultura della famiglia”. (Papa Francesco) “Se la globalizzazione significa - come accade spesso - che i ricchi e i potenti hanno ora nuovi mezzi per arricchirsi ulteriormente e potenziarsi sulle spalle dei più poveri e più deboli, abbiamo la responsabilità di protestare in nome della libertà universale”. (Nelson Mandela) “La globalizzazione dell'economia è un nuovo genere di colonialismo delle imprese”. (Vandana Shiva, ambientalista con dottorato in filosofia, indiana). “È finita l'epoca dei grandi imperi politico-ideologici americano e sovietico, agglomerati di nazioni unificate dall'organizzazione politico-amministrativa e militare di una nazione egemone. Con la globalizzazione formalmente tutte le


nazioni sono uguali, siano esse ricche come gli Usa o povere come il Guatemala. Ma è una visione errata, perché al posto degli imperi politicoideologici si sono consolidate alcune nazioni che sono da sole delle superpotenze: gli Usa, la Russia, la Cina, l'India. Sono comunità politiche cementate dalla storia, spesso da una lingua comune, sempre da una lunga tradizione culturale. Sono queste potenti nazioni le nuove protagoniste della geopolitica. Esse sole sono in condizione di sottrarsi ai poteri sovranazionali economici o comunicazionali ed hanno strumenti per imporre dazi, fare negoziati e dare regole valide per tutti. L'Europa invece non è diventata una nazione, e per questo sono nate in essa delle spinte centrifughe che vorrebbero dare il potere (sovranismo) alle decine di Stati nazionali che la compongono. Il risultato dell'impotenza europea è una vera e propria devastazione del sistema produttivo e dell'alta cultura umanistica e scientifica tipica del nostro continente. Se vogliamo sopravvivere, non farci frantumare ed impoverire, dobbiamo avere il coraggio di trasformare l'intera Europa in una superpotenza nazionale allo stesso livello di Usa, Russia, Cina, India. La strada maestra è di creare uno Stato federale con pochi poteri ben definiti come gli Usa o la Svizzera. Possiamo farlo utilizzando in modo nuovo gli organi comunitari esistenti: il Parlamento potenziato, il Senato (rappresentato dal Consiglio d'Europa riformato con l'eliminazione dell'unanimità). L'esecutivo, rappresentato dalla Commissione. E una corte federale, lasciando ad ogni nazione il diritto di conservare i propri costumi, le proprie tradizioni, le proprie specificità etiche o gastronomiche. Questo Stato-nazione dovrà difendere ad ogni costo e potenziare al massimo le nostre risorse economiche, culturali e scientifiche. Cioè quello che, negli ultimi secoli, ci ha dato un vantaggio sul resto del mondo”. (Francesco Alberoni - "Il Giornale" - 11 agosto 2019) LE FAVOLETTE INGIALLITE La prima iniziai a raccontarla sin dai tempi delle medie, a trascriverla nei temi scolastici, con il tipico entusiasmo che scaturisce dall'ingenuità di ogni ragazzino che vuole cambiare il mondo e dalla gioia di vedersi riconosciuta, un po' da tutti, quella marcia in più che faceva la differenza. La favoletta consisteva nell'esporre concetti universalisti, sia pure in modo raffazzonato, con l'ausilio di una metafora che mi sembrava molto suggestiva: per spiegare la stupidità dell'umanità in perenne conflitto, mostravo una foto della Via Lattea e il suo diametro in cifre, che ovviamente nessuno era in grado di citare correttamente: 2.590.206.873.600.000 km. Aggiungevo, poi, che solo al suo interno vi fossero oltre duecento miliardi di stelle (in realtà sono quasi il doppio, ma quelli erano i dati di cui disponevo allora) e oltre i suoi confini si estendevano miliardi di altre galassie, ancora più grandi e così lontane che, per quantificarne la distanza dalla Terra, sarebbero occorse cifre di oltre cento numeri, o addirittura mille! (Facevano molto più effetto degli anni luce). Cosa era il nostro pianeta, dunque, al cospetto di cotanto spazio infinito? Un puntino minuscolo, impercettibile su qualsiasi mappa cartacea che contemplasse anche solo una piccola parte della galassia. Da qui, poi, nasceva l'invito a tenere sempre bene a mente queste proporzioni, che


avrebbero dovuto indurre chiunque a riconsiderare i propositi di “chiusura”, ad accettare l'idea che la Terra è davvero troppo piccola affinché alimenti divisioni e conflitti e nessuno ha colpe o meriti per dove nasce ma solo colpe o meriti per come vive. Questo mantra l'ho portato avanti per molti anni (troppi, dice qualcuno) e solo la maturità, gli studi e l'esperienza di vita mi hanno consentito di comprenderne l'assoluta inconsistenza, fonte di non poco sconforto, solo in parte mitigato dall'assonanza del mio ingenuo idealismo al nobilissimo pensiero di Confucio, caparbiamente difeso contro chiunque gli facesse notare i limiti della natura umana (2). La seconda favoletta, una lingua comune europea, scaturì come logica conseguenza della prima. Non poteva che essere l'inglese, ovviamente, già agevolmente affermatasi da lungo tempo, per forza intrinseca, come lingua comune a livello planetario. Peccato che la volontà di imporre l'inglese come lingua universale fosse nata nelle dorate stanze dei poteri forti, quelli che muovono le fila del cosiddetto “mercato globale”, con ben altri propositi: schiavizzare i popoli, rendendoli sudditi dell'imperialismo anglo-americano, grazie all'illusoria percezione di una democrazia che, di fatto, altro non è se non la peggiore delle dittature proprio perché rende schiavi miliardi di persone, dando loro la sensazione di essere liberi. La (di)visione del mondo, tracciata da Ernst Jünger nel celebre saggio “Il nodo di Gordio”, chiude incontrovertibilmente ogni discorso universalista. Il grande pensatore tedesco, con una breve frase, sbrandella qualsivoglia riferimento alla piccolezza della Terra comparata all'universo infinito, mia favoletta compresa, inquadrandola nella sua dimensione cosmogonica secondo la reale percezione della stragrande maggioranza degli esseri umani, per i quali sembra (e quindi "è") immensa, o addirittura smisurata (3): “La grandezza di Alessandro, la luce che essa riverbera su tutte le corone occidentali, consiste nel fatto che egli seppe affrontare i grandi spazi più ancora che il gran re. Il suo ritorno dall'India è un miracolo più grande della distruzione di Babilonia”. Oggi non serve avere la lucidità intellettuale di Jünger per comprendere “la lontananza” che separa i popoli e, soprattutto, l'Occidente dall'Oriente, grazie alla facile evidenza delle reciproche intolleranze e alla recrudescenza del terrorismo, soprattutto nell'ultimo quarto di secolo, purtroppo spesso alimentato dall'incapacità di molti governi dell'Occidente nel relazionarsi adeguatamente con i paesi islamici (4). È cronaca quotidiana, inoltre, la difficoltà oggettiva di una reale integrazione di chi, proveniente da paesi minati da un forte integralismo religioso e culturale, ripudia le regole di vita della società occidentale, creando disarmonie sociali e conflitti, a volte estremi, anche in ambito familiare (5). L'europeismo sano, pertanto, che nulla ha a che vedere con l'Europa dei mercanti, per sua natura “globalista”, si rivelò il rifugio ideale per accogliere quella weltanschauung miseramente naufragata sotto i nefasti colpi della realtà. Non che fossero rose e fiori, ovviamente, come più volte scritto, perché ciò che accade su scala planetaria si riflette, proporzionalmente, in qualsiasi ambito territoriale. È ben chiaro, tuttavia, che parlare di Stati Uniti d'Europa ha molta più consistenza pratica, nonostante le mille difficoltà, che non perseguire l'illusione di un mondo realmente affratellato.


EFFETTI DELLA GLOBALIZZAZIONE. L'economia ha sempre condizionato la politica; prima del 2000, tuttavia, almeno dialetticamente, era possibile supportare il primato della politica senza correre il rischio di essere considerati dei visionari. Dal 2007, con l'inizio della grande recessione innescata dalla bolla immobiliare statunitense, anche per i bambini dell'asilo è chiaro che è il dio denaro a regolare le leggi del mondo. Quanto il sentir parlare sempre e solo di soldi, PIL e mercato, possa essere nefasto e frustrante per i giovani è di facile comprensione per chiunque abbia dedicato la propria gioventù, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, a quei fremiti ideali che ponevano al primo posto, sulla scala dei valori, quelli esistenziali. Proprio in omaggio a quel presupposto che considero ancora valido, senza alcun timore di passare per visionario, voglio iniziare questo paragrafo, ovviamente dedicato all'economia, con una citazione di un uomo vissuto duemila anni fa, Publilio Siro, tradotto a Roma come schiavo e poi divenuto un colto e raffinato liberto, che ritengo molto valida per sintetizzare “uno” degli effetti più deleteri della globalizzazione: "Lucrum sine damno alterius fieri non potest". "Uno", ma non il principale, perché, sempre per rafforzare il concetto della necessità di ribaltare il rapporto tra politica ed economia, il danno più grave prodotto dalla globalizzazione è l'aver creato un individuo senza identità, praticando un vero e proprio genocidio culturale con la progressiva distruzione delle radici dei popoli, spacciandola per una democrazia dell'uguaglianza che invece è solo il suo opposto. I fautori della globalizzazione parlano spesso, con linguaggio astruso e accattivante allo stesso tempo, degli effetti benefici scaturiti dall'aumento della ricchezza che, in effetti, è aumentata, ma solo per due categorie di persone: quelle con un reddito medio e i super ricchi. Le altre categorie, in netta maggioranza, già in difficoltà, sono precipitate verso la soglia della povertà o l'hanno abbondantemente superata. Oggi l'1% della popolazione mondiale (non più di 70milioni di persone) detiene una ricchezza pari a quella del restante 99%. Ventisei super miliardari possiedono una ricchezza analoga a quella di circa quattro miliardi di persone. È facile immaginare che le diseguaglianze si registrino precipuamente nei paesi del cosiddetto terzo mondo o in via di sviluppo, ma anche all'interno del nostro beneamato Occidente gli effetti della globalizzazione sono disastrosi. Negli USA il 20% della popolazione (65.862.353) possiede il 33,5% della ricchezza; il restante 66,5%, quindi, riguarda ben 263.449.411 cittadini! In Italia la distribuzione della ricchezza nazionale netta, il cui ammontare è pari a 8.760.000.000 euro (dati 2018), è così ripartita: il 20% più ricco della popolazione ne detiene il 72%; un altro 20% meno ricco il 15,6%; il restante 60% 6della popolazione (36.000.000), quindi, si deve accontentare del 12,4% di ricchezza nazionale!(6) Le cause della marcata diseguaglianza sono note: delocalizzazione delle aziende verso paesi che consentono lo sfruttamento dei lavoratori e incentivano gli imprenditori con regimi fiscali convenienti, non scevri di compromessi eticamente discutibili; la disoccupazione interna che da ciò scaturisce, con ulteriore riduzione del costo del lavoro; la colpevole complicità di una classe politica succube dell'imprenditoria, che chiude gli occhi sulla forte


evasione, sullo sfruttamento marcato, sia dei lavoratori italiani sia di quelli stranieri, trattati come schiavi (sui sindacati stendiamo un velo pietoso perché la loro conclamata inadeguatezza precede lo scoppio della crisi e gli effetti nefasti della globalizzazione); la massimizzazione degli utili d'impresa, che determina retribuzioni pazzesche per i top manager e un mercato “corrotto”, alimentato anche dall'incapacità dei consumatori ad autotutelarsi (7). A conclusione di questo paragrafo è doveroso, sia pure in modo estremamente sintetico, spendere due parole sul “sistema” alla base di tutti i mali sociali e principale ispiratore della globalizzazione: il liberalismo, con tutti i suoi derivati. Non esiste forma più bassa di libertà di quella offerta dai cosiddetti liberali, le cui dinamiche di pensiero possono senz'altro definirsi criminali. Ricordiamo tutti il Berlusconi che legiferava sul falso in bilancio, asserendo che esso non costituiva reato. Per i liberali la libertà coincide con il poter fare tutto ciò che si vuole, senza porsi limiti. Con l'impegno di dedicare all'argomento più ampio spazio in altra occasione, qui mi limito a citare il recente saggio di Alain de Benoist, “Contre le liberalisme”, Edition du Roche, che rappresenta la summa della pur corposa pubblicistica che affronta in modo serio e non strumentale il grande bluff degli ultimi due secoli (8). COME USCIRE DAL TUNNEL Di sicuro è più facile scalare il K2. Le ricette sono tante, periodicamente esposte nei frequenti forum economici mondiali, che si trasformano, però, in allegre scampagnate per i potenti della Terra, visti i risultati. Senza politiche serie, anche di natura repressiva, sperare che un imprenditore riduca gli utili aziendali, a vantaggio di una più equa retribuzione dei lavoratori, soltanto grazie agli inviti etici, fa solo ridere. Lo stesso dicasi per l'evasione fiscale, che non viene combattuta per una chiara volontà politica, come spiegato dall'insigne magistrato Francesco Greco nella recente festa del “Fatto Quotidiano”, alla Versiliana: “Nelle banche dati abbiamo tutti i conti correnti degli italiani, anche quelli esteri in oltre 100 Paesi, inclusi i paradisi fiscali. In Svizzera vi sono 200miliardi di euro nelle cassette di sicurezza, di italiani evasori, che si possono recuperare, ma è la politica che non vuole agire perché gli evasori votano e condizionano chi ci governa”. Un altro aspetto nefasto da correggere è il forte gap tra il prezzo giusto dei prodotti e quello reale, che quasi sempre presenta un surplus ingiustificato (vedi nota nr. 7). Recuperare soldi dalle multinazionali consentirebbe di aumentare la spesa pubblica per i servizi sociali primari: sanità, istruzione, sicurezza, a tutto vantaggio delle fasce più deboli (9). Ciò che più serve, tuttavia, è un radicale cambiamento della mentalità di tutti: il liberalismo si alimenta dell'ignoranza, il che significa, e diciamo sempre le stesse cose, che siamo noi i primi responsabili delle nostre sventure. Lino Lavorgna NOTE 1) "Confini" Nr. 38, 52, 56, 71, 74


2) A chi gli spiegava che la natura umana è lussuriosa, avida, incline alla guerra e pertanto con i riti (l'organizzazione sociale, amministrativa e politica da lui concepita, per certi versi assimilabile a qualsivoglia progetto che preveda una divisione netta tra bene e male e non tenga conto dei troppi limiti degli esseri umani ) non è possibile governare, replicava seraficamente che i riti, benèfici per lo Stato e gli individui, sono la vera arte di governo; senza di essi si precipita nel caos; ogni gentiluomo ha l'arduo compito di rispettarli e indurre gli altri ad agire allo stesso modo, imponendosi sempre una perfetta moralità perché solo chi dall'inizio segue la retta via non potrà perdersi. 3) Al di là di quanto ben traspare dalla cronaca quotidiana, penso che chiunque sia stato più volte testimone di qualche evento che conclami questo assunto. Per qualche anno ho abitato in un piccolo comune della provincia di Caserta e il medico di famiglia, scelto su indicazione di amici locali, era da lungo tempo un importante punto di riferimento per la comunità. Quando si rese necessario sostituirlo, al suo posto giunse un collega che abitava nel comune limitrofo, ma a poche decine di metri dallo studio, costituendo i due paesi un unico aggrovigliato tessuto urbano. Le case di molti pazienti, invece, potevano distare anche due-tre chilometri. Nondimeno, per tutti, il nuovo medico fu subito definito "il forestiero". 4) Si veda l'articolo "Venti di guerra", pubblicato nel numero 40 di "CONFINI" (gennaio 2016) nel quale vengono illustrate le responsabilità degli USA per la nascita dell'ISIS. 5) La vicenda di Sana Cheema è solo la più recente di una lunga sequela di analoghi episodi assurti alla ribalta della cronaca in tutta Europa e di tanti altri che, purtroppo, restano occultati all'interno delle mura domestiche. La venticinquenne, pakistana, residente a Brescia, è stata sgozzata lo scorso anno dal padre e dal fratello perché si era innamorata di un ragazzo italiano e aveva intenzione di sposarlo. Il suo omicidio ricorda quello della connazionale Hina Saleem, ventenne, assassinata nel 2006 sempre nel bresciano, perché aveva un fidanzato italiano e vestiva troppo all'occidentale. Il padre, lo zio e due cugini furono accusati di aver sgozzato la giovane e averla seppellita in giardino con la testa rivolta verso la Mecca. Il cinema offre molte testimonianze, anche pregevoli, dedicate ai problemi d'integrazione, tra le quali, cito a memoria, limitandomi alla sola Europa: “Cosa dirà la gente” della regista norvegese-iraniana Iram Haq, ispirato a una vicenda personale; “Almanya - La mia famiglia va in Germania”, di Yasemin Samdereli; “East is East”. È davvero smisurata, invece, la lista dei film di analogo sentore prodotti negli USA, che inglobano anche il razzismo tout-court, rappresentato in tutte le sue squallide salse, ivi compreso, però, quello, non meno insopportabile, degli stupidi stereotipi statunitensi sul resto del mondo e sull'Europa in particolare.


6) I dati riportati sono quelli ufficiali - fonte “Il sole 24 Ore”. Ancorché molto gravi, però, le cifre non riflettono la realtà, che è ben peggiore, come traspare da analisi “non ufficiali”, ma molto più veritiere. 7) Si veda a tal proposito il paragrafo “educazione ai consumi” nell'articolo “Crescere o decrescere”, nr. 72 di “CONFINI”, 3/ 2019. 8) Attualmente disponibile solo in francese. 9) Ciascuno di questi settori meriterebbe un articolo, per metterne in luce le tante distonie, essendo tutti allo sfascio. Nel mese che vede la riapertura delle scuole è opportuno citare lo scandalo dei libri testo, che cambiano ogni anno grazie alla legge voluta dal “neoliberista” Monti, per la gioia degli editori che, grazie al gradito regalo montiano, incassano oltre 600milioni di euro ogni anno, ossia il 20% dell'intero fatturato dell'editoria, facendo piangere, con il cinismo tipico di chi guarda il mondo comodamente assiso su montagne di denaro, alunni e genitori. Un aggiornamento editoriale ogni cinque-sei anni, e soprattutto l'abolizione dei tanti testi inutili, sarebbe quanto mai opportuno.


ITALICHE VERGOGNE: BADOGLIO E ROATTA

Su “RAI STORIA” è andato recentemente in onda un vecchio documentario, “La resa dei conti”, dedicato all’epurazione dei fascisti dalle cariche pubbliche, dopo la nascita del governo Badoglio, e al continuismo, inteso come volontà di ridurre al minimo indispensabile il processo di epurazione. Il documentario, ancorché estremamente sintetico, nel rispetto di conclamati canoni televisivi (da condannare: sarebbe sempre interessante vedere quanti più reperti possibili, per meglio penetrare nel “mood” di un’epoca, e non delle sintesi che si limitino alla mera esposizione dei fatti salienti), è equilibrato e ben strutturato. Gli autori forniscono un quadro veritiero degli eventi oggetto dell’inchiesta, senza omettere gli orrori che caratterizzarono i presupposti di vendetta, anche da Ferruccio Parri definiti “macelleria messicana”. Alcuni errori nella narrazione, pertanto, risentono della difficoltà oggettiva nel reperire notizie vere e certificate, obnubilate dalla diffusa volontà mistificatoria, che raggiunge picchi elevati quando si affrontino le tematiche legate alle due guerre mondiali. Il primo dato da correggere è quanto emerge dall’intervista ad Andreotti, il quale, riferendosi a Badoglio, asserisce che è difficile considerarlo un “antifascista”, in virtù degli alti incarichi ricoperti durante il ventennio. Ciò è palesemente falso, come facilmente evincibile da una biografia che lascia pochi dubbi sulla reale essenza dell’uomo, caratterizzata da un cinico opportunismo che lo accompagna sin dagli anni giovanili. La pubblicistica che lo riguarda, oramai, è infinita e ben chiara. Più complessa è la vicenda del generale Mario Roatta, che nel documentario viene liquidata con il solo riferimento alla fuga dall’ospedale militare, il 4 marzo 1945, spiegata con “l’impunibilità dei grossi papaveri, che creava forte indignazione”, senza alcun cenno agli intrecci che la favorirono. In quest’articolo, limitato alla trattazione dei succitati personaggi, inevitabilmente si dovrà fare riferimento, sia pure “en passant”, a una delle pagine più buie della storia italiana: quella relativa all’armistizio, alla fuga del re e di buona parte del vertice militare, alla mancata difesa di Roma nel settembre 1943. Pagine di storia falsate sia dalle memorie dei protagonisti, che assolvono se stessi, sia da storici compiacenti, attenti precipuamente a diffondere verità di comodo, mille miglia lontane dalla realtà. PIETRO BADOGLIO Saltiamo a piè pari quanto scritto nel saggio sulla Grande Guerra, pubblicato a puntate su “CONFINI” da gennaio a novembre 2018, con riferimenti che già evidenziano significativi aspetti negativi del personaggio, e soffermiamoci sul ventennio mussoliniano. Alla vigilia della marcia su Roma fu consultato dal re per avere consigli su come gestire una situazione evidentemente ritenuta molto pericolosa. Replicò asserendo che i dimostranti non costituivano alcuna minaccia, che erano un branco di esaltati e che sarebbero stati dispersi in


pochissimo tempo. All’epoca era a disposizione dell’esercito per compiti ispettivi, avendo lasciato il ruolo di capo di stato maggiore nel febbraio 1921, e si offrì di assumere il comando delle operazioni di polizia per sedare i tumulti. Non li ottenne perché il re temeva le reazioni della piazza e l’inevitabile spargimento di sangue che ne sarebbe conseguito. Dalla sua condotta, quindi, traspaiono chiaramente sia l’incapacità nel valutare le dinamiche sociali sia l’avversione al fascismo. Quest’ultimo elemento viene suggellato dalla successiva decisione di rifugiarsi in Brasile con il ruolo di ambasciatore, per evitare contaminazioni troppo marcate con il regime, nella malcelata speranza che cadesse in tempi brevi. Quando si rese conto di essersi fatti male i conti, sfruttò il rapporto privilegiato con la monarchia per ottenere la nomina a capo di stato maggiore generale della Difesa e riprendersi anche il vecchio ruolo al vertice dell’esercito. Incominciò a leccare il sedere di Mussolini e ben presto gli si spalancarono le porte di un potere sempre più marcato: Maresciallo d’Italia, governatore unico della Tripolitania e Cirenaica, comandante del corpo di spedizione in Etiopia, viceré d’Etiopia, presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Sulla condotta infame durante le tragiche giornate pre e post armistizio oramai non vi sono più dubbi, essendo state smontate tutte le mistificazioni prodotte durante i lavori della commissione d’inchiesta presieduta dal senatore Mario Palermo (1). Una caratteristica comune a tanti politici infami è l’ingordigia nell’appropriarsi di pubblico denaro e Badoglio non sfugge certo alla regola. Le testimonianze in tal senso sono corpose e ben documentate. Qui basta riportare quanto asserito dall’ex governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Azzolini, durante il processo a lui intentato nel novembre 1944: “Al 25 luglio 1943, presso la sede centrale della Banca d’Italia, la segreteria particolare del duce era intestataria di conti per un totale 24.337.805,75 lire. Dopo il 25 luglio Badoglio dispose che i conti correnti destinati alle opere di pubblica utilità e alla beneficenza fossero unificati e intestati a lui”. Non perse tempo nel prosciugarli: tra il 30 luglio e l’otto settembre incassò ben 14.432.000 lire (circa 5milioni di euro attuali), convertendone una cospicua fetta in franchi svizzeri, per sopperire all’inevitabile svalutazione monetaria che si sarebbe verificata al termine della guerra. Nell’agosto 1943 ordinò l’assassinio di Ettore Muti, che conosceva troppi segreti “scomodi” sulle trattative con gli angloamericani. Il termine “badogliano”, del resto, coniato per definire una persona squallida e propensa a tradire cinicamente, riassume da solo il tanto che sì può leggere in molte pregevoli opere e che qui viene omesso per amor di sintesi.

MARIO ROATTA


Il generale modenese, che già dall’agosto 1943, e quindi ben prima dell’armistizio, ebbe il compito di difendere Roma da un eventuale attacco tedesco, ha un curriculum non dissimile da quello di tanti altri alti ufficiali dell’esercito italiano, arricchito dalle tre medaglie d’argento risalenti alla Grande Guerra. Collezionare medaglie è sempre stato un impegno primario dei militari d’alto rango e, durante il ventennio, anche di molti gerarchi (2). Nominato capo di stato maggiore dell’esercito nel marzo 1941, mantenne la carica fino al gennaio 1942, quando ottenne il comando delle truppe in Jugoslavia, dove si distinse per una ferocia nella repressione dei civili che lasciò di sasso gli stessi nazisti. Nel giugno 1943 riprese la guida dello stato maggiore dell’esercito e conservò la carica anche dopo il crollo del regime. Fu lui a firmare la famosa circolare nr. 44, emanata su disposizione del capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio e sulla quale aleggia tanta “letteratura”, non essendo reperibile alcuna copia. La circolare, diramata a tutti i comandi italiani il 2 settembre, con l’ordine di distruggerla dopo averla letta, conteneva le istruzioni per “reagire ad eventuali atti aggressivi del nemico”, senza specificare, però, a quale “nemico” ci si riferisse. Da qui la confusione che scaturì dopo l’8 settembre, quando fu reso pubblico l’armistizio firmato segretamente il 3 settembre. Nonostante lo zelo nel tenere celato il contenuto della circolare, il generale Roberto Lerici, comandante del IX corpo d’armata, ne fa cenno in un dispaccio e pertanto è possibile svelarne gli elementi essenziali, da lui trascritti: 1) Sono prevedibili azioni delittuose dei comunisti in accordo coi fascisti (una nota in calce avvertiva: comunisti significa tedeschi); 2) Bisogna premunirsi; 3) Agire, solo se provocati: in seguito ad ordine dello S.M.R.E (stato maggiore regio esercito; n.d.r.) quando si riceva un telegramma o marconigramma così concepito: “Attuare misure ordine pubblico memoria 44” o di iniziativa se collegamenti interrotti; (attenzione a questo punto; n.d.r.) 4) Provvedimenti da prendersi: a) eliminare elementi aeronautici; b) distruggere depositi carburanti; c) tagliare collegamenti; metter fuori uso elementi isolati o sparsi. Meglio prevedere poche imprese ma organizzate bene. Se possibile assumere schieramenti adatti per impedire avanzata colonne comuniste. (Per comunisti s’intendono sempre i tedeschi; n.d.r.); 5) (si omette: riguarda un ordine da Lerici rivolto ai subalterni per la difesa di Taranto e Brindisi); 6) Assicurare i collegamenti; 7) Sempre armati e avere al seguito munizioni e dotazioni individuali. Si sa come è andata a finire: dopo l’8 settembre, i generali che avrebbero dovuto disporre l’attuazione del piano operativo indicato nella “memoria” pensarono bene di scappare con il re, lasciando l’esercito allo sbando. Il punto tre prevedeva di assumere “iniziative” in mancanza di ordini: molti ufficiali e soldati, in realtà, si organizzarono autonomamente per contrastare i tedeschi, immolando la loro vita; come noto, tuttavia, “l’iniziativa” che ebbe predominanza fu quella magistralmente rappresentata nel famoso film di Luigi Comencini: “Tutti a casa”.


Tutte le azioni di Roatta, comunque, possono essere definite deprecabili, alla pari – sia ben chiaro - di quelle dei suoi superiori e subalterni, che pensarono solo a mettersi in salvo, pur essendo in grado di contrastare agevolmente le truppe tedesche e impedire l’occupazione di Roma. Con vergognoso atteggiamento pavido, invece, nella notte tra l’otto e il nove settembre, Roatta ribadì a Badoglio, al principe ereditario e al generale Puntoni, aiutante di campo del re, quanto già dichiarato da Carboni il giorno prima, come meglio vedremo più avanti: Roma era “indifendibile” e il re e il governo si dovevano mettere in salvo. A queste dichiarazioni fece poi seguire l’ordine assurdo alla base dei disastri che si verificarono nei giorni successivi: lo spostamento a Tivoli del corpo d’armata motorizzato che avrebbe dovuto difendere la città, agli ordini del generale Carboni, altro “degno” rappresentante di quella nutrita categoria di mezze cartucce che si coprirono d’infamia (3). Per la cronaca di quelle ore tragiche e dei giorni che seguirono si fa riferimento alla bibliografia essenziale pubblicata in calce, che offre un quadro realistico dei fatti e delle persone, anche se è necessario bilanciare accuratamente le diverse esposizioni dei singoli eventi, in modo da decantarli dalle palesi contraddizioni. Ciò che qui va evidenziato, rispetto alle lacune del documentario e della storiografia, è come si sia resa possibile la fuga di un prigioniero così importante e quindi ben custodito. La vicenda, intricata e non adeguatamente elaborata, consente di avere un ulteriore elemento valutativo sia sul particolare clima che segnò il primo dopoguerra sia sugli uomini che ne furono protagonisti. Roatta, come noto, divenne il “capro espiatorio” per la mancata difesa di Roma, che lo vide sì responsabile, ma in buona compagnia di tutto il vertice politicomilitare. Destituito di ogni incarico il 12 novembre 1943, fu arrestato il 16 novembre 1944. Le accuse furono racchiuse in otto punti che presero in esame tutte le manchevolezze, di seguito riassunte: 1) Mancata analisi delle problematiche strategiche a fronte della sicura minaccia tedesca; 2) Completo abbandono delle truppe, che non sarebbero state in grado di resistere anche se fossero state avvertite per tempo di dare seguito alle disposizioni contenute nella Memoria 44; (l’ultimo dato è falso, perché le truppe italiane erano superiori per numero e armamenti; va considerato, inoltre, che gli alleati erano pronti a sostenerle con l’82a divisione paracadutisti subito dopo la lettura dell’armistizio – “Operazione Giant 2” – ma il valido supporto fu bloccato da Badoglio, “intontito dalle dichiarazioni disfattiste di Carboni, che considerava indifendibile Roma”; n.d.r.); 3) Pur essendo a conoscenza delle trattative con gli alleati, non si adoperò per far rientrare in Italia molte divisioni operanti oltre confine, che sarebbero state molto utili nel contrasto alle truppe tedesche; 4) Mancata proficua cooperazione con gli alleati e rifiuto di una divisione aviotrasportata, che sarebbe stata molto utile per la difesa di Roma, “dando prova di inqualificabile imprevidenza e trascuratezza”; (Come si evince nel punto due la verità è leggermente diversa: Roatta era senz’altro dello stesso avviso, ma il generale


Maxewell Taylor e il colonnello William Gardner, giunti segretamente a Roma il 7 settembre per concordare il piano “Giant 2”, restarono letteralmente sconvolti per il clima che trovarono nella capitale. Ad accoglierli non vi era nessuno delle “alte sfere” militari e furono portati a pranzo dal colonnello Salvi, che si preoccupò della “confortevole” sistemazione logistica, senza manifestare alcuna fretta e apprensione, riferendo che il giorno successivo si sarebbero incontrati con “i capi”. “Prego: un altro bicchiere di vino?” chiese sorridendo il colonnello. I due pensarono di trovarsi in una gabbia di matti e risposero in malo modo, asserendo che l’indomani sarebbe stato reso pubblico l’armistizio e pertanto avevano bisogno di parlare subito con Ambrosio, che si era allontanato da Roma proprio per non incontrarli. Finalmente alle undici di sera si riuscì a rintracciare Carboni, il quale scioccò gli americani asserendo che non si poteva fare nulla e che Roma era indifendibile. Ottenuto di parlare con Badoglio, i due si recarono nella sua abitazione per subire il terzo shock: Badoglio reiterò la richiesta di procrastinare la notizia dell’armistizio e gli statunitensi ritornarono a Tunisi con le mani nei capelli; n.d.r.); 5 e 6) Mancata organizzazione della difesa di Roma; 7) Spostamento improvvido delle truppe da Roma, esponendole all’impotenza e alla distruzione; 8) Saputo che doveva imbarcarsi, per destinazione lontana, e conoscendo che il generale Carboni, al quale aveva lasciato il comando di tutte le truppe di Roma, era irreperibile (bunga bunga con Mariella Lotti; vedi nota nr. 3) non sentì l’imperioso dovere di rimanere, per cercare di rimediare e provvedere, in quella tragica situazione, della quale era il principale responsabile, abbandonando le truppe combattenti al loro tragico destino. Tutto vero (o “quasi”, come abbiamo visto), precisando che lo stesso si deve dire di Badoglio, Ambrosio, il re e tutti gli altri generali e ufficiali che scapparono a gambe levate verso Pescara e Ortona, per trovare sicuro rifugio a Brindisi, grazie anche alla complicità di Kesserling, circa la quale oramai non vi sono più dubbi, al di là delle mistificazioni e menzogne sciorinate dagli interessati. Complicità che si spiega anche con “la dimenticanza” di Mussolini a Campo Imperatore, che fu di fatto “lasciato” ai tedeschi in cambio del via libera: il convoglio non poteva certo passare inosservato, senza contare che un aereo di ricognizione tedesco sorvolò più volte il cacciatorpediniere “Baionetta”, mentre trasportava i fuggiaschi a Brindisi. Su Roatta, però, gravava un’altra accusa formulata dall’Alto Commissariato per la punizione dei delitti fascisti: mandante dell’omicidio dei fratelli Rosselli, nel 1937, quando era a capo dei servizi segreti militari. Come se non bastasse, dalla Jugoslavia Tito ne chiese l’estradizione, accusandolo dei seguenti crimini: sterminio del popolo sloveno; fucilazione di mille ostaggi; uccisione proditoria di ottomila persone; incendio di tremila case; internamento di 35mila persone; distruzione di ottocento villaggi; morte per fame di 4.500 internati nel campo di concentramento di Arbe; mancato rispetto della Convenzione internazionale dell’Aja relativa ai prigionieri, ai feriti e agli ospedali;


fucilazione indiscriminata dei prigionieri; internamento e maltrattamento dei familiari, anche minorenni. Roatta capì subito che “aria tirava” e sfruttò istintivamente quello che in psicologia sarebbe stato inventato solo molti decenni dopo: “il pensiero laterale”, che consente di trovare una soluzione anche a problemi apparentemente irrisolvibili. Si stava difendendo bene dalle accuse sui fatti di Roma e avrebbe avuto facile gioco, al riguardo, rivelando tutto ciò che sapeva e che poteva documentare. Circa i fratelli Rosselli, ovviamente, gli era ben noto come fossero andate effettivamente le cose e anche in questo caso, quale che fosse stato il suo ruolo – molto probabilmente marginale – rivelando la verità o comunque “ben difendendosi”, vi erano concrete possibilità di cavarsela. Il rischio grosso era finire nelle mani di Tito, cosa che sembrava la più plausibile proprio per liberarsi di lui e impedire che rivelasse verità scomode per molti. Ed ecco, quindi, il colpo di genio: cessa di difendersi dalle accuse per la mancata difesa di Roma e si fa carico di tutte le responsabilità, fungendo, quindi, da volontario “capro espiatorio”. Governo, monarchia e alte sfere militari si salvano grazie a questo escamotage e la commissione d’inchiesta si chiude, sostanzialmente, con un nulla di fatto. In cambio di questo favore e dell’impegno a non rivelare la verità su ciò che realmente accadde tra l’8 e il 10 settembre ebbe l’assenso a scapparsene in Spagna, dove visse agiatamente fino al 1966. (Rientrato a Roma, si spense nel 1968). Fu così che, il 4 marzo 1945, alla vigilia del giorno previsto per il deposito delle conclusioni della commissione d’inchiesta, si trasformò in Houdini e sparì dall’ospedale Virgilio, dove era tenuto in stato di fermo. LE COLLINE DELLA VERGOGNA Molti decenni orsono, dialogando con Giorgio Almirante, gli esposi un progetto che fece sorridere di compiacimento tutti gli astanti: eravamo a cena dopo un’intensa giornata trascorsa a girare per molti comuni della provincia di Caserta, in piena campagna elettorale. Gli dissi che se un giorno avessimo conquistato il potere, sarebbe stato bello realizzare, nei pressi di Roma, due importanti attrazioni turistiche: “La collina della vergogna” e “La collina degli eroi”. Nella prima sarebbero state erette delle statue, da Tarquinio il Superbo ai giorni nostri, di tutte le carogne che si sono succedute nella storia d’Italia, con una descrizione delle loro malefatte. Di converso, nell’altra, sarebbero state erette le statue di tutti gli italiani di cui essere fieri. Progetto rimasto nell’ambito dei sogni, ovviamente, anche quando ritenni che sarebbe bastato un museo. Chissà, magari sarà possibile realizzare almeno un volume enciclopedico. Di sicuro le voci di Badoglio e Roatta, nella sezione “italiche vergogne”, assorbirebbero molte pagine.


NOTE 1) I verbali della commissione, per lungo tempo secretati, costituiscono uno dei falsi storici più colossali in quanto i responsabili della mancata difesa di Roma mentirono spudoratamente circa la propria condotta. Si salvaguardarono sia la casa reale sia le alte sfere dell’esercito, imputando ai soli generali Roatta e Carboni la responsabilità “militare” per la caduta di Roma, anche se solo formalmente, perché il processo si concluse con la loro assoluzione, seppellendo sotto una cortina di polvere “fatti e misfatti”. Emblematico, a tal proposito, un documento poco noto: la lettera che il senatore Palermo inviò il 5 marzo 1945 a Bonomi (presidente del Consiglio) e Casati (ministro della Guerra), resa pubblica solo il 26 settembre 1965, su iniziativa dell’autore, che la inviò al direttore dell’Unità. Il testo della lettera è reperibile integralmente nel volume “L’Italia tradita – 8 settembre 1943” di Ruggero Zangrandi – Edizioni Mursia, 2015 e da essa traspaiono chiaramente le responsabilità di Badoglio e degli altri dignitari civili e militari per i disastri che fecero seguito alla notizia dell’armistizio e la volontà mistificatoria nel celare la verità, sì da indurre il senatore Palermo a concludere che “oltre all’inchiesta sulla mancata difesa si Roma e alla punizione dei principali e diretti responsabili di essa, si impone la necessità di una più ampia inchiesta politica, allo scopo di mettere in luce le responsabilità generali e particolari per il modo col quale nel momento in cui una azione illuminata e disinteressata avrebbe potuto salvare il Paese, ne furono invece ancora una volta traditi i veri interessi e fu portata l’Italia alla catastrofe”. Al di là delle fonti documentali, è bene precisarlo, il testo di Zangrandi va letto “con cautela” e solo dopo aver ben decantato altrove i fatti narrati. Molte analisi, infatti, risentono della sua particolare visione storica degli eventi e non hanno alcun fondamento concreto, a cominciare dalla patetica difesa del generale Giacomo Carboni, ingiustamente assolto da ogni colpa per la mancata difesa di Roma. 2) Molto significativo, a tal proposito, quanto scrive Paolo Monelli nel saggio “Roma 1943”, Arnoldo Mondadori Editore, 1979: “Si assisteva alla ridda dei gerarchi e dei gerarchetti in partenza e di ritorno dal fronte come da una gita dove erano andati a procacciarsi l’inevitabile medaglia al valore ed i titoli per le cariche; anzi non una medaglia, ma parecchie, ché eran venuti di moda i “superdecorati”, ed il bronzino nessuno lo voleva. “Val più un quarto d’ora di fuoco che due anni di trincea”, si dicevano costoro; ed accadeva che l’occasione tardava un po’ troppo, e allora protestavano, come quella eccellenza in Africa Settentrionale: “Sbrigatevi a mandarmi in linea e a farmi la proposta per la medaglia, che debbo tornarmene in Italia dove ho da fare”.


3) Carboni fu l’autore, insieme con il generale Castellano (che firmò l’armistizio a Cassibile) del piano che condusse all’arresto di Mussolini dopo il colloquio con il re, il 25 luglio 1943. Messo da Badoglio a capo dei servizi segreti militari, entrò a far parte del “Consiglio della Corona”, presieduto dal re. Prima di partire per Tivoli pensò bene di svuotare la cassaforte dei cospicui fondi a sua disposizione e trovò anche il tempo, ad Arsoli – mentre a Roma si combatteva per le strade - di intrattenersi nell’appartamento occupato dalla bellissima attrice Mariella Lotti, impegnata nelle riprese del film “La freccia nel fianco”, di Alberto Lattuada, prodotto da Carlo Ponti. Ho letto molti riscontri contrastanti su questo episodio, ivi comprese le dichiarazioni dei diretti interessati. Carlo Ponti dichiarò che, dalle richieste ricevute (rifugiarsi nel famoso castello cittadino, di proprietà del principe Leone Massimo e della consorte Maria Adelaide di Savoia-Genova), ebbe chiaro il sentore che volesse nascondersi; Mariella Lotti dichiarò che Carboni e i suoi aiutanti gli apparvero disorientati, insicuri e stravolti e non mancò di esternare il suo disappunto con la seguente frase: “Non si vergogna, generale, di essere qui a casa mia invece che con i suoi soldati?” Cosa fosse accaduto effettivamente, durante il soggiorno nell’alloggio della diva, non lo sapremo mai. In tanti, a cominciare da Paolo Monelli (op. cit.), sia pure senza scriverlo esplicitamente, hanno lasciato trasparire che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, l’inetto generale abbia placato tensioni e mal di testa sul delizioso corpo della stupenda attrice, che non si sarebbe sottratta ad avance decisamente fuori luogo in un momento come quello. In mancanza di prove inconfutabili non mi permetto di propendere per alcuna versione. Non essendo un reato scommettere, tuttavia, qualora fosse disponibile il filmato di quelle ore e un bookmaker stabilisse delle quote prima di mostrarlo, in funzione delle idee maturate grazie alla lettura e al confronto di molti testi, sulla trombatina non esiterei a rischiare un centone. Bibliografia essenziale. RENZO DE FELICE - “Mussolini l’alleato” – I volume - Tomo primo (Dalla guerra breve alla guerra lunga); Tomo secondo (Crisi e agonia del regime); II volume: La guerra civile; Einaudi Editore, varie edizioni. PINO RAUTI - “Storia del fascismo” - VI volume – Centro Editoriale Nazionale, Roma – 1978; PAOLO MONELLI – “Roma 1943” – Arnoldo Mondadori Editore, 1945 e successive edizioni. ROBERTO ROGGERO – “Oneri e onori – Le verità militari e politiche della guerra di liberazione in Italia” – Grego & Greco Editori, 2006; RUGGERO ZANGRANDI – “L’Italia Tradita” – Mursia, 1971 – 2015 (Con ricca bibliografia generale). ROBERTO CIUNI – “L’Italia di Badoglio” – Rizzoli, 1993


AMEDEO TOSTI – “Pietro Badoglio” – Arnoldo Mondadori Editore, 1956 MARIO ROATTA – “Diario 6 settembre – 31 dicembre 1943” Mursia, 2017.



MISERIA E NOBILTA’ DEL SOVRANISMO “Ognuno deve rendersi conto che le diverse nazionalità hanno un futuro solo se si collocano in termini federali nell’ambito dell’Unione Europea. Senza Europa gli staterelli europei sono destinati a essere succubi di tutte le tendenze culturali, economiche e scientifiche che si determineranno nell’ambito dei sovranismi”. (Massimo Cacciari, Huffington Post, 7/9/2018). Il concetto espresso dal celebre intellettuale si configura come una grossolana sciocchezza: inquadra il sovranismo come fenomeno negativo e conferisce all’Unione Europea, a onta della sconvolgente realtà sotto gli occhi di tutti, quella dignità che evidentemente non ha mai meritato. La citazione, tuttavia, merita la ribalta proprio perché, stravolgendolo, consente di definire correttamente il fenomeno, partendo dalla questione terminologica, come sempre fondamentale. Oggi tutti si riempiono la bocca con il termine “sovranismo”, parlandone a favore o contro: ma quanti sono coloro che ne conoscono la genesi, i presupposti e le prospettive? Il mantra più diffuso è quello che vede nel sovranismo la ribellione degli stati nazionali contro lo strapotere dell’Europa dei mercanti, ossia dell’Europa osannata da Cacciari e dai fautori di quella globalizzazioneglebalizzazione i cui disastri sono stati magistralmente trattati nello scorso numero di “CONFINI”. La definizione può definirsi sostanzialmente corretta ma presenta due incongruenze: lascia trasparire il sovranismo come “rimedio” contro un male e la sua estensione concettuale, un po’ a causa di cattivi maestri con le idee confuse e un po’ a causa della pigrizia intellettuale che tende a banalizzare anche complesse problematiche, è più pericolosa del male che s’intende combattere, tendendo a generare un sentimento antieuropeista “tout-court”, che va ben oltre quello legittimamente tributato alle strutture comunitarie. Incominciamo con il precisare, pertanto, che il sovranismo ha una genesi autonoma, non subordinata a qualsivoglia distonia sociale, e rappresenta un elemento essenziale per la democrazia: non può esservi democrazia se non all’interno di uno stato sovrano, quale che sia la sua forma, nazionale o federale. Per quanto possa apparire banale, è appena il caso di ricordare che l’importanza della “sovranità”, nel nostro paese, è addirittura sancita dal primo articolo della costituzione. E’ pur vero che uno stato sovrano possa abiurare la democrazia, come più volte accaduto, ma quest’anomalia non può certo mettere in discussione il principio. Risulta paradossale e grottesco, pertanto, il tentativo delle classi dominanti di spaventare l’opinione pubblica paventando rigurgiti fascisti e la minaccia della pace qualora i movimenti sovranisti dovessero prevalere. Lo scopo, in effetti, è quello di imporre il loro “sovranismo”, che di democratico non ha nulla. L’Unione Europea ha chiesto agli stati nazionali di cedere una quota di sovranità in cambio di maggiore benessere, sicurezza e pace, ma nella realtà dei fatti la si è trasferita alla Banca Centrale Europea e alle lobby finanziarie, che decidono della vita e della morte dei singoli paesi secondo quanto loro faccia più comodo: l’esempio della Grecia è ancora “caldo”. Le guerre non sono certo mancate dalla caduta del muro di Berlino a oggi e ognuno è in grado di


percepire il proprio livello di (in)sicurezza. Balle colossali, quindi, facilmente smontabili. Ancora più paradossale è l’esempio degli Stati Uniti, globalisti all’esterno e ipersovranisti al loro interno. I nemici del “sovranismo”, di fatto, sono i fautori di un “sovranismo dittatoriale”, nefasto, che ribalta l’ossatura di una moderna democrazia: sono gli enti privati che possono intervenire nella gestione dello stato, infatti, e non viceversa, soprattutto in presenza di giochi sporchi, ossia sempre. In ossequio all’assioma “too big to fail” occorre addirittura turarsi il naso per salvare banchieri ladri o concessionari di servizi pubblici criminali, che aggiungono, in tal modo, alle ricchezze accumulate in modo fraudolento quelle ricavate dagli interventi pubblici. Premiati per le loro malefatte invece di essere sbattuti in galera. La distinzione tra sovranismo buono e sovranismo dittatoriale o globalismo che dir si voglia, non si esaurisce, purtroppo, in quanto sopra esposto perché le differenziazioni sono ancora più complesse. Tra i critici del globalismo, infatti, vi sono sovranisti che guardano con simpatia, qualcuno in buona fede e altri con fini subdoli, a una sorta di neo keynesianismo che dovrebbe tutelare le classi deboli e “gli ultimi” dalla cinica protervia delle “classi dominanti”. (Le parole - è bene ribadirlo fino alla nausea – sono importanti e pertanto non associamo mai il termine “élite”, come spesso accade, a concetti ed elementi negativi). Anche questa formula è pericolosa, come ben dimostrano gli anni del dopoguerra in Italia, che hanno visto i partiti al potere depredare lo stato con ogni mezzo proprio grazie a formule di governo non tanto dissimili. Dove andare a sbattere, quindi? Di sicuro, rebus sic standibus, andremo a sbattere contro un muro perché mancano le basi per un reale cambio di rotta. Oggi si naviga a vista, con limitatezza di vedute, senza adeguata preparazione e senza lungimiranza. Con questi presupposti i poteri forti hanno e avranno ancora facile gioco nel continuare a suonare impunemente la grancassa. Sono destinati a perdersi nel vento, pertanto, i suggerimenti che dovrebbero caratterizzare l’impegno comune di tutti i governanti europei: superamento “totale” dell’attuale Unione e realizzazione degli Stati Uniti d’Europa, che diventerebbero uno stato “federale e sovrano”, munito di poteri tali da risultare inattaccabile sia dalle altre potenze del pianeta sia dai poteri forti e malati, che oggi spadroneggiano grazie al controllo delle strutture comunitarie. Uno stato federale in grado di cancellare il concetto mostruoso di “competitività” tra paesi che rispettano i diritti civili e paesi che sfruttano i lavoratori, producendo a costi irrisori e mettendo in difficoltà i primi. Uno stato federale che, magari, in economia, rispolverasse i princìpi di un sano corporativismo, in modo da ridurre il surplus di utile per le aziende a beneficio dei dipendenti, coinvolgendoli nella ripartizione e creando i presupposti non solo per una società più giusta ma anche più salda: il maggiore equilibrio economico farebbe bene a tutti perché crescerebbero i consumi e si ridurrebbe lo “stress da povertà”, fonte di malattie e gravi disagi. Fantasie senza speranza di pratica attuazione? Ovviamente! Ma non stanchiamoci mai di riproporle, perché le altre strade saranno anche meno fantasiose, ma conducono tutte nello stesso posto: il baratro.


MAMMA, LI TURCHI! GLI ANTEFATTI Nel marzo 2011 inizia la guerra civile in Siria, dopo l’arresto dei ragazzi che avevano invocato la caduta del regime con scritte sui muri. La guerra diventa ben presto uno scontro tra potenze, in un intreccio di non facile decantazione. Iran, Russia, Iraq, Cina sono i principali alleati di Bashar al-Assad, meglio noto come “il macellaio di Damasco”, di religione alawita, una branca dello sciismo che, pur essendo un ramo minoritario dell’Islam (anche in Siria, in massima parte sunnita), rappresenta la maggioranza della popolazione in Iran e Iraq. Le forze ribelli dell’Esercito siriano libero possono contare sul sostegno di Arabia Saudita, Turchia, Qatar, Stati Uniti, Israele, Francia, Giordania, formazioni Jihadiste sunnite, Governo regionale del Kurdistan iracheno, formazioni del popolo curdo (Partito democratico curdo, Unione patriottica del Kurdistan e Partito dei lavoratori del Kurdistan). La faccenda si complica con l’entrata in gioco dell’ISIS, nemico tanto dei ribelli siriani e rispettivi alleati quanto di Bashar al-Assad, ritenuto un ostacolo alla realizzazione del Califfato Islamico. All’interno del conflitto, pertanto, si apre un secondo fronte contro l’ISIS, in Siria e in Iraq, guidato principalmente da USA, Francia e Regno Unito. Altri stati europei, tra cui l’Italia, partecipano con forze inviate come “supporto”. Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein, Qatar e Turchia intervengono solo nel territorio siriano. I terroristi di Al Qaida, dal loro canto, generando non poco imbarazzo, si uniscono al fronte anti Bashar. Ufficialmente, ma senza che nessuno vi presti credito, viene negato l’aiuto dell’Arabia Saudita e degli altri paesi sunniti all’organizzazione terroristica, che implica l’indiretto aiuto anche degli Stati Uniti, nonostante l’attentato alle torri gemelle del 2001, al quale vanno aggiunti quelli del 1993, sempre al World Trade Center, che causò sei morti e un migliaio di feriti; 1996: base di Khobar in Arabia Saudita, 19 morti e 386 feriti; 1998: Nairobi (Kenia) e dar es Salam (Tanzania), 224 morti, tra i quali 12 statunitensi e migliaia di feriti; 2000: Yemen, diciassette marines trucidati; 2003: Arabia Saudita, 35 morti, tra cui 9 statunitensi, in un triplo attentato contro un residence a Riad; 2008: Yemen, autobomba contro l’ambasciata USA che provocò sedici vittime, compresi i sei kamikaze. (La lista è ancora più lunga, dal 2004, se si sommano gli attentati che non hanno avuto vittime statunitensi). Dopo nove anni la Siria è un campo di macerie. La guerra è costata (e sta costando, perché non è ancora finita) centinaia di migliaia di morti e una diaspora di oltre quattro milioni di persone. Bashar al-Assad, dopo aver rischiato molto nel 2013 e nel 2015, è ancora saldamente alla guida del paese e continua a combattere le ultime roccaforti dei ribelli utilizzando anche armi chimiche. Putin gli ha dato una grossa mano, conquistando una posizione centrale e dominante nello scacchiere mediorientale, alla pari dell’Iran, che spera di gestire il business della ricostruzione. Con la sconfitta dell’ISIS, gli USA ritengono non più indispensabile l’alleanza con le forze curde che, seppure determinanti nella lotta ai fondamentalisti islamici,


sono in guerra con la Turchia, alleato degli USA e terzo esercito più importante della NATO. I curdi controllano il Nord-est della Siria, dove sognano di realizzare uno stato autonomo, sul modello del Kurdistan iracheno. Erdogan, però, non ha mai cessato di aspirare al progetto della “grande Turchia”, che si estende su Siria e Iraq, proprio nella zona oggi occupata dai curdi, dove vuole trasferire buona parte dei circa quattro milioni di profughi siriani che ospita nei propri campi, grazie ai sei miliardi di euro ricevuti dall’Unione Europea. L’occupazione del “Rojava” (Kurdistan siriano), però, prevede la cacciata dei curdi o, per meglio dire, il loro sterminio. Il 9 ottobre, secondo consolidate modalità che conferiscono ad azioni criminali presupposti umanitari, la Turchia dà inizio all’operazione “Primavera di Pace”, favorita dal disimpegno USA, che nei giorni precedenti aveva ritirato le proprie truppe proprio per lasciare spazio all’intervento militare di Ankara. I FATTI Su Trump è inutile sprecare tempo e spazio. Di lui abbiamo parlato diffusamente in questo magazine e non vi è alcun bisogno di ribadire quanto la sua permanenza alla Casa Bianca possa essere nefasta per il mondo intero. Caso mai, solo come nota di colore, sia pure in un contesto così tragico, va citata la baggianata dei curdi assenti durante lo sbarco in Normandia, da lui profferita per giustificare, in qualche modo, il loro abbandono tra le fauci del novello sultano. Graffiante e sarcastico lo schiaffone tiratogli da Massimo Gramellini, sul “Corriere della Sera”, lo scorso 11 ottobre (1). Ciò che invece deve farci riflettere e preoccupare è l’appartenenza della Turchia alla NATO e il suo desiderio di entrare nell’Unione Europea (2). Non è più possibile nascondere la testa nella sabbia e giocare partite sporche, che sempre presuppongono il sacrificio di troppe vittime. Sperare che la Turchia possa liberarsi di Erdogan e raggiungere presupposti di civiltà accettabili dai popoli europei è una pia illusione. Morto un Erdogan ne verrà un altro: il tessuto sociale del paese è tale che non potrebbe mai mutare radicalmente, almeno in tempi brevi o medio-lunghi, come ben evidenziato nel luglio del 2016, quando in tanti ci addormentammo, nel cuore della notte, mentre in TV sentivamo frasi inneggianti alla sicura riuscita del colpo di stato, per poi svegliarci al mattino, increduli, magari ritenendo di aver sognato. E prima o poi dovremo fare i conti anche con l’appartenenza alla NATO, che dovrebbe già scuotere le coscienze. L’azione criminale in atto contro i curdi, per ora contrastata solo a chiacchiere sia dall’Europa sia da un balbettante Trump, che finge di essersi pentito, sta facendo rialzare la testa all’ISIS. Dai campi di prigionia controllati dai curdi, che ora hanno altro cui pensare, fuggono in massa ed è lecito prevedere che presto potranno riprendere gli attentati in Europa. Qualora, poi, Erdogan dovesse realmente scaricarci addosso milioni di profughi siriani, come ha recentemente minacciato in caso d’interferenza “effettiva” sul genocidio in atto, per l’Europa (disunita) si aprirebbe un nuovo e devastante periodo buio. L’incapacità di agire in modo adeguato è un problema più serio di quello rappresentato da Erdogan e


dall’ISIS messi insieme. Non siamo nemmeno capaci di bloccare la vendita delle armi alla Turchia e risultano ridicole e patetiche le dichiarazioni connesse al blocco di quelle future. È “ora” che occorre agire! Per difendere noi stessi, certo, ma anche perché i presupposti di “civiltà” impongono che non si ripeta con i curdi ciò che è già capitato un secolo fa con gli armeni! E con questo popolo, al di là della coltellata testé inferta da Trump, siamo già in debito da tempo e non di poco. I curdi ambiscono da sempre a vivere serenamente in un loro stato, nei territori divisi tra Turchia, Iraq, Iran e Siria. (Le comunità presenti in Armenia e Azerbaigian sono perfettamente integrate e solo un esiguo numero, composto principalmente da adulti e anziani, avverte il desiderio di uno stato autonomo, ma non con l’intensità dei compatrioti ramenghi negli altri paesi). Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, con il trattato di Sevres, furono gettate le basi per determinare i confini del futuro stato curdo. Il sogno, però, s’infranse nel 1923, con il trattato di Losanna, che sancì la nascita della Repubblica di Turchia e cancellò le aspirazioni di un popolo desideroso di occupare una superficie di circa 450mila chilometri quadrati, cui dare il nome di “Kurdistan”. È passato quasi un secolo e quel popolo sopravvive a se stesso, generazione dopo generazione, combattendo un’infinita guerra, tra continue vessazioni, soprattutto in Turchia, dove, è bene ricordarlo, i curdi sono circa venti milioni! Solo a titolo di cronaca e per evitare facili contestazioni dai mestatori in perenne ricerca del “pelo nell’uovo” per giustificare l’ingiustificabile, va detto anche, en passant, che anche tra i curdi esistono contrasti e divisioni, più o meno come accade in qualsiasi altro paese tra soggetti di opposte fazioni politiche. Questo normale e diffuso aspetto sociale, tuttavia, nella fattispecie viene subdolamente sfruttato da coloro che non hanno alcuna voglia di favorire l’integrazione territoriale, a cominciare dai paesi che fette di territorio dovrebbero cedere. Intanto in Siria il massacro continua (scrivo questo articolo il 15 ottobre e non è possibile prevedere, pertanto, gli sviluppi che matureranno fino alla data di pubblicazione) ed Erdogan può già cantare vittoria, non fosse altro per essere in grado di tenere sotto scacco il mondo intero. Bashar al-Assad, come spesso gli accade, sorride sotto i baffi e si frega le mani, visto che ancora una volta sono altri che gli tolgono dal fuoco pericolose castagne: i curdi, disperati, devono rivolgersi a lui e ciò gli consente di trattare da una posizione di forza. Ciò vale anche per Putin, destinatario di analogo appello, che può sfruttare per cementare il ruolo nell’area e ricattare il popolo sofferente imponendo un “riavvicinamento alla Siria”: dolce espressione che all’atto pratico vuol dire solo “subalternità”. L’Europa, oggi come ieri recita a soggetto in questo sciagurato scenario, incapace di sviluppare una politica estera comune. In Siria i civili continuino pure a morire in pace. Anzi, no: in guerra. In una sporca guerra. DEDICA Questo articolo è dedicato alle vittime innocenti della ferocia turca. In particolare è dedicato a Hevrin Khalaf, trentacinquenne segretaria generale del “Partito del futuro siriano”, trucidata dai miliziani siriani filo turchi il 12 ottobre scorso. Ha


girovagato indomita, per anni, nelle capitali di tutta Europa per perorare la causa del popolo curdo. L’hanno presa mentre cercava di recarsi a Qamishli, circa 300 km a est di Kobane. La cattura è stata filmata e nelle immagini si vedono le gesta di giubilo dei protagonisti dell’imboscata dopo aver crivellato di colpi il fuoristrada sul quale viaggiava e ucciso i suoi accompagnatori. Fonti curde attestano che sarebbe stata prima violentata e poi mitragliata a sangue freddo. In un secondo video si vede un miliziano che calpesta il corpo privo di vita per poi esclamare: “Questo è il cadavere dei maiali”. Del partito che dirigeva, insieme con un uomo, secondo la tradizione curda (al vertice di qualsivoglia struttura la responsabilità si condivide sempre tra un uomo e una donna), era stata la co-fondatrice, il 27 marzo 2018. Predicava la laicità dello stato, l’uguaglianza tra uomini e donne, il rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite, la rinuncia alla violenza e il ricorso al dialogo costruttivo per risolvere qualsivoglia controversia. Era una donna libera e coraggiosa che sapeva guardare lontano e sognava di vedere vivere armonicamente curdi, turchi, siriani, arabi. Era un bravo ingegnere. Era una donna del futuro che viveva in un presente non alla sua altezza e ha pagato con la vita questo gap. NOTE 1) “Ora, che un uomo abituato a cambiare opinione nel volgere di un tweet conservi la memoria implacabile di un avvenimento accaduto settantacinque anni prima, spalanca scenari inediti. Se Erdogan invadesse la Germania, Trump avrebbe buon gioco a lasciarglielo fare, dal momento che i tedeschi durante lo sbarco in Normandia si comportarono molto peggio dei curdi, non limitandosi a non aiutare gli americani, ma sparando loro addirittura addosso. Anche se Erdogan attaccasse Londra, Trump non avrebbe nulla da eccepire, considerata l’opposizione degli inglesi alle truppe di George Washington nella guerra di indipendenza. Il bombardamento turco di Parigi lo lascerebbe indifferente, a meno che i francesi non restituissero con gli interessi i soldi incassati da Napoleone per la cessione della Louisiana. Bisogna capirlo, il Donald. Avrebbe voluto scrivere che i curdi intorbidano l’acqua da bere, ma la favola del lupo e dell’agnello non gli stava in un tweet. L’unica aggressione di Erdogan che lo metterebbe in seria difficoltà è quella all’Italia: avendo noi cambiato alleanze di continuo,


spesso anche all’interno di una stessa guerra, Trump finirebbe per aiutarci, pur di non farsi venire il mal di testa”. 2) Argomento trattato in CONFINI nr. 40, gennaio 2016 - “Turchia ed Europa: l’eterno nodo di Gordio”, pagina 31.




9 NOVEMBRE 1989: “DA QUANDO? DA SUBITO”

INCIPIT “L'idolo comunista, che seminò ovunque sulla terra discordia sociale, ostilità e atrocità senza eguali, che diffuse il terrore nella comunità umana, è crollato. Crollato per sempre. E io sono qui per assicurarvelo: sulla nostra terra non gli permetteremo di risorgere! Il comunismo non ha un profilo umano; la libertà e il comunismo non sono compatibili”. (Boris Eltsin, giugno 1992: discorso pronunciato durante la seduta comune delle Camere del Congresso statunitense) TUTTA COLPA DI ROOSEVELT Nel numero 58 di CONFINI (ottobre 2017) è stata affrontata la tematica della storia, o quanto meno di buona parte di essa, come inevitabile conseguenza del "se", in antitesi al famoso detto: "La storia non si fa con i ma e con i se". (Pagina 40, articolo dedicato a Ernst Jünger). Uno degli esempi addotti ha stretta attinenza con le tematiche trattate in questo articolo. Il 15 agosto 1944, al fine di accerchiare le truppe tedesche nel Sud della Francia, duecentomila soldati, per lo più statunitensi, invasero la Provenza. L'esercito tedesco era già in rotta a seguito dello sbarco in Normandia e l'avanzata delle truppe alleate in Italia, dal Sud verso il Nord, proseguiva in moto tale da non consentire alcun dubbio sull'esito della guerra. Churchill aveva ben chiaro nella mente lo scenario bellico e riteneva inutile e dannosa l'operazione "Dragoon" che, a suo giudizio, si sarebbe tramutata in una perdita di tempo e di vite umane. L'occupazione delle regioni balcaniche e dei paesi dell'Est europeo, invece, avrebbe assicurato l'approvvigionamento del petrolio ivi prodotto e impedito la futura ingerenza russa. Roosevelt, però, si oppose fermamente. Perché? Churchill desiderava aggirare le difese tedesche della Linea Gotica partendo dalla Pianura Padana per arrivare a Vienna e ai Balcani attraverso Trieste e ciò avrebbe significato intensificare le azioni belliche sul territorio italiano, già duramente provato. Essendo impegnato nella campagna elettorale per il quarto mandato presidenziale, però, temeva di perdere i voti degli italo-americani. Quanto sia costata quella scellerata ed egoistica decisione, nei decenni a venire, in termini di vite umane e non solo, è a tutti noto. Cosa sarebbe successo "se" avesse dato ascolto a Churchill? Non si può dire con precisione, ovviamente, ma di certo non si sarebbe formato il Patto di Varsavia, la Germania non sarebbe stata divisa, la Jugoslavia non sarebbe finita nelle mani di Tito e, a catena, non sarebbero successe tante altre cose. LA PROFEZIA DEL TIRANNO Gennaio 1989, Berlino Est. Nell'aula del consiglio di stato, il presidente Erich Honecker pronuncia il suo atto di fede nei confronti del regime: “Il muro continuerà ad esistere tra cinquanta e anche cento anni, se le ragioni per cui è stato costruito non verranno rimosse”. Non si può prevedere l'imprevedibile, ovviamente. QUELLA NOTTE BUIA


Tutto era iniziato il 13 agosto 1961. Durante la notte, in meno di cinque ore, Berlino venne spaccata in due. Un lungo reticolato di filo spinato circondò la parte occidentale, separandola al suo interno da quella orientale. Dal 1949 Berlino Ovest era controllata da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e formava un'enclave all'interno della Germania Est. Nei primi anni del dopoguerra la libera circolazione tra i due settori era ammessa, ma il continuo esodo di molti cittadini indusse il regime comunista ad adottare drastici rimedi per impedirlo. Già due giorni dopo la collocazione del filo spinato iniziò la costruzione del famigerato muro, che divise intere famiglie. I tentativi di fuga nella zona occidentale iniziarono subito, ma le guardie di frontiera avevano l'ordine di sparare e uccidere, senza riguardi. Anche alcuni soldati, tuttavia, pensarono di scappare e il primo, proprio il 15 agosto, fu un diciannovenne che non esitò ad abbandonare la famiglia pur di assaporare il profumo della libertà. Il continuo lavaggio del cervello perpetrato durante gli anni della dittatura comunista, purtroppo, ebbe effetti deleteri per molti tedeschi non sufficientemente attrezzati, a livello culturale e caratteriale, per restare immuni dalla propaganda martellante, tipica di ogni dittatura, e tra costoro vi era anche la famiglia del giovane caporale Hans Conrad Schumann, che nella La storica foto di Peter Leibing che ritrae il giovane soldato mentre salta sul filo spinato. repubblica (pseudo)democratica fu considerato un disertore, mentre in Occidente rappresentò l'immagine della libertà e negli anni ottanta fu anche ricevuto dal presidente statunitense Ronald Reagan. Dopo la caduta del muro tentò di ricongiungersi con i familiari, che però si rifiutarono di incontrarlo, “vergognandosi” di lui. Nel 1990, a soli cinquantasei anni, il dolore lancinante per la sua triste condizione, che covava nell'animo da troppo tempo, ebbe il sopravvento sulla voglia di vivere e lo indusse a impiccarsi a un albero non lontano da casa, in Baviera, dove viveva con la moglie e un figlio. La fuga nel 1961, immortalata da una fotografa, divenne ben presto una delle immagini simbolo della guerra fredda. Al numero 47 della Brunnenstraße vi è una toccante statua a lui dedicata, da considerare come punto di partenza per raggiungere il non lontano Memoriale, che ogni essere umano dovrebbe vedere almeno una volta, nella vita, insieme con gli innumerevoli altri “luoghi della memoria” disseminati lungo il tracciato del muro, rivolgendo un commosso pensiero non solo ai fuggiaschi uccisi durante i tentativi di attraversamento, sul cui numero ancora non si è fatta piena luce, ma anche a tutte le vittime della tirannide comunista, ovunque perpetrata, che secondo lo storico francese Stéphane Courtois ammontano a circa cento milioni (1). L'INIZIO DELLA FINE Già dagli anni settanta Berlino Ovest, nonostante la sua complessa collocazione geografica, divenne un polo di attrazione soprattutto per i giovani, che ivi si


trasferirono per frequentare prestigiose facoltà universitarie. Nacquero numerosi locali alla moda e la musica divenne un importante collante anche per famosi artisti. Nel 1977, David Bowey, affacciatosi alla finestra di uno studio di registrazione, vide due giovani che si baciavano al di là del muro. La scena lo commosse e funse da stimolo per uno dei suoi brani più famosi: “Heroes”. Dieci anni dopo, il 6 giugno 1987, in un memorabile concerto davanti al Reichstag, cantò il brano al cospetto di una folla sterminata e i versi lancinanti, diffusi da potenti altoparlanti, furono ben percepiti da decine di migliaia di giovani assiepati lungo il muro, “dall'altra parte”. Non potevano godersi lo spettacolo come i loro coetanei occidentali, ma le parole del brano giunsero come pugni nello stomaco: “Io, io sarò re e tu, tu sarai la regina, sebbene niente li porterà via possiamo essere eroi, solo per un giorno. Io, io posso ricordare (mi ricordo) in piedi accanto al muro e i fucili spararono sopra le nostre teste e ci baciammo, come se niente potesse accadere; la vergogna era dall'altra parte. Oh possiamo batterli, ancora e per sempre. Allora potremmo essere eroi, anche solo per un giorno. Possiamo essere eroi”. Sei giorni dopo fu la volta del presidente statunitense Ronald Reagan, che parlò ai berlinesi di fronte alla Porta di Brandeburgo e lanciò il famoso appello a Gorbaciov, che scosse il mondo: “Accogliamo con favore il cambiamento e l'apertura, perché crediamo che la libertà e la sicurezza vadano insieme, che il progresso della libertà umana non può che rafforzare la causa di pace nel mondo. C'è solo un'azione che i sovietici possono fare che sarebbe inconfondibile, che farebbe avanzare drammaticamente le cause delle libertà e della pace. Segretario generale Gorbaciov, se cerca la pace, se cerca la prosperità per l'Unione Sovietica e per l'Europa orientale, se cerca liberalizzazione, venga qui a questa porta. Signor Gorbaciov apra questa porta. Signor Gorbaciov, Signor Gorbaciov, abbatta questo muro!” I tempi, oramai, erano maturi per un radicale e “repentino” cambiamento. Nel mese di luglio molti tedeschi orientali decisero di occupare le ambasciate della Repubblica Federale a Berlino Est, a Praga, a Budapest, chiedendo asilo politico. Le autorità politiche della RDT, prese alla sprovvista e in attesa di capire come muoversi, bloccarono i fuggiaschi nelle ambasciate, mentre le pressioni internazionali aumentavano giorno dopo giorno. Il 10 settembre l'Ungheria tirò una picconata micidiale alla RDT, aprendo i confini con l'Austria! La strada libera verso Ovest, attraverso l'Ungheria e l'Austria, era un dato di fatto! Non era più possibile tergiversare e così, il 30 settembre, fu diramato il permesso di espatrio ai profughi rifugiatisi nelle ambasciate. La gioia dei tedeschi all'annuncio fece il pari con la gioia di un mondo intero, eccezion fatta per pochi irriducibili nostalgici e per coloro che, all'interno del regime, occupando posizioni di potere, sentivano il terreno franargli sotto i piedi. Il comunismo iniziava realmente a sgretolarsi come neve al sole in tutta l'Europa orientale: un sole rappresentato dai sorrisi festosi dei profughi che si dirigevano verso l'Occidente, ripresi e replicati all'infinito da tutte le emittenti televisive, fungendo da catartica palingenesi per un mondo nefasto in dissoluzione. Tutti i tiranni, quando la storia bussa alla porta per chiedere il conto, si fanno trovare impreparati: non pensano mai che prima o poi quel momento arriverà. Erich Honecker non sfuggì alla regola e anche in lui la follia dell'impossibile prese il


sopravvento sulla realtà, che cercò di stravolgere con iniziative assurde: tentò di far passare il messaggio che fosse stato lui a “espellere” i tedeschi ribelli, che obbligò a salire su “treni speciali” affinché tutti li vedessero. L'iniziativa, però, si trasformò in un boomerang: in ogni stazione, infatti, i treni speciali, più appropriatamente chiamati “treni della libertà”, invece di transitare nell'indifferenza generale o addirittura osteggiati dai residenti, furono presi d'assalto da migliaia di cittadini desiderosi di salire a bordo. Il re, oramai, era più nudo che mai: non aveva capito che il suo mondo aveva iniziato a sgretolarsi già da molto tempo e che il primo segnale, l'elezione di un papa polacco, risaliva addirittura al 1978; non aveva compreso (o non aveva voluto comprendere) la portata dirompente di Solidarnoœæ in Polonia e gli effetti del premio Nobel per la pace conferito a Lech Wałęsa nel 1983; non aveva compreso i concetti di “perestrojka e glasnost”, proposti e imposti da Gorbaciov sin dal 1985, lasciando affiorare le gravi distonie socio-economiche obnubilate dai suoi predecessori; aveva sottovalutato i fermenti nelle repubbliche baltiche e ritenuto che, al momento opportuno, la “grande madre Russia” si sarebbe comportata come a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968: carri armati e soldati spietati per fermare la rivolta del popolo “ingrato”. Grande fu la delusione, pertanto, quando Gorbaciov si recò a Berlino il 7 ottobre e fu accolto dalle grida festose e imploranti del popolo, che a lui si rivolgeva chiedendo aiuto. “Gorby salvaci”, imploravano, in una sorta di isterismo collettivo che non consentiva di far loro comprendere ciò che era chiaro a molti osservatori stranieri: si stavano salvando da soli ed era “il loro potere”, del quale non avevano ancora contezza, che stava debellando quello cui si rivolgevano speranzosi, in cerca di aiuto. Gorbaciov, dal suo canto, aveva ben compreso gli scricchiolii della storia e disse chiaramente ai governanti della RDT che si sarebbe dovuto cambiare qualcosa prima che fosse troppo tardi: “Chi arriva troppo tardi sarà punito dalla vita”, affermò, per far comprendere che nella RDT non si erano realizzate le riforme da lui auspicate e quindi “la punizione” sarebbe stata una logica conseguenza. Altro che carri armati! Undici giorni dopo Honecker fu costretto a dimettersi, lasciando il potere (sempre più effimero) a Egon Krenz, il quale, seppure non aveva alcuna intenzione di “cambiare registro” e tentò con ogni mezzo di impedire l'esodo dei connazionali, fu costretto dalla crescente opposizione pubblica a riaprire il confine con la Cecoslovacchia, precedentemente chiuso proprio per impedire ai tedeschi orientali di utilizzare il paese confinante come via di fuga per raggiungere la Germania occidentale. 9 NOVEMBRE 1989: UN GIORNO COME UN ALTRO L'otto novembre, Gerhard Lauter, alto funzionario del Ministero degli Interni, ricevette l'ordine, dal ministro Friedrich Dicckel, di elaborare nuove regole di viaggio per i cittadini della RDT interessati a lasciare per sempre il paese (partenza permanente). Il funzionario ritenne molto stupido un regolamento che facilitava la vita a chi desiderava abbandonare il paese e non prendeva in considerazione coloro che, magari, volevano solo recarsi in vacanza all'estero e rientrare, o semplicemente allontanarsi per una breve visita a parenti e amici: a costoro il permesso sarebbe


stato negato e la differenza di trattamento poteva considerarsi palesemente assurda. Di concerto con il capo dipartimento degli affari interni, il generale Gotthard Hulbrich, e due dirigenti della STASI, il colonnello Hans-Joachim Krüger e il colonnello Udo Lemme, Lauter inserì nel regolamento un paragrafo suppletivo che, di fatto, non poneva restrizioni per i viaggi all'estero, se non per motivi eccezionali. Nella mattinata del 9 novembre i quattro si riunirono presso la sede del Comitato Centrale per stilare la versione definitiva del nuovo regolamento e inviarla al ministero. Al termine di un'animata discussione sulle problematiche inerenti anche ai rapporti con Mosca, alle 9:47 il documento era pronto per essere consegnato al ministro Erich Mielke, compito che si assunsero Lemme e Krüger. Tre minuti dopo la loro partenza giunse presso la sede del Comitato Centrale, a riunione già iniziata, Gunther Schabowski, portavoce del nuovo governo, che prese posto accanto al presidente Krenz. Quando giunse il suo turno lesse una noiosa relazione, autoreferenziale, con la quale esaltava le nuove strategie di comunicazione della RDT, per poi uscirsene a fumare. Non sapeva nulla delle modifiche apportate al nuovo regolamento di viaggio, una copia del quale era proprio sul tavolo dove era seduto, davanti al presidente Krenz, con un appunto precedentemente inviato dal vecchio ministro Friedrich Dickel, che consigliava di diffondere quelle disposizioni alle quattro del giorno seguente, per non dare a sovietici e cecoslovacchi il tempo di chiudere le frontiere. Krenz, però, nonostante sapesse che il regolamento avrebbe potuto ancora subire delle modifiche dopo la supervisione di Dickel, decise comunque di sottoporlo all'approvazione del Comitato Centrale, per conferire importanza alla riunione da lui presieduta, registrando negli atti un voto su una problematica alla ribalta planetaria. Approfittò della pausa pranzo e lesse frettolosamente il documento ai distratti membri presenti, solo otto su diciassette, che votarono senza nulla eccepire e senza nemmeno comprendere cosa avessero votato, secondo metodiche ben consolidate che di certo non consentivano “opposizioni” alle deliberazioni del presidente. Schabowski era tra gli assenti e quindi restò all'oscuro di tutto, ma era lui che, in virtù del ruolo ricoperto, doveva sobbarcarsi il noioso e quotidiano compito di conferire con i giornalisti. Alle 17,20 si recò da Krenz per concordare cosa dire alla stampa e ricevette l'autorizzazione a riferire quanto approvato dal Comitato Centrale: a Krenz era sfuggito l'appunto del suo ministro, che comunque era ben evidente nei fogli che Schabowski infilò in borsa, senza preoccuparsi di leggerli prima di precipitarsi in sala stampa! È L'ORA DI RICCARDO EHRMANN In sala stampa i giornalisti avevano le solite facce annoiate. Erano lì per dovere, ritenendo che ancora una volta avrebbero ascoltato le solite notizie confezionate ad arte per il pubblico e non certo quelle importanti, discusse nelle segrete stanze del potere. Il giornalista italiano Riccardo Ehrman, corrispondente dell'ANSA, era giunto con qualche minuto di ritardo e, non trovando una sedia libera, si sedette sul ripiano del palco riservato ai relatori, a pochi metri da Schabowski, che iniziò


a recitare il suo copione, sciorinando le solite litanie autoreferenziali sul regime, accennando a qualche errore commesso e bla bla bla. Riccardo Hermann, al termine della prolusione, gli pose una domanda precisa: “Signor Schabowski, riguardo agli errori, non pensa che sia stato un grande errore proporre la bozza di una nuova legislazione sui viaggi?” “Non credo - replicò Shabowsky - sappiamo di questa tendenza nella popolazione. Questo desiderio della popolazione di viaggiare e anche di lasciare la Germania Est… [Continuò, poi, con una lunga disquisizione sui problemi dell'Occidente (secondo la visione che si ha nell'Est, ndr), sulla necessità di garantire condizioni di vita accettabili, etc., precisando che la nuova legislazione era ancora una bozza, perfezionabile. Prese i fogli e iniziò a leggere le disposizioni, anche da lui viste per la prima volta “…oggi abbiamo deciso, quindi, di approvare una legge che rende possibile a ogni cittadino di attraversare i confini direttamente attraverso i checkpoint della RDT”. Hermann: “Senza passaporti?” “Si, Compagni. Mi è stato detto che oggi è stato diramato un comunicato stampa, che già dovreste avere (mormorii in sala perché nessuno aveva ricevuto nulla, ndr). Le domande di viaggio all'estero da parte dei privati possono ora essere fatte senza i requisiti precedentemente esistenti e i motivi per il rifiuto possono essere applicati solo in casi eccezionali. I dipartimenti responsabili del passaporto e del controllo di registrazione negli uffici distrettuali della polizia popolare della Repubblica Democratica Tedesca sono incaricati di rilasciare i visti per l'uscita definitiva senza ritardi e senza presentazione dei requisiti esistenti per l'uscita permanente. Tutti i checkpoint tra RDT e RFT possono essere utilizzati. I cittadini che vogliono lasciare la RDT non hanno più bisogno di viaggiare attraverso un terzo paese. Per quanto concerne i passaporti ora non posso rispondere a questa domanda perché è un problema tecnico: il passaporto deve prima essere realizzato e poi consegnato affinché tutti ne siano in possesso”. Ehrmann intuisce che la replica assume un'importante valenza storica e incalza: "Ab wann?" (Da quando?) Schabowsky aggrotta la fronte e guarda con attenzione sui fogli, per poi replicare lentamente, senza celare una sorta di stupore: “Das trit nach meiner kenntnis… ist das sofort” (Ciò si verifica... per quanto ne so... da subito), per poi precisare leggendo con ritmo più sostenuto: “Il Consiglio dei Ministri ha deciso che fino a quando la legislazione formale non sarà approvata dal parlamento questo preliminare sarà valido”. Ehrmann: “E' valido anche per Berlino (Ovest) o solo per la Repubblica Federale?” “Certo, certo, possono essere utilizzati tutti i checkpoint, anche quello di Berlino Ovest”. Sono le 18,53 del 9 novembre 1989 e la storia, beffarda, muove i suoi fili affinché accada ciò che deve accadere. I cittadini della Germania orientale, che guardavano in diretta la conferenza stampa, non credono alle loro orecchie! Lo stesso accade nell'Ovest quando la notizia iniziò a essere diffusa. Nei posti di frontiera iniziarono subito ad ammassarsi frotte d'increduli cittadini. Qualche guardia tentò ancora di indurli a rientrare nelle case, spiegando che non era possibile attraversare la frontiera, ma alle 21 le persone erano così numerose che nei poliziotti si diffuse un vero e proprio panico. Non avevano ordini, nessuno rispondeva al telefono e di certo non se la sentivano di assumersi la responsabilità di sparare! Anche a Mosca erano tutti sgomenti per le immagini che giungevano da


Berlino e Gorbaciov telefonò a Helmut Kohl per chiedergli cosa stesse accadendo: “I miei generali - gli riferisce - hanno avuto la richiesta di intervenire con i carri armati”. Kohl lo invitò a non impartire l'ordine, che avrebbe potuto generare una carneficina e creare i prodromi di una guerra. Finalmente le guardie di frontiera decidono di far passare i cittadini muniti di documenti attraverso i tornelli, uno per volta, ma la pressione era così forte che il capo delle guardie ordinò di alzare le sbarre. Il muro è caduto! Le immagini dei cittadini che si abbracciano festanti fanno il giro del mondo. Non vi sono più tedeschi orientali e occidentali ma tedeschi e basta, anche se si dovrà aspettare il 3 ottobre 1990 per la definitiva riunificazione. I regimi comunisti iniziano a crollare come birilli in tutta Europa e il 25 dicembre 1991 anche l'Unione Sovietica si dissolve. L'immagine della bandiera rossa che viene ammainata sul Cremlino fa piangere gli uomini di buona volontà in ogni angolo del pianeta, generando pensieri di speranza e fiducia. Almeno per un po'. CONCLUSIONI (AMARE) Il 9 novembre 1989 è una delle date più importanti di tutta la storia dell'umanità, perché segna una svolta epocale e irreversibile. Non importa se il mondo, negli ultimi quaranta anni, ha registrato un deterioramento dovuto a molteplici cause, sulle quali ci siamo compiutamente soffermati e continueremo a soffermarci. La sconfitta del comunismo, nell'Occidente, non è stata una cosa insignificante e non è possibile alcun processo comparativo con i guasti contemporanei. Sarebbe come affermare, scioccamente: “Sì, abbiamo sconfitto peste e malaria, ma il mondo è comunque in pericolo a causa del terrorismo e dei cambiamenti climatici”. Eppure, per quanto concerne questo importante evento, si registra la persistente volontà di obnubilarne la portata, prospettando proprio stupide comparazioni tra i “guasti” di ieri e quelli attuali, per proporre improbabili giustificazioni dei primi. È stato davvero triste vedere la scarsa attenzione riservata dalla stampa alla caduta del muro di Berlino, nel giorno del quarantennale, e non può essere addotta come giustificazione la crisi dell'ex ILVA, che ha goduto di assoluta priorità mediatica: anche un semplice redattore sarebbe stato in grado di strutturare le prime pagine in modo da bilanciare armonicamente le notizie, per poi conferire loro il giusto risalto nelle pagine interne. Nulla di tutto questo è avvenuto, invece. La cosa più triste e grave, poi, riguarda una “prestigiosa” rivista di geopolitica che, seppure afferente al variegato universo sinistrorso, il più delle volte offre analisi interessanti o addirittura condivisibili, soprattutto in tema di scenari globali. La seguo da sempre e non mi danno fastidio gli articoli distonici rispetto alla mia weltanschauung, essendo del tutto normale che ve ne siano. Anche in essi, tra l'altro, a volte è possibile reperire spunti di riflessione interessanti, o notizie certificate che consentono di allargare gli orizzonti speculativi su qualsivoglia argomento. Si può immaginare lo sgomento, pertanto, nel leggere come sia stato trattato il quarantesimo anniversario della caduta del muro, nel numero a esso dedicato. Una sequela di articoli che definire deliranti è poco, intrisi di quel raffinato stile descrittivo che li rende credibili agli occhi dei più. Sanno scrivere bene, gli autori di sinistra, le mistificazioni che sciorinano con la sicumera dei


grandi avvocati, alla perenne ricerca del cavillo più adatto a mettere nell'angolo il giudice e salvare l'imputato colpevole. A parte la sensazione di disgusto, dopo averli letti, ho avvertito un vero senso di sofferenza. Ho acceso il PC, mi sono collegato alla pagina ISSUU di questo magazine, sfogliando alcuni vecchi numeri e riflettendo su come fossimo davvero in pochi a cercare di mantenere alto il vessillo dell'onestà intellettuale. Mi sono sentito come Aragorn di fronte al nero cancello, con un pugno di umani circondato da un esercito di mostri. Egli, però, apparentemente senza speranza di poter vincere contro un nemico mille volte più numeroso e meglio armato, poteva contare su Frodo che si accingeva a buttare l'anello del male nelle viscere del Monte Fato e salvare l'umanità con un semplice gesto. Con mesta tristezza ho dovuto ammettere che non esiste alcun Frodo, oggi, sui pendii del Monte Fato e mi sono assopito con la solita visione nata dalla suggestione di Ernst Jünger: “Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne all'orlo dell'infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola, che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d'avanguardia, sull'estremo limite del nulla: sull'orlo di quell'abisso combatto la mia battaglia”. NOTE 1) Riporto i dati rilevati dal "Libro nero del comunismo" (Mondadori editore, 1999) per dovere di cronaca e nel pieno rispetto degli autori, che hanno svolto un duro lavoro di ricerca. Senza alcuna pretesa di impossibili comparazioni con i prestigiosi accademici, tuttavia, avverto il bisogno di precisare che i miei ultraquarantennali studi sui disastri provocati dal comunismo mi portano a conclusioni diverse, limitatamente al numero delle vittime, che secondo i miei calcoli ammontano ad "almeno" 130milioni, senza contare quelle "indirette": suicidi e morti per malattie provocate dalle continue vessazioni, anche in età giovanile, che sfuggono a ogni possibile calcolo perché quasi sempre attribuiti ad "altre cause". Da non sottovalutare poi, il concetto di "vita peggiore della morte", da sempre dibattuto dai grandi filosofi, a cominciare da Seneca ("Consolatio ad Marciam", inserito nel saggio "Le consolazioni, a Marcia, alla madre Elvia, a Polibio", Edizioni BUR, 1987) in virtù del quale ogni calcolo è impossibile.



IL MALE OSCURO INCIPIT “Alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere”. (Papa Francesco) “Conservatore: uomo politico affezionato ai mali esistenti, da non confondersi col liberale, che invece aspira a rimpiazzarli con mali nuovi”. (Ambroge Gwinnett Bierce) PROLOGO Pur amandola tanto, dobbiamo ammettere che l'Europa continua a essere quella vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni, per lo più culminanti in "ismo". Sono state quasi tutte debellate, a onor del vero, e sparute sacche di resistenza non fanno più paura, ma la peggiore di tutte, il liberalismo, persiste come un virus per il quale non sia stato ancora trovato l'antidoto. Chi lo propaganda come bene supremo è molto abile nel rendere schiavi milioni di persone dando loro l'illusione di essere liberi e l'inadeguatezza delle masse nel fronteggiare le distonie del mondo contemporaneo, soprattutto a causa dei limiti culturali, si trasforma in un prezioso elemento di supporto per i venditori di fumo. Alcune settimane fa la cronaca ci ha mostrato le immagini di bambini che giocavano gioiosamente sulla spiaggia di Chennai, nella parte sud orientale dell'India, immersi in un'enorme distesa di soffice schiuma bianca. Ignoravano, i poveri pargoli, che la schiuma fosse altamente tossica a causa delle sostanze inquinanti contenute nelle acque reflue che si mischiano con l'acqua di mare. Alcuni mesi fa è stata trasmessa in TV una miniserie che ha ricostruito, in modo encomiabile, la tragica vicenda di Chernobyl. Nella prima puntata si vedono molti cittadini di Pripyat, la “città fantasma”, assiepati su un ponte ferroviario per guardare l'incendio della non lontana centrale, con la tipica curiosità di chi assista a qualcosa d'insolito, senza temerne le conseguenze. Ignoravano, i poveretti, che dal cielo cadevano sulle loro teste le micidiali polveri radioattive e quel ponte è ora noto come “ponte della morte”. Sia in India sia in Ucraina (così come in tante altre situazioni) vi erano coloro che "sapevano" e hanno taciuto; addirittura in Ucraina furono tacitati coloro che volevano subito rendere nota l'esatta entità del disastro. Questi esempi, pertanto, possono essere considerati emblematici per comprendere la portata nefasta del liberalismo: milioni di persone lo hanno assimilato, innocentemente, ignorandone la letale essenza e subendone le conseguenze proprio come i bimbi indiani e gli abitanti di Pripyat. Le oligarchie dominanti hanno facile gioco nell'azione mistificatoria e inascoltati restano coloro che si affannano a spiegare come stiano effettivamente le cose. Niente di buono si vede all'orizzonte. Chissà quando saranno squarciate le maschere di perbenismo


indossate dai fautori del “male oscuro”, affinché siano ben evidenti le sembianze mostruose del loro vero volto, e divelti gli spessi muri protettivi eretti a protezione degli sporchi giochi praticati. Solo allora, infatti, si potrà avviare la cura con gli unici antidoti efficaci: consapevolezza e cultura. LE RADICI DEL MALE Evitiamo di seguire una linea temporale classica, più consona a un saggio, perché ciò richiederebbe necessariamente un salto nell'antica Grecia e poi procedere lentamente fino alla Rivoluzione Francese e ai giorni nostri. Apprenderemmo, in tal modo, i prodromi presenti nelle opere di Sofocle, la rottura con la tradizione ecclesiastica di Marsilio da Padova, i princìpi della valanga illuminista, il riordino messo a punto da John Locke e i successivi disastri generati dai liberali del XX e XXI secolo. Ma, diciamoci la verità: vi è qualcuno che possa seriamente imputare ai pensatori del passato la responsabilità di aver coscientemente creato i presupposti per questo folle mondo? Non esiste e se si chiedesse ai politici che si riempiono la bocca con i termini “liberale, liberismo e liberalismo” di spiegarne la genesi storico-filosofica e le differenziazioni, ci faremmo quattro risate, come sempre accade quando dei simpatici cronisti li fermano per strada per rivolgere loro banalissime domande di cultura generale o su argomenti di attualità al vaglio dei lavori parlamentari, dei quali dovrebbero conoscere anche le virgole. Figuriamoci cosa si possa pretendere dalle masse amorfe e incolte. In effetti, molto più incisiva del pensiero di David Hume, Adam Smith, Montesquieu, Voltaire, Kant, Verri, Beccaria e, ovviamente, John Locke, è stata l'opera di Benjamin Hardy. Ora, emulando Don Abbondio quando si chiedeva chi fosse Carneade, vi state chiedendo tutti chi sia questo tizio e sicuramente vi accingete anche a tuffarvi su Google in cerca di notizie. Tempo sprecato: non ne troverete. Egli, infatti, era solo un modesto funzionario statunitense, in servizio presso il dipartimento di Stato. Settanta anni fa, nel gennaio del 1949, Harry Truman, rieletto presidente, si accingeva a pronunciare per la prima volta il discorso d'insediamento in diretta televisiva. La televisione aveva subito uno sviluppo vorticoso: dai settemila apparecchi presenti nelle case degli americani nel 1942, solo nella zona di New York, si era passati a un numero tale da consentire la visione dei programmi in tutti gli stati, a milioni di persone. I collaboratori e i ghostwriter, ai quali non sfuggivano la portata storica dell'evento e le inevitabili nuove metodologie che si sarebbero dovute apportare nella comunicazione, erano molto preoccupati: occorreva trovare argomenti forti per colpire subito l'immaginario collettivo, aduso a informarsi da sempre sulla carta stampata, affinché fossero poi riproposti e rafforzati dai quotidiani nei giorni successivi, consolidando la fiducia nei confronti del presidente. Benjamin Hardy ebbe modo di leggere, casualmente, un promemoria con il quale si chiedeva di proporre argomenti validi per il discorso d'insediamento e decise di sottoporne uno al vaglio dei superiori, che lo mandarono elegantemente a quel paese. Ciascuno stia al suo posto, fu più o meno il senso della replica; un modesto funzionario non poteva certo permettersi di fornire consigli al presidente! Hardy, però, non era un


tipo arrendevole e non si perse d'animo: riuscì a farsi ricevere alla Casa Bianca e conferì con i consiglieri di Truman: la proposta fu valutata positivamente e aggiunta alla bozza del discorso presidenziale come quarto punto. Truman approvò e il discorso è passato alla storia proprio come "il discorso dei quattro punti". Quale fu l'idea geniale? Vendere fumo per arrosto e soprattutto fare in modo che tutti cadessero nella trappola. La parola magica fu: "Sviluppo". Bisognava far passare il messaggio che gli Stati Uniti avrebbero fornito aiuti ai paesi del terzo mondo per favorirne lo sviluppo, ponendo fine a 1una miseria straziante! “Un gol a porta vuota”, scrive Jason Hickel nel saggio “The Divide” (1), quando parla di questo episodio, rivelando il pensiero di Hardy, che si proponeva di “ottenere il massimo impatto psicologico sulle persone, cavalcando e guidando l'onda montante del desiderio universale di un mondo migliore”. Il discorso di Truman, cesellato sulla proposta del modesto funzionario, ebbe un successo clamoroso e la gente si commosse ascoltando le sue parole: “Più della metà della popolazione mondiale vive in condizioni prossime alla miseria. La loro alimentazione è inadeguata. Sono vittime delle malattie. La loro vita economica è primitiva e stagnante. La loro povertà è un handicap e una minaccia sia per loro sia per le aree più prospere. Per la prima volta nella storia, l'umanità possiede la conoscenza e l'abilità per alleviare la sofferenza di queste persone. Gli Stati Uniti sono preminenti tra le nazioni nello sviluppo di tecniche industriali e scientifiche. Le risorse materiali che possiamo permetterci di utilizzare per l'assistenza di altre persone sono limitate, ma le nostre risorse nelle conoscenze tecniche sono in costante crescita e inesauribili. Credo che dovremmo mettere a disposizione dei popoli amanti della pace i benefici delle nostre conoscenze tecniche al fine di aiutarli a realizzare le loro aspirazioni per una vita migliore. In collaborazione con altre nazioni, dovremmo promuovere investimenti di capitale in aree che necessitano di sviluppo. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di aiutare i popoli liberi del mondo, attraverso i propri sforzi, a produrre più cibo, più vestiti, più materiali per le abitazioni e più potenza meccanica per “agevolarli nel lavoro” (le parole esatte pronunciate furono: "to lighten their burdens; per alleggerire i loro fardelli", ndr). Invitiamo altri paesi a mettere insieme le loro risorse tecnologiche in questa impresa. I loro contributi saranno accolti calorosamente e questa impresa dovrebbe vedere tutte le nazioni lavorare insieme, attraverso le Nazioni Unite e le sue agenzie specializzate, ovunque possibile. Deve essere uno sforzo mondiale per il raggiungimento della pace, dell'abbondanza e della libertà. Con la cooperazione di imprese, capitali privati, agricoltura e lavoro in questo paese, questo programma può aumentare notevolmente l'attività industriale in altre nazioni e può aumentare sostanzialmente il loro tenore di vita. Tali nuovi sviluppi economici devono essere ideati e controllati a beneficio dei popoli delle aree in cui sono stabiliti. Le garanzie per l'investitore devono essere bilanciate da garanzie nell'interesse delle persone le cui risorse e il cui lavoro siano orientati verso un effettivo sviluppo. Il vecchio imperialismo - lo sfruttamento per il profitto straniero - non ha posto nei nostri piani. Ciò che prevediamo è un programma di sviluppo basato sui concetti di equo scambio democratico”.


Ho evidenziato le frasi finali del discorso, che ne riassumono l'essenza demagogica e fuorviante. Ovviamente non esisteva nessun piano effettivo per un programma del genere, ma gli americani si sentirono lusingati per i propositi presidenziali, che li poneva, di fatto, alla guida del mondo e a fin di bene, per aiutare chi non aveva le loro opportunità. Lo slogan pubblicitario (2) di un modesto funzionario, basato sul nulla, funzionò alla perfezione: forniva una spiegazione soddisfacente sulle cause della diseguaglianza globale e offriva una soluzione. Il "liberalismo" post bellico, di fatto, nasce dall'idea di un signor nessuno e dalla lungimiranza di Truman, che ne intuì la portata dirompente. Da allora i "liberali" iniziarono a cibarsi di questo modello propositivo, fatto di chiacchiere spacciate per realtà, perfezionandolo anno dopo anno, fino a renderlo "quasi dogmatico". Scrive ancora Hickel nell'opera citata: “Era una favoletta incredibilmente allettante per gli occidentali. Non era una storia come un'altra: aveva tutti gli elementi di un mito epico. Forniva alle persone una chiave di volta per organizzare le idee sul mondo, il progresso dell'umanità e il nostro futuro. Ancora oggi la storia dello sviluppo continua a esercitare una forza irresistibile nella nostra società (3)”. Come siano andate (e stiano andando) effettivamente le cose, poi, è sotto gli occhi di tutti (4). Oggi chi non si definisca “liberale” è considerato quasi un alieno. Nel film “Il pianeta delle scimmie” gli umani sono ridotti a schiavi e le scimmie, dominanti, filosofeggiano nei salotti. L'affermazione del liberalismo come modello di civiltà ha profonde analogie con la trama del film. I DOGMI DA SFATARE Sono davvero tanti e riguardano, precipuamente, il pensiero che traspare dagli esegeti del liberalismo (5). Qui ne analizziamo solo due, tra i più deleteri. Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino - 26 agosto 1789. Art. 4: “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l'esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Tali limiti possono essere determinati solo dalla legge”. Che belle parole! Pronunciate fino alla nausea con enfasi reboante dai paladini dell'illuminismo illuminato che illumina le tenebre e dona pace e gioia all'umanità! Dove siano, poi, pace e gioia, è un mistero, ma ciò che conta è lo slogan! Ce l'ha insegnato Benjamin Hardy. Il famoso articolo, tuttavia, presenta non poche lacune etiche. Legittima ogni desiderio purché non contraddica quelli altrui e ritiene fattibile tutto ciò che è possibile. È davvero possibile, tuttavia, determinare con precisione il momento in cui la libertà di un individuo possa essere considerata un ostacolo a quella degli altri? Non è possibile, sostiene Alain De Benoist (6): “Quasi tutti gli atti umani si esercitano, in un modo o nell'altro, a spese della libertà altrui. Intesa in tal modo, la libertà liberale è intesa, in effetti, in maniera puramente negativa, come rifiuto di ogni ingerenza esterna ("libertà da" e non "libertà per"). […] Come dice molto bene Pierre Manent, il liberalismo è in primo luogo la rinuncia a pensare la vita umana secondo il suo bene o secondo il suo fine. La libertà dei liberali, in effetti, è anzitutto libertà di possedere. Risiede non nell'essere ma nell'avere. L'uomo è detto libero nella


misura in cui è proprietario, e in primo luogo proprietario di se stesso. […] L'idea che la proprietà di sé determini fondamentalmente la libertà sarà d'altronde ripresa da Marx". Per i liberali, quindi, ciò che conta è il "mercato" e la libertà consiste soprattutto nella libertà di possedere. De Benoist sviluppa in modo molto articolato queste tematiche che, di fatto, lasciano affiorare, rendendola tangibile, la grande illusione illuminista, già magistralmente descritta da Nello Di Costanzo nella prefazione del mio romanzo “Prigioniero del sogno” (7): “Il fallimento della società post-illuminista, tuttavia, è sotto gli occhi di tutti ed è da ciechi non prenderne atto. La natura irrazionale dell'uomo non è stata plasmata dalla volontà razionalista affermatasi nel 18° secolo e lo scontro titanico tra la "natura" e "la volontà di dominio della natura" non ha ancora sancito la vittoria definitiva di quest'ultima, avendo solo generato quel mostro chiamato "ipocrisia" che, a livello planetario, regola la vita dell'umanità. Qual è la differenza, per esempio, tra la tirannide pre-illuminista, che l'illuminismo avrebbe dovuto sconfiggere, e la tirannide dell'occidente contemporaneo? Nessuna, salvo che la prima non aveva bisogno di alcuna copertura per essere legittimata, mentre la seconda necessita sempre di un alibi. E l'alibi, lo sappiamo tutti, in questi casi, è sempre figlio dell'ipocrisia”. “Liberalismo di destra” e “destra liberale”. Sono espressioni così consolidate nel linguaggio comune da non renderne percepibile la matrice ossimorica. La confusione, come sempre, nasce dalla superficialità con la quale si utilizzano delle parole, misconoscendone il significato. A ciò va aggiunta, poi, l’attribuzione (a volte volontaria e a volte no) ai termini di significati distonici rispetto a ciò che essi effettivamente rappresentano. In campo dottrinario si legge spesso la differenziazione tra liberalismo, concepito come “ideologia politica” e liberismo, “teoria economica”. Soprattutto a sinistra si cerca di distinguere bene i due termini, in modo che si possa tributare al liberalismo un'accezione positiva (politica sociale che salvaguardia e mette alla base delle proprie ragioni le libertà individuali), scaricando sul liberismo, in quanto “teoria economica”, la responsabilità di essere all'origine del capitalismo, il mostro che si nutre di “libertà assoluta” e produce più ricchezza in assenza o con scarse regole e interferenze da parte dello stato, rendendo i ricchi più ricchi e i poveri più poveri. La distinzione è mera accademia perché non vi è alcuna differenza sostanziale tra liberalismo e liberismo: il sistema politico incarna alla perfezione la teoria politica e viceversa. I due termini sono complementari e obbligati a coesistere. Confondere la destra, quindi, con teorie economiche e sistemi politici che esaltano il mercato, concepiscono la ricchezza un primario valore assoluto e “pragmaticamente” sono orientati a tutelare gli interessi individuali a discapito di quelli della società, concepita non come entità fine a se stessa ma come somma di tutti gli individui che la compongono, è un madornale errore possibile solo in presenza di una grande confusione mentale o di una palese fagocitazione della realtà, per scopi subdoli. Oggi, soprattutto in Italia, è invalsa l'abitudine di parlare di “destra liberale”. Ignoranza a parte, qualcuno pensa che in tal modo si allarghi il bacino elettorale di riferimento, che dovrebbe comprendere dei soggetti che incarnino


principi in netta contraddizione tra loro. La mancanza di una vera destra, moderna, sociale ed europea, favorisce questo scellerato bluff semantico, che non può produrre nulla di buono perché tiene lontane le persone migliori, che non accettano di lasciarsi etichettare in modo così palesemente fagocitante. Ciò può solo far piacere a certi politici adusi a circondarsi di pupazzi servizievoli, ma alla lunga è un gioco che non regge: gli uomini senza qualità, in genere, si perdono alla prima burrasca. Va anche detto, però, che molti furbacchioni mettono in conto questo rischio e depredano a più non posso tutto ciò che sia possibile depredare, fin quando ne hanno la possibilità. I problemi seri, come sempre, riguardano coloro che annaspano nelle paludi, alla disperata ricerca di approdi sicuri, che non esistono nei pressi delle paludi. Dovrebbero imparare prima, pertanto, a non precipitarvi dentro. COME USCIRE DAL TUNNEL DEL LIBERALISMO Ho scritto in precedenza che è inutile farsi illusioni. La strada è lunga e impervia e proprio non si vedono possibili alternative a medio termine: mancano gli uomini in grado di effettuare una vera rivoluzione culturale capace di ribaltare concetti e presupposti cancerosi, fortemente radicati nella società. Ogni ciclo, tuttavia, è destinato a esaurirsi, prima o poi, e ciò è stato asserito anche da De Benoist, al quale, in occasione del convegno tenutosi a Pietrasanta il 20 ottobre scorso (8), chiesi quando finalmente potremo vedere l'umanità abbandonare irreversibilmente i falsi miti. Alla mia domanda fece seguito quella di un altro partecipante al convegno, di analogo sentore. Mi fa piacere chiudere l'articolo con le sue parole, che come sempre vanno scolpite sulla pietra: “Non si può rispondere a questa domanda. Non sono un profeta, ma credo che la storia sia aperta. La storia è sempre aperta. Il liberalismo è stato la grande ideologia della modernità. Oggi la modernità è al suo culmine e il liberalismo è in crisi. Si tratta del liberalismo economico che chiamate liberismo o del liberalismo politico. Le democrazie liberali sono in crisi. Il sistema capitalista è in crisi. Dunque, sì, credo che verrà la fine della dominazione liberale”. Rispondendo alla seconda domanda, poi, aggiunse: “Niente è irreversibile, niente è ineluttabile. È possibile rapportarsi alla realtà con presupposti di ottimismo o di pessimismo, ma io resto fedele alla massima di Gramsci: “Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà”. Vi è, tuttavia, un altro autore, francese, George Bernanos, che diceva: "Gli ottimisti sono degli imbecilli felici; i pessimisti sono degli imbecilli tristi”. Tutti a ridere, in uno scrosciare di prolungati applausi, mentre correvamo ad abbracciarlo e a farci autografare i libri, con gli occhi lucidi e la consapevolezza, fonte di gioia elettrizzante, di essere un manipolo di rari nantes in gurgite vasto al cospetto del più grande pensatore vivente e quindi del migliore tra gli uomini che popolano il Pianeta, volendo collocare al primo posto, sulla scala delle capacità, quella di comprendere e spiegare la natura umana e le fenomenologie sociali. Una signora anziana, facendosi largo imperiosamente nella calca rumoreggiante, mi chiese se realmente avesse concluso la replica con la frase: “Credo che verrà la fine della


dominazione liberale”. "Si, signora - confermai sorridendole - ha detto proprio così". La donna mi prese le mani e socchiuse leggermente gli occhi, volando con la mente chissà dove, e poi, con una tenerezza che toccò le corde più profonde del mio spirito, sempre stringendomi le mani, soggiunse con voce flebile: “Quello sì, sarà un bel giorno”.

NOTE 1) Jason Hickel: “The divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale. Editore Il Saggiatore, 2018. 2) Questi fatti ne riportano alla mente altri, verificatisi in epoca recente, non meno gravi, che vedono sempre dei signor nessuno come protagonisti. Nel 1981, in Francia, con l'arrivo della sinistra al governo, il deficit iniziò a crescere a dismisura. Giscard d'Estaing aveva posto un limite a trenta miliardi, ma il nuovo ministro del Bilancio, il socialista Laurent Fabius, lo portò a cinquantacinque miliardi. Le stime degli esperti, però, proiettarono un esborso per l'anno successivo verso la mostruosa cifra di 100 miliardi. (I francesi, ovviamente, si erano tirati da soli la zappa sui piedi portando la sinistra al governo, ma la storia che favorì la loro ascesa è complessa e non è questo l'articolo in cui parlarne). Erano anni difficili a causa dello shock petrolifero del 1979 e nell'autunno del 1981 si rese necessaria una svalutazione monetaria, cui ne seguì un'altra nell'estate del 1982. L'inflazione volava al 14%. Occorreva reperire in fretta una formula che mettesse tutti d'accordo e che fosse spendibile nella comunicazione politica per i cittadini. Il 9 giugno 1981, pertanto, fu chiesto a due "funzionari" del ministero del Bilancio, Guy Abeille e Roland de Villepin, (cugino di Dominique, poi primo ministro dal 2005 al 2007, ndr) di stabilire con la massima urgenza una regola semplice e utilitaristica. Guy Abeille aveva solo trenta anni, una normalissima laurea in economia e nessuna esperienza specifica; lo stesso valeva per il suo collega. Nondimeno i due ebbero chiara la percezione che non era possibile ottemperare all'ordine ricevuto: nessuna teoria economica consentiva di soddisfare le contraddittorie disposizioni connesse a conciliare l'inconciliabile. "Ubi maior - però - minor cessat" e pertanto i due si misero al lavoro con il solo intento di "obbedire". Esaminate le voci di bilancio, le spese, le entrate e il debito arrivarono a una conclusione: in macroeconomia tutto comincia e finisce con il Pil. Ecco quindi l'idea (farlocca, come sarà dimostrato ampiamente da tanti economisti nei decenni successivi, ndr) di rapportare il deficit al Pil. Resta da capire, però, come mai fu stabilito proprio il 3% e non il 4, il 5, il 6. La spiegazione fornita lascia esterrefatti: "Quell'anno il Pil era di 3.300 miliardi e la spesa si avvicinava a 100. Il rapporto non era quindi lontano dal 3%. Ecco il perché della formula. Poi tra l'altro cadeva casualmente sul "numero 3" che è noto al pubblico per vari motivi ed ha un'accezione positiva, si pensi alle Tre Grazie, ai tre giorni della resurrezione, le tre età di Auguste Comte, i tre colori primari, la lista è infinita". Un numero magico, quindi, facilmente spendibile anche nel


marketing politico come Fabius, e lo stesso Mitterand l'anno dopo, fecero. Lo stesso Abeille ha sempre dichiarato di essere consapevole che legare il deficit al Pil era un po' come dividere i cavoli con le carote e il rapporto al massimo può fungere come indicatore, ma in nessun caso può essere una bussola perché non misura nulla. Ciò che conta realmente, infatti, è ottenere un valore che calcoli la solvibilità di un Paese, la capacità di rimborso del debito da un'analisi ragionata, lavoro che non era certo alla portata di due modesti funzionari, ai quali per giunta era stato anche chiesto di fare in fretta. Che nessun ragionamento economico fosse alla base del 3% lo disse chiaramente anche Alexandre Lamfalussy, uno dei maggiori artefici della preparazione e della realizzazione dell'euro e poi presidente dell'Istituto monetario europeo, l'ente precursore della Banca centrale europea: “I governatori sono persone troppo oneste e sanno che i criteri sono sempre arbitrari. Non avrei mai accettato numeri come questo, ma sono contento che i politici lo abbiano fatto”. Roba da prenderlo a schiaffi, ma tant'è. In buona sostanza, nel Trattato di Maastricht, varato nel 1992, un provvedimento partorito in Francia undici anni prima, per le ragioni e nelle condizioni succitate, considerato una boiata pazzesca, fu adottato per imporre rigidi parametri all'intera Unione Europea, senza tenere conto dei cicli economici, con quali disastrosi risultati è a tutti ben noto. Sembra l'ennesimo racconto di fantapolitica, ma purtroppo è l'ennesima "verità" misconosciuta ai più. 3) Dei “limiti dello sviluppo” abbiamo parlato diffusamente nel numero 72 di "CONFINI" (marzo 2019.) 4) In questo contesto è sufficiente solo un breve cenno, relativamente ai fatti di casa nostra, su quanto siano state deleterie per il Paese le azioni perpetrate dai liberali risorgimentali della destra storica, mutuatosi a partire dal 1882 nel Partito Liberale Costituzionale, e dai loro successori che diedero vita al Partito Liberale Italiano, protagonisti, all'epoca del pentapartito, della spoliazione continua delle casse dello Stato in concorso con i loro alleati. Su tutti basti ricordare Francesco de Lorenzo e un alto dirigente ministeriale, a lui legato: Duilio Poggiolini. Il primo, più volte ministro, fu arrestato e condannato per associazione a delinquere finalizzata al finanziamento illecito ai partiti e corruzione in relazione a tangenti per un valore complessivo di circa nove miliardi di lire, in gran parte ottenute da industriali farmaceutici dal 1989 al 1992, durante il suo ministero. (Questo è solo ciò che è stato possibile accertare, ma ovviamente vi è molto di più). Il secondo, massone iscritto alla famigerata P2, favorì le aziende farmaceutiche, a danno dei cittadini, lucrando oltre quindici miliardi di tangenti. Nella sua casa di Napoli, inoltre, furono rinvenuti diversi miliardi di lire in lingotti d'oro, gioielli, dipinti, monete antiche e moderne (fra cui rubli d'oro dello zar Nicola II e krugerrand sudafricani). Non di minore rilievo come ben noto - furono le ruberie e i disastri perpetrati dai paladini della liberaldemocrazia sparpagliati negli altri partiti di potere.


5) Vanno comunque letti, dopo aver assimilato gli utili anticorpi, proprio per comprenderne le profonde distonie. Gli autori classici non possono essere imputati di "malafede", contrariamente ai loro epigoni contemporanei. Qui evito una lunga lista e mi limito a citare solo due saggi: "La libertà è più importante dell'uguaglianza", Karl Popper, Armando Editore; "Liberalismo", Friedrich A. Von Hayek, Editore Rubbettino. Da prendere con le molle, invece, i saggi sulla storia del liberalismo, perché è in essi che si confondono le acque in modo spaventoso. Fa eccezione, e lo suggerisco, il saggio di Massimo Baldini, "Il liberalismo, Dio e il mercato", nel quale viene analizzato, senza distorsioni, sia pure in chiave di condivisione, il pensiero di Rosmini, Bastiat, Tocqueville, Sturzo, Mises, Hayek, Röpke, Popper. Discorso a parte - e non certo possibile in questo contesto meriterebbe Benedetto Croce, la cui teoria ha suscitato le prime perplessità proprio nei sostenitori del liberalismo classico, che mal digerivano la propensione verso l'impegno civile (che Croce considerava addirittura "ragione superiore") e la responsabilità dell'individuo per le proprie azioni. 6) Alain de Benoist: "Critica del liberalismo - La società non è un mercato". Arianna Editore, 2019. 7) Lino Lavorgna, "Prigioniero del sogno", Albatros Editore, 2015. Nello di Costanzo è un affermato giornalista professionista e lavora presso la sede RAI di Napoli. 8) Presentazione del saggio di De Benoist alla terza edizione di "LIBROPOLIS".


BASHAR AL-ASSAD: L’INTERVISTA CENSURATA DALLA RAI A scanso di equivoci e d'interpretazioni dietrologiche preciso subito che del presidente siriano penso tutto il male possibile e, condividendo in pieno il soprannome “macellaio di Damasco”, affibbiatogli da chi evidentemente ha valide ragioni per definirlo tale, non ho bisogno di aggiungere altro in merito. Cionondimeno, questo non vuol dire pensare “tutto il bene possibile” dei suoi detrattori e dei suoi nemici. Tutt'altro. Ogni problematica sociale ha sempre più sfaccettature e non è mai facile districarsi tra bene e male, distinguendo nettamente il primo dal secondo. Se ciò vale in qualsiasi circostanza e per ogni contesto, nell'intricata matassa mediorientale, con i tanti attori che recitano a soggetto, l'impresa di separare in modo netto le ragioni dai torti è quasi al limite delle umane possibilità. Vanno seriamente rampognati, pertanto, i dirigenti RAI che hanno censurato l'ottima intervista realizzata da Monica Maggioni, il 26 novembre, che sarebbe dovuta andare in onda il 2 dicembre e, solo dopo le veementi proteste, resa disponibile su RaiPlay, una piattaforma non certo seguitissima. Non sappiamo le ragioni precise alla base della censura, anche se è lecito presupporre che vi siano state pressioni esterne, con argomenti evidentemente ritenuti validi. Nell'intervista, infatti, Assad appare in una luce diametralmente opposta a quella rappresentata dai media occidentali e le spiegazioni sulle dinamiche che hanno gettato la Siria nel baratro della “guerra civile” (tra virgolette perché non oso definirla in altro modo, anche se lui sostiene un'altra tesi) di certo non possono piacere ai governi occidentali. Se abbia detto o meno solo bugie, o se nelle sue parole vi siano bugie mischiate a verità, non tocca a me stabilirlo. Ho tratto delle conclusioni leggendo l'intervista e ritengo che ciascuno debba avere la possibilità di fare altrettanto. In altre circostanze, poi, non mi esimerò dal commentare le vicende mediorientali nel rispetto delle mie valutazioni e opinioni, ovviamente soggettive e opinabili come quelle di ciascuno. Ora, però, mi limito a mettere a disposizione dei lettori il testo dell'intervista, limitandomi a osservare che nessuno ha il diritto di considerare i cittadini dei cretini, assumendosi l'onere di stabilire cosa debbano leggere e cosa debba essere loro celato. Testo integrale dell'intervista di Monica Maggioni tradotta dall’inglese. D. Signor Presidente, grazie per averci ricevuto. Può dirci, per favore, qual è la situazione in Siria ora, qual è la situazione sul campo e cosa sta succedendo nel paese? R. Se vogliamo parlare della società siriana: la situazione è molto migliorata, poiché abbiamo imparato tante lezioni da questa guerra e penso che il futuro della Siria sia promettente; usciremo da questa guerra più forti. Per quanto concerne le forze armate, l'esercito siriano ha fatto progressi negli ultimi anni e ha liberato molte aree dai terroristi, eccezion fatta per la zona di Idlib, dove opera al-Nusra (Fronte del soccorso al popolo di Siria, legato all'Isis, ndr) che è supportato dai turchi e il nord della Siria, occupato dai turchi il mese scorso. Per


quanto riguarda la situazione politica, si può dire che sta diventando tutto molto più complicato: vi sono molti attori coinvolti nel conflitto siriano il cui unico intento è trasformarlo in una guerra di logoramento. D. Sappiamo che esiste una visione militare per quanto concerne la guerra di liberazione, ma cosa può dirci relativamente alle persone che hanno deciso di tornare nelle loro città? Come procede il processo di riconciliazione? Sta funzionando? R. In realtà abbiamo utilizzato il termine “riconciliazione” per definire la metodologia adottata quando volevamo creare, diciamo, delle condizioni ottimali per le persone che vivono insieme e per quelle che vivevano al di fuori del controllo delle aree governative, con l'obiettivo di ripristinare il rispetto delle leggi e delle istituzioni. L'intento era quello di concedere l'amnistia a chiunque avesse deposto le armi, obbedendo alla legge. La situazione non è complicata per quanto riguarda questo problema: se ha la possibilità di visitare qualsiasi area, vedrà che la vita sta tornando alla normalità. Il problema non era rappresentato dalle persone che combattevano tra loro ed è falso ciò che è stato riportato dai media occidentali, ossia che i siriani combattono tra loro una “guerra civile”, il che è fuorviante. In realtà i terroristi prendevano il controllo delle aree, imponendo le loro regole. Quando non vi saranno più terroristi, le persone torneranno alla loro vita normale e vivranno insieme. Non si trattava di una guerra settaria, o etnica, o politica: vi erano solo dei terroristi sostenuti da potenze straniere. Hanno denaro e armamenti e occupano quelle aree. (I due paragrafi conclusivi sono stati tradotti lasciando invariati i verbi al passato e al presente, in modo da trasmettere l'esatta successione mentale del pensiero di Assad, che ha inteso in prima battuta parlare dei terroristi come se fossero stati definitivamente sconfitti ("vi erano") e poi concludere con "hanno" e "occupano", evidentemente riferendosi a quelli presenti ancora nelle zone non liberate. Tutto ciò, ovviamente, solo nel rispetto delle sue considerazioni, che lo inducono a definire terroristi i nemici del regime da lui guidato, ndr) D. Non ha paura che questa ideologia, alla base della vita quotidiana delle persone per così tanti anni, in qualche modo possa permeare la società e prima o poi riaffiorare? R. Questa è una delle principali sfide che abbiamo dovuto affrontare. La sua domanda è corretta. Ci sono due problemi. Le aree al di fuori del controllo governativo soggiacevano al caos, in mancanza di una legge. Le persone, pertanto, specialmente le giovani generazioni, non sanno nulla dello stato, della legge e delle istituzioni. Il secondo problema riguarda l'ideologia, che è profondamente radicata nelle menti. L'ideologia oscura, come la wahabita, ISIS, al-Nusra, Ahrar al-Cham, o qualsia altra ideologia islamica estremista, adusa al terrorismo. Ora abbiamo iniziato a occuparci di questa realtà, perché quando si libera un'area occorre risolvere questo problema, altrimenti qual è il significato di liberazione? La prima parte della soluzione è religiosa, perché questa ideologia è un'ideologia religiosa e i religiosi siriani, o per meglio dire l'istituzione religiosa in Siria, sta facendo uno sforzo molto forte in questo senso ed è riuscita a far


comprendere alle persone il senso della vera religione, sopperendo ai falsi insegnamenti praticati da Al-Nusra, ISIS o altre fazioni. D. Quindi, in sostanza, i chierici e le moschee fanno parte di questo processo di riconciliazione? R. Questa è la parte più importante. La seconda parte riguarda le scuole. Nelle scuole vi sono insegnanti che istruiscono gli alunni, seguendo un percorso formativo molto importante per cambiare le idee delle giovani generazioni. Il terzo punto riguarda la cultura, gli artisti, gli intellettuali e così via. In alcune aree è ancora difficile svolgere attività formativa e quindi è stato molto più facile iniziare con la religione e poi avviare la formazione scolastica. D. Signor Presidente, vorrei solo tornare alla politica per un istante. Ha menzionato la Turchia. La Russia è stata il suo miglior alleato in questi anni e ciò non è un segreto, ma ora la Russia sta cooperando con la Turchia in alcune aree della Siria. Che cosa pensa al riguardo? R. Per comprendere il ruolo della Russia dobbiamo comprendere i principi russi. I russi credono che il diritto internazionale - e l'ordine internazionale basato su quella legge - sia nell'interesse della Russia e nell'interesse di tutti nel mondo. Per loro, quindi, sostenere la Siria vuol dire sostenere il diritto internazionale. Questo è un dato di fatto. In secondo luogo, essere contro i terroristi è nell'interesse del popolo russo e del resto del mondo. Allearsi con la Turchia e accettare questo compromesso, pertanto, non significa che intendano sostenere l'invasione turca: casomai volevano svolgere un ruolo al fine di convincere i turchi a lasciare la Siria. Non sostengono i turchi, non dicono “questa è una buona cosa, la accettiamo e la Siria deve accettarla". No, non lo fanno. Sono intervenuti a causa del ruolo negativo americano e occidentale nei confronti della Turchia e dei curdi, al solo fine di bilanciare quel ruolo, per rendere la situazione... non dico migliore, ma meno grave, tanto per essere più preciso. Attualmente è questo il loro compito. Per il futuro la loro posizione è molto chiara: integrità siriana e sovranità siriana. L'integrità e la sovranità siriane sono in contraddizione con l'invasione turca, che è molto ovvia e chiara. D. Quindi mi sta dicendo che i russi potrebbero scendere a compromessi, ma la Siria non si comprometterà con la Turchia. Voglio dire, la relazione è ancora piuttosto tesa. R. No, neppure i russi hanno effettuato un compromesso riguardo alla sovranità. No, loro hanno a che fare con la realtà. Ora vi è una brutta realtà ed è necessario essere coinvolti per fare qualcosa. non direi un compromesso, perché non è una soluzione finale. Potrebbe essere un compromesso per quanto riguarda la situazione a breve termine, ma nel lungo termine o nel medio termine, la Turchia dovrebbe andarsene. Non ci sono dubbi al riguardo. D. E sul lungo termine, è possibile qualche piano di discussione tra lei ed Erdogan? R. Non mi sentirei fiero se un giorno ciò dovesse accadere. Mi sentirei disgustato nel trattare con quegli islamisti opportunisti, non musulmani, ma islamisti! È un altro termine! È un termine politico! Ancora una volta, però, dico ciò che ho


sempre detto: il mio lavoro non consiste nell'essere contento o meno per ciò che sto facendo, di non essere felice o altro. Non riguarda i miei sentimenti, riguarda gli interessi della Siria, quindi io andrò ovunque andranno i nostri interessi. D. In questo momento, quando l'Europa guarda alla Siria, a parte le considerazioni sul paese, ci sono due problemi principali: i rifugiati e i jihadisti o combattenti stranieri che tornano in Europa. Come giudica queste preoccupazioni europee? R. Dobbiamo iniziare con una semplice domanda: chi ha creato questo problema? Perché vi sono rifugiati in Europa? È una domanda semplice: tutto è dipeso dal terrorismo sostenuto dall'Europa - e ovviamente dagli Stati Uniti, dalla Turchia e da altri. L'Europa, tuttavia, è stata la principale responsabile nella creazione del caos in Siria. Quindi, ciò che va, torna. (Traduzione letteraria di un'espressione idiomatica, "what goes around comes around", traducibile appropriatamente con la frase "Ecco le vere cause di ciò che è accaduto - o "di ciò che accade", ndr) D. Perché attribuisce all'Europa la responsabilità principale? R. Perché l'Unione Europea ha sostenuto pubblicamente i terroristi in Siria dal primo giorno, dalla prima settimana, dai prodromi della rivolta. Hanno incolpato il governo siriano e alcuni stati, come la Francia, hanno inviato armi e munizioni. Penso che il loro ministro degli Esteri, forse Fabius, abbia detto: “mandiamo”. Hanno inviato armi e hanno creato questo caos. Ecco perché molte persone hanno difficoltà a rimanere in Siria; milioni di persone sono state costrette ad abbandonare la Siria. D. In questo momento, nella regione, si registrano disordini e caos. L'Iran è un alleato della Siria e la situazione sta diventando complicata. Riflette sulla situazione in Siria? R. Sicuramente. Il caos è sempre un male per tutti: avrà effetti collaterali e ripercussioni, specialmente in presenza di interferenze esterne. Se è spontaneo, se scaturisce da proteste di persone che chiedono riforme o una migliore situazione economica o altri diritti, è positivo. Ma quando scaturisce da atti di vandalismo, distruzione, uccisione e interferenze da parte dei poteri esterni, non lo è In questi casi è assolutamente negativo, cattivo, un pericolo per tutti i cittadini. D. È preoccupato per quello che sta succedendo in Libano, il vero vicino di casa? R. Sì. Sono preoccupato per il Libano come lo sono per la Siria. Naturalmente il Libano influenzerebbe la Siria più di qualsiasi altro paese, perché è il nostro vicino diretto. Ma, mi ripeto, se (il caos, ndr) è spontaneo e riguarda la richiesta di riforme per liberarsi di un sistema politico settario, sarebbe positivo per il Libano. Lo ribadisco: tutto dipende dalla consapevolezza del popolo libanese al fine di non consentire a nessuno, dall'esterno, di provare a manipolare il movimento o le manifestazioni spontanee in Libano. (Si noti il sottile stile diplomatico nel "dire e non dire": usa il termine "settario", abbastanza vago all'udito, anche se il significato è ben definito. Saad Hariri ha rassegnato le dimissioni da primo ministro del Libano nel mese di ottobre e in passato aveva "chiaramente" dichiarato che Assad


deve lasciare la guida del paese. I giochi che riguardano i due paesi confinanti sono molto complessi e delicati, ndr). D. Torniamo a ciò che sta accadendo in Siria. A giugno, papa Francesco le ha scritto una lettera chiedendole di prestare attenzione e rispettare la popolazione, soprattutto a Idleb dove la situazione è ancora molto tesa, perché lì si combatte. Vi è anche un riferimento alle modalità di trattamento dei prigionieri nelle carceri. Gli ha risposto? E in caso affermativo cosa gli ha detto? R. La lettera del Papa riguardava la preoccupazione per i civili in Siria e ho avuto l'impressione che forse il quadro della situazione, in Vaticano, non fosse completo. Ciò è prevedibile, dal momento che la narrativa principale in Occidente parla di questo “cattivo governo” che uccide la “brava gente”, come riferito dai media: ogni proiettile dell'esercito siriano uccide solo i civili e ogni bomba cade solo sugli ospedali! Non si uccidono i terroristi e si prendono di mira i civili, la qual cosa non è corretta. Ho risposto, quindi, con una lettera che spiegava al Papa la realtà in Siria, dal momento che siamo i primi a preoccuparci della vita dei civili, perché non si può liberare un'area mentre i civili sono ostili. Non si può parlare di liberazione mentre i civili ti combattono apertamente. La parte più cruciale nel liberare militarmente qualsiasi area è quella di avere il sostegno della gente, nell'area interessata o nella regione in generale. Ciò è stato chiaro negli ultimi nove anni e ciò è contrario ai nostri interessi. D. Quell'appello, tuttavia, in qualche modo le ha consentito di riflettere sull'importanza di proteggere i civili e le persone del suo paese. R. No. A questo pensiamo ogni giorno, non solo dal punto di vista della morale, dei princìpi, dei valori, ma anche nel rispetto dei nostri interessi. Come ho appena detto, senza questo supporto - senza il sostegno pubblico, non si può ottenere nulla… non si può progredire politicamente, militarmente, economicamente e in ogni aspetto. Non avremmo potuto sostenere questa guerra per nove anni senza il sostegno del popolo e non si può avere supporto pubblico mentre si uccidono i civili. Questa è un'equazione, un'equazione evidente: nessuno può smentirla. Quindi, è per questo che ho detto, indipendentemente dalla lettera: “Questa è la nostra preoccupazione”. Ma, lo ripeto, il Vaticano è uno stato e pensiamo che il ruolo di qualsiasi stato, se si preoccupa dei civili, è quello di comprendere le principali cause (dei problemi, ndr), che sono determinate dal ruolo occidentale nel sostenere i terroristi e dalle sanzioni al popolo siriano, che hanno peggiorato la situazione. Questa è anche una delle cause che hanno prodotto un alto numero di rifugiati in Europa. Non volete rifugiati ma, allo stesso tempo, create le condizioni ottimali per dire loro: “Vai fuori dalla Siria, da qualche altra parte” e ovviamente loro andranno in Europa. Quindi, questo stato o qualsiasi stato, dovrebbe occuparsi delle reali cause speriamo che il Vaticano possa svolgere questo ruolo in Europa e nel mondo: convincere gli altri stati che devono smettere di immischiarsi nella questione siriana, smettere di violare il diritto internazionale. Basta! Abbiamo solo bisogno che le persone seguano il diritto internazionale. I civili saranno al sicuro, l'ordine tornerà, tutto andrà bene. Nient'altro.


D. Signor Presidente, diverse volte è stato accusato di usare armi chimiche e ciò ha rappresentato un punto chiave, la linea rossa, alla base di molte decisioni. Un anno fa, più di un anno fa, si è verificato l'evento Douma che è stato considerato un'altra linea rossa. Successivamente, ci sono stati bombardamenti, e avrebbe potuto essere anche peggio, ma qualcosa si è fermato. In questi giorni, attraverso WikiLeaks, è emerso che potrebbe essere stato riportato qualcosa di sbagliato nel rapporto e nessuno è ancora in grado di dire cosa sia successo. (Nell'aprile 2018 la città di Douma subì un bombardamento che provocò oltre cento morti, per lo più in un ospedale, e molti feriti che presentavano chiari sintomi d'intossicazione. Si parlò apertamente di attacco chimico da parte delle truppe di Assad e le foto raccapriccianti delle vittime fecero il giro del mondo. Pochi giorni dopo Francia, USA e Inghilterra reagirono con un massiccio bombardamento contro le truppe siriane. Recentemente, però, WikiLeaks ha diffuso una e-mail di un ispettore dell'Organizzazione per la Proibizione delle Armi chimiche che lascia affiorare le sue perplessità, con considerazioni che vanno in direzione di una possibile montatura. Ovviamente non vi è da escludere che la montatura riguardi proprio il tentativo di depistaggio e la verità sia ancora nell'ombra. I morti civili, tuttavia, sono reali, ndr.) R. Sin dall'inizio di questa storia abbiamo detto di non aver utilizzato armi chimiche. Non possiamo usarle. È impossibile usarle nelle condizioni in cui versiamo per molte ragioni; diciamo: “ragioni logistiche”. D. Me ne dica una. R. Una è molto semplice: quando si avanza, perché dovremmo usare armi chimiche?! Stiamo avanzando! Perché dobbiamo usarle? Siamo in un'ottima situazione, quindi perché usarle, soprattutto nel 2018? Questo è uno dei motivi. Vi sono, poi, prove molto concrete che confutano questa narrativa: quando si usano armi chimiche - questa è un'arma di distruzione di massa - si parla di migliaia di morti o almeno centinaia. Ciò non è mai accaduto, mai: vi è solo la messa in scena degli attacchi con video truccati. Nel recente rapporto che ha citato c'è una discrepanza tra ciò che abbiamo visto nel video e ciò che hanno visto i tecnici e gli esperti. Parliamo della quantità di cloro riportata: prima di tutto, il cloro non è un materiale di distruzione di massa; in secondo luogo, la quantità che hanno trovato è la stessa quantità che si può avere in casa, esiste in molte famiglie ed è utilizzata forse per la pulizia e quant'altro. Esattamente la stessa quantità. L'OPCW (Organizzazione per la Proibizione delle Armi chimiche, ndr) ha falsificato il rapporto, solo perché è stato imposto loro dagli americani. Per fortuna, quindi, questo rapporto ha dimostrato che tutto ciò che abbiamo detto negli ultimi anni, dal 2013, è corretto. Avevamo ragione, avevano torto. Questa è una prova, una prova concreta riguardo a questo problema. Quindi, lo ribadisco, l'OPCW è di parte, viene politicizzata ed è immorale, e quelle organizzazioni che dovrebbero lavorare in parallelo con le Nazioni Unite per creare più stabilità in tutto il mondo sono state usate come armi statunitensi e occidentali per creare più caos.


D. Signor Presidente, dopo nove anni di guerra, lei parla degli errori degli altri. Vorrei che parlasse dei suoi errori, se presenti. C'è qualcosa che avrebbe fatto in modo diverso e qual è la lezione appresa che può aiutare il suo paese? R. Quando si fa qualcosa, ovviamente, si commettono sempre degli errori: questa è la natura umana. Quando si parla di attività politica, tuttavia, vi sono due cose da prendere in considerazione: strategie o grandi decisioni e tattiche o, in questo contesto, l'implementazione. Le nostre decisioni strategiche o le nostre decisioni principali, pertanto, dovevano contrastare il terrorismo, favorire la riconciliazione e contrastare le ingerenze esterne nei nostri affari. Oggi, dopo nove anni, adottiamo ancora la stessa politica; siamo più aderenti a questa politica. Se avessimo pensato che fosse sbagliato, avremmo cambiato strategia. In realtà non pensiamo che ci sia qualcosa di sbagliato in questa politica. Abbiamo compiuto la nostra missione; abbiamo implementato la costituzione proteggendo le persone. Ora, se si parla di errori nell'implementazione, ovviamente se ne possono reperire tanti. Penso che se si vuole parlare degli errori riguardanti questa guerra, non dovremmo parlare delle decisioni prese durante la guerra perché la guerra - o parte di essa - è il risultato di qualcosa stabilito in precedenza. Durante questa guerra abbiamo fronteggiato due problematiche. La prima problematica riguarda l'estremismo, in particolare quello wahabita, iniziato in questa regione alla fine degli anni sessanta, con forte incremento negli anni ottanta. Se si vuole parlare degli errori commessi nell'affrontare questo problema, dirò che eravamo molto tolleranti nei confronti di qualcosa di molto pericoloso. Questo è un grosso errore che abbiamo commesso nel corso di decenni. Sto parlando di diversi governi, incluso me stesso prima di questa guerra. La seconda problematica: quando vi sono persone pronte a ribellarsi contro l'ordine costituito, a distruggere proprietà pubbliche, a commettere atti di vandalismo e così via, a compiere atti ostili contro il loro paese, a mettersi al servizio di potenze straniere e i loro servizi segreti, chiedendo loro di interferire militarmente contro il loro stesso paese, occorre chiedersi come sia stato possibile che sia accaduto tutto ciò. Se me lo chiede posso rispondere, per esempio, che prima della guerra avevamo più di 50.000 fuorilegge in libertà, mai catturati dalle forze dell'ordine. Il nemico naturale di quei fuorilegge, ovviamente, è il governo, perché non vogliono andare in prigione. D. E cosa mi dice circa la situazione economica? Parte del malcontento della popolazione - non so se fosse una grande o piccola parte - si è manifestata in alcune aree in cui l'economia non funzionava. Anche questo è scaturito da fattori esterni? R. Potrebbe essere una causa (l'economia che non funzionava, ndr) ma sicuramente non la principale. Alcuni parlano dei quattro anni di siccità che hanno spinto la gente a lasciare la propria terra nelle aree rurali per recarsi in città ... potrebbe essere un problema, ma non il problema principale. Hanno parlato della politica liberale... non avevamo una politica liberale, siamo ancora socialisti, abbiamo ancora un settore pubblico molto incisivo nel governo. Non si può parlare di politica liberale con un imponente settore pubblico. Abbiamo avuto una crescita, una buona crescita, il che non ci ha impedito di commettere degli errori nell'attuazione della nostra politica. Come si possono creare pari


opportunità tra le persone? Tra le zone rurali e le città? Quando l'economia si espande, le città ne traggono maggiori benefici e ciò crea più immigrazione dalle aree rurali alle città. Questi sono fattori che potrebbero determinare qualcosa, ma non costituiscono un problema. Nelle zone rurali in cui si ha più povertà, il denaro del Qatar ha svolto un ruolo più incisivo rispetto a quanto verificatosi nelle città: le persone guadagnavano in mezz'ora il salario di una settimana e ciò andava molto bene per loro. (Il Qatar è stato uno dei principali finanziatori dell'ISIS, anche se ufficialmente ne ha sostenuto la lotta schierandosi al fianco dei governi occidentali. La matassa è complicata e ha radici antiche, che riguardano anche la mancata autorizzazione di Bashar Assad, nel 2009, al passaggio di un gasdotto dal Qatar verso l'Europa, attraverso Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia, per tutelare gli interessi degli amici russi, principali fornitori di gas naturale all'Europa, ndr) D. L'intervista è quasi terminata, ma voglio porre ancora due domande. La prima riguarda la ricostruzione, che sarà molto costosa. Come pensa di realizzarla e con chi? R. Non abbiamo grossi problemi. Si dice che la Siria non abbia soldi; in realtà i siriani hanno molti soldi; il popolo siriano nel mondo ha molti soldi e vuole venire a costruire il suo paese. Perché quando si parla di ricostruire il paese, non si tratta di dare soldi alle persone, si tratta di ottenere benefici: è un business. Quindi, molte persone, non solo siriane, vogliono fare affari in Siria. Quando si chiede dove reperire i fondi per la ricostruzione, quindi, possiamo dire di averli già reperiti. Il problema è che le sanzioni impediscono agli uomini d'affari o alle aziende di venire e lavorare in Siria. Nonostante ciò, alcune società straniere hanno iniziato a trovare modi per eludere queste sanzioni e abbiamo iniziato a pianificare. Sarà un processo lento: senza le sanzioni non avremmo problemi con i finanziamenti. D. Concludo con una domanda molto personale, signor Presidente: si sente un sopravvissuto? R. Se si riferisce a una guerra nazionale come questa, che ha visto quasi tutte le città danneggiate dal terrorismo, dai bombardamenti esterni e da altre cose, allora si può dire che tutti i siriani siano dei sopravvissuti. Penso che questa sia la natura umana: essere un sopravvissuto. D. E per quanto riguarda lei? R. Faccio parte di quei siriani. Non posso essere disconnesso da loro; ho la stessa sensazione. Preciso: non mi definisco una persona forte che è sopravvissuta. Se non percepisci questa atmosfera, questa società o questa incubatrice per sopravvivere, non puoi sopravvivere. È un fatto collettivo; non riguarda una sola persona, non è uno spettacolo individuale. Monica Maggioni: Grazie mille, signor Presidente. Assad: grazie.


“THE PROMISE” – UN FILM SUL GENOCIDIO ARMENO Finalmente è possibile vedere in TV “The promise”, il film diretto da Terry George, stupendamente interpretato da Christian Bale, Oscar Isaac e Charlotte Le Bon. Uscito nel 2016 e mai distribuito nelle sale, ha subito il sistematico boicottaggio riservato a tutti i film che parlano del genocidio armeno. Il primo dato da chiarire, pertanto, riguarda quanto traspare dalle scarne recensioni reperibili in rete, ivi compresa la nota di presentazione nel sito di SKY: la tematica principale del film “non” è il “triangolo amoroso”, che funge solo da supporto narrativo alla rappresentazione del primo grande genocidio del XX secolo: quello subito dal popolo armeno per opera dei turchi. Terry George ha ripetuto la metodica già sperimentata con “Hotel Rwanda”, dedicato al genocidio di oltre ottocentomila Tutsi da parte dei miliziani Hutu, nel 1994. In quel caso lo spunto fu offerto da un personaggio reale, Paul Rusesabagina, direttore dell’'Hôtel des Mille Collines, che salvò 1268 persone da sicura morte. Nel film “The promise”, invece, il contesto storico è suggellato dal rapporto tra Chris, giornalista statunitense dell'American Associated Press (Christian Bale), la fidanzata Ana, artista di origine armena (Charlotte Le Bon) e l’armeno Mikael, brillante studente di medicina (Oscar Isaac), che allaccia una relazione con Ana, favorita dalle contingenze del momento e dalle comuni radici, pur essendo sentimentalmente impegnato con una ragazza del suo paese natio, promessa sposa: da qui il titolo del film. La rivalità amorosa tra i due uomini, però, viene completamente surclassata (il termine appropriato è “annullata”, come si comprenderà guardando il film) dagli eventi che fecero seguito allo scoppio della Prima Guerra Mondiale e indussero “i giovani turchi”, al potere dal 1909, a sterminare le minoranze etniche, la più numerosa delle quali era


rappresentata dal laborioso, colto e raffinato popolo armeno, sperando di arginare il declino dell’impero con una forte spinta nazionalista. Contrariamente a quanto avvenuto con “Hotel Rwanda”, però, nelle cui recensioni la disumanità e la ferocia degli Hutu viene ben evidenziata, per “The promise” si è preferito porre l’accento sul “triangolo amoroso”, sorvolando sulla ferocia e la disumanità dei turchi responsabili dell’immane tragedia, che solo nel 1915 costò la vita a oltre 1.500.000 armeni, senza contare quelli che perirono negli anni successivi a causa delle privazioni, delle torture e della sofferta diaspora verso Russia, Stati Uniti, Francia e altri paesi. (Attualmente sono oltre sette milioni i discendenti degli armeni che vivono al di fuori dei confini della loro terra). Le ragioni sono ben chiare: si cerca di non “offendere” il sultano Erdogan, alleato occidentale, che della parola “genocidio” proprio non vuol sentire parlare. In Turchia si rischia la vita al solo citarla. Ciò è grave, ovviamente, perché non merita alcun rispetto chi non sia in grado di fare i conti con la propria storia, ma è molto più grave il comportamento dei paesi occidentali che, in ossequio a “quella ragion di stato” che sempre induce all’ipocrisia relazionale, tollerano l’intollerabile. Basti pensare che del genocidio non si è mai parlato compiutamente e sono ancora molti gli stati che non lo riconoscono come tale. Solo nel 1965 (avete letto bene: 1965!), ossia dopo mezzo secolo, l’Uruguay iniziò a riconoscerlo, seguito negli anni successivi da altri ventinove paesi. In Italia, nel 1988, restò lettera morta una proposta di riconoscimento da parte dell’onorevole Giancarlo Pagliarini (Lega Nord) e si ebbe solo una flebile risoluzione parlamentare nel 2000, a seguito di un’iniziativa del Parlamento Europeo, con la quale la Camera esortava il Governo “ad adoperarsi per il definitivo superamento di ogni contrapposizione nella regione al fine di creare le premesse per la corretta tutela dei diritti umani nella prospettiva del progressivo avvicinamento ed integrazione della regione con l’Unione europea”. Come si evince facilmente, si fece ricorso a un osceno sproloquio sintattico-grammaticale pur di evitare il termine “genocidio” e, cosa ancora più terribile, si fece comunque cenno all’integrazione con l’Unione Europea, pur essendo tutti consapevoli che ciò era impossibile sia sul piano formale, per il deficit di democrazia che si registra nel paese, sia su quello sostanziale, dal momento che all’epoca in Turchia vigeva ancora la pena di morte, abolita solo nel 2004 per non vanificare sul nascere la richiesta di adesione. Occorrerà attendere il 10 aprile 2019 per il riconoscimento ufficiale, avvenuto con il voto unanime di tutti i partiti, eccezion fatta per “Forza Italia”. Un ritardo grave e vergognoso, superato solo da quello statunitense, che il genocidio ha riconosciuto il 30 ottobre scorso. Si stenda un velo pietoso, ovviamente, sui tanti stati che ancora nascondono la testa nella sabbia, lo negano o addirittura lo ritengono legittimo. Il film di Terry George, attualmente in programmazione sulla piattaforma SKY, è comunque disponibile in DVD e facilmente reperibile nei web store. Per approfondire l’argomento si segnalano anche le seguenti opere:


“La masseria delle allodole”, 2007, diretto da Paolo e Vittorio Taviani, ispirato all’omonimo romanzo storico di Antonia Arslan, del 2004, edito da Rizzoli, con il quale l’autrice ha vinto il Premio Giuseppe Berto e il Premio Stresa. (Si segnala anche il seguito: “La strada di Smirne”, del 2009, anch’esso edito da Rizzoli). “Mayrig”, 1991, diretto da Henry Verneuil e il suo seguito “588 Rue Paradis”, del 1992 (Titolo italiano: “Quella strada chiamata Paradiso”) “The cut” (Il taglio), reperibile nella versione italiana con il titolo “Il Padre”, 2014, diretto da Fatih Akin. “Ararat – il monte dell’Arca”, 2002, diretto da Atom Egoyan. Da non perdere anche il film di Elia Kazan “Il ribelle dell’Anatolia” (disponibile anche con il titolo “America, America”), del 1963, che parla della repressione perpetrata in Turchia contro le minoranze armene e greche nel 1896, prodromiche del successivo genocidio.


CANNABIS: COME PERDERE LA TESTA E A VOLTE LA VITA Il titolo di questo articolo è mutuato da un prezioso saggio di un grande psicoterapeuta: Claudio Risé. Se ne consiglia la lettura a tutti e, in modo particolare, ai giudici del “Palazzaccio”, i quali, con una recente sentenza, hanno depenalizzato la coltivazione casalinga della cannabis, purché essa avvenga in quantità minima e sia destinata esclusivamente all’uso personale. Le motivazioni della sentenza, scaturita da un ricorso, non sono ancora note e pertanto, al momento, non si comprende la ratio della decisione, che comunque aggiunge confusione a una materia già per sua natura confusa, complessa e pregna di contraddizioni. Se un tizio dedito allo spaccio abbia più case o possa disporre agevolmente di quelle di parenti e amici, come fare a distinguere la quantità minima da altro? Le sentenze della Corte di Cassazione hanno potere vincolante solo per il procedimento giudiziario per il quale vengono emesse e non incidono sulle leggi vigenti in materia, che ovviamente sono di prerogativa del potere esecutivo e sottoposte al controllo di legittimità della Consulta, la quale, con riferimento a quanto previsto dal testo unico sulle sostanze stupefacenti, ha stabilito che la coltivazione di cannabis va considerata sempre reato, a prescindere dal numero delle piantine e dalla quantità di principio attivo rinvenuto. La discriminante posta in essere dalla Corte di Cassazione, sia pure nella limitatezza di un singolo procedimento giudiziario, si configura, pertanto, come un pericoloso precedente perché spalanca le porte ad altre sentenze di analogo sentore, che poi potrebbero essere sfruttate dai fautori della liberalizzazione, non certo pochi, per forzare la


mano al Parlamento e favorire condotte sempre più liberticide. Una legge chiara e definitiva, pertanto, risulta più utile dell’acqua che disseta il viandante nel deserto. Al di là dei pasticci normativi e dei conflitti tra i vari organi, tuttavia, è bene affrontare il problema alle radici, stabilendo dei paletti ben saldi, “dogmatici”, da difendere con le unghie e con i denti contro i mistificatori di ogni ordine e grado, non importa se per le palesi carenze culturali e il deficit etico o perché direttamente interessati al miliardario business che gravita intorno allo spaccio. Costoro vanno considerati degli elementi estremamente pericolosi per la società ed esposti con fermezza e determinazione al pubblico ludibrio. Come egregiamente spiegato da Claudio Risé, è stupido differenziare le droghe leggere dalle pesanti. Le prime sono l’anticamera delle seconde e, in ogni caso, anch’esse costituiscono una grave minaccia in quanto mettono a rischio la salute degli utilizzatori e la vita delle loro potenziali vittime, come testimoniano i numerosi decessi per incidenti causati da automobilisti con la mente annebbiata, spesso anche ubriachi: la disgregazione morale dell’individuo in genere associa ogni tipo di devianza. Non ha senso asserire che la coltivazione di cannabis per uso personale possa servire per uso “terapeutico”. Le cure sanitarie sono di prerogativa dei medici e, pertanto, se realmente con la cannabis si possono realizzare dei farmaci in grado di alleviare le sofferenze causate da particolari patologie, ciò deve avvenire sotto un rigido controllo, alla pari di quanto avviene (o “dovrebbe avvenire”, ma questo è un altro discorso) con qualsiasi farmaco. Le distonie di un mondo allo sbando vedono molti soggetti, in qualsiasi ambito, paventare la liberalizzazione delle droghe con argomentazioni giustificative che spaziano da una distorta interpretazione del “libero arbitrio” (ognuno è libero di farsi il male che vuole; peccato, però, che “i drogati” costituiscano un peso per la società e un pericolo per l’altrui incolumità) e al possibile argine contro lo spaccio (la droga libera non renderebbe necessario il ricorso agli spacciatori, ma con questa logica si potrebbe legittimare qualsiasi cosa negativa, anche lo stupro, che in massima parte scaturisce dalla incapacità di controllo delle pulsioni sessuali da parte di taluni soggetti; il male è male e va sempre combattuto, non giustificato per impedirne uno più grave). La battaglia di civiltà, pertanto, deve partire dal basso e colpire duro i mistificatori. I giovani di oggi, non è certo un mistero, quando non stupendamente eccezionali e artefici di imprese fantastiche in ogni contesto (una buona fetta, ma comunque minoritaria) sono pervasi da un profondo vuoto culturale e assomigliano sempre più a zombi incapaci di rispettare qualsivoglia regola, avulsi dai più elementari valori che dovrebbero costituire il patrimonio condiviso di ogni comunità. Non comprendere queste fenomenologie e nascondere la testa nella sabbia, lasciando campo libero alla continua degenerazione etica, costituisce il modo migliore per favorire un pericoloso regresso verso forme primitive di convivenza, con quali conseguenze per il futuro dell’umanità è facilmente prevedibile. Lino Lavorgna




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