Raccolta articoli 2018

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I SENTIERI DEI CELTI: DAI HALLSTATT ALLA COLLINA DI TARA LINO LAVORGNA “Bardo che ancora canti: voi, padri delle fate, cosa resta dei vostri oppida se non un vento leggero sulle chiome degli alberi? E delle vostre foreste battute dalla pioggia e avvolte nella nebbia? Dove sono le vostre magie e le furiose battaglie e quel rullare di tamburi attorno al grande fuoco druidico? Celti scomparsi dalla scena, nascosti dai boschi e dai secoli e dal mare del Nord perennemente in tempesta. La storia continua altrove, ma Dèi e guerrieri, fate e folletti alati si muovono fra cielo e terra, fra mare e boschi, accompagnati da un sussurro: torneranno… torneranno…torneranno”. (“Torneranno” Pieralba Merlo; Celtica – Nr. 33: Sett-Ott 2004; www.galvanor.wordpress.com 21 ottobre 2004, con link alla poesia declamata dal compianto Gianni Musy) PROLOGO Le battaglie dei Romani contro i Marcomanni non sono dissimili da qualsiasi altra battaglia combattuta contro tutti i popoli assoggettati. Per un attimo, però, facciamo finta che tutto si sia svolto come riportato nel film “Il Gladiatore”: quella narrazione, ancorché per molti aspetti romanzata, ci torna utile per penetrare nell’universo celtico nel migliore dei modi possibili. All’inizio del film una musica stupenda si fonde con il primo piano di un uomo austero, assorto nei suoi pensieri. E’ bello e il suo piglio trasmette un’aura mistica che non lascia adito a dubbi: è un leader. Indossa l’armatura e quindi è un capo militare. All’improvviso il suo sguardo è attratto da un pettirosso, uccello che attraversa simbolicamente tutta la tradizione europea (1), e gli sorride accompagnandolo con lo sguardo mentre dal ramo spicca il volo. L’uomo s’incammina con passo lesto lungo un sentiero sterrato, percorso anche da colonne di soldati, a cavallo e a piedi. Siamo nella foresta di Vindobona, l’attuale Vienna, nell’anno 180 D.C. I soldati lo salutano con riverenza, appellandolo “Generale” o “Comandante”, lasciando trasparire dall’espressione dei volti l’ammirazione e il rispetto. Con uno stacco di pochi secondi la scena si sposta su un pendio che sovrasta il sentiero, popolato da altri soldati e da un vecchio con aria stanca: l’imperatore Marco Aurelio. Ci si prepara alla battaglia. Il generale è circondato dai suoi ufficiali, uno dei quali, un tal Quinto, ha la tipica espressione fastidiosa dell’ufficiale idiota e leccasedere. Con tono inutilmente arrogante, solo per farsi bello al cospetto del suo capo, rimprovera un soldato per non aver ancora spostato in avanti le catapulte, come gli aveva ordinato: “Sono troppo distanti!”, gli grida. “La distanza è buona”, replica pacatamente e a voce bassa il comandante. L’ufficiale idiota tenta di replicare: “Il rischio per la cavalleria…”, ma non fa in tempo a terminare la frase perché viene stoppato in modo perentorio: “… è accettabile. Intesi?” Le catapulte restano al loro posto e l’ufficiale, incupito, tenta miseramente e invano di recuperare qualche punto pochi attimi prima della battaglia: “Un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto”, esclama enfaticamente, ma la risposta, “Tu lo capiresti? Io lo capirei?”, lo fa incupire ancor più. Inizia la battaglia e la cinepresa indugia sul generale, che


si eleva nel cruento combattimento, uccidendo uno dopo l’altro molti nemici. La battaglia è vinta e Marco Aurelio, che l’ha osservata da un posto sicuro, tira un sospiro di sollievo. La scena si posta all’interno di una carrozza in viaggio, scortata da molti soldati, nella quale i figli di Marco Aurelio, lussuosamente vestiti, conversano placidamente. Còmmodo, grazie alla bravura di Joaquin Phoenix, risulta subito antipatico; Lucilla pensa solo a farsi un bagno caldo. Giunto al quartier generale, il Principe chiede dove fosse il padre e dopo aver appreso che è nel luogo della battaglia da diciannove giorni, lo raggiunge a cavallo. Con voce tremula sembra quasi volersi scusare per il “ritardo”: “L’ho mancata… mi sono perso la battaglia…”, balbetta, abbracciando l’imperatore, che gli risponde sorridendogli: “Tu hai perso la guerra”, per poi invitarlo a omaggiare Massimo, principale artefice della vittoria. I due si abbracciano e l’inquadratura evidenzia quel confronto tra le due tipologie umane che daranno corpo alla trama: il meschino e l’eroe. L’eroe, lo scopriremo durante la conversazione con Marco Aurelio, è nato in Hispania (2), sulle colline di Trujillo, che così descrive: “Un posto molto semplice. Pietre rosa che si scaldano al sole, e… un orto che profuma di erbe il giorno e di gelsomino la notte. Oltre il cancello c’è un gigantesco pioppo. Fichi, meli, peri… Il terreno, Marco, è nero. Nero come i capelli di mia moglie”. E’ lì che vuole ritornare. E’ lì che non ritornerà. Massimo Decimo Meridio, quindi, è un “celtibero”. Nelle sue vene scorre il sangue di un fiero popolo: il popolo dei Celti. Non c’è dato sapere cosa passasse nella mente di Ridley Scott quando ha creato l’antitesi tra Còmmodo e Massimo; molto probabilmente ha solo pensato a sviluppare un contesto nel quale emergessero le pesanti distonie dell’epopea romana, sulla falsariga di quanto fece William Wyler con “Ben Hur”. Fatto sta che proprio tale confronto, tra un romano e un celtibero, sapientemente sviluppato nell’intera trama e sublimato nella parte finale, risulta oltremodo significativo sotto il profilo antropologico, mettendo bene in evidenza fondamentali e diffusi aspetti comportamentali. Ridley Scott riversa su Còmmodo tutto lo squallore che per secoli ha rappresentato “il rovescio della medaglia” di un popolo conquistatore e su Massimo Decimo Meridio la sublime bellezza degli uomini puri e degli eroi, capaci di vivere degnamente ogni attimo della loro vita. Per scelta, certo, ma ben supportata da un retaggio ancestrale particolare, che non consente al male di attecchire. Vi è poi un altro elemento che, seppure empiricamente, dal momento che il regista non ha mai rivelato nulla al riguardo, risulta oltremodo interessante: la canzone finale del film, “Now we are free”, cantata da Lisa Gerrard con parole di una lingua inventata (3), mentre il Gladiatore raggiunge nell’oltretomba moglie e figlio, ha una matrice musicale chiaramente celtica. I CELTI, QUESTI SCONOSCIUTI Ma chi sono questi Celti, così trucemente descritti da Polibio, da Cesare e da tanti altri autori classici? Da dove vengono? Da dove nasce il mistero che li avvolge e che tanti studiosi affascina? Diciamo subito che l'articolo non potrà rispondere a tutte le domande e ha un solo scopo: aprire la porta su un mondo meraviglioso,


stimolando a intraprendere un viaggio nel tempo ricco di magiche suggestioni. Chiunque inizierà quel viaggio non riuscirà a interromperlo e non si stancherà mai di andare sempre più a fondo, fino alla notte dei tempi. In tanti non sapranno resistere (buon per loro) alla tentazione di percorrere materialmente quei sentieri che hanno segnato una parte importante della storia d’Europa, alla ricerca di segni che facciano battere forte il cuore. Il viaggio inizia da Hallstatt, in Austria, e La Tène, in Svizzera, due piccoli comuni che si assomigliano: entrambi sorgono sulle sponde di splendidi laghi e ospitano siti archeologici non troppo frequentati, a onor del vero, nonostante la loro importanza. E’ in quell’area, infatti, che dal XIII al I secolo avanti A.C. si svilupparono due culture, che portano i nomi dei rispettivi luoghi, grazie alla fusione di elementi autoctoni con “gli indoeuropei”, un insieme di popolazioni aventi un unico ceppo, che intorno al 2000 A.C. dalle fredde pianure della Russia iniziò a muoversi sia verso l’Europa Centrale sia verso l’India e la Persia. In molti, tra voi che state leggendo, hanno le proprie radici su quelle sponde: radici celtiche. L’apogeo dell’espansionismo celtico in Europa si ebbe intorno al III secolo A.C., con una marcata presenza in Europa Centrale, Gallia (che arrivava fino all’Emilia Romagna), Penisola Iberica, Britannia, Irlanda e in un vasto territorio dell’Anatolia Centrale: la Galazia. Tale delimitazione geografica serve a definire in linea di massima l’area d’influenza, essendo impossibile scendere nei dettagli delle varie ramificazioni, per le quali si rimanda alla bibliografia indicata in calce. Le “contaminazioni” con le varie popolazioni autoctone sono profonde e significative, in Italia come in qualsiasi altro posto. In Pannonia, per esempio, le numerose tribù celtiche che occupavano il vasto territorio (Eravisci, Scordisci, Cotini, Osii, Boi, Anartii, Taurisci) s’integrarono gradualmente con le non meno numerose tribù illiriche e con i Longobardi, anche loro di matrice indoeuropea. Questi ultimi, che stanziavano nel Sud della penisola scandinava (Scania), iniziarono una discesa verso l’Europa Centrale nel I secolo A.C. Tra i Longobardi che penetrarono in Italia al seguito di Re Alboino, nel 568 D.C., non erano pochi coloro nelle cui vene scorreva sangue celtico. Buona parte della loro progenie, soprattutto quella il cui cognome è rimasto inalterato, non è di difficile identificazione. (4) I Romani, come noto, conquistando tutta l’Europa celtica, obnubilarono gran parte del loro retaggio, sia mutuandone gli aspetti peculiari sia imponendo leggi, usi e costumi, in modo da facilitare l’integrazione. Vichinghi e Anglosassoni, a loro volta, contribuiranno al declino nelle isole britanniche, ma non dappertutto.

IRLANDA: NELL’ISOLA VERDE SOPRAVVIVE IL FASCINO DEL CELTISMO I Celti iniziarono a popolare l’Irlanda verso il 300 A.C. e, sfuggendo alla dominazione romana, riuscirono a sviluppare e preservare gli elementi fondamentali del celtismo per molti secoli. Anche la dominazione vichinga, iniziata nell’ottavo secolo D.C., non determinò sostanziali cambiamenti sociali: contrariamente a quanto accaduto altrove, furono i conquistatori a integrarsi con


le popolazioni autoctone, convertendosi al cristianesimo e aiutandole militarmente quando l’isola fu invasa dai Normanni. E’ in Irlanda, pertanto, che si trovano le tracce più profonde e significative di quell’antico popolo. Il Cristianesimo si sviluppò nel V secolo D.C. grazie a Maewyn Succat, figlio di Calphurnius e Conchessa, nobili romani cristiani residenti a Bannhaven Taberniae, l’attuale Carlisle, nel nord della Britannia romana. (E non in Scozia, come erroneamente è scritto in alcuni testi anche importanti: i romani ci provarono, ma non conquistarono quel territorio ostile che chiamavano Caledonia). Il giovane, nato nel 385 D.C., all’età di sedici anni fu fatto prigioniero dai pirati irlandesi e venduto come schiavo nel Nord dell’Isola. Gli fu affidato il compito di curare il gregge di pecore e visse anni duri, tra gente di cui non comprendeva la lingua, che imparò gradualmente. Dopo sei anni si rese conto che gli irlandesi erano brave persone, laboriose, con un forte senso della famiglia e rispettose del prossimo. Nella sua mente di fervente cristiano si radicò un forte desiderio di convertirli. Riuscì a scappare e fece ritorno nell’isola dopo aver perfezionato gli studi in Gallia ed essere stato consacrato vescovo in Italia. Il giovane è passato alla storia con il nome di San Patrizio, patrono e apostolo dell’Isola Verde. Le sue spoglie (si dice, ma non è sicuro), riposano nella cattedrale di Downpatrick, cittadina non lontana da Belfast e quindi in quel pezzo d’Irlanda martoriato, che aspetta dal 1921 di ricongiungersi alla madre patria. E’ L’Irlanda pre-cristiana, tuttavia, che offre intriganti spunti d’interesse grazie a un ciclo mitologico tanto affascinante quanto trascurato, che val la pena di conoscere perché consente di legare la leggenda alla storia e meglio comprendere peculiari aspetti del nostro continente. Essendo impossibile anche solo riassumerlo, ci limiteremo a fornire delle linee guida che ciascuno potrà sviluppare autonomamente, dedicando qui maggiore spazio solo alle festività celtiche. La mitologia irlandese è suddivisa in quattro filoni. 1)Il ciclo mitologico, nel quale s’incontrano i Túatha Dé Danann, ossia il più importante dei popoli preistorici che popolavano l’Irlanda. 2) Il Ciclo dell’Ulster, che vede tra i protagonisti la più importante divinità celtica, Lúgh, padre del semidio Cú Chulainn, eroe dotato di una bellezza tale da indurre negli uomini dell’Ulster il timore che prima o poi avrebbe sedotto mogli e figlie. Dal Dio Lúgh trae origine una delle principali festività celtiche: Lughnasadh. Numerosi i toponimi che rimandano al suo nome: Lione, Loudon, Saint-Bertrandde-Comminges in Francia; Leiden in Olanda; Liegnitz in Polonia; Carlisle in Inghilterra; Lucca in Italia; Lugo in Spagna, Lugano in Svizzera. Lo stesso dicasi per tanti cognomi presenti in tutta Europa. 3) Il ciclo feniano, incentrato sulle gesta dell’eroe Fionn mac Cumhail, è di rilevante importanza per molteplici fattori che hanno attinenza anche con i giorni nostri. Sulla figura del figlio di Fionn, Oisín, è plasmato il bardo Ossian, vissuto nel III secolo D.C., autore dei canti che portano il suo nome, dimenticati per secoli, ancorché tramandati oralmente, e pubblicati nel 1760 grazie allo scrittore scozzese James Macpherson. Misconosciuti nel nostro tempo e anche un po’ irrisi a causa di presunte manipolazioni praticate da Macpherson, nel corso del 18° e


19° secolo sono stati apprezzati da personaggi del calibro di Goethe, Walter Scott, Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo, Ippolito Pinemonte, Vincenzo Monti, Giacomo Leopardi e William Butler Yeats, autore del poema epico “The Wanderings of Oisin”. Napoleone Bonaparte aveva sempre con sé una copia dei “Canti di Ossian”. Il termine “feniano” caratterizza in modo pregnante i repubblicani irlandesi che aspirano all’indipendenza dal Regno Unito ed è utilizzato in modo ingiurioso sia dagli inglesi sia dagli unionisti nord-irlandesi. Fu consacrato politicamente nel 1848 da John O’Mahony, ispiratosi proprio ai “Fianna” del ciclo, ossia i guerrieri sempre pronti a combattere con ardore in caso di necessità. Feniani erano chiamati anche i Patrioti Irlandesi dell’Irish Republican Army, che ha visto tra i suoi membri più illustri personaggi come James Connolly, Arthur Griffith, Michael Collins e, in epoca più recente, il mitico Bobby Sands, che si lasciò morire di fame in carcere nel 1981, insieme con nove compagni di prigionia. L’ultimo esponente di questa schiatta di Eroi è Gerry Adams, attuale capo del partito indipendentista dell’Irlanda del Nord, Sinn Féin, che però ha deciso di ritirarsi a vita privata nel 2018. Il principale partito politico dell’Eire, Fianna Fáil (soldati del destino), si richiama anch’esso agli antichi Fianna. 4) Il ciclo storico, che comprende numerosi Annali riportanti gli eventi, cronologicamente datati, dalla Preistoria al XVII secolo, redatti dai monaci amanuensi. Oltre alle succitate opere è molto importante il “Mabinogion”, una raccolta di manoscritti gallesi medievali che hanno stretta attinenza con le tradizioni irlandesi e aprono la porta su un altro importante filone letterario, che riguarda precipuamente l’Inghilterra, ancorché impregnato di celtismo: il ciclo arturiano. LE FESTIVITA’ CELTICHE Un’esaustiva trattazione dell’argomento dovrebbe prevedere anche l'approfondita analisi della religione, cosa ovviamente impossibile. Rimandando pertanto tale complesso approfondimento al prezioso testo di Margarete Riemschneider, citato nella bibliografia, limitiamoci a chiarire alcuni concetti fondamentali, anche per fare luce su mistificazioni e grossolani errori interpretativi. L’anno celtico era suddiviso in dodici mesi di 29 e 30 giorni, con nomi che si riferivano a eventi climatici, alle attività praticate e all’evocazione delle varie festività. L’amore per la natura era molto sentito e tutte le festività, di fatto, altro non erano se non la sublimazione di siffatto amore. Le feste principali erano quattro: Imbolc, Beltane, Lughnasad e Samhain. Per gli antichi Celti il giorno iniziava al tramonto del sole. Le festività, pertanto, sono sempre indicate a cavallo tra due giornate. Quando l’Irlanda fu cristianizzata, la Chiesa cattolica, rendendosi conto di quanto fosse difficile sradicarle in modo assoluto, le fece proprie mutuandole secondo i più consoni dettami della dottrina. Imbolc ricorre tra il 31 gennaio e il 1 febbraio ed è dedicata alla Dea Brighid e alle forze femminili presenti in natura. Essendo la Dea signora della poesia, era anche la festività dei bardi e delle competizioni poetiche. E’ detta anche “festa del


latte” perché coincide con il primo fiorire del latte nelle mammelle delle pecore. Fu trasformata dalla Chiesa cattolica nella Festa della Purificazione della Beata Vergine Maria, trasformatasi in Presentazione al Tempio di Gesù dopo il Concilio Vaticano II e meglio nota come “Candelora”. Beltane (o anche Beltaine, Belteinne, Beltine), 30 aprile-1maggio, segnava la fine dell’inverno e l’inizio della metà luminosa dell’anno. Era dedicata al dio Beil e vuol dire, letteralmente, “I fuochi di Beil”. I druidi, nel corso della notte, accendevano grandi falò nei campi e sulle cime dei colli, attorno ai quali si riunivano gli abitanti del luogo. Il fuoco veniva attraversato da uomini e armenti in segno di purificazione. L’importanza di Beltane è legata soprattutto all’arrivo dei Tuatha Dé Danann, gli dèi supremi che portarono sull’isola il druidismo, la magia e i quattro oggetti sacri: la Pietra del Destino, la Lancia di Lugh, il Calderone di Dagda e la Spada di Nuada. Con l’arrivo dei Tuatha Dé Danann la mitologia celtica assurge a livelli tali da annullare ogni subalternità a quella greco-romana, perché riesce a fondere in modo più armonico e veritiero il rapporto umanodivino. (5) Lughnasad, 31luglio-1agosto, come già detto è dedicata a una delle più importanti divinità del pantheon celtico: Lugh, Dio del fuoco e della luce, che viene ringraziato per il raccolto. Le origini della festa, tuttavia, sono associate alla madre di Lugh, Tailtiu, che morì per l’eccessivo lavoro svolto nei campi. Nel periodo di Lughnasad, che poteva durare anche un mese, tre giorni erano dedicati ai riti religiosi e gli altri alle assemblee delle tribù, alle fiere e alle gare di abilità in diverse discipline, tradizione che si perpetua ancora oggi in Scozia con gli Higland games: gare di forza tra atleti e competizioni tra danzatori che giungono da ogni angolo del Paese. Agosto era anche il mese ideale per la celebrazione dei matrimoni e gli sposi eseguivano delle danze rituali prima della cerimonia ufficiale, praticata dai genitori. Samhain, qui citata per ultima, in realtà è la prima festa dell’anno. Ricorre, infatti, dal 31 ottobre all’1 novembre, Capodanno Celtico. E’ considerata la più importante delle feste in quanto ingloba più elementi rituali. Nel ciclo delle stagioni si registra il periodo in cui la terra ha dato i suoi frutti e si prepara all’inverno. I riti prevedevano il ringraziamento per il raccolto e la preparazione spirituale all’anno successivo. L’elemento più suggestivo della festa, tuttavia, è rappresentato dal momentaneo abbattimento di quel sottile velo che separa il mondo dei morti da quello dei vivi. Tutte le persone decedute nel corso dell’anno potevano tornare sulla terra in cerca di nuovi corpi da possedere e in tal modo ritornare in vita. Nei villaggi venivano spenti i focolari per impedire l’accesso agli spiriti maligni. Al mattino, poi, i druidi accendevano il Nuovo Fuoco sulla collina di Tara e simbolicamente portavano i tizzoni ardenti a tutte le famiglie, che potevano riaccendere i focolari. Contrariamente a una diffusa credenza, durante la notte di Samhain nessuno si avventurava al di fuori delle proprie abitazioni, eccezion fatta per i druidi, che si riunivano nei luoghi sacri per celebrare l’inizio del Nuovo Anno. Il periodo di Samhain è legato a molteplici eventi della tradizione celtica, il più importante dei quali è la sconfitta dei perfidi Formoriani da parte dei


Tuatha Dé Danann. La festività era così radicata nella tradizione popolare da indurre la Chiesa cattolica a spostare la festa che onorava il martirio dei primi cristiani da maggio all’1 novembre, in modo da toglierle “spazio operativo” e ridurne l’importanza. In virtù del simbolismo legato all’abbattimento delle barriere tra il mondo dei morti e quello dei vivi, si stabilì anche la commemorazione dei defunti. La mistificazione praticata negli Stati Uniti, denominata Halloween e diffusasi un po’ ovunque da una quindicina di anni, non ha nulla a che vedere con la sacralità del Samhain, anche se da tale festività trae spunto. Di Halloween, però, parleremo in altra occasione. Qui basti dire che nella notte di Samhain, se proprio si vuole “festeggiare”, ciascuno dovrebbe rallentare le proprie attività e starsene davanti a un caminetto presso la propria dimora, in raccolta meditazione o in gradevole conversazione con parenti e amici. Meglio sarebbe, tuttavia, raggiungere quella collina non lontana da Dublino, antica residenza del Re Supremo Irlandese, che per diventare tale doveva dimostrare di saper volare al disopra della Lia Fáil, la Pietra del Destino, stupefacente megalite monolitico (menhir) alto 155 metri. E’ lì, sulla collina di Tara, che intorno a un magico fuoco si possono ancora sentire le voci degli antichi Feniani e quelle dei Tuatha Dé Dannan. Più di ogni altra cosa, però, si può provare una sensazione indescrivibile: acquisire la consapevolezza di essere entrati in un universo parallelo e desiderare di addentrarvisi. Affrettatevi: è un universo così grande e fascinoso che una vita intera potrebbe non bastare per esplorarlo tutto. NOTE 1)In Scandinavia era sacro a Thor, dio del tuono, del fulmine e della tempesta. In alcune zone della Bretagna si credeva che avesse portato il fuoco sulla Terra. Nella tradizione celtica rappresenta il passaggio tra l’anno vecchio e l’anno nuovo e lo vede contrapposto allo scricchiolo. L’avvicendamento è caratterizzato dalla lotta tra il Re-Agrifoglio (o vischio, che rappresenta l’anno nascente e ospita il pettirosso), e il Re-Quercia, (che incarna l’anno morente e tra i cui rami si nasconde lo scricciolo). Durante il solstizio d’inverno il Re agrifoglio sconfigge il Re-Quercia. Canta, il pettirosso, per salutare il nuovo anno. 2) Il nome stesso, Massimo Decio Meridio, rimanda alla zona di nascita, essendo Merida l’antica Emerita Augusta, non lontana capitale della Lusitania. Il personaggio, naturalmente, è inventato e non ha nessuna attinenza, come spesso si legge, con Marco Nonio Macrino, bresciano di nascita e generale al servizio di Marco Aurelio, che condusse una vita agiata e felice. 3) Bachofen sosteneva che il simbolo desta un presagio, mentre la lingua può solo spiegare. Solo al simbolo riesce di raccogliere nella sintesi di una impressione unitaria gli elementi più diversi. Così come Tolkien ebbe bisogno di inventare la lingua elfica, per conferire alle parole un suono che corrispondesse alla loro effettiva valenza, Lisa Gerrard ha fatto scaturire sentimenti altrimenti indescrivibili attraverso parole non riconducibili a nessun linguaggio umano. Nel 2006, su esplicita richiesta dell’attrice e cantante Zaira Montico, scrissi un testo


in inglese adattandolo alla colonna sonora del brano e la canzone è stata così cantata nello spettacolo itinerante “Cavallomania”, da lei ideato e condotto. 4) Per l’etimologa de cognomi con tre consonanti consecutive vedi www.lavorgna.it In rete, inoltre, non è difficile reperire una nutrita lista di cognomi con etimo tipicamente celtico (Es. Anesa, Baiguini, Belloli, Bugada, Corna, Galizzi, Mantovani, Morzenti, Noris, Rebussi, Taramelli, Teli, Tirloni, Vaerini). 5) Comprendo bene quanto questo concetto possa essere di difficile digestione, seppure ben consapevole che basterebbe addentrarsi adeguatamente nella materia per rimodulare le proprie convinzioni. Un esempio importante, citato come termine di paragone, è l’opera tolkeniana, che molti scambiano per “letteratura fantasy”. Avendo essa però raggiunto una discreta fama, sono tanti gli studiosi che hanno corretto l’errore, riconoscendole il giusto tributo di qualità e quelle peculiarità che la collocano molto in alto nel pur composito universo delle grandi opere letterarie di tutti i tempi. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Venceslas Kruta, “La grande storia dei Celti”, Newton & Compton Editori, 2003 Margarete Riemshneider, “la religione dei Celti”, Società Editrice Il Falco, 1979 Gerard Hern, “Il mistero dei Celti”, Garzanti, 1975 – 1981 Jean Markale, Il Druidismo, Mondadori, 1998


IL PIAVE MORVORAVA - I PARTE Con questo articolo iniziamo a celebrare il centesimo anniversario di un evento che cambiò la storia del mondo, macchiato dal sangue di 25milioni di persone, tra militari e civili. La Grande Guerra, già raccontata in mirabolanti saggi storici, romanzi, film, beneficerà di sicure nuove rievocazioni che poco potranno aggiungere al tanto già rappresentato, ma pur sempre utili sia sotto il profilo culturale sia per meglio assimilare le profonde e veloci mutazioni antropologiche che hanno influito pesantemente sul comportamento umano. “CONFINI” proverà a offrire il proprio contributo, mese dopo mese, fino a novembre, sforzandosi precipuamente di proporre gli argomenti con una chiave di lettura che consenta di andare oltre la mera esposizione dei fatti, mettendo in primo piano soprattutto le personalità di coloro che li hanno determinati e il contesto socio-politico che ha funto da elemento condizionante, rifuggendo da manierismi e censure, pur nella consapevolezza di non essere depositari di verità assolute. Nel manifesto programmatico del magazine, varato nel 1994, è scritto chiaramente: “Confini è il dubbio, davanti alle certezze ottuse. Confini è l'immagine di un futuro costruito sulla storia che narriamo”. Cercheremo di narrare, pertanto, una storia importante dalla quale trarre spunti per meglio guardare dentro noi stessi, magari per rimettere in discussione pensieri e convincimenti che ci accompagnano da sempre, grazie anche a una storiografia per certi versi pasticciona, per altri palesemente bugiarda e, solo molto raramente, se non proprio “obiettiva”, quanto meno “onesta”. Diradare le troppe nubi che offuscano la verità storica e capire da dove veniamo può facilitare il cammino, soprattutto ai più giovani, verso un futuro che assomiglia sempre più a un’autostrada priva di barriere divisorie, nella quale tutti corrono all’impazzata, in qualsiasi direzione, distruggendosi vicendevolmente. Uno scenario terribile, ancor più nefasto di qualsiasi guerra. Nella trattazione del conflitto daremo maggiore risalto alle vicende italiane ed è da questo presupposto che scaturisce il titolo del minisaggio. Come sempre, marceremo controvento e controcorrente. LA GUERRA CHE NESSUNO VOLEVA Era uno spirito inquieto, Paul Valery, e la sensibilità di poeta non gli impediva di manifestare con chiarezza e durezza i pensieri sulla vita, sugli uomini, sulla storia. Una sua celebre frase, pertanto, è la più opportuna per inquadrare nella giusta prospettiva le drammatiche vicende che ci accingiamo a narrare: “Questi meschini europei hanno preferito logorarsi in lotte intestine, invece di assumere nel mondo il grande ruolo che i Romani seppero assumersi e mantenere per secoli”. Prescindendo dal riferimento ai Romani, che lascia trasparire i sensi di quella diffusa ammirazione sulla quale sarà lecito fare chiarezza in altri momenti, è evidente come per il grande pensatore franco-italiano la cecità degli europei e la perseveranza nel volersi combattere vicendevolmente, invece di comprendere quanto fosse importante avviare un processo federativo, più o meno analogo a quello che si era attuato negli USA, doveva necessariamente sfociare in quella


catastrofe già prevista da George Sorel, manco a dirlo anch’egli francese e filosofo, non meno sanguigno e caustico. Già nel 1906 affermò che era praticamente impossibile federare dei popoli troppo diversi tra loro per usi e costumi e poi, nel 1912, quando ebbe chiari i sentori dell’imminente conflitto, dichiarò testualmente: “L’Europa, questo cimitero, è abitata da popoli che cantano prima di massacrarsi tra loro. Presto i francesi e i tedeschi canteranno”. I pensieri e le previsioni dei grandi uomini, però, restano accademia fino al momento in cui non trovano effettiva verifica e le sue esternazioni, pertanto, al massimo furono oggetto di conversazioni salottiere, senza scalfire minimamente i giochi di potere dei vari governi, intenti a curare i propri interessi, grazie anche a complesse alchimie dinastiche. I regnanti d’Europa, in effetti, erano tutti imparentati tra loro: un’immensa famiglia che, alla pari delle corti pre-rivoluzione francese, viveva tra agi e lussi sfrenati, poco curandosi dei popoli assoggettati. I vincoli parentali dell’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria (1830-1916), esponente della principale famiglia reale e imperiale europea, costituiscono un dedalo ramificato in tutte le casate regnanti. Guglielmo II, (1859-1941), imperatore di Germania, era nipote della Regina Vittoria d’Inghilterra, essendo sua madre la figlia di quest’ultima nonché sorella del futuro re Edoardo VII (soprannominato “Lo zio d’Europa”) e di Alice, che sposò Luigi IV d’Assia, Granduca d’Assia e del Reno, a sua volta legato per vincoli parentali a molte casate reali europee. Nicola II di Russia (1868-1918) era figlio della principessa Dagmar di Danimarca (1847-1928). Sposando Alice Vittoria Elena Luisa Beatrice d’Assia, figlia di Alice e Luigi IV d’Assia, strinse stretti vincoli parentali tanto con la corona inglese quanto con quella tedesca. Giorgio V del Regno Unito (1865-1936), era il figlio di Edoardo VII e di Alessandra di Danimarca, sorella di Dagmar, imperatrice di Russia in quanto moglie di Alessandro III, ossia i genitori di Nicola II. Il Re d’Italia Vittorio Emanuele III (1869-1947) era nipote di Maria Adelaide d’Asburgo Lorena, a sua volta figlia del famoso Arciduca Ranieri, primo viceré del Lombardo-Veneto, e nipote di Maria Luisa di Borbone (mamma dell’Arciduca). Il bisnonno di Maria Adelaide, pertanto, era Carlo III di Borbone, Re di Napoli dal 1734 al 1759 e Re di Spagna dal 1759 al 1788. Il suocero di Maria Adelaide, Carlo Alberto di Savoia (padre di Vittorio Emanuele II), le era anche zio in quanto fratello di sua madre Maria Elisabetta di Savoia. La suocera, Maria Teresa d’Asburgo-Toscana, le era anche cugina di primo grado in quanto figlia di Ferdinando III d’Asburgo Lorena (fratello dell’Arciduca Ranieri). Dulcis in fundo, Maria Adelaide era anche la pronipote della famosa regina di Francia, Maria Antonietta d’Asburgo Lorena, decapitata nel 1793. Alberto I, Re dei Belgi (1875-1934), era imparentato da parte materna con la potente dinastia tedesca degli Hohenzollern-Sigmaringen, che vantava illustri antenati tra principi elettori, Re di Prussia, sovrani di Romania e imperatori germanici. Sposò Elisabetta Gabriele di Baviera (1876-1965), nipote sia dell’Imperatrice d’Austria (la famosa “Sissi”) sia di Maria Sofia delle Due Sicilie,


moglie di Francesco II di Borbone (Franceschiello, ultimo re delle Due Sicilie). Elisabetta, inoltre, per parte materna era nipote di Michele di Braganza, Re del Portogallo. La figlia di Alberto I ed Elisabetta, Maria José del Belgio (1906-2001), nel 1930 sposò Umberto II di Savoia, ultimo Re d’Italia. In Spagna, che si mantenne neutrale e non partecipò al conflitto (1), regnava Alfonso XIII di Borbone (1886-1941), figlio di Maria Cristina d’Asburgo-Teschen e sposo di Vittoria Eugenia di Battenberg, a sua volta figlia di Beatrice di Sassonia-Coburgo-Gotha, ultima figlia della Regina Vittoria e di Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha. Un bell’intreccio dinastico-familistico di non facile decantazione che, come meglio vedremo in seguito, di tutto produsse fuorché grandi statisti. Ciononostante, alla vigilia della Grande Guerra, l’Europa era “il centro del mondo”, che dominava in massima parte. Unita, sarebbe stata invincibile. Il suo potenziale si esprimeva in qualsiasi settore: possedeva gli eserciti più forti al mondo; con i soli paesi che a pieno titolo potevano definirsi industriali (Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio, Francia, Germania, Svizzera e Italia) superava abbondantemente la produzione degli Stati Uniti; sul piano artistico, culturale e intellettuale non era nemmeno il caso di parlare di primato perché la supremazia era assoluta e incomparabile. Il rovescio della medaglia era rappresentato dalle aspre divisioni nel suo seno che, perpetuando antichi rancori, alimentavano odio e intrighi, fomentati anche dalla difficile condizione sociale. Gran parte della popolazione, infatti, viveva in misere condizioni a causa dei salari bassi e del sistematico sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti, adusi solo ad aumentare i profitti. La cospicua produzione culturale, ancorché florida in ogni paese, restando appannaggio di classi ristrette, non riuscì ad amalgamare i popoli, prigionieri di marcati sentimenti nazionalisti. Fu proprio l’onda lunga di questi nazionalismi a generare i prodromi di quel terribile cataclisma che sconvolse il continente dal 1914 al 1918. L’assassinio dell’Arciduca ereditario Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia, a Sarajevo, il 28 giugno 1914, rappresentò la buona occasione che l’Austria attendeva per regolare i conti con la Serbia, cresciuta territorialmente dopo le guerre balcaniche del 1912 e 1913 e desiderosa di riunire sotto la propria corona tutti gli Slavi. La crisi, però, si sarebbe dovuta risolvere localmente e i governanti austriaci non pensavano certo a un conflitto su larga scala quando inviarono il famoso ultimatum, tra l’altro senza uno straccio di prova che il giovane attentatore avesse agito su ordine del governo serbo (2). Nessuno voleva la guerra, del resto, e la Germania, alleata dell’Austria dal 1879 (3), lo specificò in modo chiaro alle potenze europee: “Noi desideriamo la localizzazione del conflitto, perché ogni intervento di un’altra potenza, vista la diversità dei legami di alleanza, determinerebbe delle conseguenze incalcolabili”. Non solo nessuno voleva la guerra, ma tutti erano consapevoli dei grossi rischi in caso di un conflitto su scala continentale. Guglielmo II, che lo storico francese Duroselle definisce “pusillanime e terrorizzato dalle proprie responsabilità” (4), dopo la vittoria di Sedan (1870) aveva visto la progressiva trasformazione della Germania nella potenza politica e militare più importante del continente. Perché


compromettere questo primato per una faccenda interna tra Austria e Serbia? Era ben consapevole, tra l’altro, che la morte dell’Arciduca Ferdinando aveva fatto tirare un sospiro di sollievo a molti governanti austriaci, ivi compreso lo stesso imperatore, che mal digeriva la propensione del nipote a rendersi paladino delle minoranze slave, promettendo loro prospettive autonomistiche all’interno dell’impero (5). Il 7 luglio partì addirittura per una crociera, sicuro che la guerra fosse ben lungi dallo scoppiare e che, nella peggiore delle ipotesi, tutto si sarebbe risolto in fretta, con un conflitto localizzato. Dopo tutto “Dio” non poteva che orientare gli eventi in tal guisa e non a caso il motto della casa imperiale, mutuato dall’Ordine Teutonico e dai Re di Prussia, era proprio “Gott mit uns”. Su Poincaré esistono pareri contrastanti: alcuni lo vedono come un guerrafondaio, altri come una vittima degli eventi, che non riuscì a gestire come avrebbe voluto. Di certo ce l’aveva a morte con la Germania per la perdita dell’Alsazia-Lorena: era un bimbetto di dieci anni quando i Tedeschi occuparono la sua città natale, Bar-le-Duc, e questo episodio lo segnò molto. Non tollerava la politica militarista di Guglielmo II e, ritenendo la guerra un evento possibile, si adoperò per rafforzare le forze armate e rinsaldare i rapporti con Russia e Regno Unito, già sanciti negli accordi politico-militari noti come “Triplice Intesa”. Prepararsi a una guerra, però, non vuol dire desiderarla, soprattutto in un momento in cui aveva piena consapevolezza dei limiti del proprio esercito e della forza di quello avversario. Nicola II, tra tutti i regnanti, era di sicuro il più pacifista, anche a causa dei complessi tormenti interiori e le tante ombre familiari che condizionavano il suo agire. La dinastia Romanov, prescindendo dagli unanimi tributi di grandezza di cui è beneficiario Pietro I, che regnò dal 1682 al 1721, è più nota per gli omicidi, gli scandali e le nefandezze di corte che per gli aspetti positivi (6). Giorgio V, dal suo canto, era molto più preoccupato delle vicende irlandesi e a Londra l’eco dell’assassinio di un arciduca austriaco giunse molto attenuato. “Dove sono questi Balcani?” E’ la domanda che si posero molti inglesi, anche di alto rango, come sempre prigionieri della loro marcata autoreferenzialità. Francesco Giuseppe era in vacanza a Ischl quando i nipoti che non amava furono assassinati a Sarajevo. Vecchio e provato da tristi vicende familiari e da pesanti disfatte militari (7), non celava il suo intento di dare una lezione alla Serbia, senza pensare però a una guerra estesa, fomentata invece dall’uomo forte della Corte Asburgica, il potente ministro degli esteri Conte Leopold Berchtold von und zu Ungarish. In Italia la morte dell’Arciduca Francesco Ferdinando fu accolta con moderata gioia, essendo egli ritenuto ostile agli interessi nazionali. Il governo era presieduto da Antonio Salandra, uno dei tanti “pupazzi” di Giolitti, che lo scelse come successore quando decise di dimettersi per le conseguenze del “Patto Gentiloni” (8). Nato in provincia di Foggia nel 1853, Salandra era il tipico esponente di quella borghesia dotta, attenta a mantenere gli equilibri, almeno fin quando è possibile. Trovatosi all’improvviso a gestire un evento molto più grande di lui, dovette dimostrare in fretta di essere all’altezza del ruolo, cosa che fece staccando


i fili che lo tenevano legato al suo protettore e acquisendo la personalità del protagonista. Nel resto d’Europa, intanto, le speranze di preservare la pace si affievoliscono giorno dopo giorno, nonostante i frenetici tentativi da tutti esperiti. Le condizioni poste alla Serbia nel famoso ultimatum, in realtà, sono umilianti e inaccettabili. Nondimeno, alle 17,50 del 25 luglio 1914, dieci minuti prima della scadenza fissata dal governo di Vienna per ottenere una risposta, il primo ministro Nikola Pašić comunicò all’ambasciatore austriaco, il Barone Gisel, che la Serbia accettava il referendum! Accettava le umiliazioni, gli insulti, le accuse gratuite. Riteneva solo che fosse impossibile consentire alle autorità austriache di indagare autonomamente nel territorio serbo. Dopo tutto erano stati avvertiti dei rischi connessi al viaggio dell’Arciduca in Bosnia! Solo chi fosse in mala fede può ritenere che la Serbia non avesse fatto di tutto per evitare la guerra. Gisel, però, aveva ordini ben precisi: o tutto o niente e di fatto già nelle ore precedenti aveva preparato i bagagli per lasciare Belgrado, sicuro che l’incontro si sarebbe concluso secondo i desiderata di Vienna. Il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia e nello stesso giorno Nicola II propose una conferenza immediata con gli Austriaci, che non si degnarono nemmeno di rispondere. Guglielmo II, dal suo canto, inviò un telegramma al cugino il cui testo rivela la sua ipocrisia: “Spero bene che mi sarai di aiuto nello sforzo che faccio; sforzo che tende a evitare tutte le difficoltà che ancora potrebbero presentarsi”. In realtà la mobilitazione in Germania era in atto già da quattro giorni. Nicola II, che non aveva capito ancora nulla, gli rispose: “Ti prego, in nome della nostra vecchia amicizia, dai fare il possibile per impedire ai tuoi alleati di andare troppo in là”. L’Austria, però, nella notte tra il 29 e 30 luglio, alle 0,20, sparò il primo colpo di cannone contro Belgrado. Nel corso della notte successiva le truppe austriache tentarono di attraversare il Danubio, ma furono sconfitte. Gli austriaci si fermarono e i veri combattimenti con la Serbia sarebbero iniziati l’8 agosto. Vi era ancora spazio per mantenere il conflitto localizzato e risolvere in tempi brevi la crisi? (Continua nel prossimo numero). (CONFINI, Nr.51, febbraio 2017)


NOTE 1) La neutralità spagnola faceva comodo sia alle potenze occidentali sia agli imperi centrali: l’esercito non era assolutamente in grado di sostenere una guerra moderna e quindi sarebbe stato una palla al piede per qualsiasi alleato. Francia e Gran Bretagna, inoltre, la preferivano neutrale per evitare rivendicazioni territoriali poco gradite: Tangeri, Gibilterra, Portogallo. Per approfondire: Maximiliano Fuentes Codera, España en la Primera Guerra Mundial. Una movilización cultural, Akal, Madrid, 2014. 2) Le autorità serbe avevano sconsigliato il viaggio dell’Arciduca, mettendo in guardia il governo austriaco su possibili attentati da parte dei connazionali residenti in Bosnia che mal sopportavano la dominazione austriaca. Anche il Vescovo di Sarajevo sconsigliò fortemente il viaggio. Nonostante ciò, non solo furono disattesi i consigli ben argomentanti, ma non furono adottate nemmeno le più elementari norme di sicurezza a tutela della coppia. La dinamica dell’attentato sconcerta proprio per queste carenze, che molti storici considerano volute proprio con la non malcelata speranza che “accadesse l’incidente”. 3) Duplice alleanza in chiave anti russa, voluta dal Cancelliere tedesco Otto Von Bismark, che si trasformò in “Triplice alleanza” nel 1882 con l’ingresso dell’Italia. 4) Jean Baptiste Duroselle, “L’età contemporanea”, Edizioni UTET 1969. Non meno interessante il ritratto che ne fa Claude Guillaumin, “I grandi enigmi storici del nostro tempo”, Edizioni di Cremille, Ginevra 1969, mettendone in luce soprattutto l’autoesaltazione, che lo induce a ritenersi l’inviato speciale di Dio sulla terra. La domenica mattina, dopo essersi recato a messa, il Bollettino della Corte era redatto con la seguente formula: “Questa mattina, il Signore dei Signori si è recato a rendere omaggio al SIGNORE”. 5) Francesco Ferdinando non era amato dalla Corte Imperiale. Lo zio gli rimproverava il matrimonio con Sofia Chotek von Chotkowa, nobildonna boema non appartenente a nessuna famiglia regnante, tanto più che le frequenti visite alla dimora dell’Arciduca Federico Maria Alberto Guglielmo Carlo, Principe Reale e supremo comandante delle armate austro-ungariche, avevano fatto insorgere il felice convincimento che si fosse innamorato di sua figlia Marie Christine. Quando l’Arciduchessa Isabella, della quale la bella Sofia era dama di compagnia, scoprì la tresca, andò su tutte le furie e fece scoppiare uno scandalo pubblico. Il bel giovinetto, evidentemente, frequentando la dimora giocava con entrambe le fanciulle, preferendo però la più intrigante e affascinante Sofia come compagna per la vita. Il matrimonio fu celebrato senza la presenza dell’imperatore, che vietò la partecipazione anche ai fratelli di Francesco Ferdinando e impose il rito


morganatico, in virtù del quale ai discendenti non sarebbe stato concesso di ascendere al trono imperiale. Le prospettive politiche di Francesco Ferdinando non furono capite né dal popolo né dagli alti dignitari della Corte e su di lui furono riversate ingiuste accuse su ogni versante politico-sociale. 6) Pietro I non esitò a giustiziare il figlio Alessio per cospirazione. Seppure buona parte della storiografia ufficiale tenda a escludere la responsabilità di Alessandro I nell’uccisione del padre, tale ipotesi appare inverosimile, tanto più che gli anni in cui regnò Paolo I furono tra i più terribili e bui della storia russa e Alessandro fu “sollecitato” da molti membri della corte imperiale a subentrargli. Le gesta di Caterina II non sono riassumibili in questo contesto e non a caso hanno dato vita a miriadi di saggi, spettacoli teatrali, film (ben trentatré fino ad oggi), documentari. Ebbe ventuno amanti secondo le fonti ufficiali, ma molti di più nella realtà, a molti dei quali riservò la stessa fine di suo marito, Pietro III. Nicola II, più che cattivo, come tanti suoi antenati, era un debole dominato dalla moglie, che a sua volta si abbandonò completamente alle “sollecitazioni” di Rasputin, molto abile nel conquistare la fiducia illimitata dei sovrani, grazie alla quale, oltre a condizionare pesantemente le scelte politiche, poteva permettersi di entrare “con eccessiva libertà” nelle stanze da letto delle giovanissime principesse Olga, Tatjana, Maria e Anastasia, concedendosi licenze oscene con la scusa di visitarle. La sua presunta relazione con la zarina è generalmente considerata una maldicenza da molti storici, almeno negli scritti ufficiali. Anche in mancanza di prove certe, tuttavia, riesce difficile credere che la zarina abbia resistito al suo potere ammaliatore e allo sguardo magnetico, che induceva tante dame a concederglisi senza indugi e in piena consapevole condivisione. Non a caso fu soprannominato il “monaco erotomane”. 7) A ventitré anni scampò miracolosamente a un attentato; nel 1859, dopo la seconda guerra d’indipendenza italiana, perse Lombardia, Toscana, Parma, Modena, e Romagna Pontificia; nel 1866 ebbe una sonora sconfitta dalla Prussia, che gli costò molti territori in Germania e la perdita del Veneto, del Friuli e di Mantova in quanto l’Italia beneficiò degli accordi di alleanza con la Prussia e ottenne i territori per il tramite di Napoleone III: l’Austria si rifiutò di cederli direttamente avendola sconfitta a Lissa e Custoza; nel 1867 il fratello Massimiliano fu assassinato in Messico e l’unico figlio Rodolfo si suicidò con la sua amante diciassettenne a Mayerling (almeno questa è la versione ufficiale, circa la quale qualcuno, compreso chi scrive, nutre seri dubbi); nel 1888 la moglie Sissi, celebrata in tanti film, fu assassinata a Ginevra dall’anarchico italiano luigi Lucheni. 8) Giolitti, alla vigilia delle elezioni politiche del 1913, desiderava bloccare l’avanzata del Partito Socialista Italiano e prese accordi con l’Unione Elettorale Cattolica Italiana, presieduta dal Conte Vincenzo Ottorino Gentiloni (imparentato con i Conti Gentiloni Silverj, famiglia da cui discende l’attuale Presidente del Consiglio) realizzando quello che è passato alla storia come “Patto Gentiloni” pur essendo solo uno dei tanti “inciuci all’italiana”. Di fatto il Partito Liberale mise a


disposizione dei cattolici un cospicuo numero di seggi in cambio dell’impegno, da parte degli eletti, a onorare i sette punti dell’accordo, tutti protesi a garantire i princìpi della Chiesa. Il patto fu applicato in 330 collegi su 508, nei quali il Partito Socialista era potenzialmente vincente. Secondo le tipiche modalità comportamentali di Giolitti il patto sarebbe dovuto restare segreto, ma Gentiloni, che era un narciso desideroso di guadagnarsi il suo posticino nella Storia, venne meno alla parola data e rivelò i termini dell’accordo e i nomi dei candidati aderenti, molti dei quali massoni. Le reazioni furono immediate e violente e Giolitti fu associato a un malavitoso per aver realizzato un connubio tra la massoneria e la Chiesa. Papa Pio X, invece, sostenne il patto perché lo considerava vantaggioso per la Chiesa in chiave anti-socialista e tolse il “non expedit” varato dal suo predecessore, in virtù del quale per i cattolici non era opportuno partecipare alle elezioni politiche del Regno d’Italia e partecipare a qualsivoglia attività politica. Giolitti vinse le elezioni e gli eletti aderenti al patto furono ben 228 su 270. Il Partito Radicale, che aveva sostenuto Giolitti nei due precedenti Governi, per protesta uscì dalla maggioranza, che però restò ancora nelle mani di Giolitti, sia pure con il sostegno di forze non omogenee. Giolitti comprese che i tempi stavano cambiando dopo l’affossamento di un progetto di legge che prevedeva la precedenza del matrimonio civile su quello religioso. Aveva intrallazzato con i cattolici ritenendo che la Chiesa avrebbe aspettato a lungo il compenso della sua collaborazione, ma si era fatto male i conti. Il Vaticano, senza nemmeno compromettersi direttamente, era entrato in forze nel cuore dello Stato, che ancora considerava un nemico. Il tempo delle alleanze liberal-socialiste era tramontato e al vecchio inciucione aduso a governare “tenendo conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese, alla pari del sarto che dovendo vestire un gobbo deve tenere conto do tale malformazione”, non restarono che le dimissioni, in attesa di tempi migliori.



ELEZIONI E BROGLI: UNA STORIA ANTICA La delega di qualsivoglia potere costituisce il momento topico di ogni sistema democratico: che si tratti di eleggere il capo di un condominio o un parlamentare, un insieme di persone esprime le proprie valutazioni su soggetti designati ad assumere importanti decisioni per favorire il bene comune. Almeno così dovrebbe essere e, secondo una consolidata fenomenologia dell’essere, quando ci rendiamo conto che così non è scarichiamo rabbia e delusione sugli altri: in primis sui soggetti agenti e poi su chi abbia consentito loro di agire, accusandoli di complicità o dabbenaggine. Le nostre scelte e decisioni, invece, sono sempre ritenute le migliori. Magari qualche volta è anche vero e sicuramente vi sono tanti cittadini in grado di discernere il grano dal loglio e le lucciole dalle lanterne, ma tutto ciò che traspare dalla storia dell’umanità relega davvero in una posizione molto defilata siffatte persone che, sostanzialmente, “non fanno storia” e solo in circostanze rare riescono a emergere dall’anonimato, per lo più quando pagano a caro prezzo la ribellione al sistema dominante. Il connubio tra l’esercizio della rappresentanza delegata e il male, infatti, ha radici antiche. Conoscere ciò che accadeva ieri è importante per comprendere la realtà odierna; quanto poi questo serva realmente a “migliorare le cose”, è tutto da dimostrare. Nelle scuole si esalta la grandezza di Pericle, ricordando che Tucidide lo considerava “primo cittadino di Atene” e ne magnificava le gesta, omettendo però la propensione alla corruzione e al dispendio di denaro pubblico per guadagnarsi il consenso. Con l’istituzione della “mistoforìa”, il salario riconosciuto a chi ricopriva incarichi pubblici, formalmente concepito per consentire anche ai poveri di partecipare attivamente alla vita politica, favorì sensibilmente la corruzione di soggetti deboli culturalmente e socialmente, che non si facevano certo pregare nel conferirgli consenso in cambio di una manciata suppletiva di denaro. Nell’antica Roma, tanto in epoca repubblicana quanto in quella imperiale, i potentati, ancorché in contrasto tra loro, trovavano sempre un’intesa quando si trattava di “imbrogliare” il popolo per spartirsi il potere. Cesare, Pompeo e Crasso prima; Ottaviano, Antonio e Lepido in seguito, con i loro triumvirati non realizzarono nulla di dissimile, nella sostanza, dai tanti accordi malsani sottoscritti nella società contemporanea: “CAF” (Craxi, Andreotti, Forlani), il “patto della crostata”, “il patto del Nazareno” e tanti altri. Un dato significativo della corruzione e dei brogli elettorali che caratterizzavano l’antica Roma è il “supporto legittimante” scaturito da autorevoli personaggi. Cicerone, per esempio, dispensava consigli preziosi sulla gestione di una campagna elettorale: “Non rifiutare qualsiasi richiesta venga fatta in cambio di voti. Rifiutare è tipico dell’uomo onesto, promettere del buon candidato”. Spiega anche che la moglie di un candidato aveva scritto e firmato 18mila lettere di raccomandazione. Non meno significativo l’invito a frequentare, durante la campagna elettorale, “persone che in circostanze diverse non ti sogneresti di frequentare”. Di particolare importanza, sotto questo profilo, la precisa analisi di Tacito che, negli “Annali”, descrive la decadenza


istituzionale, etica e morale e l’assoluta mancanza di fiducia nel popolo come soggetto capace di invertire la rotta. “Elezione” ha fatto sempre rima con “corruzione”, in ogni parte del mondo, e spesso anche con altri termini, ancora più terribili, tra i quali “intimidazione”. Occorre grande fantasia, ovviamente, per considerare le vittorie bulgare di molti tiranni, a qualsiasi latitudine, l’espressione del reale consenso dei cittadini, democraticamente e volontariamente espresso. Nessun paese può dirsi immune dalle distonie connesse alla delega della rappresentanza e non vi è elezione priva di strascichi polemici, e talvolta anche giudiziari, a causa degli illeciti evinti. Al Gore sarebbe diventato presidente degli USA senza “il particolare sostegno” assicurato a Bush dal fratello, governatore della Florida (1). Al di là di ogni considerazione legittimamente negativa sulla dinastia sabauda, poi, è appena il caso di ricordare che ricorrono molti dubbi anche sul risultato che sancì la nascita della repubblica. Le prove sui presunti imbrogli, per chi abbia studiato attentamente i documenti sul referendum istituzionale del 1946, acquisiscono un valore probatorio difficilmente confutabile (2). Dai brogli all’elaborazione di sistemi elettorali concepiti ad arte per favorire chi li emani, il passo è breve, salvo poi rendersi conto di aver sbagliato i calcoli, la qualcosa non assolve certo chi operi nel dispregio più assoluto dei legittimi diritti dei cittadini. In Italia generò profondo sconcerto la “legge truffa” del 1953, che prevedeva l’assegnazione del 65% dei seggi alla lista o alla coalizione che avesse raggiunto il 50%+1 dei voti validi (3). Per raggiungere il quorum si allearono DC, PSDI, PLI, PRI, Südtiroler Volkspartei e Partito Sardo d'Azione. Lo sdegno popolare, però, fu massiccio, grazie anche alla feroce campagna delle opposizioni, e la coalizione non raggiunse l’obiettivo per soli 54mila voti, fermandosi al 49,8%. Le opposizioni, di converso, registrarono un sensibile incremento di voti e seggi rispetto alle elezioni precedenti. La palese distonia del premio di maggioranza riaffiorerà dopo mezzo secolo, con l’approvazione di una legge non a caso definita “porcellum” dal suo stesso ideatore (4). Ogni riforma elettorale, tuttavia, ha sempre risentito della propensione a elaborare formule ad hoc per favorire gli uni e penalizzare gli altri, senza alcun rispetto per la volontà degli elettori. Generalmente si confuta tale assunto asserendo che non esiste una legge elettorale perfetta e che, senza adeguati accorgimenti, il risultato delle urne potrebbe determinare la “non governabilità”. Una bufala grande come una montagna, smentita quotidianamente dai fatti. La legge elettorale “perfetta” esiste ed è quella che consente di assegnare i seggi “proporzionalmente” al risultato conseguito da ciascuna lista, senza soglia di sbarramento. Vi è senz’altro il problema della “natura umana”, poco propensa a tutelare il bene comune e più orientata a un (mal)sano egoismo, che va tenuto comunque in debita considerazione: una legge elettorale “perfetta” indurrebbe partiti con scarsa rappresentanza parlamentare, ma decisivi per la formazione di un governo, a “ricattare” quelli maggiori. Chi fosse causa del suo mal, però, poi dovrebbe realmente piangere se stesso: se i cittadini dovessero premiare candidati senza


qualità, pur potendo scegliere i migliori con il voto di preferenza, sarebbero i principali responsabili dei propri guai. Volendo comunque arginare (per quanto possibile) questa deprecabile propensione, si può prendere in considerazione una legge che preveda il maggioritario puro, anche in questo caso senza sbarramenti. In ogni singolo collegio vince chi prende più voti. Tutto il resto è fuffa da cestinare senza indugio, come la legge elettorale vigente, un vero abominio che non consente di scegliere i rappresentanti ma di legittimare esclusivamente la volontà dei capi partito. Assurda anche la cosiddetta “quota rosa”, in virtù della quale in un listino bloccato ciascuno dei due sessi non può rappresentare più del 60% dei candidati. Di fatto, in un collegio con due soli candidati, necessariamente si dovranno avere un uomo e una donna; con tre candidati due uomini e una donna o viceversa e con quattro candidati fino a tre uomini e una donna o viceversa. Regola offensiva soprattutto per le donne, in quanto, dietro una parvenza di “tutela”, ne sancisce la candidabilità in forza di un atto d’imperio e non del libero arbitrio. Se in un collegio con due soli candidati, per esempio, un partito disponesse di due persone eccellenti dello stesso sesso, se ne dovrebbe privare di uno, a vantaggio di qualcuno con minore talento, solo in ossequio alla legge. Per quanto possa apparire paradossale, poi, sotto il profilo giuridico sarebbe ineccepibile un partito che si definisse “Donne al potere per un mondo migliore”, composto di sole donne. All’atto delle elezioni questo partito sarebbe costretto a “contraddirsi” nei propositi e nel programma, dovendo inserire almeno un 40% di uomini! Resta da chiedersi, pertanto, se sarà mai possibile vedere varata una legge elettorale che possa rappresentare realmente la volontà degli elettori. La domanda, almeno per ora, è destinata a restare senza risposta e il “politically correct” non consente di prendere in considerazione altre soluzioni. NOTE 1) Le falle del sistema elettorale statunitense, al netto degli imbrogli, consentono a chi raccolga meno voti di vincere comunque le elezioni in virtù delle decisioni dei grandi elettori. Gore nel 2000 ebbe la bellezza di 539.947 voti in più di Bush e sarebbe diventato presidente se in Florida non si fosse verificato un pastrocchio pacchiano che reclama ancora giustizia, visto tutto quello che è successo dopo, condizionando la vita dell’intera umanità. Nello stato governato dal fratello dell’aspirante presidente repubblicano si fece di tutto per “taroccare” il risultato, che vedeva Gore in netto vantaggio a mano a mano che lo spoglio andava avanti. La bislacca scheda prevedeva la punzonatura di un pezzo di carta grande come la puntura di uno spillo: i compiacenti scrutatori la consideravano “bianca” quando il voto era attribuibile a Gore, qualora il pezzettino di carta non si fosse staccato completamente. In caso opposto, ovviamente, il voto era valido. Alcune migliaia di neri, tutti di fede democratica, furono artatamente iscritti nella lista delle persone che


avevano perso il diritto di voto: “Irreparabile involontario errore”, si giustificarono i funzionari, ridendo sotto i baffi e fieri di aver contribuito alla sconfitta di uno dei più grandi uomini al mondo, favorendo il babbeo che tutti abbiamo avuto modo di conoscere. Nonostante ciò, comunque, Gore era ancora in vantaggio! Con una spudoratezza che avrebbe fatto impallidire Erdogan e Putin, alle 20,48 fu annunciata la vittoria di GORE e diffusa la falsa notizia della chiusura dei seggi! Molti elettori di Gore, pertanto, acclarata la vittoria, non andarono a votare. Alla fine riuscirono ad attribuire a Bush 537 voti in più e naturalmente il governatore impedì di ricontare le schede al cospetto di una commissione meno partigiana. Altro imbroglio fu perpetrato con i voti provenienti dall’estero, la stragrande maggioranza dei quali a favore di Gore: per sopperire al forte distacco ne furono impropriamente annullati 180mila. 2) Il conteggio delle schede sancì nettamente la vittoria della monarchia e la notizia fu comunicata al Re Umberto II da De Gasperi, nella mattinata del 5 giugno. Nella notte tra il 5 e il 6 giugno, però, accade il miracolo della “moltiplicazione delle schede repubblicane”. Apparvero dal nulla decine di migliaia di voti che ribaltarono il risultato. A nulla servirono i ricorsi, che non furono nemmeno presi in considerazione. 3) La legge Acerbo del 1923 era ancora più mortificante in quanto prevedeva i 2/3 dei seggi alla lista che avesse raggiunto il 25% dei consensi. Vi è, però, una sostanziale differenza etica tra una legge varata in regime dittatoriale e una in regime democratico. 4) Il riferimento riguarda le sole elezioni politiche, in quanto le amministrative prevedono, in molti casi, sin dagli anni novanta del secolo scorso, il premio di maggioranza.


IL PIAVE MORVORAVA PARTE SECONDA: “LE RADIOSE GIORNATE DI MAGGIO” Gli storici si sono accapigliati a lungo, e continuano a farlo, sulle responsabilità della guerra. “E’ responsabile chi ha sparato il primo colpo” resta sempre l’ipotesi più logica, ancorché da molti rifiutata: la complessità delle vicende prebelliche non consente analisi semplicistiche. Alle teorie di chi punta il dito contro Austria e Germania, per non aver saputo gestire la crisi successiva all’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando, fanno da contraltare le tesi di coloro che imputano a Francia e Russia la colpa maggiore, avendo trasformato la già solida alleanza da difensiva in offensiva. Il dibattito continuerà a lungo e forse non si giungerà mai a una soluzione armonicamente condivisa fin quando non si sposterà l’attenzione dai “fatti” alle “persone”, coinvolgendo anche quelle che, nelle pagine di storia, occupano solo pochi righi. E’ solo dipanando l’intricata matassa composta da europei che si odiano vicendevolmente, da inetti in posti di comando, da narcisi psicopatici e da un caravanserraglio umano aduso a pensare oggi il contrario di ciò che pensava ieri e penserà domani, infatti, che si può trovare un barlume di verità e magari acquisire consapevolezza, caso mai ve ne fosse ancora bisogno, della “banalità del male”. Il nazionalismo esacerbato, presente in tutte le nazioni, è il principale responsabile della guerra: questo va detto con chiarezza e senza fronzoli dialettici. Il nazionalismo è il male. Ciò premesso, come già scritto nella prima parte, dobbiamo fare i conti con uno scenario umano poco edificante, in grado però di determinare le sorti d’interi popoli. Studiare la personalità di siffatti soggetti, il modo di pensare e di vivere, risulta di fondamentale importanza per inquadrare gli eventi in un contesto che rifugga dalle errate interpretazioni e consenta di confutare adeguatamente quelle strumentali e volutamente menzognere. L’inconsistenza dello Zar di Russia è acclarata e da tutti condivisa, ma l’accusa di aver innescato “l’escalation”, precedendo Austria e Germania nella mobilitazione totale dell’esercito, non regge. La Russia non era in grado di effettuare una mobilitazione parziale e ciò fu chiaramente spiegato dal ministro degli esteri Sazonov all’ambasciatore tedesco Pourtalès, che ricevette anche ampie assicurazioni circa la volontà di Nicola II e delle alte sfere militari di continuare con i negoziati affinché si evitasse la guerra. La mobilitazione del 29 luglio, pertanto, non aveva alcun peso effettivo, essendo una diretta conseguenza dell’attacco austriaco alla Serbia, perpetrato il giorno precedente. Caso mai era Sazanov che si preoccupava della mobilitazione tedesca, sempre propedeutica a una guerra. E’ importante scandire bene la dinamica dei fatti, perché, in quelle ore convulse, non furono poche le persone che giocarono sporco. La sera del 29 luglio il cancelliere tedesco Bethmann ricevette due notizie sconfortanti: la mobilitazione dell’esercito russo e l’impegno della Gran Bretagna a entrare in guerra a sostegno della Francia. Guglielmo II “non” desiderava l’estensione del conflitto e il suo cancelliere, pertanto, inviò un telegramma all’ambasciatore tedesco in Austria: “Noi siamo pronti ad adempiere ai nostri obblighi di alleanza,


ma dobbiamo rifiutare di lasciarci trascinare da Vienna, con leggerezza e senza che i nostri consigli siano ascoltati, in una conflagrazione generale”. Se le parole hanno un senso, il testo non lascia adito a equivoci circa la volontà di produrre ogni sforzo per evitare la guerra. Il 30 luglio, però, il capo di stato maggiore, Von Moltke, dialogando con l’imperatore, ne colse il disappunto per la mobilitazione ordinata dal cugino Nicola II. Si trattava di un semplice sfogo, espresso in un conciliabolo non ufficiale con una persona di assoluta fiducia. Von Moltke, non certo in buona fede, ne approfittò per imputare a Guglielmo II il cambio di strategia che invece aveva lui in testa; senza nemmeno preavvertirlo, infatti, inviò un telegramma a Franz Conrad von Hötzendorf, suo omologo austriaco, con “esortazioni” diametralmente opposte agli “ordini” impartiti da Bethmann: “Tener fermo contro la mobilitazione russa. L'Austria-Ungheria deve essere preservata. Quindi mobilitare subito contro la Russia. La Germania mobiliterà. Costringere con compensi l'Italia al suo dovere di alleata” (1). Il telegramma, manco a dirlo, fece saltare dalla sedia il ministro degli esteri austriaco, Leopold Berchtold von und zu Ungarish, l’uomo forte della corte asburgica e guerrafondaio impenitente. Ebbro di gioia e pienamente convinto che in Germania fosse Von Moltke a comandare, anche perché gli faceva comodo credere questo, tranquillizzò i colleghi ministri sugli imminenti sviluppi e sottopose all’imperatore l’ordine di mobilitazione, che fu firmato il 31 luglio. Se proprio vogliamo individuare dei colpevoli, pertanto, dobbiamo citare Von Moltke e Leopold Berchtold, acclarando le tesi di coloro che sostengono la responsabilità oggettiva austro-tedesca. Tutto ciò, comunque, non assolve certo gli altri protagonisti, in quanto, lasciandosi dominare dagli eventi, dimostrarono di non essere all’altezza del ruolo esercitato. I FERMENTI IN ITALIA L’Italia era una giovane monarchia che cercava di trovare un ruolo, non senza fatica, nello scacchiere europeo, dove appariva come il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro. Sul fronte interno si acuiva il divario tra Nord e Sud e prendeva corpo la famigerata “questione meridionale” che, decennio dopo decennio, non avrebbe mai fatto intravedere una possibile soluzione. Il colonialismo, che la società contemporanea giustamente considera una pratica oscena, in quegli anni era percepito ancora come un fatto assolutamente normale, alla pari dello sfruttamento di altri esseri umani. (Con questo non si vuol dire che oggi certe cose non accadano, ma semplicemente che fino a buona parte del XX secolo non erano considerate dei crimini contro l’umanità, se non da una sparuta minoranza della società, particolarmente evoluta). La Francia, che già possedeva Algeria e altri territori africani, nel 1881 occupò la Tunisia, paese che ospitava molti emigranti italiani, soprattutto siciliani. La Germania possedeva vasti territori in Africa Occidentale, Africa Orientale e nel Sud-Ovest (l’attuale Namibia); altri possedimenti erano raggruppati nella cosiddetta Nuova Guinea Tedesca. L’impero inglese si dipanava nei cinque continenti con una superficie complessiva di oltre 37milioni di km2 e circa 500milioni di sudditi. La povera Italia poteva vantare la


sola Eritrea, conquistata un po’ commercialmente e un po’ militarmente tra il 1882 e il 1890. I protagonisti della vita politica erano Agostino De Pretis e Benedetto Cairoli, che si alternarono alla guida del governo dal 1876 al 1887. Entrambi esponenti della Sinistra storica, inglobavano tutti i tratti caratteriali e comportamentali tipici “dell’italianità al potere”: cerchiobottismo, mancanza di lungimiranza, titubanza, massima attenzione al “particulare” di guicciardiniana memoria e una buona dose di altre distonie, facilmente intuibili, perché ampiamente reiterate e “affinate” dai loro successori. De Pretis fu l’artefice del “trasformismo”, un progetto proteso a superare la dicotomia destra-sinistra grazie all’appoggio assicurato al governo dai singoli deputati di tutti i partiti. Le conseguenze furono il caos parlamentare, l’aumento delle spese statali, l’abiura di ogni presupposto ideale e lo sviluppo delle clientele che favorirono le industrie del Nord a discapito di quelle del Sud. Benedetto Croce ne individuò correttamente la fonte nella crisi della Destra storica e nel ceto parlamentare composto precipuamente dall’alta borghesia e dalla nobiltà, senza però comprenderne le conseguenze nefaste, dal momento che conferì al “pragmatismo”, che del “trasformismo” fu la logica conseguenza, una luce positiva drammaticamente smentita dai fatti. Benedetto Cairoli era animato da ferventi sentimenti antiaustriaci e filo irredentisti. Giovanissimo, nel 1848, partecipò all’insurrezione di Milano e nel 1860 prese parte alla spedizione dei Mille, saldando il sodalizio garibaldino già avviato l’anno precedente, nel corso della Seconda Guerra d’Indipendenza. Il suo patriottismo fu alimentato anche dalle tristi vicende familiari: quattro fratelli, tutti garibaldini, persero la vita tra il 1859 e il 1867 (2). Non gli si può disconoscere un sano idealismo negli anni giovanili e prima della vita parlamentare, fonte delle solite delusioni allorquando dovette fare i conti con il cinismo del potere: l’iniziale entusiasmo per Carlo Alberto subì un duro colpo per il modo sconclusionato con il quale le truppe sabaude sostennero la rivolta milanese del 1848, per la mancata vittoria nonostante le forze predominanti e per il ritorno degli austriaci a Milano dopo l’armistizio di Salasco (3). La delusione lo spinse verso il mazzinianesimo, che abbracciò con rinnovato vigore e dedizione, salvo poi staccarsene quando lo giudicò “un sistema omeopatico d’insurrezione” (4). Trovò maggiore appagamento nelle idee di Daniele Manin e nelle azioni di Giuseppe Garibaldi, dal quale ebbe la nomina, nel 1864, di Presidente del Comitato Centrale Unitario, fondato con lo scopo di raccogliere fondi e volontari per il completamento dell’unità (5). La naturale ritrosia nei confronti dell’Austria lo portò a simpatizzare per la Francia e tale sentimento perdurò anche dopo la batosta subita dai francesi a Sedan, nonostante il mutato assetto europeo avrebbe dovuto far prevalere la mente sul cuore e indurlo a non perpetuare una politica estera che, inevitabilmente, si trasformò nell’ennesima delusione a causa dell’occupazione francese della Tunisia. Molti storici lo hanno giustificato attribuendo alla vocazione antimilitarista la rinuncia a ogni velleità colonialista. Sia sia lui sia Depretis, in realtà, tergiversavano sperando che fossero altri a togliere le castagne dal fuoco, perpetuando una consolidata propensione dei politici italiani. Nella fattispecie ritenevano che la Gran Bretagna non avrebbe


consentito all’antica rivale di espandersi in modo massiccio nel Mediterraneo, senza considerare, invece, che agli inglesi interessava solo impedire il controllo del canale di Sicilia a una singola potenza. Del Cairoli, però, è corretto porne in risalto i limiti di statista, senza intaccarne la buona fede, come invece fece Carlo Dossi, che oltre a definirlo “incompetente” lo accusò di “disonestà”. Se è lecito ritenere, infatti, che una volta conquistato il potere anche lui abbia badato un po’ ai fatti suoi, di certo non può essere giudicato alla stregua di molti suoi predecessori e successori. Dossi, vulcanico esponente della “scapigliatura”, era aduso a giudicare frettolosamente e a fidarsi del suo intuito senza approfondire o verificare ciò di cui era venuto a conoscenza. A prescindere da ogni considerazione “etica”, la mancata espansione coloniale accrebbe i già gravi problemi che attanagliavano il Paese, con la stragrande maggioranza della popolazione che moriva di fame, in particolare i contadini e gli operai, sfruttati in modo criminale dai latifondisti e dagli industriali (6). “Lo schiaffo di Tunisi” segnò la fine politica di Cairoli, cui successe di nuovo De Pretis, con i sei anni di “agonia governativa”, caratterizzati dal primo trattato della Triplice alleanza, sottoscritto nel 1882 e successivamente ratificato e perfezionato quattro volte, nel 1887, nel 189, nel 1902 e nel 1912. L’alleanza con l’Austria determinò il forte risentimento delle classi sociali che aspiravano all’unità italiana e dei sudditi italiani sotto il giogo asburgico. Nel settembre del 1882, in occasione di una visita a Trieste di Francesco Giuseppe, il 24enne Guglielmo Oberdan progettò di assassinare l’imperatore: tradito da una spia fu arrestato e condannato a morte. In sintesi si può dire che, dopo l’unità d’Italia, ai disastri della Destra storica, con le massicce vessazioni, la feroce repressione e le famigerate tasse, fecero seguito i disastri della Sinistra storica, dovuti tanto alla scarsa qualità di chi la incarnava quanto alla malsana gestione degli affari pubblici. Siccome al peggio non vi è mai fine, dopo la morte di De Pretis apparvero sulla scena politica due nuovi personaggi: Francesco Crispi e Giovanni Giolitti, anche loro espressione della Sinistra storica. Crispi fu il primo personaggio della politica italiana per il quale può valere un’espressione molto in uso ai giorni nostri: “A sua insaputa”. La prima elezione al parlamento, infatti, avvenne nel collegio di Castelvetrano, grazie alla provvidenziale candidatura presentata da un ricco proprietario terriero, che aveva previsto vita dura nel collegio di Palermo, dove era candidato “ufficialmente” e dove, di fatto, fu sconfitto. Contrariamente a Cairoli detestava i francesi e strinse solidi legami con la Germania. Autoritario e decisionista, concentrò nelle sue mani tutti i poteri, reprimendo con la forza le proteste che montavano in ogni angolo del paese per le conseguenze del “protezionismo doganale” che, bloccando le importazioni, determinò l’aumento dei prodotti, a cominciare da quelli di prima necessità. La vocazione all’espansione coloniale costò caro all’Italia, con la disfatta di Adua, nel 1896, e segnò anche la fine della sua carriera politica (7). Giolitti era molto diverso da Crispi nei modi, ma sostanzialmente gli assomigliava nella volontà di dominio. Provò senz’altro a conciliare gli interessi della borghesia con quelli delle classi meno agiate,


attuando una politica più tollerante nei confronti di chi manifestava con lo sciopero il proprio disagio sociale, senza rinunciare, però, a mantenere saldo il potere personale, ricorrendo a ogni mezzo, ivi compresi i rapporti con la feccia della società. Non a caso Salvemini lo definì “il ministro della malavita”. Del patto Gentiloni abbiamo parlato nella prima parte e qui basti ricordare il coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana e l’espansione coloniale in Libia, della quale fu il principale artefice, rimandando per gli approfondimenti alla corposa pubblicistica a lui dedicata (8). Nonostante gli auspici di “Von Moltke”, tuttavia, l’Italia non si lasciò coinvolgere dallo scoppio della guerra, dal momento che il trattato sottoscritto era di carattere difensivo e le lasciava campo libero in caso di guerra offensiva. La proclamata neutralità fu ben accolta dalla maggioranza della popolazione che, se per indole era contraria alla guerra, proprio non sopportava di farla avendo l’Austria come alleata. Non era facile, però, mantenersi neutrali, sia per i rapporti commerciali con molte nazioni belligeranti sia per i futuri assetti, che avrebbero comunque penalizzato un’Italia assente dallo scenario bellico, quali che fossero stati i vincitori. I corteggiamenti provenivano da entrambe le parti ma, soprattutto all’inizio delle ostilità, era opinione diffusa che la guerra sarebbe stata breve e avrebbe visto prevalere Austria e Germania. Guglielmo II, nel salutare i soldati che si avviavano a invadere il Belgio, disse loro che sarebbero ritornati prima “del cader delle foglie”. Il secondo semestre del 1914 fu caratterizzato dalle complesse trattative, su tutti i fronti, per ottenere risultati concreti in termini di concessioni territoriali. L’obiettivo era quello di raggiungere l’unità d’Italia e pertanto non furono prese in considerazione le proposte della Russia, che voleva l’entrata in guerra dell’Italia in modo da indebolire l’esercito austriaco con l’apertura di un nuovo fronte. Sazanov promise Tirolo, Trieste e Valona: una proposta irricevibile perché lasciava ancora sotto il dominio austriaco una fetta consistente di territorio italiano, precludendo il dominio dell’Adriatico, cui l’Italia mirava senza indugio. Vi è da considerare, poi, che Salandra era preoccupato anche per la consistenza dell’esercito, non ancora pronto a sostenere una guerra di quella portata e reduce dal duro impegno in Libia. Di fatto occorreva soprattutto guadagnare tempo e pertanto Salandra iniziò una complessa trattativa con l’Austria, connessa al mantenimento della neutralità in cambio della restituzione dei territori assoggettati, una correzione dei confini sull’Isonzo e mano libera in Albania. Se l’Austria avesse accettato, si sarebbe evitata la guerra e l’Italia avrebbe ottenuto una schiacciante vittoria senza spargimento di sangue. L’Austria acconsentì a tutte le richieste, eccezion fatta per Bolzano e Trieste, impantanando in tal modo la trattativa, proprio come desiderava Salandra, che guardava con crescente attenzione alle forze dell’Intesa. I presupposti della Triplice alleanza, a ben guardare, erano saltati tutti. Francia e Inghilterra avevano dato il via libera alla conquista della Libia: perché entrare in contrasto con due potenze bene armate, senza alcun motivo effettivo, partendo pure da una posizione di grande debolezza? La guerra, tra l’altro, contrariamente alle aspettative, andava assumendo ben altri risvolti grazie al fallimento dello


sfondamento tedesco in Francia: non solo appariva sempre più chiaro che sarebbe durata a lungo, ma prendeva corpo anche una possibile sconfitta di Austria e Germania. Sulla Marna si era infranto il sogno tedesco della vittoria in sei settimane. L’opinione pubblica, intanto, incominciò a dividersi e, dall’autunno del 1914, si delineò chiaramente lo scontro tra “neutralisti” e “interventisti”. Tra i primi figuravano i socialisti, ivi compreso Benito Mussolini che dirigeva l’Avanti (sul quale scrisse un editoriale intitolandolo: “Abbasso la guerra”), i cattolici e la corrente liberale che faceva capo a Giolitti. Tra gli interventisti figuravano sia i nazionalisti, che vedevano nella guerra lo strumento principale per fermare il socialismo, sia i repubblicani, che vedevano nella sconfitta dell’impero austroungarico il presupposto per la creazione di un’Europa composta da stati sovrani. I socialisti riformisti di Bissolati, inizialmente cauti, sposarono la causa interventista, alla quale aderì poi anche Benito Mussolini, dopo l’espulsione dal PSI. Sul fronte della società civile fecero sentire la loro voce il direttore del “Corriere della Sera” Luigi Albertini, Gabriele D’Annunzio, i futuristi, i sindacalisti rivoluzionari. Abile a giocare su due tavoli, Salandra, in tutta segretezza, grazie anche all’abilità diplomatica di Sidney Sonnino, il 26 aprile 1915 sottoscrisse il famoso “Patto di Londra” con Francia, Inghilterra e Russia. L’Italia s’impegnava a entrare in guerra entro un mese e in caso di vittoria avrebbe avuto la restituzione di tutti i territori sotto il dominio austriaco, gli altopiani carsico-isontini; l’Istria, esclusa Fiume (9); le isole di Cherso, Lussino e altre minori; un terzo della Dalmazia con Zara, Sebenico e la stupenda Traù con le isole a nord e a ovest del litorale; la neutralizzazione del resto della Dalmazia in modo da garantire l'egemonia italiana sull'Adriatico; Valona e Saseno in Albania; il bacino carbonifero di Adalia in Turchia; la conferma della sovranità su Libia e Dodecaneso. In caso di spartizione delle colonie tedesche in Africa, l'Italia avrebbe avuto compensi territoriali in Libia, Eritrea e Somalia. Lo scontro tra interventisti e neutralisti, intanto, all’oscuro del trattato, diventava sempre più acceso. Il cinque maggio a Quarto vi fu il famoso discorso di Gabriele D’Annunzio, che infiammò il pubblico. In tutto il paese l’ago della bilancia si spostava velocemente verso la guerra al fianco della “Triplice intesa” e Giolitti, che nonostante non fosse al governo poteva contare ancora su un cospicuo manipolo di fedelissimi parlamentari, si giocò l’ultima carta per cercare di convincere il Re a non dichiarare la guerra. Mussolini, Prezzolini, D’Annunzio, Ardegno Soffici, supportati da altri convinti interventisti, iniziarono a sparare ad alzo zero contro il combattivo vegliardo, tributandogli epiteti terribili: “Canaglia di Dronero”; “Mestatore per il quale la lapidazione, l’arsione, subito deliberate e attuate, sarebbe assai lieve castigo”; “Ignobile, losco, vomitativo”. Il 12 maggio, tuttavia, Salandra rassegnò le dimissioni, preoccupato di una possibile sfiducia parlamentare che avrebbe compromesso la Corona. In tutta Italia si levò la protesta degli interventisti e s’intensificarono gli scontri, a tratti violentissimi. D’Annunzio ebbe un ruolo fondamentale e non risparmiò energie nell’arringare la folla, invitandola a far giustizia sommaria di “quel vecchio boia labbrone le cui


calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino, che tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano”. La situazione era davvero confusa, con un parlamento esautorato di ogni potere che non rifletteva gli umori della piazza, sempre più in mano agli interventisti. D’Annunzio arringava la folla a Roma; Mussolini e Corridoni controllavano Milano, ma tutta l’Italia era in fermento. Il Re si rese conto che la crisi andava risolta e in fretta. Giolitti, seppur controvoglia, abbandonò la partita, restando fuori gioco fino al termine della guerra. D’Annunzio continuava imperterrito a mantenere alta la tensione e al Re non restò che respingere le dimissioni di Salandra, ratificando, di fatto, l’intervento. Il 20 maggio Salandra chiese pieni poteri al Parlamento, ottenendoli con una maggioranza schiacciante. Solo Filippo Turati, tra gli oppositori, ebbe il coraggio di prendere la parola per manifestare il suo dissenso. Il 23 maggio 1915, il Duca Giuseppe Avarna, ambasciatore d'Italia a Vienna, si recò dal Ministro degli Esteri austroungarico e gli consegnò il messaggio a nome del Re, con cuore cupo, essendo intimamente contrario all’entrata in guerra. “Secondo le istruzioni ricevute da S.M. il Re suo augusto sovrano, il sottoscritto ha l'onore di partecipare a S.E. il Ministro degli Esteri d'Austria-Ungheria la seguente dichiarazione: già il 4 del mese di maggio vennero comunicati al Governo Imperiale e Reale i motivi per i quali l'Italia, fiduciose del suo buon diritto, ha considerato decaduto il trattato d'Alleanza con l'Austria-Ungheria, che fu violato dal Governo Imperiale e Reale, lo ha dichiarato per l'avvenire nullo e senza effetto ed ha ripreso la sua libertà d'azione. Il Governo del Re, fermamente deciso di assicurare con tutti i mezzi a sua disposizione la difesa dei diritti e degli interessi italiani, non trascurerà il suo dovere di prendere contro qualunque minaccia presente e futura quelle misure che vengano imposte dagli avvenimenti per realizzare le aspirazioni nazionali. S.M. il Re dichiara che l'Italia si considera in istato di guerra con l'AustriaUngheria da domani. Il sottoscritto ha l'onore di comunicare nello stesso tempo a S.E. il Ministro degli Esteri Austro-Ungarico che i passaporti saranno oggi consegnati all'Ambasciatore Imperiale e Reale a Roma. Sarà grato se vorrà provvedere a fargli consegnare i suoi”. Il giorno dopo, Vittorio Emanuele si rivolge alle truppe combattenti: “Soldati di terra e di mare! L'ora solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata. Seguendo l'esempio del mio Grande Avo, assumo oggi il comando supremo delle forze di terra e di mare, con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire. Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti apprestamenti dell'arte, egli vi opporrà tenace resistenza; ma il vostro indomito slancio saprà di certo superarla. Soldati !


A voi la gloria di piantare il tricolore d'Italia sui termini sacri che la natura pose ai confini della Patria nostra. A voi la gloria di compiere, finalmente, l'opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri. Dal Gran Quartiere Generale, 24 maggio 1915. VITTORIO EMANUELE Dalle colonne del Popolo d’Italia, anche Benito Mussolini lanciò il suo grido di battaglia. L’ITALIA HA DICHIARATO LA GUERRA ALL’AUSTRIA-UNGHERIA Lo stato di guerra comincia oggi – La mobilitazione generale avviene con entusiasmo. POPOLO, IL DADO E’ TRATTO: BISOGNA VINCERE! …e guerra sia. (Continua nel prossimo numero). NOTE 1) I termini “esortazioni” e “ordini” sono importanti per comprendere lo spirito con il quale ci si muoveva a certi livelli. Bethmann è il cancelliere dell’impero e scrive al suo ambasciatore: è evidente, pertanto, che il testo del telegramma si configura come “un ordine”, trasmesso, ovviamente, con il pieno assenso dell’imperatore. Nondimeno, leggendolo, appare evidente lo stile raffinato e scevro di qualsivoglia tono autoritario. E’ pur sempre un ordine trasmesso da un superiore a un subalterno, ma molto più assimilabile a una “esortazione” a ragionare attentamente sugli eventi, per evitare errori decisionali. Von Moltke scrive a un pari grado di un paese alleato. Non può certo dargli “ordini”, ma solo “esortarlo” a comportarsi in un modo anziché in un altro. Il testo del telegramma, invece, tradisce un tono diverso, autoritario: sembra quasi (ed è sicuramente così) che Von Moltke si senta autorizzato a stabilire e ordinare la linea di condotta che dovrà assumere l’Austria. Questa vicenda, mai presa in considerazione dagli storici, merita una pacata riflessione e opportuni approfondimenti anche in “funzione” di tragici eventi futuri, legati alla debolezza dei governanti, incapaci di tenere a freno “scalpitanti uomini forti”. 2) Ernesto nel 1859 tra i Cacciatori delle Alpi; Luigi durante la spedizione dei Mille; Enrico e Giovanni a seguito degli scontri avvenuti a Villa Glori, nel 1867, tra le truppe garibaldine e quelle dell’esercito pontificio. 3) In realtà la colpa principale del mancato successo va imputata a Pio IX che, dopo aver inviato ben 16mila soldati, a fine aprile si rese conto che la guerra all’Austria gli alienava le simpatie dei cattolici conservatori in tutta Europa. Il richiamo delle truppe pontificie indusse ad analoga decisione anche il Granduca Leopoldo II di Toscana, che aveva inviato 6mila uomini, e Ferdinando II delle Due Sicilie, che ne aveva inviati ben 11mila, al comando di Guglielmo Pepe. Carlo Alberto forse avrebbe potuto vincere lo


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stesso, con le sue sole truppe, se si fosse mosso diversamente e soprattutto in fretta. Rimasto con pochi uomini, poche munizioni e poco denaro decise di capitolare, essendosi nel frattempo l’esercito austriaco ben riorganizzato con adeguati rinforzi, anche se restano molti dubbi sui reali motivi della capitolazione, mai sopiti. Nota di colore: in Italia sono molti coloro che si esaltano ascoltando la celebre e bellissima “Marcia di Radetzky”, composta da Johann Strauss padre. Non vi è nulla di male, ovviamente, ma sarebbe il caso che tutti sapessero che essa fu dedicata proprio al Feldmaresciallo austriaco che riconquistò Milano, tra l’altro senza eccessiva fatica e soprattutto dopo aver seriamente temuto il peggio, famoso per la ferocia e per le modalità poco ortodosse con le quali trattava i civili, vessati da truppe esortate a utilizzare le maniere forti in ogni circostanza. Esortazione che fu accolta nella sua accezione più ampia, ivi comprese le molestie nei confronti delle donne e l’inevitabile stupro di quelle che non si concedevano volontariamente. Per approfondire questo argomento si fa riferimento all’ottimo saggio di Piero Pieri, “Storia militare del Risorgimento”, Einaudi, Torino, 1962. Molto importante anche il saggio dello storico inglese Alan Sked, “The Survival of the Habsburg Empire: Radetzky, the imperial army and the class war, 1848”, purtroppo irreperibile in italiano. In esso si riporta quanto trascritto dal generale Clam-Martiniz nel rapporto fornito a Metternich: “Gli austriaci avrebbero dovuto terrorizzare un popolo che li avrebbe sempre visti solo come stranieri”. Da qui la decisione di conferire proprio a Radetzky il ruolo di governatore del Lombardo-Veneto. Michele Rosi, “I Cairoli”, Editore Cappelli, Bologna, 1929 (Di difficile reperibilità in commercio). Vedere anche Azzurra Tafuro, “Madre e Patriota – Adelaide Bono Cairoli”, Firenze University Press, 2011. Azzurra Tafuro – opera citata. Un significativo ritratto dell’Italia postunitaria, non manchevole però di eccessi e inesattezze, è offerto da Leone Carpi nell’opera “L’Italia vivente”, edita da “Studi Sociali”, Milano, 1878. Impossibile tratteggiare in questo contesto le vicende connesse alla bigamia, ai rapporti con la mafia, alle trame con i baroni siciliani, alle promesse non mantenute (tra le quali la terra ai contadini) e difficile suggerire testi specifici scevri di “contaminazioni” partigiane, eccessi in un senso o nell’altro, palesi menzogne. Nella corposa pubblicistica si distingue il saggio di Francesco Bonini, “Francesco Crispi e l’unità. Da un progetto di governo un ambiguo mito politico”, Bulzoni, Roma, 1997. Di particolare rilievo i testi di Giampiero Carocci: “Giolitti e l’età giolittiana”, Einaudi, Torino, 1961; “Il trasformismo dall’unità ad oggi”, Unicopli, Milano, 1992. Di fondamentale importanza, ovviamente, il saggio di Gaetano Salvemini “Il ministro della mala vita: notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale”, pubblicato nel 1910 e oggi disponibile nell’edizione curata da Sergio Bucci nel 2000 per la casa editrice Bollati Boringhieri, Torino.


Di tono sfacciatamente apologetico, ma meritevole di essere letto, sia pure con le dovute cautele e solo dopo aver esaurientemente assimilato le complesse contraddizioni di un’epoca e degli uomini che l’hanno segnata, il testo di Giovanni Ansaldo, “Il ministro della buona vita. Giovanni Giolitti e i suoi tempi”, Editore Le Lettere, 2002. 9) Fiume fu esclusa dal trattato in quanto avrebbe dovuto costituire l’unico porto di ciò che sarebbe rimasto dell’impero austro-ungarico, del quale nessune previde la totale dissoluzione.



NON E’ CAMBIATO NULLA. PER ORA. “Più che in ogni altra occasione le righe che seguono esprimono un’opinione del tutto personale: nella situazione politica creata dai risultati elettorali del 4 marzo la cosa migliore da farsi è quella di andare in tempi brevi di nuovo alle urne. Lo consigliano a mio avviso i numeri, il loro significato, la situazione generale del Paese. E direi anche qualcos’altro: il buon senso”. (Ernesto Galli della Loggia, Corriere della Sera, 12 marzo 2018) Pur essendo lontanissimo dal mondo di Ernesto Galli della Loggia, faccio mio senza problemi e senza riserve l’incipit del suo articolo, nel quale poi sviluppa delle tesi non altrettanto condivisibili: reiterando un vecchio errore dell’intellighenzia liberal-sinistrorsa, infatti, conferisce ad altri il proprio registro analitico su complesse problematiche, stabilendo conclusioni che invece sono solo sue. Nella fattispecie, sbagliando e non di poco, si chiede perché mai Lega e 5Stelle dovrebbero desiderare di cambiare la legge elettorale, dal momento che con quella attuale hanno ottenuto brillanti risultati, concludendo che ciò non avverrà e sia preferibile ritornare a votare con l’attuale legge. Niente di nuovo sotto il sole, ovviamente, ivi compresa la bellezza di un pensiero che, quando è spurio di dietrologie, riesce a farsi accettare in modo trasversale con estrema naturalezza. Ritorniamo all’incipit, pertanto, che sintetizza bene il quadro nel quale, qualora si voglia dare davvero un senso al risultato elettorale, è opportuno muoversi. La botta c’è stata e ciò e innegabile, ma da qui a considerarla una vera bomba ce ne corre. Sostanzialmente non è cambiato nulla e in più si sono create condizioni così complesse che possono essere sbrogliate solo con scelte coraggiose e sensazionali da parte di Di Maio e Salvini. Ogni tentativo di sbrogliare “armonicamente” la matassa, cercando di conciliare l’inconciliabile, è destinato al fallimento. Vi sono nodi così intrecciati che possono essere recisi solo con la spada, proprio come fece Alessandro con quello famoso di Gordio. E’ pur vero che PD e Forza Italia hanno perso una nutrita schiera di parlamentari, ma, a ben guardare i risultati, appare evidente che sono rimasti al palo molti peones, mentre è ancora nutrita la schiera di quelli che “contano”, ossia coloro che farebbero più degna figura in altri palazzoni: San Vittore, Rebibbia, Ucciardone et similia. Vi sono momenti in cui la storia bussa alle porte delle coscienze in modo impetuoso, esortando a volare alto. Non so se Di Maio e Salvini ne saranno capaci, ma è l’unica cosa auspicabile. Occorre spazzare via il pattume che ha ridotto il Paese nelle condizioni in cui lo vediamo e, soprattutto, occorre lanciare un messaggio forte ai tanti che, con gli occhi foderati di prosciutto, votano “in buona fede” certi partiti, ritenendo che siano realmente gestiti da persone propense a favorire il bene comune. Per gli altri, per gli elettori consapevoli perché complici, una volta sistemate le cose, basteranno le Forze dell’Ordine.


L’unica vera strada percorribile, pertanto, è ritornare a votare dopo aver varato una nuova legge elettorale che preveda il maggioritario puro (a turno secco o a doppio turno: non voglio essere categorico) senza premio di maggioranza. E’ questa l’unica alternativa valida al proporzionale che, come scritto in altre circostanze, si configura come il migliore sistema elettorale, ancorché impraticabile nella realtà italiana. Se Salvini avrà il coraggio di staccarsi dalla coalizione nella quale un partito ha potuto eleggere molti parlamentari solo in virtù dei suoi voti e dirà a chiare lettere che occorre cambiare pagina, ma seriamente, potrà conquistarsi un posticino nelle pagine di storia. Per ora è ancora nella cronaca. Il Paese è in macerie e va “rifondato”, partendo dalle fondamenta. Questo processo non può essere realizzato con i vecchi partiti. Di sicuro si pagherà un prezzo e occorrerà molto tempo prima che si vedano risultati concreti. Intanto si potranno attuare subito quei provvedimenti che servono a lenire le sofferenze di chi arranca, sostituendo la classe politica che è attenta solo alle esigenze di chi vive agiatamente, evade il fisco, sfrutta senza ritegno la povera gente, delinque spudoratamente contando su protezioni di alto livello, affama il popolo e offre esempi comportamentali di malcostume che sgomentano e destabilizzano soprattutto i giovani. Se Salvini e Di Maio, insieme, parleranno chiaro al Paese, metteranno tutti con le spalle al muro. Poi si andrà a nuove elezioni e si giocheranno la partita, al meglio delle loro possibilità. Qualcuno vincerà, qualcuno perderà. Entrambi, però, potranno dire di aver avviato il cambiamento del Paese. Tutto il resto è fuffa, eccezion fatta per una sola prospettiva che, però, attualmente è più lontana della luna; è inutile, pertanto, prenderla in considerazione in un contesto propositivo. Magari ne parleremo, “accademicamente”, in altra circostanza.


IL PIAVE MORVORAVA PARTE TERZA: L’ITALIA ENTRA IN GUERRA “Io ho passato il confine cinque o sei giorni fa: ho provato un po’ di tristezza, un po’ di dolore di lasciare l’Italia, la mia patria che (può darsi!) potrei anche non rivedere più. Nel qual caso sarei seppellito in terra redenta: avrei il gran dolore di lasciare nel cuore dei miei cari, carissimi, una ferita inguaribile. Avrei la consolazione di morire pel mio paese per la sicurezza e la libertà dei miei cari, per l’avvenire glorioso dei figli dei miei fratelli. Il gran conforto di essere uno di quelli che han dato il sangue pel paese e l’han difeso dall’eterno odiato nemico: d’essere uno di quei morti tanto belli che i granatieri guardano con serena ammirazione: di quei morti tanto diversi dai comuni: di quei morti in un attimo di beata esaltazione, fieri, soddisfatti di morire”. (Teodoro Capocci, diario di guerra, 28 ottobre 1915) (1) Le lettere e i diari dei militari offrono un osservatorio particolare su qualsiasi guerra, fungendo da importante corollario alla storiografia ufficiale (2). Il brano tratto dal diario del sottotenente Teodoro Capocci, nato a Lioni il 26 marzo 1894 e morto nel corso della battaglia di Monte Cengio-Cesuna, il 3 giugno 1916, scelto tra le decine di migliaia di testimonianze, vuole rappresentare un doveroso tributo di affetto e riconoscenza per tutti i combattenti che, grazie al prezioso lascito di memorie, hanno consentito di meglio percepire lo spirito di un’epoca e di uno tra i più tragici eventi della storia umana. I fatti diventano più comprensibili se si riesce a calarsi nell’animo di chi li ha determinati, contestualizzandoli e rifuggendo da impossibili comparazioni epocali. Parimenti è importante sedimentare gli eventi da quelle particelle torbide che, tramandate generazione dopo generazione, condizionano negativamente l’analisi. Il primo punto da smitizzare, a tal proposito, non è piacevole perché riguarda qualcosa che è nell’animo di tutti noi e fa vibrare le corde dello spirito: “La leggenda del Piave”. E’ opinione diffusa, infatti, che il famoso brano fosse stato concepito come “viatico” augurale per l’avventura bellica. “Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio”, abbiamo imparato a cantare sin da quando eravamo assisi sui banchi delle scuole elementari. Magari la canzone non la ricordiamo interamente, ma di sicuro sono ben impressi nella memoria i versi successivi: “L’esercito marciava per raggiungere la frontiera, per far contro il nemico una barriera. Muti passaron quella notte i fanti: tacere bisognava andare avanti. S’udiva intanto dalle amate sponde sommesso e lieve il mormorio delle onde. Era un presagio dolce e lusinghiero. Il Piave mormorò: non passa lo straniero”. Questi versi, appresi in età fanciullesca, ancorati alla data fatidica del 24 maggio, che giustamente nell’immaginario collettivo rimanda all’inizio della guerra per il nostro Paese, hanno indotto milioni di persone a ritenere, magari per una vita intera, che in quel giorno iniziò una guerra per difendere la Patria dall’invasione straniera. La canzone, invece, fu composta nel giugno 1918, dopo la seconda battaglia del Piave, da Giovanni


Ermete Gaeta, impiegato delle Regie Poste Italiane nella sua Napoli, nonché poeta, paroliere, compositore e appassionato studioso di storia, assurto a fama planetaria con lo pseudonimo E.A. Mario. Non è lecito sapere se il Piave mormorasse in modo particolare, il 24 maggio 1915, ma di sicuro non vide passare alcun fante, essendo essi, come meglio vedremo in seguito, già opportunamente schierati lungo la linea di confine fissata dopo la Terza Guerra d’Indipendenza. Era l’esercito italiano, inoltre, che si accingeva ad attaccare l’Austria e non vi era alcun pericolo di essere invasi: era già accaduto in passato e quindi si muoveva guerra per liberare i connazionali sotto occupazione. Sembra un rilievo di poco conto, ma non è così, perché si ripristina in modo netto il principale presupposto che alimentò l’interventismo: il ricongiungimento delle terre irredente con la madre patria. E.A Mario spiegò che i versi gli nacquero di getto quando apprese che l’esercito italiano aveva sconfitto gli austriaci e nel brano volle riassumere le vicende belliche dall’inizio alla fine, legando idealmente il “24 maggio” al “fiume sacro”, in un connubio ammantato di fervore patriottico. I versi delle canzoni e delle poesie, però, possono incunearsi nell’immaginifico collettivo in modo difforme rispetto agli intenti degli autori ed è ciò che è accaduto con “La leggenda del Piave”. Le truppe italiane, quindi, presidiavano la linea di confine sancita con la pace di Vienna del 3 ottobre 1866, che si dipanava su un fronte lungo circa seicento chilometri, assomigliante a una grande “S” coricata. Iniziava sul Passo dello Stelvio, scendeva lungo il monte Adamello fino al lago d’Idro, attraversava il Lago di Garda leggermente a Sud di Riva (in territorio austriaco) e il fiume Adige a Sud di Cornalé, lasciandosi sulla sinistra Rovereto, anch’esso in territorio austriaco. Dal Monte Pasubio la linea di confine divideva gli Altopiani di Folgaria, Lavarone e Asiago, per poi ritornare sulle Dolomiti a Sud di Cortina d’Ampezzo. Dopo un vasto saliente nella Carnia, dominata in territorio austriaco dalle Alpi Carniche e Giulie, iniziava la discesa verso il mare, seguendo sul lato occidentale il corso dell’Isonzo. Basta guardarlo su una cartina geografica, il fronte, per rendersi conto quanto esso fosse favorevole all’esercito austro-ungarico, che in caso di aggressione italiana avrebbe potuto contare sulle protezioni naturali offerte dalle alture alpine e carsiche. Nondimeno il dado era tratto e già alle 19 del 23 maggio, cinque ore prima che entrasse in vigore lo stato di guerra tra Italia e Austria-Ungheria, i primi colpi di cannone echeggiarono in Carnia, senza che sortissero alcun effetto. Poche ore dopo, alle 22,40, nei pressi di Cormons, sul ponte confinario di Brazzano delimitato dal torrente Judrio, il finanziere Pietro Dall’Acqua, che era di guardia insieme con il collega Costantino Carta, sparò il primo colpo di fucile contro una pattuglia di genieri austriaci, inducendoli a desistere dal compito di far saltare il ponte. Alle due e mezza del 24 maggio, da Forte Verena, partirono i primi veri colpi di cannone contro il Forte “Spitz di Vezzena”, costruito a 1908 metri di altezza per tenere sotto controllo l’altopiano di Asiago e della Valsugana. Non era facile colpirlo a quell’altitudine e i proiettili caddero nella sottostante valle, costringendo gli abitanti di Levico e Caldonazzo alla fuga. Il primo giorno di


guerra, in verità, registrò caratteri da sagra paesana. Le truppe che si apprestavano a varcare il confine furono salutate festosamente da una moltitudine di cittadini, che lanciavano fiori e sventolavano bandiere. Il corrispondente del quotidiano di Venezia scrisse testualmente: “La guerra è scoppiata, ma attraversando le nostre campagne non lo si direbbe. Le campagne magnifiche, ubertose, come di rado si vedono, appaiono ridenti sotto il solleone. Qua e là qualche bue ara: tutto è pace e serenità. Traversiamo San Giovanni di Manzano (Dal 1928 San Giovanni al Natisone, in provincia di Udine, ndr), pieno di carriaggi militari: gli uomini mangiano lietamente il rancio; qualche bimbo gioca tranquillo”. Alla pari di quanto era accaduto in Germania l’anno precedente, anche in Italia si pensava che la guerra sarebbe finita presto. Si contava soprattutto sull’intervento di altri paesi a fianco dell’Intesa, in modo da mettere in serie difficoltà le armate degli imperi centrali. Si cullava il sogno di una rapida riconquista delle terre irredente e di un’espansione nei Balcani e nel Mediterraneo orientale. Anche lo Stato Maggiore dell’Esercito nutriva smisurata fiducia nella rapida conclusione della vicenda bellica e le strategie stabilite dal generale Cadorna (3) prevedevano la massima pressione sul fronte dell’Isonzo che, secondo lui, presentava i presupposti ottimali per un veloce sfondamento che avrebbe dovuto portare le truppe italiane, in pochi giorni, a Lubiana e a Vienna, nonché di liberare Trento e Trieste prima del Natale! Un’illusione che durò qualche mese, generando un impeto nell’attacco pregno di eroico entusiasmo. Gli Alpini del battaglione Vicenza occuparono in poche ore il Monte Pasubio e la 1^ Armata, guidata dal generale Roberto Brusati (4), marciò spedita conquistando importanti postazioni. Si trattava, però, più di apparenza che di sostanza perché l’avanzata fu determinata precipuamente dall’arretramento delle truppe asburgiche, intente a posizionarsi in modo ottimale per meglio difendersi. Anche la 2^ Armata, al comando del generale Pietro Frugoni (5), s’impadronì in breve tempo delle valli che sfociavano sulla pianura friulana. Su questa line di fronte, però, si pagò lo scotto di molteplici deficienze, retaggio dell’inadeguata preparazione all’evento bellico: mancanza di attrezzature (in particolare per la costruzione dei ponti che avrebbero agevolato la marcia dei soldati) e mancanza di rifornimenti. Più di tutto, però, pesò la scelta dei comandanti. La 1^ Divisione Bersaglieri, ossia “l’élite” dell’esercito italiano, fu affidata al comando di un modesto generale dei servizi tecnici dell’artiglieria, Alessandro Raspi, al quale non sfuggì come anche un semplice tenentino lo surclassasse per carattere, carisma e attitudine alla guerra. La consapevolezza dell’anomalia era reciproca e ciò, da sempre e in ogni ambito, può solo generare grossi problemi. I soldati non riconoscevano l’autorità del loro capo e il generale, consapevole di non essere gradito, reagì come in genere reagiscono tutti i capi gelosi dei sottoposti più in gamba di loro: dispetti, rappresaglie, manifestazioni di “autoritarismo” (cosa molto diversa dell’autorevolezza riconosciuta) e ordini palesemente contrastanti con quelli che sarebbe stato giusto impartire ai valorosi bersaglieri, frementi di entrare in azione. Al solo fine di ferire il loro orgoglio e impedirne la gloria, invece, il generale rinunciò a conquistare le posizioni della dorsale Sleme-Mrzli (Valle dell’Isonzo, 12


km a Sud-Est di Caporetto), rimaste indifese fino alla sera del 26 maggio. Le posizioni non furono più raggiunte e i successivi tentativi di conquistarle sarebbero costate molto sangue. In pianura operava la 3^ Armata, agli ordini del generale Emanuele Filiberto di Savoia Aosta, che occupò subito Cormons, Medea e Versa e successivamente Aquileia. L’entusiasmo era alle stelle e la convinzione di una rapida conclusione del conflitto pervadeva tutti. Le truppe marciarono spedite oltre l’Isonzo e il 16 giugno fu conquistato il Monte Nero (2245 metri), una dozzina di chilometri a Est di Caporetto. I Battaglioni Susa ed Exilles furono insigniti della medaglia d’argento e non mancarono nemmeno le gratificazioni del Comando austroungarico, rimasto impressionato dall’ardore degli Alpini: “I reparti italiani effettuano i loro attacchi con grande bravura e con grande valore, assaltano ripetutamente alla baionetta venendo spesso a un esasperato combattimento corpo a corpo nel quale sono molto abili”. Il modo di combattere degli italiani, tuttavia, ancorché ardimentoso, risentiva di un romanticismo anacronistico e deleterio. I reticolati rallentavano la marcia e le mitragliatrici mietevano molte vittime. Furono ben quindicimila i soldati morti nei primi giorni proprio per l’errato modo di concepire l’attacco, ancorato ancora alle manovre di largo raggio che mal si conciliavano con le artiglierie e le nuove armi automatiche. Cadorna, generale vecchio stampo, non aveva tratto insegnamento da quanto era accaduto in Francia e impiegò più tempo del previsto per adeguarsi a un nuovo corso che, privilegiando la guerra di posizione e l’utilizzo delle trincee, cozzava con le sue idee. Il tributo pagato per la sciagurata condotta della guerra, come vedremo in seguito, sarà pesantissimo. Note 1)Stralci delle lettere dal fronte di Teodoro Capocci e del diario sono riportati da Adolfo Omodeo in “Momenti della vita di guerra”, Laterza, 1934. 2) Non so quanti saggi ho letto sul Risorgimento, tutti preziosi e importanti. Il libro che mi ha consentito, tuttavia, di meglio assimilarne le sfumature e diradare le tante ombre, è stato scritto da un modesto cappellano dell’esercito borbonico, Giuseppe Buttà, che si è limitato semplicemente a raccontare i fatti di cui è stato testimone, senza “aggiustamenti” di alcun tipo: “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta”, Berisio Editore, 1966. 3) Al generale Cadorna e alla struttura dell’esercito italiano sarà dedicato ampio spazio nel quinto capitolo. 4) Pur avendo raggiunto il grado di generale senza aver mai ottenuto incarichi operativi, dimostrò delle capacità tattiche e di comprensione delle problematiche da affrontare ben superiori a quelle del comandante in capo, che mise più volte in difficoltà dimostrando con i fatti che aveva ragione in ogni circostanza. Il risultato fu l’inevitabile esonero, che avvenne l’8 maggio del 1916. Una delle tante decisioni nevrotiche prese da Cadorna che, non contento, lo deferì anche alla Corte marziale con l’accusa (falsa) di tradimento. Il 14 maggio 1916, beffa del destino,


Cadorna scrisse all’Aiutante di Campo del Re per riferirgli che aveva rimosso Brusati in quanto lo riteneva inadatto al comando, facendolo passare quasi per un visionario perché aveva “previsto” un’imminente offensiva nemica, che egli riteneva impossibile. Nel pomeriggio dello stesso giorno, esattamente come aveva previsto Brusati, gli austriaci iniziarono il bombardamento a tappeto sulle linee italiane, dando avvio, di fatto, a quell’azione punitiva passata alla storia come “Strafexpedition”, concepita dal capo di stato maggiore austro-ungarico per punire severamente gli italiani, rei del tradimento per l’abbandono della triplice alleanza. Nel dopoguerra la verità dei fatti fu pienamente acclarata da una Commissione presieduta dall’ammiraglio Felice Napoleone Canevaro, che rimosse tutte le accuse, riammettendolo in servizio con effetto retroattivo. L’esonero, sostanzialmente, fu cancellato a tutti gli effetti, anche se non esiste ricompensa per un uomo costretto a vivere tre anni in mesta solitudine, con infamanti accuse addosso e senza avere la possibilità di apportare un valido contributo alla Patria, in un momento cruciale. Non lenì il disappunto la Croce al merito di guerra e la promozione a generale di Corpo d’Armata, ottenute nel 1922 su iniziativa del generale Armando Diaz, divenuto Ministro della Guerra. Disappunto che si trasformò in vero schifo nel 1924, quando dovette subire l’onta di vedere il suo carnefice, che avrebbe messo volentieri di fronte a un plotone d’esecuzione per le tante infamie perpetrate e per i disastri causati in virtù dell’inadeguatezza al ruolo, assurgere al prestigioso grado di Maresciallo d’Italia. 5) Pur avendo maturato una maggiore esperienza bellica rispetto a Brusati, si dimostrò un mediocre comandante. I forti limiti emersero già durante la guerra italo-turca, che lo vide al comando del I Corpo d’armata. Anch’egli entrò subito in contrasto con Cadorna, che gli attribuiva la responsabilità del logorio morale e fisico delle truppe. La replica, con la quale “elegantemente” furono rigettate e ribaltate le accuse per il cattivo andamento della guerra, determinò un travaso di bile a Cadorna, non avvezzo a critiche e obiezioni. I rapporti proseguirono con aspre tensioni, con quali conseguenze sul morale delle truppe e sull’esito delle operazioni è facilmente intuibile, fino al giugno 1916, quando Frugoni fu esonerato con l’accusa di aver perso il prestigio nell’ambiente militare e “quella fiducia che è indispensabile per chi deve reggere un così alto comando in guerra”. A prescindere dalle “psicopatologie” di Cadorna, l’inadeguatezza al ruolo fu acclarata da valide testimonianze di molti ufficiali, la più importante delle quali prodotta dal generale Ezio Reisoli, ex sottoposto, che redasse un circostanziato memoriale. Fu uno dei pochi alti ufficiali, tra l’altro, che Armando Diaz non riammise in servizio dopo la disfatta di Caporetto, quando una Commissione d’inchiesta revisionò tutti i casi dei generali rimossi dal pazzoide Cadorna.



PARADOSSI MEDIORIENTALI LETTERA APERTA A FRANCO CARDINI Caro Maestro, consentimi di rivolgermi a te con il termine che ritengo più consono e il “tu” confidenziale riservato alle persone che si stimano da tempo immemore. Da vecchio cultore di storia medievale e grazie a un cognome il cui anagramma rimanda a un cavaliere della tavola rotonda, continuo ad appagare la sete di conoscenza e la passione “cavalleresca” anche grazie alla tua imponente opera, la cui valenza non necessita certo del ribadimento di un fervente ammiratore. Ciò premesso, esprimo profondo dissenso per il tuo accorato appello in difesa di Assad, disponibile su YouTube con il titolo: “Comitato No Guerra No Nato - L'Italia ripudia la guerra, nessuno cancelli questa frase”, pubblicato poche ore prima dell’attacco missilistico su Damasco contro tre obiettivi legati agli arsenali chimici. L’ho ascoltato attentamente e mi hanno colpito le frasi in cui associ l’iniziativa di Francia, Gran Bretagna e USA a quella farlocca che determinò la Seconda Guerra del Golfo e la nascita dell’Isis. Parimenti mi ha colpito quel tono “rispettoso” nei confronti di Assad, che non posso considerare “realistico” perché ciò configurerebbe un’offesa alla tua intelligenza. Comprendo e condivido le preoccupazioni di una possibile escalation; anche grazie a ciò che ho imparato leggendo i tuoi libri, tuttavia, non sono disponibile a intorbidire le acque per giustificare paure, ancorché legittime, in modo distonico rispetto alla realtà. Posso parlare con cuor sereno perché sono facilmente reperibili, anche in questo magazine, tanti miei articoli che affrontano compiutamente e criticamente la bufala delle armi di distruzione di massa, dalla quale scaturì la Seconda Guerra del Golfo con le ben note tragiche conseguenze. Lo stesso dicasi per Trump, che non figura certo tra le persone beneficiarie della mia stima, e per tutto quanto attiene alla decadente società statunitense. Da qui, però, a considerare “un pretesto” l’utilizzo delle armi chimiche da parte di Assad e lasciar intendere che si sia trattato di una montatura, adducendo come prova fatti vecchi, ce ne corre. Abbiamo tutti paura, caro Maestro, ma i problemi che ne sono causa non si risolvono nascondendo la testa nella sabbia. Non devo certo spiegare a te la storia della Siria e quella di Bashar Hafiz al-Asad perché la conosci meglio di me. Affermi testualmente che “l’annunciato attacco missilistico USA è in realtà una sorta di dichiarazione di guerra alla Russia”, insinuando nelle menti di chi ti ascolti il presupposto che si possa essere alla vigilia della Terza Guerra Mondiale. (Il concetto è ribadito in modo ancora più chiaro nell’appello ai futuri governanti,


pubblicato nel sito “ilcovile.it”, con il quale, in ottima compagnia di autorevoli intellettuali, chiedi l’uscita dell’Italia dalla Nato, senza spiegare però, come possa realizzarsi siffatto difficile sgancio in mancanza di un vero processo d’integrazione europea che ci consenta di essere realmente forti e autosufficienti sul traballante scacchiere planetario). Non è corretto. Non è giusto. Perché gli USA dovrebbero attaccare la Russia utilizzando pretestuosamente la Siria? Sarebbe una follia che nemmeno uno strambo presidente come Trump potrebbe compiere, tanto più perché, come tutti sappiamo, il presidente americano non nutre certo sentimenti di ostracismo nei confronti del novello Zar. La realtà è ben diversa: è Putin l’alleato interessato di un feroce dittatore. Il controllo della Siria gli consente di non perdere la postazione sul Mediterraneo, grazie alla base navale di Tartus, per non parlare degli intrecci economici connessi alle forniture di armi, agli investimenti sul territorio, all’apertura di un corridoio aereo verso l’Iran, favorito dalle rinnovate relazioni tra i due paesi. La polveriera mediorientale non si placa con politiche dilatorie ma affrontando il toro per le corna una volta e per sempre. Occorre affermare la verità, che è difficilmente districabile in un contesto dalle mille sfaccettature e contraddizioni (ogni riferimento al ruolo della Turchia “NON” è puramente casuale) avendo anche il coraggio di far comprendere i rischi connessi a una “iniziativa giusta portata avanti nel modo sbagliato”. Non si frigge il pesce con l’acqua e l’unica mia vera paura, caro Maestro, è che l’attacco missilistico, limitato e senza conseguenze effettive, reiterando errori già commessi in passato, anche nelle dichiarazioni ambigue come quelle rese da Theresa May, contribuisca solo a creare maggiore confusione nell’opinione pubblica e a rafforzare il sostegno russo e iraniano ad Assad. (Lo ripeterò fino alla nausea: quanto costa e quanto manca un’Europa veramente unita sotto un’unica bandiera, con un suo esercito che funga da deterrente contro qualsivoglia velleitarismo!). Vi è un popolo, quello curdo, che soffre tra l’indifferenza planetaria, essendo perseguitato nelle aree in cui sopravvive, e quindi anche in Siria, con la stessa ferocia che un tempo fu riservata agli Armeni e agli Ebrei. In Siria vengono massacrati vecchi, donne e bambini. Dobbiamo guardare inermi a tutto ciò? Anche questa è una scelta, per carità, che tra l’altro trova molti sostenitori, come dimostrano ampiamente le dichiarazioni di un ampio ed eterogeneo fronte politico. Al diavolo la Siria e i popoli che soffrono sotto terribili tirannie; al diavolo i bambini nati sotto le bombe e asfissiati dai gas; al diavolo le donne stuprate e i vecchi impauriti. Al diavolo tutti, basta non aggiungere problemi più gravi a quelli che già ci angosciano. Si abbia però il coraggio di dirlo chiaramente, senza masturbazioni mentali che trasformino i diavoli in santi e viceversa.


IL PIAVE MORVORAVA PARTE QUARTA: L’EUROPA IN FIAMME Nel giugno del 1915 l’Europa è un immenso campo di battaglia, esteso anche oltre i confini continentali. Il 23 agosto dell’anno precedente, il Giappone, su sollecitazione del governo britannico, era entrato in guerra contro la Germania, occupando i territori coloniali tedeschi in Estremo Oriente. Nello stesso mese il Regno di Montenegro dichiarò guerra all’Austria-Ungheria. Il 6 agosto 1914 la Francia e la Gran Bretagna iniziarono la campagna dell’Africa Occidentale, con l’invasione delle colonie tedesche. Il Togoland (oggi Togo) fu occupato quasi senza combattere; più complicata si rivelò la conquista del Camerun, che avvenne solo nel febbraio 1916. Tra il 14 e il 24 agosto 1914, la battaglia delle Frontiere, lungo la linea di confine franco-belga, rivelò il vero volto di una guerra combattuta con regole vecchie e strategicamente inefficaci. Imponente lo schieramento delle truppe (1.300mila soldati per l’Intesa e 1.500.000 per la Germania) e altissimo il numero dei caduti su entrambi i fronti (80mila e 57mila). A fronteggiarsi furono due “concezioni” belliche: il Piano XVII, concepito dal generale Joseph Joffre, e il Piano Schlieffen, concepito nel 1905 dal Capo di Stato Maggiore Alfred Graf von Schlieffen. Il generale francese prevedeva lo sfondamento delle linee tedesche in Alsazia, contando sullo “slancio vitale” delle truppe e “supponendo” che giammai i tedeschi avrebbero utilizzato un consistente numero di armate sin dall’inizio delle ostilità, come, di fatto, avvenne. Il piano Schlieffen prevedeva la violazione della neutralità belga per raggiungere Parigi in pochi giorni. Entrambe le strategie si rivelarono fallimentari. L’anacronistica offensiva ad oltranza dei francesi, praticata con le baionette spianate in campo aperto, fu facilmente arginata grazie al filo spinato, alla potenza di fuoco delle mitragliatrici e alle più moderne tattiche di dispiegamento delle truppe. Il Piano Schlieffen, dal suo canto, risultò non meno fallimentare in virtù di eventi “imponderabili”, che colsero di sorpresa lo Stato Maggiore e il pur abile comandante Von Moltke, succeduto a Schlieffen nel 1906: la resistenza dell’esercito belga si dimostrò più consistente del previsto e fece ritardare di molti giorni l’avanzata in Francia; non si era prevista l’entrata in guerra della Gran Bretagna, il cui corpo di spedizione costrinse i tedeschi a deviare verso Compiegne, rinunciando a Parigi; non si era prevista la tempestiva mobilitazione dell’esercito russo, che penetrò in Prussia sconfiggendo i tedeschi nella battaglia di Gumbinnen. Questi eventi, a loro volta, ne determinarono altri ancor più penalizzanti: Von Moltke fu costretto a distogliere molte truppe dal fronte occidentale per inviarle contro i russi; la resistenza belga e l’aiuto della Gran Bretagna consentirono ai francesi di riposizionarsi in modo ottimale per difendere Parigi e rinforzare il fronte verso Sud, creando i presupposti per “il miracolo della Marna”. A Parigi ci si preparava alla difesa, affidata al vecchio generale Gallieni, mentre frotte di cittadini in fuga dagli invasori ripetevano le tragiche scene del 1871, rifugiandosi nella capitale. Il Governo scappò a Bordeaux, in cerca di salvezza, abbandonando Gallieni al suo destino, in una città terrorizzata, che però non esitò a rispondere all’appello per difendersi dal


nemico, combattendo con ogni mezzo e costruendo solide barricate. Le truppe tedesche, però, ancorché provate dalle lunghe marce, erano soverchianti per numero e armamenti e nulla si sarebbe potuto fare contro di loro se il “caso” non fosse venuto in soccorso della “necessità”. Il 3 settembre un aereo di ricognizione scoprì la deviazione dell’armata tedesca e Gallieni si rese conto che, in tal modo, i tedeschi gli offrivano il fianco. Attaccò senza indugio e la battaglia, che nessuno aveva previsto, si svolse tra il 6 e l’11 settembre 1914, sancendo il fallimento definitivo del piano Schlieffen. La battaglia della Marna, cancellando la possibilità di una rapida vittoria dei tedeschi sul fronte occidentale, rappresentò una svolta importante per l’andamento della guerra, che da quel momento in poi registrò un radicale cambiamento delle strategie. Iniziò “la guerra delle trincee”, logorante oltre i limiti dell’umana sopportabilità, caratterizzata nella prima fase dalla “corsa al mare”, con la quale i due eserciti tentarono inutilmente di aggirarsi, prolungando il fronte fino al Mare del Nord. Il susseguirsi delle battaglie in Piccardia e nelle Fiandre non portò a nessun risultato concreto e il fronte occidentale, di fatto, rimase fermo fino alle offensive di primavera del 1918. LA TRINCEA La vita del soldato in trincea è dura e piena di disagi. “Un odore sgradevole ci prende alla gola nella nostra nuova trincea a destra di Esparges. Piove a dirotto e troviamo dei teli da tenda sulle pareti. L’indomani, all’alba, constatiamo che le nostre trincee sono scavate in un carnaio; i teli da tenda nascondevano la vista di cadaveri e rottami. Dopo qualche giorno, con il ritorno del sole, le mosche ci invadono, l’appetito è scomparso. Quando i fagioli e il riso possono arrivarci, li scaraventiamo oltre il parapetto. Solo il vino e la grappa sono i benvenuti. Gli uomini hanno un colorito terreo, gli occhi segnati” (1). Altro flagello era rappresentato dai topi e dai pidocchi, dalla sporcizia, dall’impossibilità di cambiarsi d’abito e di lavarsi anche per mesi, dall’odore acre dell’urina. Le trincee contrapposte si fronteggiavano a poche centinaia di metri e talvolta anche a distanze ridottissime, separate dalla cosiddetta “terra di nessuno”, costellata di cadaveri in putrefazione e di feriti difficilmente recuperabili per non esporsi al fuoco dei cecchini. Un ufficiale ordinava gli assalti con un fischietto e i soldati partivano di slancio, con le baionette spianate, impigliandosi nei reticolati di filo spinato e offrendosi al micidiale fuoco delle mitragliatrici. I soldati avevano ben chiara la percezione dell’inutilità delle loro azioni, che servivano solo a generare un alto numero di morti, senza alcun vantaggio effettivo: si conquistavano pochi metri, si perdevano grazie alla controffensiva, si riconquistavano ancora a duro prezzo, si riperdevano e così via. Nondimeno dovevano soggiacere a questa frustrante condizione, pena la fucilazione per vigliaccheria o ammutinamento. La letteratura e la cinematografia hanno messo in ampio risalto questi aspetti, con autentici capolavori (2). Al di là dei romanzi e dei film, tuttavia, sono le testimonianze dirette di chi la guerra l’ha combattuta davvero, non importa su quale fronte, che consentono di penetrare ancor più in una realtà altrimenti


incomprensibile. Sotto questo profilo risulta di fondamentale importanza il saggio di Ernst Jünger “Nelle tempeste d’acciaio”, (Guanda 1990), reperibile anche con il titolo “Tempeste d’acciaio”, Ciarrapico Editore, 1961, edizioni preferibili a quella edita dallo Studio Tesi nel 1990, sempre con il titolo “Tempeste d’acciaio”, in quanto la traduzione effettuata da Gisela Jaager-Grassi non regge il confronto con quella curata da Giorgio Zampaglione. Jünger offre una visione della guerra scevra di sentimentalismi e retorica, rappresentandola nella sua essenza più veritiera, discostandosi dai tanti “fanatici”, banalmente “patriottici”, che nella guerra trovarono un alibi per dare sfogo alla loro confusa e distorta visione del mondo. La dedizione alla Patria di Jünger ha un valore “elitario” perché corroborata da concetti che trascendono il binomio individuo-territorio, ossia sono tedesco e combatto per la mia Patria contro i nemici; sono francese, italiano, austriaco e faccio altrettanto, e così via. Troppo banale per l’anarca che ha attraversato un intero secolo, cogliendone tutte le sfumature, senza rimanere contaminato dai tanti tarli che lo hanno infettato. “Se un giorno non si comprenderà più come un uomo abbia potuto dare la vita per il suo paese, allora sarà tutto finito; allora l’idea della patria sarà morta; e quel giorno forse ci invidieranno come noi invidiamo i santi per la loro forza profonda e irresistibile. Perché tutte queste belle e grandi idee provengono da un sentimento che è nel sangue che non si può dominare. Alla fredda luce della ragione, tutto diviene calcolo disprezzabile e monotono. Ci è stato concesso di vivere nei raggi invisibili dei grandi sentimenti e questo resterà un nostro privilegio inestimabile”. Ecco il concetto di Patria che si estende oltre i confini territoriali di un singolo individuo, coinvolgendo ogni essere umano. Una bella differenza rispetto ai poveri di spirito presenti in ogni paese, per i quali la ragione è sempre dalla loro parte e tutti gli altri sono i nemici. Senza alcuna volontà comparativa con la grandezza dell’opera di Jünger, merita una citazione anche il diario di guerra di Carlo Emilio Gadda, “Giornale di guerra e di prigionia”, Garzanti, 1992: abbracciando un arco di tempo molto vasto, dal 1915 al 1919, consente un approfondimento a largo spettro delle vicende belliche, rivelando sia le tante distonie che caratterizzarono l’impegno italiano sia l’eroismo dei singoli. Molto valido anche il saggio di Lorenzo del Boca, “Grande Guerra – Piccoli generali”, UTET 2008, che già nel titolo rivela lo spirito con cui viene affrontato l’evento bellico. Le tristi condizioni dei soldati e la vita dura nelle trincee sono crudamente trattate nel capitolo intitolato “Il fango e il gelo, i topi e la febbre”. Da prendere con le molle, invece, le numerose testimonianze di generali e politici, per lo più scritte con l’unico intento di giustificare le proprie azioni e quindi poco credibili. EUROPEI CHE UCCIDONO ALTRI EUROPEI Prima di proseguire con la cronaca bellica cerchiamo di capire lo spirito con il quale decine di milioni di persone si spararono addosso vicendevolmente, si sobbarcarono a fatiche sovrumane, sopportarono soprusi e violenze mettendo in


mostra tutte le possibili reazioni umane che tali fenomenologie sono in grado di manifestare: rabbia, dolore, ribellione, rassegnazione. Sarebbe facile affermare: “Erano soldati, dovevano obbedire e non è importante ciò che pensavano. Combattevano perché glielo avevano ordinato”. Questo concetto traspare in alcuni saggi che spostano l’attenzione precipuamente sui personaggi di alto rango militare e politico, le cui decisioni potevano orientare gli eventi in un senso o nell’altro. Per quanto concerne gli italiani, poi, non mancano cesellature che mettono in evidenza come molti soldati, di bassa scolarizzazione o analfabeti, non riuscissero nemmeno a comprendere le reali motivazioni della guerra che combattevano. Limitarsi a questa analisi, tuttavia, è oltremodo riduttivo perché lo spirito dei combattenti, mai come nella Grande Guerra – lo vedremo via via – ebbe il sopravvento sulle decisioni dei capi, condizionando, di fatto, il risultato finale. Se guerrafondai e pacifisti sono riscontrabili in ogni paese, con tratti comuni, i tipi umani chiamati a combattere mettono in luce peculiarità differenti, secondo la loro matrice territoriale. I tedeschi, è noto, sono famosi per la disciplina, per la straordinaria capacità organizzativa, per l’ordine. La Prima Guerra Mondiale fu anche l’espressione della massificazione della società perché tutti furono chiamati ad apportare il loro contributo e le succitate caratteristiche consentirono una strutturazione delle risorse umane, nelle retrovie e al fronte, di gran lunga superiore rispetto a quanto avvenne in altri paesi. I giovani tedeschi bramavano la carriera militare e non disdegnavano la guerra in virtù di un retaggio educazionale che, a tale ruolo, conferiva grande prestigio. Le trincee costruite dai tedeschi erano più confortevoli di quelle nemiche e molto più efficiente era anche il supporto logistico per qualsivoglia esigenza, a cominciare dal cibo e dagli armamenti. Il soldato tedesco era fiero del suo ruolo e combatteva con ferma determinazione perché credeva che la Germania avesse il diritto di dominare l’Europa. Lo stesso Jünger sosteneva testualmente: “Questi combattimenti sono passati e già intravediamo davanti a noi delle nuove lotte. Noi – e in questo “noi” comprendo i giovani che nel paese sono quelli che pensano e che sono aperti all’entusiasmo – non avremo paura. Fintantoché le spade manderanno lampi nell’ombra, la Germania vivrà, la Germania non soccomberà”. (Non dimentichiamo che aveva solo venticinque anni quando scrisse “Tempeste d’acciaio”) L’esercito inglese, composto prevalentemente da volontari, era guidato da ufficiali reclutati tra la nobiltà e la borghesia. Era un piccolo esercito che passò in pochissimo tempo da 200mila a 5milioni di uomini, dimostrando grande capacità di adattamento, nonostante la ritrosia dei soldati esperti nei confronti dei superiori “novellini”, che dovettero faticare non poco per vedersi riconosciuti nel ruolo. Non mancava il coraggio e i soldati si distinsero in mille occasioni per la capacità di fronteggiare il nemico anche in condizione d’inferiorità numerica. I tratti del carattere inglese non erano certi “annichiliti” dalle circostanze particolari e ciò comportò molti problemi nei rapporti con gli alleati. Inglesi e


francesi si detestavano reciprocamente e non perdevano occasione per creare scaramucce, anche per futili motivi. Quando l’integrazione delle truppe, per esempio, determinò la somministrazione di cibo francese agli inglesi e viceversa, gli ufficiali dovettero faticare non poco per mantenere l’ordine: ciascuno schifava il cibo degli altri. Il velleitario “complesso di superiorità” degli inglesi cesellava l’azione bellica con azioni non sempre adeguate agli eventi, secondo una reiterata propensione comportamentale che alterna la gentilezza alla ferocia. Emblematico un episodio che ho già avuto modo di citare in questo magazine (3) e che val la pena di replicare. Il 28 settembre 1918 un plotone d’assalto fu bloccato da una postazione tedesca trincerata a Marcoing, nei pressi di Cambrai. Tra i soldati vi era il ventisettenne Henry Tadney, già veterano di tante battaglie e più volte ferito in azione. Tadney, da solo, strisciò in avanti sotto il fuoco continuo di una potente mitragliatrice, balzò nella trincea e uccise tutti i nemici. In fondo vi era un caporale ferito, sanguinante e impaurito, già presago della sorte che lo attendeva. Il soldato inglese, invece, pronto per sferrare il colpo mortale, indugiò e abbassò l’arma, lasciandolo vivere. “Non potevo sparare a un uomo ferito”, dirà in seguito. La battaglia di Marcoing gli valse la “Victoria Cross”, la più alta onorificenza militare assegnata per il valore "di fronte al nemico". Peccato che il caporale cui salvò la vita si chiamasse Adolf Hitler. Non va sottaciuto, infine, un altro significativo aspetto del “tipo” inglese, perché serve a meglio inquadrare la realtà “europea”, non solo nel contesto specifico di riferimento. Provate a girare per le strade di Londra o di qualsiasi altra città inglese e chiedete di parlarvi della Grande Guerra: resterete a bocca aperta nello scoprire che la stragrande maggioranza dei cittadini “esalta” il ruolo dell’armata britannica e, semplicemente, “ignora” che l’Italia abbia preso parte alla guerra! Ignoranza del popolino, verrebbe da replicare di primo acchito. Sbagliato: tutta la saggistica inglese dedicata alla Grande Guerra, di fatto, sostanzialmente ignora l’Italia e nell’imponente opera edita dall’Università di Cambridge nel 2013, “The first world war”, tre volumi per oltre 2.300 pagine, l’Italia è presente in modo superficiale e approssimativo in un piccolissimo capitolo. (Non sembri questo un dettaglio di poco conto: tanti problemi insorti sia nella Prima sia nella Seconda Guerra Mondiale, e poi anche in seguito, sono una diretta conseguenza della mancanza di amalgama tra soggetti che, non fosse altro perché combattevano dalla stessa parte, avrebbero dovuto quanto meno “conoscersi” meglio). Se “l’individualismo” inglese si manifestava in un contesto di gruppo, anche esteso, il soldato francese preservava il classico “individualismo” fine a se stesso. Non era disciplinato come i tedeschi, ma se obbligato sapeva obbedire senza riserve. L’animo inquieto lo portava a continui sbalzi di umore: si scoraggiava e si esaltava facilmente. Bastava creare, quindi, occasioni ottimali per tirare fuori la parte migliore del suo “essere” ed era capace di sorprendere e stupire. E’ accaduto tante volte e non solo nella Prima Guerra Mondiale. I soldati russi non sono per nulla comparabili a nessun altro “tipo” europeo. Raggiunsero la bella cifra di quindici milioni e i disertori furono davvero pochi.


“Non avevano né l’incoscienza un po’ vana dei francesi, né la disinvoltura degli inglesi, né la sicurezza dei tedeschi” (4). “Nutriti di zuppa di cavolo e di carne e dissetati da enormi quantità di tè, avvolti in grandi mantelli che arrivavano quasi fino ai piedi, i soldati russi erano uomini coraggiosi, disciplinati (all’inizio), ma non avevano capacità di manovra. Le truppe, composte essenzialmente di contadini, erano meno “composite” di quelle di altri paesi. Il comando, in genere reazionario, era distante e sprezzante nei confronti degli uomini. Gli ufficiali avevano instaurato abitudini disciplinari che ricordavano quelle dei penitenziari. Ne risultò un odio crescente nei confronti degli ufficiali, che si tradusse nel 1917 in insulti, insubordinazione ed anche massacri. Gli ufficiali subalterni, a loro volta, spesso erano tecnicamente molto più preparati degli ufficiali di grado elevato (5)”. NOTE 1) (Citazione del caporale Broizat tratta dal testo di André Ducasse: “La Guerre racontée par les combattants”, Flammaron, 1932) 2) Erich Maria Remarque, “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, Newton Compton, 2008. Dal romanzo sono stati tratti due film: “All’ovest niente di nuovo”, diretto da Lewis Milestone nel 1930 e “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, diretto da Delbert Mann nel 1979. In Italia destò molto scalpore il film di Francesco Rosi, “Uomini contro”, girato nel 1970, ispirato al libro di memorie di Emilio Lussu, “Un anno sull’Altipiano”. Il libro e il film mettono in luce il forte contrasto tra ufficiali insensibili alle sofferenze dei sottoposti, una concezione della disciplina controproducente e frustrante e l’insensatezza della guerra soprattutto quando il comando delle truppe è affidato a persone sbagliate. Capolavoro assoluto, naturalmente, “Orizzonti di gloria”, diretto nel 1957 da Stanley Kubrick, ispirato all’omonimo romanzo di Humprey Cobb, a sua volta ispirato a fatti realmente accaduti nei primi mesi del 1915: i soldati del 336° Reggimento di fanteria francese, consapevoli di poter solo morire, si rifiutarono di uscire dalla trincea dopo un ordine di attacco. Il generale Géraud Réveilhac ordinò di aprire il fuoco per indurli ad attaccare, ma un colonnello si rifiutò di eseguire l’ordine. Un processo sommario si concluse con quattro condanne a morte e i soldati assassinati furono riabilitati nel 1934. 3) Confini Nr. 58, ottobre 2017, pag. 40 4) Marc Ferro, “La revolution de 1917”, Aubier, Parigi, 1967. 5) Jean Baptiste Duroselle, Storia universale dei popoli e delle civiltà, volume 13°, UTET, 1969.



DUE STRADE DIVERGEVANO NEL BOSCO Il 1968, per me, non fu l’anno della rivolta, delle manifestazioni di piazza, delle occupazioni e delle barricate: fu l’anno della “consapevolezza”. Iniziai a comprendere, infatti, di essere “diverso”. Una diversità che nei primi tempi generò problemi relazionali, incomprensioni e forti dubbi. Avevo tredici anni, dopo tutto, e non ero certo culturalmente attrezzato per spiegarmi fenomenologie dell’essere che mi avvolgevano in modo frustrante. Sono sbagliato io o loro? Ho ragione io o loro? La “consapevolezza” della diversità, fievolmente e progressivamente incuneatasi nella mente tra i banchi di scuola, fu scandita dalle conseguenze di un evento ben preciso, che avvenne il 6 gennaio 1968. Come ogni sabato, il pomeriggio era dedicato alla visione del programma televisivo “Chissà chi lo sa”, presentato dall’indimenticato Febo Conti. Il programma prevedeva una sfida di cultura generale tra alunni delle scuole medie. La squadra vincente si portava nella propria scuola una enciclopedia e ritornava nella puntata successiva. I vari quiz erano intervallati dalle esibizioni di ospiti, per lo più cantanti o attori. Quel sabato furono invitati due giovani artisti del tutto sconosciuti in Italia: il ventenne inglese Barry Ryan e il ventunenne svedese Peter Holm. Il primo cantò una canzone stupenda, “Eloise”, caratterizzata da una ritmica incalzante e accattivante, che entrava dentro sin dalle prime note per la straordinaria musicalità. Non parlavo ancora un buon inglese, a quel tempo, e quindi non comprendevo il significato del testo. Nondimeno la canzone mi piacque subito. Peter Holm cantò una canzone dolcissima, “Monya”, in italiano, che non si discostava dalle classiche melodie romantiche tanto di moda. Compravo tanti dischi, in quegli anni, e decisi subito che anche quelle due canzoni avrebbero fatto parte della mia collezione. Il negozio di riferimento era “Ricordi”, ubicato nella Galleria Umberto I di Napoli. Papà Lorenzo e Mamma Giuseppina non si fecero pregare per esaudire il mio desiderio e così, il mercoledì successivo, con lo spontaneo e ingenuo entusiasmo che solo un tredicenne può avere, ci recammo a Napoli – abitavamo a Caserta – per comprare i dischi e degustare un’ottima pizza nella solita pizzeria preferita dal mio Papà: “Pizzicato”, in Piazza Municipio. Ritornai a casa felice, pregustando la gioia di condividere con tutti i miei amici i nuovi acquisti, in particolare lo stupendo brano di Barry Ryan. Da non molto tempo il vecchio giradischi “Geloso” era stato sostituito dallo “Stereorama 2000 De Luxe”, pubblicizzato dalla rivista “Selezione del Rider’s Digest” e venduto per corrispondenza. (Occorrerà aspettare il 1972 per avere il piacere di tuffarmi nel mondo della stereofonia “seria”, con un impianto che sarà progressivamente modificato fino alla metà degli anni novanta). Con somma sorpresa, però, il mio entusiasmo fu repentinamente smorzato dalle reazioni degli amici. Il pezzo forte era “Eloise”, del quale magnificavo la qualità, sicuro che sarebbe stato lo stesso per loro. Avvenne l’esatto contrario: il brano non piacque a nessuno e io fui letteralmente sommerso di sberleffi, anche pesanti, per un entusiasmo evidentemente giudicato non solo eccessivo ma addirittura fuori luogo. “E’ un brano che fa letteralmente schifo”; “Ma come può


piacerti?”; “Certo che ne capisci di musica tu…” sono solo alcune delle frasi che mi dovetti sorbire, frammiste ai risolini di commiserazione, generalmente tributati a coloro che venivano presi in giro per le loro deficienze. Eppure nel gruppo avevo il mio “peso”, che non mi veniva certo disconosciuto. Su quell’evento musicale, però, furono spietati: per tutti avevo preso un granchio. La cosa mi stupì non poco, generando in me forti dubbi. Vuoi vedere che hanno ragione loro? Dubbi che si amplificarono a dismisura settimana dopo settimana: aspettavo con ansia che Lelio Luttazzi annunciasse l’ingresso in classifica del brano, nel programma radiofonico “Hit Parade”, in modo da dimostrare agli amici che il granchio lo avevano preso loro. E invece nulla. L’Italia intera mi dava torto perché non riuscì a entrare in classifica nemmeno nelle ultime posizioni. I mesi si succedevano l’uno dietro l’altro e di “Eloise”, che io continuavo ad ascoltare con immutato piacere, nessuno parlò più. Nel gruppo dei miei amici ero l’unico che leggesse il settimanale “Giovani”, che nella sezione dedicata alla musica pubblicava le classifiche dei dischi più venduti in tutto il mondo. “Eloise”, di fatto, era prima in classifica dappertutto, tranne che in Italia. Il dato, però, non è che fosse tanto confortante per me. Quelli erano gli anni della prima “formazione”, condizionata dagli studi scolastici, dagli insegnamenti dei miei fantastici Genitori, dai consigli sulle letture che la Mamma, maestra elementare, mi propinava con l’amore che solo una mamma sa dare. Nella ricca biblioteca di famiglia troneggiavano i classici della letteratura italiana e, manco a dirlo, il libro “Cuore” di Edmondo de Amicis. Alla pari di tanti miei coetanei fui educato “all’italianità” e a ritenere che noi fossimo il migliore popolo al mondo: il più civile, il più evoluto, il più intelligente, il più colto e chi più ne ha più ne metta. A scuola ci avevano fatto credere che Muzio Scevola era stato capace di mettere la mano sul fuoco fino a farla bruciare del tutto, per punirsi dell’errore commesso quando decise di assassinare Porsenna; che Costantino era un grande imperatore e che Dio addirittura gli aveva fatto intendere che era dalla sua parte nella battaglia di Ponte Milvio; ci avevano insegnato la storia romana esaltandola e nascondendo la realtà dei fatti; ci avevano fatto credere che Garibaldi fosse l’eroe dei due mondi e che ritornò a Caprera con un sacco di patate sulle spalle (e io, fesso, alle elementari piansi a dirotto pensando che nella sua isola e nella vicina Sardegna non vi fossero patate e i bambini come me non potevano mangiare le patatine fritte che mi piacevano tanto); ci avevano fatto credere che Silvio Pellico fosse un grande “patriota” e che trascorse “mesi terribili” nello Spielberg; ci avevano fatto credere un sacco di cose. Come mettere in dubbio la nostra superiorità? Gli americani erano i più stupidi: a loro si poteva addirittura vendere la Fontana di Trevi! Il dubbio incominciò a incunearsi, tormentando i miei pensieri. Se il migliore popolo al mondo aveva giudicato negativamente quel brano musicale, molto probabilmente ero caduto io in un grossolano errore. Durante l’estate, però, accadde un fatto curioso. Barry Rayan fu invitato di nuovo in un programma televisivo. Non alla “TV dei Ragazzi”, ma in uno di quei programmi del sabato sera, seguitissimi da oltre dieci milioni di spettatori. (Per i più giovani è bene ricordare che in quegli anni vi erano solo due canali: Rai 1 e Rai 2). Nei giorni


successivi fu ospite di altri programmi e i conduttori, tutti, ripetevano fino alla nausea quanto fosse bella quella canzone, sottolineando il primato mondiale nelle classifiche dei dischi più venduti. Magicamente, nel giro di pochi giorni, “Eloise” entrò in classifica anche nella “Hit Parade” italiana e Lelio Luttazzi, con quella sua calda ed entusiastica voce, ne lodava i continui avanzamenti, fino al primo posto, che se non ricordo male mantenne ben oltre la fine dell’anno. I miei amici? Nessuno disse nulla. Continuavamo a vederci come avevamo sempre fatto e, tutti, ascoltando “Eloise”, manifestavano lo stesso compiacimento da me manifestato sin da gennaio. Nessun riferimento ai pesanti sfottò tributatimi quando a loro la canzone non piaceva. Fu allora che incominciai a comprendere alcune importanti dinamiche “dell’essere”. I discografici che avevano lanciato “Eloise” a gennaio si erano resi conto che il lancio non era stato fatto bene e che la semplice presentazione della canzone, ancorché bellissima, non funzionava. Occorreva “orientare” il pubblico affinché fosse accettata, cosa che avvenne con il secondo lancio, nel corso dell’estate (1). Il sessantotto, seppur ancorato a un’epoca già “storicizzata”, è ancora relativamente vicino nel tempo per poterlo analizzare con serena obiettività, senza considerare che, come spesso scrivo, essere obiettivi non è mai facile. I protagonisti diretti sono i peggiori analisti di ciò che hanno vissuto, proprio perché tendono a offrire una visione partigiana dell’evento. E’ indubitabile che il sessantotto abbia favorito l’irresponsabilità; l’appiattimento verso il basso; il ripudio del merito; l’affermazione di ideologie fuorvianti, che via via hanno messo in evidenza i propri limiti, dopo aver prodotto però immani guasti in milioni di persone. Nondimeno lo scossone era inevitabile, perché, in qualche modo, bisognava rompere con un “passato” che stentava a evolversi in un mondo che iniziava a trasformarsi radicalmente. Non vi sono responsabilità oggettive nella nascita del sessantotto perché a nessuno può essere chiesto di andare oltre i propri limiti e i genitori dei ventenni di allora non avevano alcuno strumento per “arginare” la ribellione. Vi sono stati i cattivi maestri della scuola di Francoforte, certo, ma quelli non sono mai mancati, in ogni epoca, e quindi non possono essere responsabilizzati più di tanto: non tutti i milioni di giovani che hanno alimentato i fermenti di quegli anni avevano letto i loro libri! Le cose, talvolta, accadono perché sono inevitabili. Questo insegna la storia, come lucidamente spiegato in importanti opere che affrontano scientificamente il comportamento degli individui e delle masse (2). Sono sempre state sparute minoranze ad avere la forza di resistere ai condizionamenti del Tempo e alle pressioni della cultura dominante, riuscendo a vedere nella nebbia senza perdere la strada maestra. Sono i rari nantes in gurgite vasto che, in genere, in un momento particolare della loro vita, mentre passeggiavano nel bosco, si sono trovati al cospetto di due strade che divergevano, proprio come accadde a un grande poeta. Scelsero di percorrere la meno battuta e questo ha fatto tutta la differenza. Orgoglioso e fiero di far parte di questa categoria e di poter raccontare, sorridendo, il mio sessantotto.


NOTE 1) L’episodio citato ebbe una replica più o meno analoga esattamente venti anni dopo. Collaboravo con una importante società partenopea, la “Joint Venture”, che racchiudeva tre gruppi operativi: “Cinenova”, proprietaria del Cinema Fiorentini e del vecchio Cinema-Teatro Acacia, rilevato e ristrutturato dopo un lungo periodo di chiusura; “City-Congress”, che univa il cinema Fiorentini al Grand Hotel Oriente; la catena dei ristoranti “Chopin”. La sede era all’interno dell’Hotel Santa Lucia, che faceva parte del gruppo. Ero molto legato all’amministratore, un affascinante architetto, marito di una delle donne più importanti di Napoli, figlia di un imprenditore proprietario di molti alberghi, non solo a Napoli. Mi piaceva molto quella struttura, nella quale vedevo proiettato un futuro brillante come direttore artistico del Cinema-Teatro “Acacia”, con annesse diramazioni nel campo cinematografico e dello showbiz, che non mi stancavo mai di “sollecitare” ai dirigenti. Purtroppo, a seguito del divorzio della coppia, si sfasciò tutto e l’Acacia non fu più gestito dall’Architetto mio amico, ma dalla ex moglie, che affidò la direzione artistica a Geppy Gleijeses. Fu proprio al Cinema “Fiorentini” che venne presentato, in anteprima nazionale, il capolavoro di Giuseppe Tornatore “Nuovo Cinema Paradiso” e io ebbi l’onore di essere tra gli invitati. Inutile dire che il film mi piacque molto e non mancai di esternare il mio apprezzamento al regista, tra lo stupore di molti amici e colleghi del Gruppo, i quali, senza tanti giri di parole e con il sorrisino sulle labbra, mi fecero intendere che avevo formulato i complimenti per mera “captatio benevolentiae” nei confonti del regista. Alla mia replica seguirono i classici “ma dai”, “a chi vuoi farla bere”, essendo tutti convinti che il film, non essendo piaciuto a loro, di sicuro non fosse piaciuto nemmeno a me. “E’ una cagata pazzesca”, mi disse uno dei massimi dirigenti della CINENOVA, ovviamente “espertissimo” di cinema e teatro, aggiungendo, con aria sorniona “…e tu lo sai benissimo”, lasciando intendere che aveva intuito lo scopo recondito del mio gesto. Capii che non vi era partita, che non vi era verso di far comprendere la mia ritrosia a ogni forma di leccaculismo e mi godetti la serata senza insistere. Il film fu un vero flop al botteghino: non piacque a nessuno, gettando nel profondo sconcerto il regista e soprattutto Franco Cristaldi, che in compartecipazione con una società francese lo aveva prodotto, investendo una barca di soldi. Che il film fosse valido era chiaro a un numero ristretto di persone e a qualche critico, ma quando ci sono di mezzo i soldi, i complimenti dei pochi non contano. Bisognava intervenire in qualche modo. Il film “bellissimo” non era piaciuto e allora Tornatore lo ripropose in modo meno bello, togliendo circa trenta minuti di eccellente girato. Nonostante anche questa versione fosse stroncata dalla critica e dal pubblico in Italia, nel 1989 (forse con un piccolo aiutino assicurato dai produttori francesi), ottenne il Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes, cui fecero seguito il premio Oscar e il


Golden Globe nel 1990. In Italia tornò nelle sale e ottenne il grande successo di cui tutti siamo a conoscenza, con incassi stratosferici. I miei amici che mi avevano sbeffeggiato alla prima? Come se nulla fosse stato. Con molti di loro ritornai a vedere il film, che a me ovviamente piacque di meno perché preferivo la prima versione. “Davvero stupendo”, dissero tutti, dimentichi di ciò che avevano affermato solo due anni prima. 2) Sigmund Freud (Psicologia delle masse; Gustave Le Bon (Psicologia delle folle); Elias Canetti (Massa e potere); José Ortega (La ribellione delle masse). A questo elenco specifico va anche aggiunto il saggio di George L. Mosse: “La nazionalizzazione delle masse” che, seppur riferito precipuamente alle radici del nazismo, presenta riflessioni e parallelismi che possono essere mutuati in qualsiasi contesto epocale.


IL PIAVE MORVORAVA PARTE QUINTA: IL LATO OSCURO DELLA GUERRA PREMESSA Questo capitolo del saggio dedicato alla Grande Guerra non sarà né bello né piacevole da leggere, alla pari degli altri che seguiranno. La storia d’Italia, in effetti, resa spuria delle tante mistificazioni, non è mai una bella storia, anche quando celebra gli eroi e i puri, che non sono certo mancati, perché costoro hanno sempre dovuto fare i conti con la cinica scellerataggine di altri, spesso pagando con la vita il loro idealismo. Scandagliare gli eventi per proporli nella loro cruda essenza, tuttavia, è l’unico modo per iniziare a scrivere pagine di storia che ci consentano di fare, seriamente, i conti con il nostro passato. Non è facile e si corre il rischio di urtare molte sensibilità, abituate da sempre a preferire una generosa illusione alla reale consistenza di fatti e personaggi che, a loro volta, presentano molti lati oscuri di difficile decantazione. Provare a districare questa intricata matassa è davvero una grande sfida. Le grandi sfide non ci hanno mai spaventato e ciò, ovviamente, vale per tutte le epoche storiche. Qui parliamo di Grande Guerra. IRREDENTISMO: NOBILE PRESUPPOSTO O FALSO SCOPO? Quarta Guerra d’Indipendenza. Così è stata definita la Prima Guerra Mondiale, assecondando l’enfasi mazziniana sui confini da lui concepiti: “Le Alpi Giulie sono nostre, come le Carniche. Il litorale istriano è il compimento del litorale veneto. Nostro è l’alto Friuli; nostra è l’Istria e nostra è Trieste. Lì sta la porta dell’Italia: il ponte che unisce noi e gli ungheresi. Abbandonandola, quei popoli rimangono ostili. Avendola, sono sottratti all’esercito nemico e alleati al nostro”. Bella descrizione, che ancora oggi, in quelle terre, fa storcere il naso a molte persone. Figuriamoci allora. Nell’accordo di Londa del 1915, che sancì l’alleanza dell’Italia con le forze dell’Intesa, ai territori idealmente considerati parte integrante dell’Italia sotto il giogo straniero, furono aggiunti, tanto per arricchire un po’ il banchetto con nuove pietanze, pezzi di Slovenia e di Croazia, un pizzico di Albania e un pugno di isole greche. Non si vuole arrivare a sostenere che l’irredentismo fosse solo un pretesto per allargare i confini territoriali, ma è cosa buona e giusta da un lato allargare i confini speculativi sui reali intenti e dall’altro analizzare con attenzione gli umori e i sentimenti di coloro che abitavano in quei territori. Sui libri di storia è scritto che furono molti i disertori dell’esercito austro-ungarico e su personaggi come Cesare Battisti, Damiano Chiesa, Fabio Filzi sono stati consumati fiumi d’inchiostro. In realtà, nel 1914, si registrò la fuga di quattrocento cittadini, che diventarono poco più di tremila alla fine della guerra. Oltre sessantamila, invece, i trentini che combatterono regolarmente nell’esercito austriaco, servendo il loro Stato alla pari dei soldati di tante altre nazioni. Non ebbero alcuna percezione di combattere contro i propri fratelli perché, da generazioni, si sentivano cittadini


dell’Impero Austro-Ungarico, che si chiamava “impero” proprio perché inglobava popoli di varie etnie. Quei cittadini si trovarono italiani al termine della guerra e, come tutti ben sappiamo, i loro nipoti, ancora oggi, hanno difficoltà a parlare italiano correttamente. CHERCHEZ L’ARGENT Comunque si consideri la guerra, è chiaro a tutti che essa richieda alti costi per la produzione di armi, munizioni, vestiario, vettovagliamento e quant’altro. Si possono senz’altro confinare nell’alveo della retorica da quattro soldi, pertanto, le reboanti filippiche di coloro che la criticano evidenziando soprattutto questo fattore, perché, come spesso accade, vuol dire guardare il dito anziché la luna. Altra cosa, invece, è parlare del ruolo di chi fomenti le guerre per mero interesse personale, in particolare i produttori di armi, che con cinica spietatezza sono capaci di tutto, anche di usare come burattini degli ignari idealisti. Non sempre ignari, a onor del vero e quindi non sempre “idealisti” tout-court. Ciò premesso, ai tanti mestatori adusi a predicare bene e a razzolare male, si devono aggiungere anche i guerrafondai di professione, come quel tal Gaetano Rapagnetto che ha conquistato fama planetaria con il più aulico nome di Gabriele d’Annunzio (con la “d” minuscola, volendo rispettare il certificato anagrafico). Se anche lui abbia preso un po’ di soldi dagli industriali produttori di armi, come sostiene qualcuno, è oggi irrilevante, perché la vocazione bellica sarebbe rimasta analoga anche in assenza di prebende. Lo stesso dicasi per Giovanni Papini, che già da giovinetto aveva manifestato chiari segni del suo essere un po’ fuori di testa, distruggendo in un colpo solo tutta la filosofia e affermando che Kant, Hegel, Shopenhauer, Comte, Spencer e Nietzsche, disinvoltamente messi sullo stesso piano, dovevano essere gettati via come “inutili carogne”. Un articolo pubblicato il 1° ottobre 1914 su “Lacerba”, la rivista fondata con Ardengo Soffici, è molto eloquente: “Finalmente è arrivato il giorno dell'ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell'anime per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l'arsura dell'agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di settembre. (...) E’ finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C'è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un'infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita. (...) Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare? (…) Chi odia l’umanità – e come si può non odiarla, anche compiangendola? – si trova, in questi tempi, nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l’odio e lo consola. Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai


finché dura. La guerra è spaventosa - e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi”. Oggi gli psicologi andrebbero a nozze nel decriptare le evidenti turbe psichiche, magari rifacendosi alle teorie di John Dollard sull’aggressività come principale reazione alla frustrazione. In quei tempi, però, le parole reboanti – d’Annunzio docet – avevano facile presa su masse sostanzialmente analfabete o poco colte, che subivano il fascino degli oratori d’alto rango, in special modo se nessuno osava contestarli o le contestazioni, ancorché ben articolate, non riuscivano a imporsi con pari peso: l’apparire che sconfigge l’essere è una costante nella storia dell’umanità (1). Con questi superbi supporti, adeguatamente prezzolati o meno che fossero, gli industriali italiani fecero bingo, aiutati anche dalla Francia, che offrì un consistente sostegno economico agli interventisti, iniziando con Benito Mussolini, che aveva appena fondato “Il Popolo d’Italia” (2). Prima dell’entrata in guerra, tra l’altro, le industrie nostrane spaziarono su tutti i fronti, vendendo armi in egual misura sia alle forze dell’Intesa sia all’Austria e alla Germania, salvo poi votarsi in blocco alla causa interventista quando gli ordini incominciarono a scemare in virtù del costante incremento delle produzioni interne. Aziende di non grandi dimensioni come la FIAT, la BREDA, la FRANCO TOSI, l’ANSALDO, grazie alla guerra diventarono dei colossi. Emblematico il caso della BORLETTI che, quando si chiamava “Industrie Femminili Lombarde”, operava nel settore tessile e nella produzione di sveglie. Il patriarca Senatore Borletti (Senatore è il nome di battesimo; poi senatore lo divenne davvero durante il Fascismo) riconvertì gran parte della linea industriale al fine di produrre spolette per proiettili, arricchendosi smisuratamente. Al termine della guerra pensò di investire nella distribuzione organizzata e comprò i magazzini Bocconi, specializzati nella vendita di abiti confezionati. Non contento dei risultati, decise di imitare “La Galèrie Lafayette”, vendendo un po’ di tutto. Doveva trovare un nome per la catena dei negozi e cercò di reperirlo, invano, nelle pagine di “Au bonheur des Dames” di Emile Zola. Si affidò allora a Gabriele d’Annunzio, che non impiegò molto tempo per individuare quello più adatto: “La Rinascente”. Milioni di spolette avevano generato milioni di morti, ma anche molti milioni di lire che, a loro volta, contribuirono alla diffusione di tanti negozi nei quali, milioni di italiani, hanno gioito spendendo i loro quattrini. “Succhionisti” e “pescecani” furono chiamati coloro che si arricchirono sulla pelle dei poveri soldati che marcirono nelle trincee e persero la vita in tante inutili battaglie. L’ESERCITO ITALIANO L’esercito italiano non era preparato a una guerra di quella portata, sotto qualsivoglia punto di vista. Psicologicamente l’italiano ripudia la guerra e la fa sempre controvoglia, solo perché vi è costretto. I più furbi cercano di evitarla con ogni mezzo e chi non vi riesca avverte la triste condizione della duplice sventura: essere vittima di scelte non condivise e non avere la forza di impedirne le conseguenze. Gli armamenti erano insufficienti e scadenti. Il fucile in dotazione


alle truppe era il vecchio Carcano adottato nel 1891 (fu sostituito solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale), che non reggeva il confronto con i Mannlicher utilizzati da tedeschi e austriaci. L’abbigliamento fornito ai militari era inadeguato e ingombrante. Sono davvero tante le testimonianze dei soldati che denunciarono la confusione registrata durante la distribuzione delle divise e delle scarpe. In particolare l’abbigliamento non era adatto al clima rigido e ciò determinò un grande numero di morti. Il vettovagliamento era insufficiente e lo diventò ancor di più a mano a mano che le risorse si esaurirono, determinando drastiche riduzioni delle porzioni giornaliere, con quali effetti sul morale e sulla resistenza fisica delle truppe è facilmente immaginabile. Gli ufficiali italiani, in particolare quelli di alto rango, avevano una visione arcaica e obsoleta della guerra e si resero responsabili della morte (evitabile) di centinaia di miglia di soldati. Pervasi da un cinismo becero pregno di autoreferenzialità, pensavano solo alla propria carriera, senza alcun riguardo per la vita dei sottoposti, considerati alla stregua di “oggetti” sacrificabili per soddisfare le proprie ambizioni. Non provavano nessuna pietà per le condizioni impossibili in cui operavano i soldati, ammassati nelle trincee trasformate in latrine. Ordinavano attacchi impossibili, per i quali era chiaro a tutti che si andava “solo” incontro a morte certa, pur di assecondare, con il classico italico leccaculismo, gli ordini pazzeschi diramati dai loro comandanti, ancora più cinici e spietati. Coloro che cercavano di far comprendere “l’assurdità” di certi ordini venivano trattati come traditori vigliacchi e fucilati, a volte senza nemmeno essere processati. Quando si usciva dalle trincee i soldati sapevano che alle loro spalle vi erano i carabinieri pronti a far fuoco in caso di ritirata o mancata avanzata: potevano solo scegliere, pertanto, se morire per mano nemica, falcidiati dalle micidiali mitragliatrici, o per mano amica. Inettitudine, inefficienza, mancanza assoluta di sensibilità, bramosia di potere e imbecillità furono le caratteristiche peculiari di coloro che avevano nelle loro mani la vita di milioni di persone. Su tutti loro, però, emerse e si distinse un uomo che, a pieno titolo, può essere considerato la più grande carogna di tutta la storia militare italiana: Luigi Cadorna. I CAPI COMBATTONO PER LA VITTORIA, IL SEGUITO PER IL CAPO Il titolo del paragrafo è tratto dal capitolo XIV dell’opera di Tacito “Germania”, che nel testo in mio possesso, edito da Einaudi nel 1968, riporta la traduzione di Camillo Giussani, con il termine “compagni” al posto di “seguito”. Grande rispetto per l’insigne umanista-banchiere (fu presidente della Banca Commerciale Italiana), ma preferisco tradurre “comites” con “seguito” anziché con “compagni”, specialmente in questo contesto. Il titolo, infatti, calza a pennello per introdurre la figura di uno psicopatico che ebbe nelle proprie mani la sorte di milioni di individui fino alla rotta di Caporetto. Luigi Cadorna nacque a Pallanza il 4 settembre del 1850. Il padre Raffaele, anch’egli generale, fu l’artefice della conquista di Roma, nel 1870. Con siffatto lignaggio gli fu facile scalare velocemente i gradini della carriera militare, fino a


raggiungere il grado di Capo di Stato Maggiore dell’esercito, nel 1914, senza però mai aver svolto ruoli di comando nelle varie guerre coloniali combattute dal 1884 al 1912. In realtà la scelta del nuovo Capo di Stato Maggiore avvenne nel 1908, quando si dovette sostituire il generale Tancredi Scaletta per raggiunti limiti di età. In ballo vi erano il generale Alberto Pollio e Luigi Cadorna, di due anni più vecchio. Anche Pollio era arrivato al grado di generale senza aver mai combattuto, il che la dice lunga sulle metodiche che caratterizzavano le scelte per importanti incarichi. La frase con la quale Giolitti spiegò quella di Pollio non necessita di commenti: “Ho scelto Pollio, che non conosco, perché Cadorna lo conosco”. Sarebbe stato il generale casertano, pertanto, a guidare le truppe nel corso della Grande Guerra, se la “malasanità” (non si sa se fino a che punto “casuale”) non lo avesse ucciso. Il 30 giugno 1914, mentre a Torino assisteva ad alcune prove militari, accusò un malore. Gli fu diagnosticata una banale indigestione dallo stesso medico che, in passato, gli aveva riscontrato gravi disturbi al cuore. Nonostante il paziente fosse pallido, sudasse freddo e accusasse forti dolori al petto, il medico non ebbe alcun sospetto: indigestione. Gli praticarono un’iniezione di caffeina, una seconda iniezione di olio canforato e gli consigliarono di riposarsi. Lui dovette capir male perché si lasciò sopraffare dall’infarto e si avviò verso il riposo eterno, spianando la strada a colui che fu artefice di tanti disastri. Molti autorevoli studiosi non credono all’errore medico e parlano apertamente di complotto per farlo fuori, ordito da Salandra, che non poteva permettersi un Capo di Stato Maggiore apertamente a favore della Triplice Alleanza. La vicenda è davvero complessa e pregna di lati oscuri, alla pari di tutti i grandi misteri della storia (3). L’esercito affidato a Cadorna era scarsamente addestrato e, come scritto in precedenza, privo di quegli elementi primari che consentono di combattere con piena efficienza. L’inesperienza bellica del comandante supremo, poi, era pari alla testardaggine: autoritario e ostinato, non consentiva obiezioni alle sue idee. Non nutriva alcun rispetto per i soldati, il cui sacrificio non gli era mai sufficiente. L’autoreferenzialità non aveva limiti e non gli mancavano quei presupposti comuni a tanti uomini di potere, adusi a sfruttare la propria posizione anche per arricchirsi, non importa con quale mezzo. Subito dopo aver assunto il comando dello Stato Maggiore si preoccupò di alcune azioni delle Acciaierie Ansaldo, acquistate in precedenza. In pratica era azionista dell’azienda da lui scelta per l’acquisto delle armi, le cui azioni, ovviamente, ebbero un sensibile incremento in poco tempo. Il conflitto di interessi, come si vede, non è certo nato oggi (4). L’ipocrisia della storiografia ufficiale ha offerto un’immagine edulcorata del generale Cadorna, mascherando le tante colpe ed enfatizzando tutto ciò che poteva servire a ridimensionare la pessima condotta della guerra, soprattutto in occasione della disfatta di Caporetto. I dati ufficiali, però, parlano da soli e ancor meglio parlano coloro che sono stati sotto il suo comando. Molte centinaia di ufficiali furono “silurati” (termine che ricorre spesso nella cronaca storica di quegli anni) anche per futili motivi o per mera antipatia. Stessa sorte fu riservata ai generali, in particolare se gli facevano ombra con la loro maggiore esperienza.


L’elenco è lungo e per amor di sintesi si cita solo l’episodio che riguardò il generale Giuseppe Venturi, il conquistatore del Sabotino e del Passo della Sentinella, che si oppose al solito insulso ordine dell’attacco frontale, asserendo che non aveva alcuna intenzione di massacrare migliaia di uomini per rispettare una teoria nella quale non credeva, quando sarebbe stato possibile sfruttare i fianchi del nemico. Non l’avesse mai detto! La destituzione fu immediata. Ancor più numerosi furono i soldati condannati a morte con processi sommari o senza alcun processo, perché in tal modo presumeva di mantenere la disciplina tra le truppe e assicurarsi obbedienza cieca. Una frase che ripeteva spesso ai generali era la seguente: “Le sole munizioni che non mi mancano sono gli uomini”. La morte degli altri non lo impressionava. Quando il colonnello Asclepia Gandolfo tentò di opporsi a un ordine, spiegando che era impossibile superare l’ostacolo rappresentato dai reticolati protetti da una micidiale batteria di mitragliatrici, replicò freddamente: “Superateli facendo materassi di cadaveri”. La concezione dell’attacco frontale, del resto, racchiusa in un libricino di pochi capitoli, non lasciava adito a equivoci sulla considerazione che nutriva per la vita umana. Teorizzava due tipi di attacco: quello brillante e quello lento. “Per attacco brillante si calcola quanti uomini la mitragliatrice può abbattere e si lancia all’attacco un numero di uomini superiore: qualcuno giungerà alla mitragliatrice”. In buona sostanza non esitava a sacrificare 8-900 soldati per conquistare una batteria composta da due soldati. “Per attacco lento si procede verso la mitragliatrice mediante camminamenti coperti, in modo da subire meno perdite, finché, giunti vicino, si assalta”. Peccato che i “camminamenti coperti” terminassero dove iniziava “la terra di nessuno”, lastricata dai morti che la sua follia generava. L’avventura bellica, quindi, iniziò con il peggior figuro che si potesse sperare alla guida dell’esercito. Pur risultando imbattibile nella condotta ignobile, ebbe numerosi emuli, tra i quali emerse e si distinse in modo particolare un certo Pietro Badoglio. NOTE 1) So bene che tra i lettori di questo magazine abbondano i fan di Papini e che tutti loro fanno parte di una più corposa schiera che guarda con affetto e simpatia agli esponenti del “Futurismo”, anch’essi attivamente impegnati a glorificare la guerra come unica igiene del mondo. E’ proprio a loro che si chiede lo sforzo maggiore per offrire un contributo sostanziale a quella svolta, necessaria e ineludibile, per una reale riscrittura della storia italiana e, perché no, della storia europea. Li “conosco” tutti anche se molti di loro non li ho mai incontrati. Li “conosco” perché fanno parte del mio mondo; quel mondo che, lo sostengo con orgoglio e fierezza, raccoglie il meglio della società italiana. Per retaggio generazionale, però, siamo tutti in una fascia di età che ci obbliga a guardarci allo specchio e a chiederci se non vi siano ancora delle increspature da eliminare, dei fardelli di cui liberarci. E’ uno sforzo da compiere, anche se faticoso. Ne vale la pena, tuttavia, perché dopo averlo compiuto ci sente davvero liberi, con la mente fresca, con le idee chiare e soprattutto con la facoltà di poter sempre avere l’ultima parola, in qualsiasi contesto, dimostrando agli altri


quanto siano ancora schiavi dei propri pregiudizi. Io l’ho compiuto da tempo questo sforzo e posso testimoniare in tal senso. 2) Molto interessante quanto emerse, in tal senso, in occasione del XLI Congresso di Storia del Risorgimento italiano, tenutosi a Trento dal 9 al 13 ottobre 1963. Al convegno, che ebbe scarsa eco perché surclassato dalla tragedia del Vajont, parteciparono molti storici italiani, austriaci e francesi che avevano combattuto nella Grande Guerra. Testimoni diretti di un evento che avevano ben decantato da studiosi nei successivi decenni e quindi testimoni “speciali”. Fu in quella occasione che venne mostrato il diario del Conte Robert de Billy, segretario dell’ambasciata francese a Roma negli anni 1914-1915, che scrisse testualmente: “Non si deve dimenticare il ruolo importante giocato dai giornali per l’entrata in guerra dell’Italia. Ad un certo momento era parso che, senza il fervente sostegno che la stampa aveva assicurato ai protagonisti della rottura con l’Austria, poteva avvenire un’esitazione e, chissà, un ritorno al passato. L’aspetto più rimarchevole, mi pare essere il contenuto del primo incontro con Mussolini. Questi, avendo rotto con i socialisti, aveva fondato il “Popolo d’Italia”. Fu proprio il Conte Billy che si fece carico di convincere l’ambasciatore Camille Barrère a finanziare Mussolini. De Felice conferma il dato nella sua imponente opera sul Fascismo, avendo cura di precisare che Barrére in un primo momento si dimostrò riluttante perché non gli era chiara la posizione di Mussolini, considerato un sovversivo, e che il finanziamento fu favorito dai socialisti francesi presenti nel governo, passati anche loro dal pacifismo delle origini all’interventismo per difendere il sacro suolo della patria. 3) Interessante a tal proposito il testo di Giovanni D’Angelo: “La strana morte del Tenente Generale Alberto Pollio”, Editore Rossato, 2009. 4) A tutela personale preciso che queste notizie sono riportate con la formula “relata refero”, citando la fonte, ossia il “brillantissimo” testo di Lorenzo del Boca: “Grande Guerra, piccoli generali”, edito da UTET nel 2008. Scrivo a “tutela personale” perché, nel 2009, il nipote di Luigi Cadorna, il colonnello in pensione Carlo, citò in giudizio Lorenzo del Boca per quanto scritto nel libro. Il Tribunale archiviò la querela dal momento che il testo non rivela fatti inventati a scopo diffamatorio e si configura come normale critica storica. Siccome prevenire è meglio che curare, è bene che ciò sia ampiamente spiegato. Tanto più che, presto, su queste colonne saranno affrontate anche le tematiche legate alla Seconda Guerra Mondiale, di sicuro anch’esse spiacevoli per l’ex colonnello Carlo, in virtù delle bordate ad alzo zero che saranno dedicate al padre, il generale Raffaele.



IL NUOVO GOVERNO: LA SPERANZA DIVAMPA PREMESSA “Su, Ombromanto! Dobbiamo affrettarci. Il tempo è breve. Guarda! Gondor ha acceso i suoi fuochi e invoca aiuto. La guerra è scoppiata. Vedo fuoco su Amon Dîn e fiamme ad Eilenach; e lì ad occidente vedo Nardol, Erelas, Min Rimmon, Calenhad e l’Halifrien alle frontiere di di Rohan”. (Gandalf ne “il Signore degli Anelli” - Il ritorno del Re, capitolo I) Non è paradossale né improprio l’incipit, in un articolo che si prefigge una serena disanima su un avvicendamento governativo; parimenti non è paradossale e improprio l’utilizzo del termine “CONTEA”, per definire il tema del mese, sempre rapportandolo all’attualità. Intendiamoci, a scanso di equivoci: il premier Conte non è Aragorn, Di Maio non è Frodo, Salvini non è Legolas, anche se le sue frecce colpiscono il bersaglio con pari precisione. Al massimo, con tanta buona volontà, si può assimilare Grillo, un comico mattacchione, a un novello Gandalf capace di orientare al bene, sia pure in fieri, milioni di persone che, per anni o addirittura decenni, erano state soggiogate dal male. Una vera magia. E siccome il Bene professato dai puri di cuore e dai sognatori, affinché si affermi, ha sempre bisogno di aiuto da parte di una mente raziocinante, possiamo incarnare nei Casaleggio padre e figlio l’enigmatico Tom Bombadil, l’unico capace di sfuggire al potere dell’anello, essendo completamente padrone di se stesso e così forte da incutere egli terrore agli orrendi Spettri dei Tumuli. Fatto sta che oggi esiste una nuova “Contea Hobbit”, inclusiva di un universo variegato e composito, in fermento e in attesa di sedimentarsi. Da questa Contea è partito un esercito di volenterosi con il chiaro intento di buttare nella lava del Monte Fato il gigantesco anello che racchiude tutto il male accumulatosi negli ultimi settanta anni, che hanno visto il paese prigioniero di Sauron (il male nella sua essenza originaria ed eterna), periodicamente servito dai Saruman di turno, schiavi fedeli e per questo lautamente prezzolati. Nessuno è così stupido, ovviamente, da pensare che la svolta sia davvero radicale e definitiva. Per chi, però, abbia trascorso quaranta, cinquanta o anche più anni, sentendosi sempre in un deserto assolato pieno di serpenti velenosi, è bello potersi svegliare, il mattino, e sussurrare al vento, sia pure sottovoce: “La speranza divampa”. E pazienza se poi tra non molto tornerà tutto come prima. E pazienza se nel frattempo bisogna anche sopportare, nella compagine governativa, la presenza di qualcuno che si rese colpevole, a suo tempo, della mancata condanna di un tiranno che, sin dall’avvento della repubblica, tessé trame oscure e criminali. Mi sia consentito, a conclusione di questa premessa su una tematica per certi versi toccante e pregna di elementi nostalgici, di rendere omaggio alla memoria di tempi lontani che hanno temprato i cuori e le menti di tante persone, segnando il loro cammino terreno. Non fanno testo, ovviamente, coloro che poi si sono persi


per strada, perché evidentemente in quel contesto si trovarono per caso, senza esserne degni. Il primo ricordo è dedicato ai “Campi Hobbit”, che consentirono ai giovani sani e puri di scrollarsi di dosso, dalla metà degli anni settanta, il peso di “un opaco destino vissuto di riflesso, sempre all’ombra di qualcosa e qualcuno”. Grazie alla magia di un libro riuscimmo a trovare una nostra identità solida e definita. Il secondo ricordo è dedicato proprio alla “Contea”, intesa come cenacolo di menti eccelse e giovani speranzosi, che sorse in quel di Napoli e che mi vide ben presto tra i convinti aderenti. Fu lì che incontrai un uomo d’altri tempi, capace di cavalcare il futuro, dalla profonda umanità e dalla grande cultura. Ero dirigente provinciale del MSI a Caserta, in quel periodo, e non esitai nell’invitarlo e a presentarlo ufficialmente agli altri dirigenti e ai segretari di sezione, esortandoli a sostenerlo nella candidatura alla Camera dei Deputati. Erano quelli tempi di sciocca contrapposizione territoriale e dovetti faticare non poco per ottenere unanime adesione alla mia esortazione. Correva l’anno 1979 e, proprio grazie al sostegno assicuratogli, risultò il quarto eletto, con ben 30.807 preferenze, subito dopo il leader Giorgio Almirante, Pietro Pirolo (deputato dal 1972) e Marcello Zanfagna (Vice-Presidente del partito), alle elezioni che si tennero nel mese di giugno, per poi essere sempre confermato nelle quattro successive legislature, restando in carica fino al 1996. Il suo nome è Antonio Parlato e mi fa piacere ricordarlo dalle colonne di questo magazine, al quale sicuramente avrebbe assicurato il suo prezioso contributo. Riposa in pace, Antonio. Ti ho voluto bene e tu ne hai voluto tanto a me. HANNO VINTO LORO O HANNO PERSO GLI ALTRI? Questa domanda aleggia sin dal mese di marzo, animando il bla bla bla dei dibattiti televisivi e le cronache dei media. Con argomentazioni stanche e becere, ciascuno tira l’acqua al proprio mulino, essendo capace, la stragrande maggioranza degli italiani, di discutere sulle cause che abbiano determinato un incendio anche quando l’incendio è in corso. A sinistra, gli artefici della disfatta elettorale, con il tipico cinismo di chi mente sapendo di mentire, si difendono accusando gli elettori d’ignoranza, di mancanza di lungimiranza, di scarso senso civico. Razzisti, fascisti e populisti sono i termini più utilizzati per dipingere i milioni di italiani che si sono riversati su M5S e Lega. Un poco più seriamente, le varie anime della sinistra che guarda con sincero disprezzo alla banda renziana, considerata usurpatrice di un patrimonio ideale che non rappresenta, riescono a produrre un’analisi apprezzabile e realistica, intrisa di sana autocritica. Anche loro, tuttavia, concordano sull’ignoranza abissale degli elettori pentastellati e leghisti e sulle accuse di fascismo, razzismo, qualunquismo, populismo. Pazienza se tra costoro vi siano tanti loro ex elettori, fino a ieri, pertanto, considerati intelligenti, preparati, saggi, moderni e civili. In Forza Italia ci si lecca le ferite e, secondo le consolidate modalità comportamentali di soggetti adusi esclusivamente a tutelare i propri interessi, si studiano le strategie più opportune per assicurarsi la sopravvivenza. Nella Lega e nel M5S si festeggia il momento


magico e si sogna, com’è giusto che sia. Nella Lega ancor più che nel M5S, nonostante il forte divario di voti, perché la compattezza e l’assoluta unità d’intenti non alimentano quelle controversie che, ancorché tenute sotto controllo, sono ben presenti nell’universo pentastellato. Resta Fratelli d’Italia, piccolo partito che raccoglie una diaspora qualitativamente inconsistente di un’area da tempo dissoltasi come le famose lacrime nella pioggia. La fondatrice, alla quale non sfuggono certo le caratteristiche della sua armata Brancaleone e i limiti dello scenario in cui possa muoversi, non essendo una stupida, usa tutte le risorse possibili per restare a galla il più a lungo possibile, manovrando abilmente le sue pedine e tenendo ben lontani coloro che potrebbero conferire dignità a un’area di destra, facendo però ombra a lei. Questi i partiti. La cosiddetta società civile, dal suo canto, registra una divisione netta che alimenta uno scontro aspro e feroce. Da una parte vi sono tutti i complici della vecchia malapolitica che a essa devono le proprie fortune o anche la semplice “sopravvivenza”: imprenditori e professionisti evasori; affaristi delinquenti di ogni ordine e grado; super-raccomandati che occupano dorate stanze del potere nella pubblica amministrazione, negli enti locali, nelle società partecipate, negli organismi governativi, nelle aziende; i tanti scalda sedie celebrati da un recente film di Checco Zalone che, grazie allo scambio elettorale voto-posto, percepiscono un discreto stipendio senza fare nulla o molto poco; pennivendoli al servizio di editori a loro volta al servizio dei potenti, che eseguono con fedeltà e rigore gli ordini impartiti, fregandosene della deontologia professionale perché la pagnotta viene prima di tutto; criminali tenuti in grande considerazione dai vecchi potentati politici, che in cambio di voti hanno garantito leggi ad hoc, un codice penale blando e un sistema giudiziario concepito ad arte per favorirli. Sugli intellettuali stendiamo un velo pietoso, utilizzando la formula “non pervenuti”, in modo da chiudere subito il discorso senza perdere tempo a dissertare sulle masturbazioni mentali di coloro che, impropriamente, con tale ruolo sono caratterizzati. Dall’altra parte vi è il popolo che soffre, quello senza santi in paradiso, che arranca per arrivare a fine mese dignitosamente, che manda affettuosamente a quel paese (oddio, non tanto affettuosamente) coloro che parlano di fine della crisi e di ripresa. Il popolo che vive nelle periferie abbandonate, in preda alla perenne paura per la mancanza di sicurezza; il popolo semplice e buono, non certo razzista, che però ha paura dell’altro perché spesso l’altro fa paura. E’ indubbio che questa consistente massa di italiani abbia contribuito al successo del M5S e della Lega, ma è altrettanto certo che tra i 17milioni di elettori che complessivamente hanno votato i due partiti non vi siano solo loro. Rebus sic standibus la risposta alla domanda è semplice: non hanno “vinto” loro ma, attenzione, non hanno nemmeno “perso” gli altri. Se lasciassimo passare questa teoria, infatti, ne legittimeremmo un’altra non meno errata, ossia che in passato gli sconfitti abbiano fatto qualcosa di buono: le frasi “hanno perso perché hanno tradito le aspettative”, “hanno smarrito il contatto con la realtà”, “non hanno mantenuto il rapporto con il territorio” e altre più o meno simili, sono


errate e fagocitanti. Per quanto riguarda il centro-destra a trazione berlusconiana, i periodi di massimo consenso sono scaturiti solo dall’abbaglio di milioni di elettori, non certo dalle peculiarità poste in essere nell’esercizio del potere, che sono state sempre le stesse: si governa per rubare a man bassa e tutelare i propri interessi. E’ inesatto, quindi, fissare uno spartiacque tra un presunto “buon agire”, che non è mai esistito, e il suo tradimento. Il calo di consensi è scaturito solo da una maggiore consapevolezza, che ha portato in tanti a rendersi conto della reale consistenza di coloro ai quali avevano delegato per anni la rappresentanza politica. A sinistra si può dire esattamente la stessa cosa per quanto concerne il venticello renziano; per gli altri, seppure sia giusto sancire la netta differenza, la musica non cambia. Vi sono state (e vi sono ancora) sicuramente persone serie e oneste nella “vecchia sinistra”, ma la loro inadeguatezza all’esercizio del potere per il bene di tutti è risultata sempre evidente, quando questo compito sono stati chiamati ad assolvere. Di fatto, quindi, la sconfitta dei vecchi partiti scaturisce esclusivamente da una presa di coscienza del popolo italiano che, in mancanza di altro, si è riversato su un partito senza storia, nato sull’onda della rabbia sociale, e su un partito che, con una storia non certo esaltante, ha dimostrato di meglio interpretare sentimenti diffusi, in momenti particolari. Persone afferenti a diverse aree politiche, compreso chi scrive, che un partito addirittura l’ha fondato, senza avere avuto la possibilità di presentarlo ufficialmente alle elezioni per mancanza di adeguato sostegno economico, hanno pensato che non avrebbero mai potuto fare peggio dei predecessori e che talune iniziative, considerate prioritarie nell’attuazione, avrebbero dato un po’ di ossigeno agli “ultimi”, oramai sull’orlo del baratro. Abbiamo avuto ragione su tutta la linea. COSA AVVERRA’ IN FUTURO La previsione, apparentemente, sembra facile. I poteri forti, interni ed esterni, che vedono il neonato governo come il fumo negli occhi, riusciranno presto a individuare le giuste strategie per rendergli la vita difficile, disseminando sul cammino ostacoli di un certo peso. Pressioni terribili saranno esercitate su molti parlamentari affinché tradiscano il loro mandato e non è escluso che si mettano in pratica le azioni più subdole per indurre i cittadini a ricredersi circa la fiducia accordata a Di Maio e Salvini. La stampa asservita ha da subito avviato una massiccia campagna di disinformazione; nei salotti televisivi s’invitano sistematicamente vecchie cariatidi tipo Paolo Cirino Pomicino, pseudo intellettuali da quattro soldi, ciarlatani a pagamento e i più noti volti della sinistra radicalchic che, ovviamente, sputano fuoco e fiamme sui vincitori, offendendo senza ritegno i loro elettori. Essendo io tra questi ultimi, grazie a Saviano e compagni di merende ho scoperto di essere un becero ignorante intriso di razzismo, uno sporco fascista nemico dell’Europa (la qual cosa, per il presidente di un movimento politico che si chiama “Europa Nazione” e che alla causa europeista è votato da cinquanta anni, è quanto mai singolare), un imbecille che crede alla befana, un qualunquista, un populista. Vi è anche l’accusa di essere un “forcaiolo” che vuole


cambiare il sistema giudiziario per accorciare i tempi della giustizia, riformare il codice penale inasprendo le pene e costruire più carceri in modo che i tanti delinquenti non siano messi in libertà per mancanza di strutture ricettive. Quest’ultima accusa è pronunciata con lo sdegno di chi si riempie la bocca con il termine “garantista”, che nella realtà dei fatti evidenzia solo la propensione a tutelare con ogni mezzo possibile i delinquenti. A differenza delle altre, pertanto, è “un’accusa” che merito in pieno e della quale vado fiero. Vi è, poi, un altro aspetto che merita attenzione. Buona parte dell’elettorato pentastellato (e in minima parte anche una fetta consistente di quello che ha consentito alla Lega di superare abbondantemente le sue percentuali tradizionali, in particolare nel SUD) è un elettorato “non solidificato” e quindi estremamente fluido: basta poco per far nascere l’entusiasmo e acquisire consenso; basta pochissimo per fornire elementi di dispiacere ed essere abbandonati. La sfida più importante che Di Maio si trova a combattere, pertanto, è proprio quella con i propri elettori. Guai se dovessero avere la percezione, per esempio, che in tema di onestà si siano sbagliati: per il Movimento di Grillo sarebbe la fine. Gli “altri” sono ben consapevoli di questo tallone di Achille e faranno di tutto per sfruttarlo, come di fatto già sta avvenendo. Anche nel Movimento, però, sono consapevoli di questo rischio e se saranno in gamba prenderanno le contromisure più adatte per sconfessare il pericolo. Salvini, dal suo canto, dorme sonni più tranquilli. Qualunque cosa accada il suo movimento è destinato a fagocitare gli alleati, a proporsi come soggetto incarnante le aspettative del popolo di centro-destra e a ottenere consensi tali che potrebbero consentirgli di governare da solo. Quanto ciò sia un bene per il paese, poi, è tutto da dimostrare. Chi vivrà vedrà. Per ora divampa la speranza di vedere rinascere il Paese, se non in toto almeno parzialmente, e non ci resta che goderci questo momento, auspicando che i fuochi di Amon Dîn restino accesi il più a lungo possibile. E soprattutto auspicando che nuove “Compagnie dell’Anello” raccolgano l’invito a favorire una radicale catartica palingenesi, con soggetti capaci di far tremare il mondo grazie alla loro statura etica, politica e culturale.


IL PIAVE MORVORAVA PARTE SESTA: SI MUORE PER NULLA PREMESSA Con questo articolo entriamo nel vivo della guerra, iniziando a parlare dei luoghi che ogni italiano, almeno una volta, dovrebbe vedere. Saranno citati anche i nomi di persone non necessariamente famose; nomi scolpiti sulle pietre che adornano valli e monti, a imperitura memoria del loro valore e della dedizione alla Patria. Un’analisi critica della Grande Guerra, che prenda in esame le modalità con le quali sia stata combattuta e le ragioni recondite che l’hanno determinata, non può prescindere dalle singole storie di milioni d’individui che hanno sofferto e combattuto. Costoro meritano una menzione speciale perché, indipendentemente dalle decisioni giuste o sbagliate assunte dai potenti, quelle decisioni subendo, colorarono di rosso i campi di battaglia e indussero uno degli eserciti più potenti al mondo a risalire “in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. E’ a loro, pertanto, che dobbiamo rivolgere un commosso pensiero, rigo dopo rigo, quando con la mente ci proietteremo in quei luoghi che li hanno visti protagonisti di un’immane tragedia. Nondimeno rivolgiamo un pensiero anche alle altre vittime: giovani soldati che, alla pari dei nostri, bramavano una vita normale, una famiglia, un lavoro, un futuro. Furono chiamati a combattere anche loro e sono morti. Figli d’Europa che hanno combattuto contro altri europei. Ricordiamo tutte le vittime affinché il loro sacrificio c’induca a riflettere sulla stupidità della guerra e sulla stupidità di un’Europa divisa. Per un grande scrittore e drammaturgo, Cormac McCarthy, la guerra esiste da prima che nascesse l’uomo, che aspettava, perché il mestiere per eccellenza attendeva il suo professionista per eccellenza. “Così era e così sarà”. Di fatto, così “è”. Verrà il giorno in cui questo pensiero terribile sarà tangibilmente obnubilato dalla realtà? Nessuno può dirlo, per ora, e al massimo può solo auspicarlo. PRIMA BATTAGLIA DELL’ISONZO La Valle dell’Isonzo e il Carso erano stati fortificati in modo impeccabile dagli austriaci e per sei mesi si assistette al massacro delle truppe italiane, che tentarono invano di sfondare. Fanti, bersaglieri e alpini, dopo essere stati fermati dai reticolati e dalle mitragliatrici, dovevano subire il micidiale contrattacco e frettolosamente ritornare alle posizioni di partenza, lasciando sul campo di battaglia migliaia di morti. Morti inutili ed evitabili. Nondimeno bisognava continuare così perché quelli erano gli ordini. Cadorna, a onor del vero, si rendeva interprete della volontà politica, anche se toccava a lui stabilire le strategie belliche, cosa che fece in modo disastroso. Occorreva attaccare e così, il 23 giugno, sferrò la prima manovra offensiva. La prima delle undici terribili battaglie dell’Isonzo. La Seconda Armata, al comando del generale Pietro Frugoni (1) vide gli effettivi decimati sulle montagne che circondano Gorizia. Sul Podgora e a Oslavia ben sei brigate si sacrificarono inutilmente avendo consapevolezza, cosa


ancora più drammatica, di combattere battaglie insulse. Troppo marcate le differenze tra attaccanti e difensori e non adeguatamente addestrati i soldati italiani alla guerra in montagna, che prevede lunghi allenamenti e un armamento non convenzionale. SECONDA BATTAGLIA DELL’ISONZO Il giorno in cui si concluse la Prima Battaglia dell'Isonzo si tenne a Chantilly, in Francia, la prima conferenza interalleata. Le autorità militari dell'Intesa analizzarono la situazione dopo un anno di guerra: il fronte occidentale era rimasto sostanzialmente immutato, mentre quello russo, dopo la sconfitta delle truppe zariste a Gorlice (nel sud dell'odierna Polonia), si trovava in difficoltà. Si chiese perciò all'Italia di continuare con risolutezza l'offensiva sul suo fronte, in modo da impegnare le truppe austro-ungariche e di avanzare almeno fino a Klagenfurt e Lubiana. Nella prima battaglia dell’Isonzo Gorizia fu attaccata da Nord: questa volta la Terza Armata avrebbe dovuto sferrare l’attacco da Sud, dopo aver superato il primo ciglione del Carso, fra il monte San Michele e il Sei Busi. La Seconda Armata ebbe il compito di aggredire il nemico sull’alto Isonzo per strappargli i monti Sleme e Mrzli, tristemente famosi per quanto verificatosi due mesi prima, come riportato nella terza parte (2). Dal 18 al 22 luglio le Brigate Pinerolo, Acqui e Brescia si dissanguarono nei pressi di Selz e Vermegliano. I Bersaglieri, come sempre, fecero la differenza: l’Ottavo e il Nono Battaglione conquistarono la cima del San Michele il 20 luglio, sia pure in un contesto strategico che difettava di pianificazione, vanificando in tal modo l’eroismo dei valorosi soldati. Privi di ogni supporto, il giorno successivo i due battaglioni ne dovettero fronteggiare ben dodici e poco potettero fare se non immolarsi inutilmente. Senza nulla togliere al valore di tutti, va ricordato il sacrificio del volontario dalmata Francesco Rismondo che, a poche settimane dall’inizio della guerra, scappò da Spalato con la giovane moglie e si arruolò nel Regio Esercito, ottenendo il ruolo di interprete. Rifiutato sdegnosamente l’incarico, asserendo che si era arruolato per combattere gli austriaci e non per tradurre scartoffie, fu assegnato all’Ottavo Battaglione ciclisti dell’Ottavo Reggimento Bersaglieri. Nella battaglia di San Michele cadde prigioniero degli austriaci e fu impiccato come traditore. Anche gli Alpini si distinsero in epiche giornate di assalti e contrassalti attorno al monte Rosso. Nel corso degli attacchi alle Tofane, il massiccio montuoso a ovest di Cortina d’Ampezzo, perse la vita uno dei più noti e valorosi alpini, il generale Antonio Cantore, che fu anche il primo alto ufficiale a morire in combattimento. Era stimatissimo dai suoi uomini perché, a differenza di molti suoi colleghi, li guidava all’assalto incitandoli con il proprio esempio. Nei primi giorni di guerra, mentre era alla guida di una pattuglia di punta, si scontrò con una postazione nemica che fece fuoco a ripetizione. I suoi uomini si buttarono a terra; egli, invece, insensibile alle pallottole che gli ronzavano intorno, restò in piedi reagendo al fuoco nemico con il suo fucile. I soldati, umiliati, non poterono fare altro che alzarsi e partire all’attacco,


sopraffacendo in pochi attimi la postazione austriaca. Il 20 luglio osò troppo nell’esporsi da una trincea in prima linea e una pallottola lo colpì alla fronte. Un imponente monumento, al centro di Cortina d’Ampezzo, ricorda il suo fulgido esempio di valoroso soldato e non lontano, nell’Ossario di Pocol, riposano le sue spoglie. Chi dovesse approfondire la sua figura troverà testi nei quali si riportano altre versioni della sua morte. Come ho più volte scritto, i mistificatori adusi a stravolgere la verità dei fatti, per i fini più miserabili e meschini, sono sempre esistiti e sempre esisteranno: scrivere pagine di “storia” onesta, avendo il coraggio di discernere il poco grano dal tanto loglio, è l’unico modo di tacitarli. TERZA BATTAGLIA DELL’ISONZO Per circa due mesi le truppe italiane goderono di una relativa tregua che consentì allo Stato Maggiore di ricompattare le fila e redistribuire gli organici. Le prime due battaglie erano costate 21mila morti, circa 5mila dispersi e 30mila feriti, numeri comunque inferiori rispetto a quelli austriaci: 48mila morti e quasi diecimila feriti. Le ingenti perdite indussero Cadorna a prendere in seria considerazione un maggiore apporto dell’artiglieria, senza peraltro individuare valide alternative all’attacco frontale, sua vera fissazione. La battaglia ebbe inizio il 18 ottobre e il teatro bellico era sempre lo stesso: Carso, San Michele, Sei Busi, San Martino, Podgora, Sabotino, Oslavia, Plava, Cima Mrzli, Sleme. Si attaccava con una maggiore copertura dell’artiglieria, ma l’esito cambiava di poco: aumentava solo il numero dei morti, su entrambi i fronti. Le trincee si fronteggiavano a poche centinaia di metri e a prezzo di un numero sproporzionato di vite umane venivano conquistate, perdute, riconquistate, riperdute. Solo attraverso le testimonianze dei sopravvissuti è possibile comprendere “l’essenza di una realtà” per altri versi incomprensibile. Le trincee incominciarono a uscire dall’anonimato e a conquistarsi il diritto di entrare nelle pagine di storia con il loro nome: Trincea dei morti, Trincea delle frasche, Trincea della Chiesa diruta, Campo trincerato di Matassone, Trincea dell’Edelweiss (costruita dagli austriaci e così denominata per la presenza di una stella alpina in rilievo sopra l’ingresso di una delle numerose caverne ricavate nel crinale del monte Testo). Oggi queste trincee, insieme con tante altre, troneggiano nei percorsi delle visite guidate. Andrebbero visitate tutte e laddove non fosse possibile se ne segnala una in modo particolare: la Trincea delle frasche, a San Martino del Carso, dove perse la vita Filippo Corridoni, uno dei padri del sindacalismo rivoluzionario, al cui pensiero si ispirarono i fondatori della Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori (CISNAL), nel 1950. Il “cippo” commemorativo sorge non lontano dalla trincea, in un’area che raggruppa in pochi chilometri uno dei più importanti scenari bellici dell’intero conflitto: Monte San Michele con l’importante Museo della Grande Guerra; la suggestiva Galleria Cannoniera della Terza Armata; la Caverna del Generale Lukachich, comandante della XX Divisione Honved – esercito nazionale ungherese; lo Schönburgtunnel, una delle principali costruzioni di difesa dell’esercito austroungarcio; il Percorso dei Cippi, un sentiero caratterizzato dalla presenza di cinquantatré monumenti commemorativi dedicati ai vari reparti, compresi quelli


austro-ungarici, che ivi combatterono; il Valloncello dell’Albero Isolato, che consentì ai soldati italiani di restare al coperto dal fuoco nemico fino alla prima linea e offrì a Ungaretti lo spunto per una delle sue più note poesie (3); San Martino del Carso, ovviamente, nel suo insieme è un “museo bellico” e in più ospita il Museo privato “Ricordi della Grande Guerra”, ubicato al centro del paese; il Cippo 4° Honved, eretto per onorare i fanti ungheresi che fronteggiarono le truppe italiane nelle prime sei battaglie dell’Isonzo; il Cippo Brigata Sassari, dedicato ai “Diavoli Rossi”, come furono definiti dagli austro-ungarici, soldati dall’alone leggendario e universalmente considerati trai più valorosi guerrieri di ogni epoca: 13mila il numero dei caduti tra 1915 e il 1918, 18mila feriti, quattro medaglie d’oro alla bandiera (caso unico nella storia dell’esercito italiano), nove medaglie d’oro individuali, 405 medaglie d’argento, 551 medaglie di bronzo. La Brigata Sassari ancora oggi è un fiore all’occhiello dell’esercito italiano, irrobustita dall’aura mistica del 3° Reggimento Bersaglieri, accorpato nel 2009, in assoluto l’élite delle Forze Armate, insignito del più alto numero di onorificenze e nel quale l’autore di questo saggio si è temprato, servendo la Patria al grido di “Maiora viribus audere”. QUARTA BATTAGLIA DELL’ISONZO Interrotto il 4 novembre, il tentativo di sfondamento riprese con immutata violenza sei giorni dopo, in un precipitarsi di eventi che videro anche il repentino cambiamento delle condizioni climatiche. Sul Carso furono conquistate alcune importanti posizioni e la Brigata Sassari, costituita solo sette mesi prima, incominciò a mettere in mostra le sue eccelse qualità, conquistando in modo impeccabile la “Trincea delle frasche” e la “Trincea dei razzi”. Non tutte le brigate dell’esercito italiano hanno conquistato gloria e fama come la “Sassari”, nondimeno sono molte quelle che meritano menzione perché, con il loro sacrificio, magari in operazioni di spalla, hanno reso possibile quegli sfondamenti che poi hanno condotto alla vittoria finale. Tra queste vi è la “Brigata Casale”, di antico lignaggio, essendo erede di un reggimento costituito nel Ducato di Savoia ai tempi di Carlo Emanuele I (1619). Il suo compito consisteva nell'espugnare il monte Calvario, meglio noto con il termine sloveno “Podgora”, a ovest di Gorizia, sulla sponda destra dell’Isonzo. Nel corso della terza battaglia, dal 18 al 28 ottobre, sia pure a caro prezzo, furono espugnate tre linee nemiche. Con la ripresa delle ostilità i valorosi soldati partirono all’attacco della quarta linea, impegnandosi in furiosi corpo a corpo. Il freddo intenso e il fango resero oltremodo difficile ogni movimento e inutilizzabili le armi; restava la baionetta nello scontro frontale, che ha visto sempre primeggiare i nostri soldati, dato riconosciuto e confermato anche dai nemici. Dall’undici novembre in avanti le trincee avversarie furono espugnate una dietro l’altra e finalmente, il 21 novembre, sul tormentato Calvario sventolò la bandiera italiana. La Brigata fu insignita della medaglia d’oro alla bandiera e i soldati, grazie al colore delle mostrine, passeranno alla storia come i “Gialli del Calvario”. Tra le vittime illustri di quella battaglia vi fu lo scrittore irredentista Scipio Slataper, autore di molte opere, la più importante delle quali è senza


dubbio “Il mio Carso”, una sorta di autobiografia nella quale esalta la volontà di andare avanti, amando e lavorando, anche se non esistono valori assoluti che possano giustificare e dare un senso alla vita. Nonostante lo straordinario coraggio della “Casale”, anche la Quarta Battaglia dell’Isonzo non ebbe riscontri positivi perché sul resto del fronte non si registrarono pari risultati e si ebbe un alto numero di vittime: 15mila morti (compresi i dispersi), tra i quali i generali Gerardi, Montanari e Trombi e 34mila feriti. Una pagina buia fu costituita dall’inutile bombardamento di Gorizia, avvenuto il 18 novembre, che causò la morte di molti civili e la distruzione di buona parte di una città denominata, per la sua bellezza, la “Nizza austriaca”. IL PRIMO NATALE DI GUERRA (Per le truppe italiane) A poco meno di sette mesi dall’inizio della guerra si traccia il primo bilancio, spaventoso: 66mila morti e 180mila feriti. La cifra, tuttavia, è nettamente inferiore a quella dei franco-inglesi, che avevano avuto complessivamente circa 400mila caduti, avendo però iniziato la guerra un anno prima. Era chiaro, oramai, che bisognava trascorrere l’inverno in trincea e che la guerra, contrariamente alle previsioni, sarebbe durata a lungo. Sugli altri fronti si registravano analoghi convincimenti. Nel mese di ottobre iniziò la caduta dell’esercito serbo che, incalzato da austriaci, tedeschi e bulgari, ripiegò disordinatamente cercando scampo in Albania, dove i porti di Valona e Durazzo erano nelle mani degli italiani. Durante la fuga perirono oltre trecentomila profughi a causa del freddo, della fame e delle epidemie di tifo e colera generate dalla mancanza di cibo e dalle pessime condizioni igieniche. A Durazzo giunsero 80mila persone, tra soldati e civili, mentre altri 60mila giunsero a San Giovanni di Medua. Con loro anche 20mila prigionieri austriaci e 10mila cavalli. Bisognava salvare tutte quelle persone e fu organizzato un servizio di trasporti fra la costa italiana e quella albanese con l’impiego di numerosi piroscafi mercantili scortati da navi da guerra. L’intera operazione fu affidata al Comandante in Capo dell’Armata Navale, il Duca degli Abruzzi Luigi Amedeo di Savoia. A Valona e Durazzo i nostri soldati avevano creato efficienti campi di assistenza con ospedali e alloggi da campo, che ospitarono i profughi prima del trasferimento a Brindisi. Nella cittadina pugliese furono accolti dai nostri bersaglieri, che li smistavano nei centri di accoglienza per le necessarie cure e la consegna di vestiario e beni di prima necessità. Recuperate le forze, i profughi furono smistati tra Corfù, Biserta e Marsiglia. Le operazioni di trasferimento andarono avanti fino alla primavera del 1916 e a Brindisi giunsero anche i regnanti di Serbia e Montenegro. L’ultrasettantenne Re Pietro I Karageorgevich (1844-1921), giunto a Durazzo nel dicembre 1915, fu ospitato sull’incrociatore ausiliario “Città di Palermo” e condotto a Valona, per poi proseguire in direzione di Brindisi con il cacciatorpediniere “Abba”, dove giunse il 24 dicembre e ospitato presso il prestigioso “Albergo Internazionale”, per l’occasione trasformatosi in ospedale. Da Brindisi fu trasferito nella Reggia di Caserta, dove attese la fine della guerra per riprendere il suo posto a Belgrado. Il 22 gennaio 1916 giunse a Brindisi la


famiglia reale montenegrina con il vecchio Re Nicola I, suocero di Vittorio Emanuele III, che era giunto in Albania su un carro trainato da buoi insieme con la Regina Milena e le principesse Vera e Xenia. L’esercito serbo, ricostituitosi a Corfù grazie all’imponente opera di salvataggio perpetrata dagli italiani, prese parte allo sfondamento del fronte meridionale, contribuendo in tal modo alla vittoria finale delle forze dell’Intesa. Questa vicenda, obnubilata e “distorta” dalla storiografia ufficiale, merita di essere raccontata nella sua luce più veritiera per molteplici aspetti. Tutti conosciamo il salvataggio dei soldati britannici a Dunkerque, nel 1940, giustamente celebrato nelle pagine di storia e anche in imponenti rievocazioni cinematografiche. In un confronto oggettivo, tuttavia, il salvataggio dei serbi fu impresa non meno rilevante. “L’operazione Dynamo”, che consentì il trasferimento in Inghilterra di circa 340mila soldati britannici e francesi durò nove giorni (27 maggio-4 giugno 1940) e non tre mesi (dicembre 1915, febbraio 1916), in un tratto di mare lungo appena sessantatré chilometri, ossia la metà della distanza che separa Valona da Brindisi, con in più una piccolissima differenza: l’ordine di bloccare l’avanzata dell’esercito tedesco per far riposare le truppe si trasformò in un indubbio vantaggio per le operazioni di salvataggio; le navi italiane, invece, dovettero fronteggiare i continui attacchi dei sommergibili e degli aeroplani austriaci. Resta ora da spiegare il perché della subdola cortina di silenzio. Nel patto di Londra, come noto, furono stabilite delle clausole che prevedevano importanti riconoscimenti all’Italia nel Mediterraneo (poi rimasti lettera morta, come vedremo nei prossimi capitoli), a discapito della stessa Serbia. Dopo essersi ripresi dalle “batoste” belliche, i serbi ritennero opportuno riscrivere la storia senza manifestare gratitudine nei confronti dell’Italia, con il beneplacito di Francia e Gran Bretagna. Si oscurò, pertanto, l’imponente opera di salvataggio tra Valona e Brindisi e si scrisse addirittura il falso per quanto concerne il successivo trasferimento delle truppe a Corfù, che fu attribuito ai francesi. La doppiezza degli alleati, ma soprattutto il disinteresse degli storici italiani, hanno fatto sì che l’equivoco fosse perpetuato fino ai giorni nostri e conclamato addirittura da un monumento di dieci metri in onore della Francia, eretto nel centro di Belgrado. Un monumento che, di fatto, spetterebbe all’Italia. Il Natale 1915 trova una nazione in guerra e in lutto per le tante vittime cadute sui campi di battaglia. L’incertezza sul futuro incomincia a incunearsi in larghi strati della popolazione e soprattutto tra i soldati. Stride, in questo triste scenario, la cronaca natalizia di Carlo Emilio Gadda, che nelle sue memorie continua a parlare di cene, donne, bagordi, disordine della sua camera, apatia, marron glacés, dolci, vino, gossip di bassa lega tra ufficiali, morte della cara zia Luisina, auguri di amici e parenti. E meno male che dichiara che vuole affrontare con serenità la rabbia delle palle nemiche, pur avendo mille modi di sottrarsi al fuoco e imboscarsi.


NOTE 1. Uno dei tanti mediocri comandanti non all’altezza del ruolo. Vedere nota nella terza parte, marzo 2018 2. Allo scoppio della guerra ben quattro reggimenti di Bersaglieri, ossia il meglio dell’esercito italiano, furono raggruppati in una Divisione affidata al comando di un oscuro generale d’artiglieria, Alessandro Raspi, che non aveva mai comandato truppe di assalto e soprattutto non era un bersagliere. Nonostante la dorsale fosse indifesa non ordinò l’attacco e la mancata conquista costerà molto sangue, mentre avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra sin dall’inizio. Il colonnello De Rossi così si espresse parlando di Raspi: “Fisicamente un pover'uomo e moralmente un pedante, oscillante e tremebondo che non aveva mai comandato la fanteria e men che meno bersaglieri”. Per la sua condotta fu esonerato il 23 agosto. 3. “San Martino del Carso”, Valloncello dell’albero isolato, 27 agosto 1916.



ITINERARI EUROPEI Agosto, per tradizione, è il mese che registra la maggiore affluenza di vacanzieri nelle zone costiere e vede le spiagge brulicare di ombrelloni. Ciò vuol dire autostrade molto meno trafficate rispetto agli altri mesi e città semideserte. L’ideale, quindi, per chi volesse concedersi un car-tour nel nostro continente, alla scoperta di luoghi fascinosi e suggestivi, al di fuori dei circuiti più gettonati proposti dai tour-operator. Il car-tour organizzato in proprio, ovviamente, può essere strutturato anche in forma allargata, con un pullman che accolga un nutrito gruppo di partecipanti: si spende di meno, non ci si stanca per la guida e ci si diverte di più se si ama stare in compagnia. Gli itinerari sono davvero infiniti e per tutti i gusti. Ne propongo uno tra i tanti che mi hanno offerto magiche emozioni. Il programma prevede quindici giorni di vacanza, da sabato a sabato, suddivisi nelle varie tappe. Va da sé che ciascuno può modificarlo a proprio piacimento, accorciando o allungando la permanenza in un dato posto, anche in funzione della disponibilità degli alberghi nel periodo prescelto. Le partenze sono state tutte programmate alle otto, in modo da giungere alla tappa successiva non oltre le undici. Non in tutti gli alberghi, pertanto, sarà possibile accedere subito alle camere, ma tutti consentiranno di depositare i bagagli in modo da sfruttare la parte restante della mattinata per la prima escursione cittadina. La base di partenza è Como, stabilita precipuamente per chi provenisse dal Centro e dal Sud, in modo da soggiornare, prima di iniziare il tour, in una città che offra particolari attrattive. Chi vive nel Nord-Est, ovviamente, troverà più agevole raggiungere Sils Maria direttamente dalla propria abitazione; chi vive nel Nord-Ovest, invece, deve anticipare la partenza all’alba, se vuole giungere in tarda mattinata. Chi non fosse attratto, poi, dalla bellezza di Como e fosse solo interessato a guadagnare tempo, può prendere in considerazione la partenza da Sondrio, che dista solo novanta chilometri da Sils Maria. Si perde, però, tutto il fascino rappresentato dal tragitto Lecco-Piantedo, che costeggia il lato orientale del lago di Como. 1° GIORNO, SABATO: COMO – SILS MARIA, 135 KM. PARTENZA ORE 08,00; ARRIVO 10,30. (Due pernottamenti) L’alta Engadina è famosa precipuamente per St. Moritz, rinomata stazione di turismo invernale, che però accoglie frotte di turisti in qualsiasi stagione dell’anno. Milioni di persone l’hanno visitata, magari più volte, perdendosi la magia dei luoghi vicini, capaci di offrire emozioni e sensazioni molto più pregnanti di quelle assicurate dallo sciocco sfoggio di attrezzature sciistiche degne di un campione olimpionico, quando non di veri babbei dello sperpero. (Qualche anno fa, nella modesta Roccaraso, vidi una coppia di “parvenu”, arricchitisi con una mini-catena di negozi di abbigliamento, sfoggiare un set Lacroix Courchevel da 50mila euro, ovviamente abbinato ad accessori super griffati. Li vidi solo il primo giorno, però, perché il boy che voleva imitare Alberto Tomba si spezzò una gamba


alla prima discesa). Sils Maria (Sils im Engadin) è poco più di un villaggio, ubicato sulla sponda sinistra del fiume Inn, tra i laghi di Sils e Silvaplana. La magica atmosfera dei luoghi ha indotto gli operatori turistici a utilizzare la scala Bovis per quantificare le vibrazioni sottili emanate dal territorio e dalle persone che con esso interagiscono, evidenziando i risultati di gran lunga superiori alla norma e quindi forieri di una straordinaria rigenerazione fisica e mentale. Nietzsche si recò a Sils Maria per la prima volta nel 1881 e abitò nella casa che oggi porta il suo nome, allora di proprietà della famiglia Durisch. A partire dal 1883 vi ritornò ogni anno, fino al 1888. La casa è oggi un mini-museo dedicato al grande pensatore e raccoglie fotografie, documenti, manoscritti, lettere e tutte le sue opere, alcune delle quali firmate. Spesso nella casa si organizzano eventi e mostre; nel mese di agosto non ne sono previsti, ma la città (insieme con altre limitrofe) ospita fino al giorno undici la 78^ edizione dell’Engadin Festival, con la partecipazione d’importanti orchestre di musica classica e rinomati solisti. Per gli amanti del Jazz, dal 17 al 19 agosto, a Celerina, altro incantevole sito distante solo tredici chilometri, si terrà la “Celerina New Orleans Jazz Festival”, che accoglie le star del Jazz internazionale. Non mancano, ovviamente, eventi sportivi quali la “Bike maratona” (25 agosto) e la “corsa dell’estate” (19 agosto), considerata tra le più belle al mondo, in uno scenario mozzafiato lungo 25 km, che si dipana tra sfondi alpini e paesaggi lacustri. Seppure questo programma è stato concepito per il mese di agosto, è bene precisare che il mese ideale per visitare l’Alta Engadina è settembre. Dal 16 al 22 si terrà la 14^ edizione di “RISONANZE”, festival internazionale della cultura, che prevede escursioni organizzate nei principali luoghi della zona e delle valli laterali e, di sera, negli alberghi Waldhaus ed Edelsweiss, nonché nella Chiesa aperta (Offene Kirche), concerti di musica da camera eseguiti da rinomati artisti, magici pezzi teatrali, film poetici. Dal 27 al 30 settembre, infine, presso l’Hotel Waldhaus si terrà il “Colloquio su Nietzsche”, che consente una lettura del pensiero nicciano ad ampio spettro grazie alle relazioni di ricercatori di fama internazionale. Al di là degli eventi culturali, però, settembre è il mese ideale per vedere uno dei fenomeni naturali, in questo caso meteorologico, più suggestivi al mondo: il serpente del Maloja. Per rendere l’idea, la visione di questo fenomeno è molto più emozionante dell’aurora boreale. Il passo del Maloja (in italiano noto come Maloggia), è il valico che si trova otto chilometri a sud-est di Sils, non lontano dalla sponda sud dell’omonimo lago e dalle sorgenti del fiume Inn. Con l’avvento dell’autunno, l’aria umida che dalla sottostante Val Bregaglia sale verso il Maloja, si trasforma in dense nubi che si snodano nel passo, contenute dalle alte pareti contrapposte, e avanzano lentamente, assumendo la forma di un gigantesco serpente. Il fenomeno diventa ancora più spettacolare quando viene irradiato dal sole, che genera fantastici giochi di luci. Su YouTube sono facilmente reperibili numerosi video del fenomeno. Il più importante è il documentario di Arnold Fanck, “Das Wolkenphänomen von Maloja”, del 1924. Prima di recarsi in Engadina è opportuno vedere anche il film “Sils Maria”, diretto da Olivier Assayas e interpretato da quelle straordinarie forze della natura che rispondono al nome


di Juliette Binoche e Kristen Stewart, che ripropone ampi scorci paesaggistici della zona nonché alcuni stralci del documentario di Fank. TERZO GIORNO, LUNEDÍ: SILS MARIA-COSTANZA, 215 KM. PARTENZA ORE 8; ARRIVO ORE 11. (Due pernottamenti) Costanza sorge sull’omonimo lago, che accoglie il fiume Reno nel settore sudorientale per poi lasciarlo “scorrere” (la parola “Reno” ha una matrice celtica e vuol dire proprio “scorrere”), dal lato più occidentale, verso Basilea, dopo aver dato corpo alle imponenti cascate che portano il suo nome (Rheinfall). E’ bella Costanza, benedetta anche da un clima mediamente più caldo e temperato di altri luoghi che gravitano nella stessa latitudine; se si è fortunati, soprattutto nei mesi estivi, si riesce anche a scampare alle frequenti piogge. E’ gioviale e piena di vita, Costanza, come lo sono tutte le città universitarie del mondo. La sua, manco a dirlo, è tra quelle d’eccellenza e accoglie ben 11mila studenti, su 81mila abitanti. E’ fortunata Costanza: la sua posizione, sul confine con la Svizzera, le risparmiò i bombardamenti durante l’ultimo conflitto mondiale, lasciando intatti gli stupendi edifici medievali, a cominciare dalla millenaria cattedrale, la cui origine risale agli inizi del VII secolo, teatro dei riti religiosi durante il famoso Concilio (1414-1418) che pose fine allo Scisma d’Occidente. I lavori del Concilio, invece, si tennero nel Konzilgebäude, ossia i grandi magazzini utilizzati come stoccaggio delle merci che transitavano nel porto, sul lungolago. All’entrata del porto vi è la statua di Imperia, la prostituta che regge nelle mani il re e il Papa, entrambi nudi, alludendo al “lato carnale” del Concilio. Una pietra commemorativa, circondata da fiori, è visibile nel posto in cui fu bruciato vivo il riformatore boemo Jan Hus, che anticipò di un secolo Lutero nelle contestazioni alla Chiesa. Dal porto di Costanza partono traghetti e barche per le escursioni sul lago e per le isole di Mainau e di Reichenau, che ogni essere umano dovrebbe vedere almeno una volta nella vita. Torri ed edifici da visitare abbondano e qui basti ricordare la “Rheintormturm”, che segna il punto in cui il Reno lascia il lago e inizia il viaggio avventuroso lungo un percorso nel quale la storia si confonde con il mito e la leggenda. QUINTO GIORNO, MERCOLEDÍ: “DA LAGO A LAGO” - COSTANZA – LA TENE, 214 KM. PARTENZA ORE 08:00; ARRIVO 10,30. (Due pernottamenti). Mettete nel bagagliaio gli orrendi CD che diffondono rumore e note stonate; le canzoni insulse di pseudo cantanti che ragliano o blaterano; le orribili filastrocche di rapper improvvisati, strafelici di trovare tanti stolti, avvelenati dalle miserie di un mondo in dissoluzione, che consentono loro di sentirsi artisti e di vivere nel lusso sfrenato. Accantonate tutto ciò e preparatevi a un viaggio nel tempo, verso una meta che, per tanti, è anche un viaggio alla scoperta delle radici più lontane. Un viaggio mistico, quindi, che necessita dell’unica musica capace di creare un’atmosfera ideale in talune circostanze: la musica celtica.


E’ ancora accesa la lotta tra gli studiosi che si occupano degli indoeuropei, in particolare per quanto concerne la loro provenienza. Personalmente propendo per la Teoria kurganica, che disegna in modo armonico e lineare il flusso migratorio dalle steppe pontico-caspiche, a partire dal 4.400 A.C. Indoerupei erano i Germani, l’insieme dei popoli che si diffusero dalla Scandinavia alla Pannonia. Indoerupoei erano i Celti, che s’installarono in vaste zone dell’Europa centrale, in Gallia, nella Penisola Iberica, nelle Isole Britanniche, nella Pannonia (prima che giungessero i Longobardi dalla Scandinavia, con i quali poi si fusero), nel Nord Italia, in Anatolia. I due insediamenti più antichi di quest’ultimo popolo riguardano l’Austria e la Svizzera. La “cultura di Hallstatt”, dal nome della cittadina nei pressi di Salisburgo nella quale è stato rinvenuto il sito principale, si sviluppò dal 1200 al 500 A.C. Sul fiabesco lago di Neuchâtel, invece, a partire dal VI secolo A.C., si plasmò la cultura di La Tène, grazie all’impulso assicurato dall’estensione degli insediamenti nell’area di Hallstatt. La visita al sito archeologico non è comparabile a quella di altre visite analoghe, proprio per quel fascino misterioso emanato da un popolo per certi versi avvolto ancora nel mistero. Nel sito si possono ammirare armi e utensili, perfettamente conservati grazie all’ambiente umido che ne ha preservato i materiali organici. Numerose le monete, anche in oro, e ovviamente i resti umani e di animali (cavalli, bovini, maiali, pecore, capre, cani). Si dice che il retaggio ancestrale di coloro nelle cui vene scorra sangue celtico percepisca il contatto con le radici e mandi segnali inequivocabili alla mente. Il villaggio di La Téne conta meno di 5.000 abitanti e non è facile reperire posti letto. Il soggiorno ideale, pertanto, si può reperire nella vicina Neuchâtel, punto di partenza per visitare gli altri siti disseminati sulle sponde del lago, in uno scenario d’incommensurabile bellezza, unico al mondo. SETTIMO GIORNO, VENERDÍ: LA TÉNE – BESANCON, 113 KM. PARTENZA ORE 08:00; ARRIVO 10,00. (Un pernottamento). Besancon, l’antica Vesonzione celtica, era uno dei principali “oppida” ai tempi della conquista romana. Il fiume Doubs, che la circonda, le conferisce la suggestiva forma a meandro. Le antiche vestigia sono visibili nel quartiere Battant. Vicino alla Cattedrale di Saint-Jean, che fonde neogotico e barocco e merita un’accurata visita non fosse altro per ammirare lo stupendo orologio astronomico, è ubicata “La Porta nera”, edificata intorno al 170 per celebrare le vittorie militari di Marco Aurelio. Il simbolo della città è la “Cittadella”, fortezza che la domina da un’altura, la cui costruzione iniziò nel 1668, quando la città era possedimento spagnolo. Al suo interno è possibile visitare il museo della Resistenza e della deportazione, un museo etnologico, uno zoo e i giardini botanici. Tappa obbligata è il numero 140 della Grande-Rue, dove sorge la casa natale di Victor Hugo, oggi finalmente aperta al pubblico. Quando ho visitato la città non lo era e pertanto, per le informazioni, rimando alla rete, dove si trova di tutto e di più. Sarebbe un vero delitto andare via da Besancon senza “addentrarsi” nella raffinatezza della cucina francese, cosa difficile per un


italiano, ma necessaria per superare pregiudizi ed elevarsi verso dimensioni continentali che abiurino l’anacronistico provincialismo di chi sarebbe capace di andare alla ricerca di un ristorante italiano anche al Polo Nord o all’Antartide: il ristorante “Le Saint Pierre”, 106 Rue Battant è l’ideale per verificare il proprio livello di emancipazione culinaria. OTTAVO GIORNO, SABATO: BESANCON – DIGIONE, 96 KM. PARTENZA ORE 08:00; ARRIVO 09,00. (Due pernottamenti). “Simbolisti di tutto il mondo unitevi”. Non si può parlare di Digione senza far riferimento al “simbolo”, inteso nella sua accezione bachofeniana, che nel simbolo incarna la fonte di un presagio, capace di far vibrare le corde dello spirito tutte insieme, e di raccogliere nella sintesi di una impressione unitaria gli elementi più diversi. Digione, l’antica “Divio”, fu fondata dai romani nel 52 A.C e fungeva da “castrum” sulla strada da Lione e Magonza. Le città romane, più delle altre, sono pervase dall’aura mistica del “centro magico”. Servio Mauro Onorato sosteneva che “nullus locus sine genio”. Ogni città “simbolica”, pertanto, ha un suo “Genius Loci” che associa alla tradizione una funzione prettamente apotropaica, incarnato da un simbolo che porta fortuna. Al di là della matrice originaria è la credenza stessa che alimenta e incrementa la forza simbolica dell’oggetto, grazie al tocco di milioni di persone che si succedono in visita nel corso dei secoli, lasciando su di esso una “impronta energetica" che preserva la sua aura magica. Il “Genius Loci” di Digione si trova in Rue de la Chouette, in pieno centro, vicino alla chiesa di Nôtre-Dame. La stradina prende il nome da un bassorilievo scolpito in uno dei pilastri della facciata laterale, che raffigura, appunto, una civetta. Oggi le forme dell'uccello non sono ben delineate a causa dei continui strofinamenti praticati dai turisti. Secondo la leggenda, infatti, chiunque accarezzi la civetta con la mano sinistra vedrà un suo desiderio realizzato. Io commisi l’errore di voler fregare la civetta, chiedendole, come desiderio, “di soddisfare cento desideri”. Non sapevo, purtroppo, che tale subdola macchinazione sarebbe stata punita: non solo non fui accontentato, ma quando in una seconda visita espressi le mie lagnanze a un locale gendarme, mi fu spiegato che per la mia ingordigia non avrebbe avuto alcun effetto nemmeno la richiesta di un singolo desidero. Come sempre, chi troppo vuole nulla stringe. La civetta è il simbolo della città e non si può andare via da Digione senza averne acquistata una, proposta dai negozi in tutte le forme, dalle versioni economicissime a quelle finemente lavorate, di grande pregio. L’ufficio del turismo ha realizzato un itinerario guidato del centro storico, evidenziato da placche triangolari che riproducono la forma stilizzata della civetta. Di fatto, seguendo le civette collocate sulla pavimentazione stradale, si raggiungono gli edifici e i luoghi d’interesse culturale più importanti. Il percorso inizia da Place Darcy, dove ha sede l’ufficio del turismo, e vede come prima tappa la vicina Cattedrale di San Benigno, che custodisce le spoglie del martire, patrono della città, nato in Anatolia e martirizzato nel 179. Alle sue spalle si trova l'Église Saint Philibert, gioiellino gotico del XII secolo. Poco distante, in piazza Bousset, vi


è l’Église Saint Jean, altra meravigliosa struttura gotica. Addentrandosi sempre più nel centro storico, poi, si giunge in Place Notre Dame, dove sorge un autentico capolavoro dell’architettura gotica, l’Église Notre-Dame, costruita dal 1220 al 1240, recentemente inserita nel patrimonio mondiale dell’UNESCO. A meno di 300 metri, in Rue Rameau, merita senz’altro una visita il Museo delle Belle Arti, situato nell’ala orientale del Palazzo dei Duchi di Borgogna. Digione è una delle capitali mondiali della gastronomia e quindi, ancor più che a Besançon, non si può fare a meno di degustare la cucina francese in uno dei tanti ristoranti disseminati nelle stradine del centro storico. Essendo anche la capitale di una delle regioni vinicole più famose al mondo, occorre accompagnare le pietanze con i vini tipici della Borgogna: vi è solo l’imbarazzo della scelta, naturalmente, e anche nella fascia tra i dieci e i venti euro si trovano prodotti pregevoli. Oltre all’immancabile civetta, non si può andare via da Digione senza una buona scorta di “Moutard”, ossia la migliore senape che esista al mondo. Eccellente la Fallot, disponibile in varie tipologie. DECIMO GIORNO, LUNEDÍ: DIGIONE – TROYES, 189 KM. PARTENZA ORE 08,00; ARRIVO 10,00. (Un pernottamento). Rilassante tappa nella cittadina fiabesca che ha dato i natali a Chrétien de Troyes, il grande autore precursore del genere romanzesco. Gli edifici religiosi, come in qualsiasi città medievale, costituiscono l’attrattiva principale. Davvero stupenda la cattedrale, con ben 1500 mq di vetrate e due rosoni dal diametro di 10 metri. Le casette a graticcio, costruite con solido legno, costituiscono un’attrattiva più unica che rara e in Francia ne ho viste di simili solo a Rouen. Ho previsto un solo pernottamento, ma in un giorno, se si riesce davvero a giungere non oltre le 10-11, è possibile vedere tutto, ivi compresi il museo di arte moderna e il piccolo museo di Saint-Loup, e magari fare un salto nei centri commerciali pieni di outlet, nei quali è possibile acquistare capi delle migliori marche a prezzi super scontati: Troyes è la capitale europea dell’outlet. La passeggiata sulle rive della Senna consente momenti di autentico relax e la sera, per cena, è d’obbligo recarsi “Au Jardin Gourmand”, in rue Paillot de Montabert 31 e degustare le delizie locali, a cominciare dalla “andouillette”, una salsiccia fatta con intestini e stomaco del maiale tagliati a tozzoni irregolari, servita con patate e cipolla rossa o come meglio preferite. UNDICESIMO GIORNO, MARTEDÍ: TROYES – REIMS, 127 KM. PARTENZA ORE 08,00; ARRIVO 09,30 (Un pernottamento). Altra città di origine celtica, fondata dagli antichi “Remi” (I primi), citata numerose volte da Cesare nel “De bello Gallico”, a detta di molti esperti di cultura celtica non sempre in modo sincero. Cosa facile da credere, del resto, per chi abbia ben approfondito la conoscenza del condottiero romano. Gli appassionati di vino, e di Champagne in particolare, non possono esimersi dal visitare le sue suggestive cantine. (Ho visto solo la “Veuve Cliquot”, perché ero in visita guidata,


ma – relata refero – la “Mumm” e la “Ruinart” sono considerate non meno belle e più accessibili). La città offre la classica nutrita serie di edifici religiosi, con immancabile e stupenda cattedrale gotica. Vicino alla cattedrale sorge il Palazzo di Tau, patrimonio dell’UNESCO, dove risiedevano i sovrani prima dell’incoronazione. Il 7 maggio 1945 il generale Alfred Jodl vi firmò la resa incondizionata della Germania. DODICESIMO GIORNO, MERCOLEDÍ: REIMS – PARIGI, 143 KM. PARTENZA ORE 08,00 – ARRIVO 10,00 A Parigi, si conclude il tour e ciascuno potrà organizzare il soggiorno nella capitale come meglio riterrà opportuno, restandovi un solo giorno e poi rientrare in Italia, oppure restandovi fino al sabato o addirittura alla domenica, con 3 o 4 pernottamenti, in modo da visitarla con calma almeno nei siti più importanti. Chi dovesse conoscerla bene e volesse comunque chiudere la vacanza con due settimane di soggiorno, può prendere in considerazione un trasferimento in Normandia, per visitare i luoghi in cui si effettuò il famoso lo sbarco, magari soggiornando a Rouen, altra città fantastica e punto di partenza per le escursioni nella regione.


IL PIAVE MORVORAVA PARTE SETTIMA: GRANDI ILLUSIONI E GUERRA TOTALE

LA VIGILIA DELLE GRANDI BATTAGLIE L’alba del 1916 trova il Paese in preda a una profonda disillusione: la guerra si mette male e nessuno crede più al sogno di una facile vittoria in tempi brevi. Incominciano a pesare in modo massiccio le privazioni, i sacrifici e l’alto numero di vite umane sacrificate, a detta di molti inutilmente: 250mila tra morti, feriti e dispersi in soli sette mesi. In tutto il continente milioni di soldati si fronteggiano aspramente e alle loro spalle, altri eserciti, composti di milioni di uomini e donne, impiegano ogni risorsa del lavoro e della tecnica per soddisfare le infinite esigenze belliche. Armi, munizioni e materiali vengono prodotti in proporzioni mai raggiunte prima. E’ la guerra totale, che coinvolge in uno scontro mortale l’esistenza stessa di ogni nazione. In Italia anche il fronte fu trasformato in un immenso cantiere, grazie al richiamo delle classi più anziane, non idonee al combattimento ma validissime per i lavori di prima linea e di retrovia. “La Territoriale” fu il nome attribuito al contingente di veterani, scherzosamente trasformato in “La Terribile”, perché munito solo di zappe, badili, picconi e degli antidiluviani fucili utilizzati nelle Guerre d’indipendenza. Si cercò con ogni mezzo di alleviare le sofferenze dei soldati, mal nutriti e mal vestiti, incrementando sia la fornitura di abbigliamento sia le calorie giornaliere. Furono presi in considerazione anche i “generi di conforto”, quali tabacco, cioccolato, vino, marsala e alcolici in genere, ritenuti fondamentali per sollevare il morale, soprattutto prima degli attacchi. Gli italiani, ovviamente, sono stati sempre gli stessi in ogni epoca storica e pertanto anche questi provvedimenti, sicuramente positivi, furono inficiati dall’atavica propensione truffaldina, alimentata da una non meno deplorevole “culpa in vigilando”, che quasi sempre evidenziava non già inerzia o inefficienza ma subdola complicità. I furbi, graduati e sottufficiali in numero maggiore rispetto agli ufficiali, riuscivano a mettere le mani su ogni ben di Dio, gioiosamente ripartito tra familiari, parenti, amici e mercato nero, a discapito di tanti soldati cui spettavano solo le briciole. Nelle trincee, rese leggermente più confortevoli dai lavori della “Territoriale”, in uno scenario per certi versi surreale, si scherzava e si cantava. Nacquero in tal modo le prime canzoni di trincea, per lo più composte da anonimi alpini, con frasi sgrammaticate che riecheggiavano i canti popolari. Vi erano anche veri musicisti, tra i quali il diciottenne Nino Piccinelli, autore della famosissima “Ta pum”. Le nuove armi, sempre più micidiali, prodotte con ritmo incalzante nelle fabbriche disseminate in Piemonte, Lombardia, a Terni, incominciarono ad affluire al fronte, pronte a seminare morte e distruzione. Parimenti, tuttavia, e in taluni casi in modo più efficace, accadeva negli altri paesi belligeranti. Restava solo da capire come meglio utilizzarle in battaglia. Nel 1914 fallirono i piani che prevedevano una rapida vittoria grazie alla guerra di movimento; nel 1915 fallì e il disegno di sconfiggere la Germania aggredendola ai fianchi, dall’Italia (1) e nei Balcani e


pertanto restava solo lo scontro frontale degli eserciti nelle grandi battaglie di annientamento. Il 1916 fu l’anno di queste grandi battaglie. E fu anche l’anno delle grandi illusioni. VERDUN Il 21 febbraio iniziò la carneficina di Verdun, che si protrasse per dieci mesi. Verdun è una piccola città sulla riva destra della Mosa, a pochi chilometri dal confine tedesco. Durante la Guerra franco-prussiana del 1870 la sua caduta aprì le porte al disastro della Francia e da allora incarnò il simbolo della sconfitta da vendicare. Un’imponente opera di fortificazione fu avviata con il preciso scopo di rendere la cittadella inespugnabile, in previsione di una futura guerra, che si riteneva inevitabile. Il generale Joffre, comandante in capo dell’Esercito francese, riteneva, tuttavia, che i tedeschi non avrebbero commesso l’errore di due anni prima, che costò gravi perdite (2), ben supportato da analogo convincimento di tutto lo Stato Maggiore. Le fortezze erette a protezione della città, pertanto, furono sguarnite di molti pezzi di artiglieria e di un cospicuo numero di soldati, al fine di rinforzare altri fronti ritenuti prioritari. Il nuovo comandante in capo dell’Esercito tedesco, Erich von Falkenhayn, succeduto a von Moltke nel settembre 1914 e di lui molto più energico, spietato e determinato, espose al Kaiser un piano che teneva in debita considerazione soprattutto il carattere dei francesi, che a suo giudizio si sarebbe rivelato proficuo per i tedeschi: Verdun, città simbolo, in caso di attacco duro e insistente sarebbe stata difesa anche a costo d’immani sacrifici, determinando il progressivo dissanguamento dell’esercito e la conseguente inevitabile resa. Avuto l’assenso dell’imperatore, von Falkenhayn iniziò il trasferimento di truppe e armamenti lungo la linea di confine e dopo un rinvio di alcuni giorni rispetto alla data stabilita, a causa del cattivo tempo, il 21 febbraio iniziò a bombardare la città con il famoso mortaio denominato “grande Berta”, che sparava proiettili con calibro di 420 mm. I civili, terrorizzati, si riversarono in massa verso le zone interne, abbandonando le case in fiamme. Negli avamposti, le trincee, martoriate da milioni di granate, brulicavano di morti e feriti; i sopravvissuti scapparono atterriti dallo spaventoso volume di fuoco, seminando il panico nelle retrovie con i loro racconti. In poche ore saltarono i collegamenti e la particolare logistica della zona rese difficoltosi i rinforzi. Le armate tedesche erano guidate dal principe ereditario Federico Guglielmo, che obbediva alla nuova tattica di Falkenhayn: “L’artiglieria conquista, la fanteria occupa”. Il Kronprinz sferrò attacchi micidiali che obbligarono i francesi a convogliare sulla fortezza continui rinforzi, a loro volta sopraffatti dalla micidiale potenza di fuoco dell’artiglieria. Il 25 febbraio, con l’ordine di difendere la città a ogni costo, entrò nella storia un personaggio che in seguito avrebbe fatto parlare molto di sé. Il generale Philippe Pétain, a differenza dei suoi colleghi, aveva a cuore la vita dei soldati e detestava le teorie in vigore, concepite dal principale teorico dell’Esercito francese, il generale Louis de Grandmaison, morto in battaglia nel febbraio del 1915, che prevedevano le controffensive ad oltranza, nonostante generassero un alto numero di vittime.


Riteneva molto più saggio, invece, graduare gli attacchi e sferrarli solo con la certezza di avere un numero maggiore di soldati e mezzi rispetto al nemico. “Verdun è il cuore della Francia”, affermò Pétain, che organizzò la resistenza sviluppando anche un’efficace rete di rifornimenti sull’unica strada che consentiva di raggiungere la città dalle retrovie, oggi monumento nazionale e conosciuta come “Voi Sacrée”. “Verdun è il cuore della Francia”, affermò Federico Guglielmo, incitando i suoi soldati, per la prima volta muniti di lanciafiamme, a un nuovo attacco sulla riva sinistra della Mosa. Le scene dei soldati che bruciavano vivi erano raccapriccianti e sconvolgenti, ma Verdun respinse l’attacco, con grande sorpresa del Kronprinz, costretto ad ammettere l’inutilità della battaglia e il fallimento della strategia di Falkenhayn, sostituito il 28 agosto da due generali, anch’essi destinati a far parlare molto di loro: Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff. L’inutile carneficina su entrambi i fronti continuò fino al 19 dicembre. Non è possibile quantificare il numero esatto delle vittime, considerati i moltissimi avvicendamenti e la lunga durata della battaglia; personalmente ritengo attendibili i dati dello storico Alistair Horne (3): 315mila tra morti, feriti e dispersi per la Francia, 282.000 per la Germania. QUINTA BATTAGLIA DELL’ISONZO E GUERRA AD ALTA QUOTA Sul fronte italiano, Cadorna, sollecitato da Joffre ad attaccare affinché si tenesse impegnato l’esercito austriaco, pur essendo consapevole che un’offensiva italiana in quel momento poteva ottenere solo scarsi risultati, per non scontentare l’alleato, l’11 marzo attaccò con la II Armata a Tolmino e con la III sul Carso: circa 2000 morti per parte, nei cinque giorni di battaglia, senza alcun effettivo vantaggio per nessuno dei contendenti. Il 12 aprile cominciò una delle più straordinarie imprese belliche: una battaglia combattuta a oltre 3000 metri d’altitudine, fra i ghiacciai dell’Adamello. Gli sciatori alpini vestiti di bianco, che nottetempo avanzarono sulla neve conquistando all’alba la Lobbia Alta (3300 metri) e in seguito il Dosson di Genova (3341 metri), sono entrati nella leggenda e costituiscono un’icona di quell’efficienza bellica che, proprio perché eccezione, emerge in tutta la sua grandezza. Il 18 aprile un’altra impresa di montagna ebbe non minore eco: nel cuore delle Dolomiti, sulla vetta del Col di Lana, un battaglione austriaco teneva sotto smacco la IV Armata; in quattro mesi di duri e penosi scavi nella roccia sottostante fu realizzata una galleria lunga settantacinque metri, al culmine della quale fu collocata una mina di quattro tonnellate: la vetta saltò in aria e con essa l’intero battaglione. LA BATTAGLIA DEGLI ALTIPIANI (STRAFEXPEDITION) Il Capo di stato maggiore dell’Impero austro-ungarico, generale Franz Conrad Von Hötzendorff, odiava a morte gli italiani, sia per le guerre risorgimentali, che avevano avviato l’irreversibile declino dell’Austria-Ungheria, sia per quello che era considerato un vero e proprio tradimento, ossia il distacco dalla Triplice Alleanza.


Riteneva che il punto debole dello schieramento italiano fosse concentrato nella zona degli altipiani di Lavarone, di Folgaria e di Asiago, tra la valle dell’Adige e quella del Brenta ed era lì che intendeva colpire, con l’intento di avanzare velocemente nella pianura sottostante, priva di difese. Una volta raggiunte Vicenza e Verona, il fronte dell’Isonzo, preso alle spalle, sarebbe crollato in un battibaleno. A quel punto, attraversando la pianura Padana, sarebbe stato facile colpire la Francia dalle Alpi Occidentali. Espose il piano già nel dicembre 2015 al suo omologo tedesco, von Falkenhian, che non gli nascose le sue perplessità: stava preparando l’offensiva di Verdun, che per lui era prioritaria, senza contare che non esisteva uno stato di guerra tra Germania e Italia e quindi, in ogni caso, non avrebbe potuto dare all’alleato alcun aiuto concreto. Conrad, tuttavia, decise di attaccare ugualmente, nonostante fosse venuto meno l’effetto sorpresa: le notizie sull’imminente attacco, infatti, giunsero ai comandi italiani già a partire dal 22 marzo. L’efficienza del servizio informazioni, tuttavia, servì a poco: il comandante della I Armata, generale Roberto Brusati, diede credito alle informazioni, ma si comportò come se non fossero vere; Cadorna, dal suo canto, non vi diede peso, ma, una volta tanto, andò contro se stesso e si comportò come se le avesse ritenute veritiere, inviando nuove truppe per rafforzare la linea di difesa arretrata. Brusati, che era portato a tenere le truppe in posizione offensiva perché bramava di sfondare in Valsugana e conquistare Trento, non obbedì agli ordini e rafforzò quella avanzata, ancorché non disposta su posizioni favorevoli. Il 9 maggio Cadorna scoprì la disobbedienza e non esitò a sostituire Brusati con il generale Pecori Giraldi. Era troppo tardi, però, per il ripiegamento delle truppe, che in caso di attacco austriaco si sarebbero trovate con le spalle al nemico. Il 15 maggio centoventisei battaglioni austro-ungarici, appoggiati da 1193 cannoni, diedero inizio a quella che Conrad aveva definito “Strafexpedition”, ossia la spedizione punitiva contro l’Italia, conquistando facilmente le postazioni fortificate del Col Santo e dei monti Toraro e Campomolon. Dopo un anno di guerra, non solo i nostri soldati non avevano liberato Trento e Trieste, ma vedevano i nemici “calpestare il sacro suolo della Patria”. Sembrava proprio che il piano di Conrad stesse per realizzarsi: delle tre colonne in movimento dal Trentino verso la pianura, due avevano già superato gli ostacoli più difficili. I soldati italiani combattevano valorosamente, ma con gravi lacune: mancavano di addestramento alla tattica di difesa e non conoscevano il senso della manovra elastica, del ripiegamento temporaneo in preparazione di un successivo contrattacco. Il 21 maggio Cadorna iniziò a far confluire sul teatro della battaglia una nuova armata, affidata al generale Frugoni, costituita con divisioni sottratte agli altri fronti. Nel giro di dodici giorni ben 179.000 soldati e 35.600 quadrupedi vennero concentrati tra Vicenza, Padova e Cittadella. Gli austriaci sferrarono un nuovo attacco il 24 maggio, ma gli italiani, avendo superato la sorpresa iniziale e imparato a proprie spese come ci si deve comportare nella tattica difensiva, riuscirono a contenere l’attacco. Violenti scontri si ebbero tra il 31 maggio e il primo giugno e subito dopo apparve evidente che gli austriaci non erano più in grado di sfondare. Vi provarono, sempre con


minore intensità, fino al 17 giugno, per poi abbandonare ogni velleità. Tra l’altro, mentre gli austriaci erano impegnati in Italia, le forze del generale russo Brussilov attaccarono su un fronte di trecentocinquanta chilometri, infliggendo gravi perdite e catturando 400.000 prigionieri. Conrad, quindi, non poté che ordinare il ripiegamento a nord di Arsiero e di Asiago. La spedizione punitiva costò all’Italia 15.453 morti, 76.642 feriti, 55.635 fra prigionieri e dispersi; 10.203 i morti austriaci, 45.651 i feriti, 26.691 tra prigionieri e dispersi. Tra le vittime illustri ricordiamo i patrioti irredentisti Damiano Chiesa, Fabio Filzi, Cesare Battisti, catturati e condannati a morte come traditori. LA BATTAGLIA DELLA SOMME Dal sei all’otto dicembre 1915 si tenne, a Chantilly, la seconda conferenza interalleata. Furono concordate tre offensive per il 1916: quella russa contro la Prussia Orientale; quella italiana sul fronte dell’Isonzo, di cui abbiamo parlato sopra; quella franco-inglese sulla Somme, al fine di infliggere un colpo decisivo ai tedeschi posizionati sul confine belga. L’attacco di Verdun, però, scompaginò i piani dell’Intesa: gli inglesi, già nei primi mesi del 1916, si resero conto che era necessario alleggerire la pressione tedesca, facendosi carico da soli dell’offensiva, potendo contare solo parzialmente sul supporto delle truppe francesi. Il grosso dell’esercito regolare inglese, però, era stato quasi totalmente annientato nei due anni precedenti e così, a combattere sulla Somme, si trovarono in massima parte le truppe composte di volontari di tutte le età, che ovviamente non potevano reggere il confronto con soldati professionisti e ben addestrati e con quei giovanissimi intrisi di quell’entusiasmo per l’avventura bellica che ben traspare nelle opere di Remarque e Jünger. Anche i volontari inglesi, comunque, attraversarono la Manica forti del loro “amor patrio” e della voglia di riscatto, che però fu smorzata sin dal primo luglio 1916, quando ebbero il battesimo del fuoco. Douglas Haig, comandante del Corpo di spedizione britannico dal 1915, è giustamente passato alla storia come uno dei generali più controversi e inetti mai esistiti. Nell’esercito inglese, di fatto, alla pari di quanto avveniva in Italia, era possibile ottenere importanti promozioni anche senza particolari esperienze belliche e Haig apparteneva a questa categoria. Convinto assertore dell’attacco frontale, non conosceva a fondo la situazione sul fronte occidentale e mancava delle più elementari nozioni di strategia, oltre che della necessaria esperienza. I piani prevedevano il massiccio bombardamento delle postazioni tedesche per cinque giorni di fila, in modo da distruggere trincee e reticolati. Una volta distrutte le linee di difesa con l’artiglieria, la fanteria avrebbe fatto il resto. Teoria e pratica, però, non sempre vanno d’accordo. Tra i soldati mancavano dei veri esperti di artiglieria e per di più, a causa dei difetti di fabbrica, rimase inesploso un buon terzo dei proiettili sparati dalle 3.000 bocche di fuoco. Il piano prevedeva anche la realizzazione di gallerie che avrebbero dovuto portare i soldati sotto le trincee tedesche per collocarvi dieci potenti mine da far esplodere pochi minuti prima dell’attacco. Le mine inflissero senz’altro delle perdite ai tedeschi, ma provocarono anche dei profondi crateri, che furono subito occupati


rappresentando essi delle naturali barriere difensive dalle quali respingere agevolmente l’attacco. Haig, inoltre, ordinò di marciare “lentamente” durante l’attacco, assicurando, in tal modo, ancora più tempo ai nemici per organizzarsi. I reticolati erano rimasti intatti e il bombardamento preventivo, lungi dal distruggere le trincee, aveva solo creato dei fossati che complicavano maledettamente l’avanzata. Ai soldati – altra follia – furono dati zaini pesanti circa trenta chili, cosa mai vista per le truppe d’assalto. Strategie e disposizioni che preludevano a una sicura carneficina: nelle prime ore di battaglia ben 20mila morti e 60mila feriti. Solo il 3 luglio Haig si rese conto di quanto fosse tragica la situazione: nei due giorni precedenti aveva continuato a credere che l’assalto si stesse rivelando un successo clamoroso! La battaglia andò avanti fino al 18 novembre, quando le avverse condizioni climatiche e il freddo gelido resero impossibile mettere il naso fuori dalle trincee. Tutti gli storici, tranne i soliti mistificatori che non mancano mai e hanno tentato, arrampicandosi sugli specchi, di conferire un’impossibile aura di onorabilità a Haig, sono concordi nel ritenere la battaglia un inutile dispendio di vite umane, imputabile esclusivamente all’incapacità di Haig. In centoquaranta giorni di scontri gli inglesi ebbero 420mila caduti tra morti e feriti; i francesi 150mila morti e 470mila feriti; i tedeschi 165mila morti e 450mila feriti. Il tutto per restare ciascuno sulle posizioni di partenza. GAS ASFISSIANTE E SESTA BATTAGLIA DELL’ISONZO Sul fronte italiano, alla fine di giugno, nella zona del San Michele, durante gli scontri successivi alla Strafexpedition, gli austriaci fecero uso per la prima volta dei gas asfissianti, per poi finire i superstiti con le mazze ferrate. L’impreparazione nel fronteggiare questa nuova terribile arma causò la morte di 3.000 soldati italiani. Come reazione alla Strafexpedition Cadorna pensò di attuare il piano, più volte modificato sulla carta, per la conquista di Gorizia. In venticinque giorni fece confluire sull’Isonzo 7.000 ufficiali e 300.000 soldati. Incominciò a emergere la figura di un oscuro colonnello, nominato capo di stato maggiore della IV Armata: Pietro Badoglio. L’attacco a Gorizia fu fissato per il 6 agosto, dopo alcune azioni dimostrative concepite per tenere agganciate le truppe e le riserve avversarie nell’estremo settore meridionale. A est di Monfalcone, uno dei tanti luoghi simbolo della Grande Guerra, “Quota 85”, conquistata il 4 agosto, fu ripresa dagli austriaci proprio all’alba del 6 agosto. Un vero disastro per le truppe in marcia verso Gorizia, che sarebbero state falcidiate dal tiro delle mitragliatrici, collocate in posizione privilegiata. Fu subito ordinato di riconquistare la postazione a tre battaglioni di bersaglieri ciclisti, i quali sferrarono un attacco micidiale che indusse ben presto gli austriaci a una veloce ritirata. Con loro vi era un portaordini privo di gamba, perduta sotto un treno quando lavorava per le regie ferrovie, che aveva fatto passi falsi per essere arruolato nonostante la grave menomazione. All’ordine di attaccare balzò fuori tra i primi. Ferito una prima volta al petto in modo lieve, continuò a correre, per come poteva correre un soldato con stampella e una sola gamba; colpito di nuovo,


cercò di rialzarsi, ma fu colpito una terza volta. Con la forza della disperazione riuscì a ergersi sulla gamba sana, prese la stampella e la lanciò contro le trincee avversarie. Stramazzato al suolo, prima di morire afferrò il piumetto che gli era caduto vicino e lo baciò. “Maiora viribus audere” recita uno dei motti più famosi che caratterizzano i Bersaglieri: Enrico Toti l’ha incarnato in pieno in tutta la sua esistenza, fino all’estremo sacrificio. Poco dopo la sua morte venne dato l’ordine di attaccare su tutto il fronte. I “Lupi” della Brigata Toscana, guidati da Pietro Badoglio, conquistarono il Monte Sabotino in trentacinque minuti, spalancando al loro comandante l’accesso alle alte sfere militari: la sera stessa, grazie all’intercessione del suo “protettore”, il generale Luigi Capello, fu promosso “maggiore generale (generale di divisione). La strada verso Gorizia era spianata e il 9 agosto sul pennone della Stazione sventolava il Tricolore. SETTIMA, OTTAVA E NONA BATTAGLIA DELL’ISONZO L’arretramento austriaco successivo alla perdita di Gorizia non fu una vera e propria ritirata, potendosi attestare le truppe dietro la seconda linea predisposta a oriente della città, sulla quale erano confluiti i rinforzi, provenienti da altri settori. Bisognava sfondare quella linea difensiva, ma tutti gli attacchi sferrati dal 9 al 16 agosto furono vani. Cadorna decise allora di ordinare altre offensive di logoramento, che iniziarono il 14 settembre. La “prima spallata” si esaurì in due giorni a causa del cattivo tempo. La seconda ebbe luogo dal 10 al 12 ottobre e portò alla conquista di alcune posizioni sul Carso settentrionale e alla cattura di 8.000 prigionieri. Con la “terza spallata”, infine, dal primo al quattro novembre, furono conquistate importanti postazioni sul Carso goriziano. Al di là dell’importante conquista di Gorizia, tuttavia, anche per il fronte carsico poteva valere la frase utilizzata da Remarque per il suo celebre romanzo. Nel Trentino e sugli Altipiani si registrava un leggero avanzamento degli austro-ungarici; sulle Dolomiti gli italiani avevano conquistato il temibile Castelletto, dopo aver fatto brillare una mina posta sotto la cima, al culmine di una galleria lunga ben 477 metri. Nulla di nuovo, invece, accadde in Carnia e nell’alto Isonzo. Il bilancio delle vittime era aumentato tragicamente, ma le truppe italiane incominciarono a essere apprezzate per il coraggio espresso dai singoli, a prescindere dalle grosse lacune degli ufficiali e dei comandanti. “Le ultime battaglie hanno dimostrato che il nemico è diventato un altro dallo scorso anno: esso ha molto imparato e si è giovato di tutte le esperienze della moderna tecnica di guerra”. Così scriveva, nel mese di ottobre, il generale Svetovar Boroević von Bojna, comandante dell’armata austriaca schierata sul Carso. Per tutto il 1916, al di là dei grossi movimenti di truppe e dell’alto numero di vite umane perdute, nei Balcani come sul fronte orientale, in Francia come sulle Alpi e nella Venezia Giulia, non si potevano registrare dei risultati che sancissero un primato certo per qualche contendente. Anche per questo stallo il morale era basso dappertutto e la stanchezza si faceva sentire. Il 1917, intanto, bussava alle porte e si


rimandavano al nuovo anno le speranze di una svolta decisiva, senza eccessive convinzioni, tuttavia, con ansie e perplessità crescenti. NOTE 1) L’Italia non era ancora ufficialmente in guerra con la Germania: la dichiarazione di guerra fu consegnata il 27 agosto 1916. 2) Battaglia della Marna, settembre 2014. 3) Il prezzo della gloria. Verdun 1916, Mondadori, 1968



QUEL MAL D’AFRICA EREDITATO DA MIO PADRE PREMESSA Caserta, primavera 1971. Papà Lorenzo nota che sulla mia scrivania vi sono molti libri, riviste, giornali, due volumi delle enciclopedie “UTET” e “MOTTA” aperti alla voce Libia e tre volumi “dell’Enciclopedia del Ragazzo Italiano” (Edizioni Labor, 1943, ereditata dalla biblioteca materna, come la “Motta”) ancora chiusi. “Che stai studiando?” “Lunedì dobbiamo portare una ricerca sulla Libia e sulle recenti espulsioni degli italiani”. “Ah, capisco. Ma penso che questo materiale non ti basti. Mi sa che dobbiamo fare un salto a casa (si riferiva alla casa avita, in provincia di Benevento) dove ho qualcosa che potrebbe esserti utile. E poi ti racconto io un po’ di storie”. La casa avita dista una quarantina di chilometri da Caserta e così, in men che non si dica, ci mettemmo in auto. Ivi giunti aprì un vecchio baule e tirò fuori cimeli di cui ignoravo l’esistenza, tra i quali: un volume degli annali dell’Africa italiana, alcuni numeri della rivista “Africa italiana” e alcuni fascicoli dell’opera “Le cento città d’Italia illustrate”, una delle quali dedicata a Tripoli e Bengàsi. Papà parlava spesso della sua esperienza bellica in Libia e i suoi racconti, cesellati da una voce calda e incantevole, facevano sognare. Il mal d’Africa, nel linguaggio comune, indica una sensazione di nostalgia che pervade coloro che l’abbiano visitata e poi avvertano il desiderio, forte e irrefrenabile, di tornarci. L’asserzione è corretta ma insufficiente a definire il concetto nella sua essenza più completa: anche oggi si può cadere preda del “mal d’Africa”, nonostante le tristi vicende degli ultimi anni abbiano stravolto, massicciamente, quella serena dimensione dell’essere riscontrabile nei viaggiatori ed esploratori del XIX e XX secolo, tipo Karen Blixen, Ryszard Kapuściński, John Reader, James Augustus Grant, Ugo Ferrandi, per intenderci. Il mal d’Africa contratto dai soldati italiani nelle varie guerre coloniali e dai tanti ex coloni, che in Africa restarono anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, è tutta un’altra cosa perché trascende il semplice desiderio di ritornare a vedere un paese “straniero” del quale si fosse rimasti incantati. Per quelle persone, infatti, l’Africa non era un paese straniero. Altri, in questo numero, parleranno dei problemi contingenti legati alle vicende attuali. Io vi parlerò della “mia Africa”, quella che porto nel cuore “per contagio”, grazie ai racconti di un Grande Uomo: Lorenzo Lavorgna, mio Padre. Il mio pensiero in merito alle attuali vicende, ancorché estraneo a ogni contesto realizzabile (e per questa ragione non espresso) è la diretta conseguenza di quel “contagio”. So bene, altresì, che chiunque lo avesse subito in forma analoga, non potrebbe che pensare la stessa cosa. C’ERA UNA VOLTA L’AFRICA ITALIANA


La Tripoli che accolse mio padre era molto diversa dalla vecchia Tarabulos e dall’antica Pea e, naturalmente, era molto diversa dalla convulsa metropoli odierna, accreditata di circa 1.300.000 abitanti, ai quali ne vanno aggiunti almeno altri 700.000 che sfuggono a ogni possibile censimento. Negli anni quaranta del secolo scorso la cittadina ne contava poco più di 70.000 e appariva “modernissima” grazie alle radicali trasformazioni urbanistiche intercorse dal 1911 e all’imponente Via Balbia, realizzata nel 1937, che passa proprio per il suo centro e unisce la Tunisia all’Egitto coprendo una distanza di oltre 1.800 chilometri. La città si stende tutta in piano, tra il mare e l’oasi, ricca di moderne costruzioni, fantasiosamente realizzate da ingegneri e architetti che si sono sbizzarriti ad applicare tutti gli stili, creando zone piacevoli e armoniose. Le strade principali partono dal porto e s’irradiano verso il centro della città; il Lungomare dei Bastioni sfocia verso il Castello, “severa e maestosa sede del Governo”, oltre il quale ha inizio il meraviglioso lungomare Conte Volpi, modernissima arteria che trasporta di colpo la memoria alle migliori riviere liguri e napoletane e sulla quale si affacciano il Teatro Municipale Miramare, la sede della Banca d’Italia, quella dell’Ufficio Studi e Propaganda del Governatorato e il Grand Hotel, superba costruzione in stile moresco. Proseguendo, il lungomare sfocia in un largo dove sorgono gli edifici delle società di navigazione e delle agenzie di viaggi, per poi riprendere la sua ampiezza naturale fino a Piazza IV Novembre. Nel mezzo, lo stupendo albergo Excelsior. La più movimentata arteria cittadina è la bellissima via Vittorio Emanuele, che taglia la città dal castello al nuovo palazzo del Governatore, ricca di negozi, ristoranti, locali alla moda come “Le Venete” e il “Caffè Mazzocca”. Con la tipica enfasi del regime, nella rivista consegnatami da papà è scritto che, dal porto, un’altra strada conduce a piazza Maggiore Brighenti, ove sorge il fabbricato dei Monopoli, e al Tempio votivo ai Caduti “posto con felicissima scelta sopra un’altura al cospetto del mare dal quale giunsero gli Eroi che nel Sacello dormono il glorioso sonno”. Papà mi mostra le foto della città, sulla rivista, fornendo per ciascuna di esse descrizioni e aneddoti; lo stesso fa con Bengàsi, dove tra l’altro ha trascorso più tempo rispetto a Tripoli: la stazione centrale con le tipiche arcate, il circolo coloniale, il largo della Regina col Palazzo Prosdocimo, il Grand Hotel Italia, gli edifici pubblici, la via dei Calzolai, la via dei Tintori, la via degli Avorai. Le differenze sostanziali fra Tripolitania e Cirenaica sono ben descritte. Nella costituzione etnica della popolazione tripolitana, l’elemento berbero, ancorché numericamente minore rispetto agli arabi, ha l’assoluta prevalenza in quanto rafforzato da una consistente presenza dei Cologhli, ossia i discendenti dei giannizzeri ottomani e delle donne indigene, la cui origine risale al tempo degli stati barbareschi formatisi durante il XVI secolo in tutta l’Africa del Nord, beneficiari di particolari privilegi durante la dominazione ottomana. Elementi importanti della massa arabo-berbera sono gli sceriffi (discendenti del Profeta o presunti tali) e i Marabutti, discendenti di qualche santone. La minoranza israelita deriva da quella già stabilitasi in Africa al tempo delle persecuzioni di Antioco, ai quali si aggiungono quelli giunti dalla Spagna in conseguenza delle


persecuzioni subite tra il XVI e il XVII secolo, che colpirono anche i “Mori”. La lingua parlata in Tripolitania è un arabo corrotto, detto arabo-tripolino, mentre è abbastanza diffuso il berbero. Gli israeliti si esprimono nella loro lingua. Dal punto di vista religioso è comune tra gli abitanti la “Credenza Islamica” (sic); gli arabi propriamente detti seguono il rito malechita, i pochi turchi quello hanafita, i berberi l’abadita. La confraternita senussita ha molti aderenti. Circa ventimila i cattolici battezzati. In Cirenaica, invece, la popolazione si divide in cinque categorie “d’ineguale importanza” (sic): “negri” (sic), ebrei, berberi, arabo-berberi, arabi. I ne(g)ri sono i discendenti degli antichi schiavi portati sul mercato di Bengàsi dalle carovane negriere che razziavano i villaggi del centro dell’Africa fino a pochi lustri or sono. Costituiscono un ventesimo dell’intera popolazione e sono quasi tutti concentrati a Bengàsi. Gli ebrei, che alla pari di quanto avvenne in Tripolitania si stabilirono in Cirenaica sin dal tempo di Antioco Epifano, crebbero sensibilmente di numero durante l’impero di Augusto e riuscirono a dominare il territorio per molto tempo, costringendo i romani a dure repressioni per la riconquista. E’ scritto testualmente: “La razza ebraica presenta notevoli campioni di purezza avendo come ovunque evitato con gran cura gli incroci specialmente in linea maschile. Le donne sono generalmente piacenti e fra gli uomini stessi si nota un che di dignitoso nel portamento che non è frequente rilevare in altre contrade dell’Africa”. L’elemento berbero, totalmente assorbito dagli arabi, a differenza di quello tripolino, ha perduto con la lingua anche ogni concetto della propria origine e per trovare “gli ultimi esemplari puri di questa razza” (sic) occorre recarsi nell’oasi di Augila (350 km a sud di Bengasi, in pieno deserto, ndr). Le tribù più numerose che appartengono alle due grandi categorie dei Saàdi e dei Marabtin sono le seguenti: el-Abeidàt, el-Dòrsa, el Mogàrba, el-Auaghìr, elBrahasa, el-Orfa, el-Abid. Come in Tripolitania, ogni tribù o gruppo etnico si divide in sotto-tribù o in “cabile” (raggruppamenti di popoli islamizzati; ndr) aventi ciascuno un nome proprio e costituenti un vero nucleo omogeneo. Questi gruppi si dividono in “Ailet”, riunioni di più famiglie che hanno origine da un ceppo comune, a loro volta suddivise in “Bet”, riunioni di individui legati da vincoli di stretta parentela. La lingua parlata in Cirenaica differisce dal dialetto arabo utilizzato in Tripolitania e nelle città quasi tutti parlano italiano. Dal punto di vista religioso la maggioranza della popolazione segue il rito musulmano malechita ed è abbastanza consistente anche la componente senussita. LA CONOSCENZA FONTE PRIMARIA DI SAPIENZA Perché ho scritto queste cose? Perché non vi è problema attuale, a qualsiasi latitudine, che non affondi le radici in tempi lontani o addirittura remoti. Solo la completa conoscenza di tutti gli intrecci e delle complesse realtà sociali dipanatesi nel corso dei secoli consente (o per meglio dire: consentirebbe) di avere un quadro sufficientemente chiaro per delle disamine veritiere e, soprattutto, consentirebbe, a chi ne abbia il compito, di stabilire le strategie più adeguate alla


risoluzione di immani problemi. La storia dell’umanità, invece, in particolare negli ultimi due secoli, non è altro che un susseguirsi di eventi scaturiti dalla profonda “ignoranza” di coloro che li hanno determinati e ciò che traspare quotidianamente, relativamente ai flussi migratori dall’Africa e dal Medio-Oriente, conferma ampiamente questa tesi, solo recentemente scalfita grazie alle iniziative dell’attuale Governo. Al di là delle cose scritte e delle tante non scritte solo perché non è possibile per ragioni di spazio, il mio Papà, che era un attento osservatore, me ne ha spiegate tante altre che mantengo riservate per tre semplici ragioni: non voglio che siano strumentalizzate; non voglio che siano messe in discussione; soprattutto non voglio che si possa dubitare che mi siano state effettivamente riferite. Sono le deduzioni di un uomo straordinario, che sapeva cogliere le sfumature dei dettagli e sapeva capire la natura umana come pochi. E’ grazie a lui se ho imparato a non fidarmi delle apparenze. Ed è grazie a lui se, sull’Africa, ho idee così chiare da poter giungere a conclusioni difficilmente condivisibili in modo razionale. Sono ben riferibili, invece, le tante cose che mi ha fatto scoprire con dati di fatto tangibili, anche se è complesso riportarle nella loro interezza. Nel mastodontico testo “Gli annali dell’Africa Italiana”, per esempio, (595 pagine ricche di documenti e foto, edito nel 1940) vi è un articolo di Riccardo Astuto intitolato: “Soluzione del problema dell’Africa”. La sua lettura è illuminante e forse sarebbe il caso di pubblicare il testo, integralmente, in un prossimo numero di “CONFINI”. In un articolo di settantotto anni fa vi sono risposte a problemi attuali, perché ne vengono scandagliate le cause recondite. Senza alcun merito e solo perché il caso ha voluto farmi nascere da due persone meravigliose che si chiamano Lorenzo Lavorgna e Giuseppina Federico, ho avuto modo di perfezionare un percorso di conoscenza che mi ha spalancato le porte su scenari nebulosi, ovviamente non solo afferenti all’argomento di cui parlo in questo articolo, dandomi la possibilità di navigare in essi senza perdermi. Alla luce di questa conoscenza ho maturato il convincimento che tutto ciò che oggi si stia facendo per fronteggiare l’esodo dalle zone martoriate dell’Africa sia sbagliato. E’ sbagliato, però, anche pensare di poter risolvere il problema “aiutandoli a casa loro”, perché ciò è impossibile. E’ sbagliato, soprattutto, ciò che si pensi della Libia e ciò che si faccia con i suoi governanti, o peggio, con altri soggetti. L’unica alternativa, pertanto, è quella che mi suggerì il mio papà, tanti anni fa, quando dopo una bella lezione di storia discutemmo anche di Gheddafi che aveva cacciato via gli italiani. In quella circostanza previde, con straordinaria lucidità analitica, tutto quello che sarebbe successo dopo, mentre le lacrime gli roteavano negli occhi, pensando alla “sua bella Libia”, finita nelle mani di un tiranno. Non chiedetemi cosa disse. Non è ancora giunto il momento per certe verità e una verità che giunga prima che il tempo sia pronto ad accoglierla si trasforma solo in un ballon d’essai, destinato nel tempo a perdersi, come le famose lacrime nella pioggia.



IL PIAVE MORVORAVA PARTE OTTAVA: I NODI AL PETTINE E LE AMARE VERITA’ INCIPIT “La propaganda disfattista è fatta dagli stessi combattenti” era solito ripetere il generale Di Robilant, comandante del IV Corpo d’armata, famoso per il suo spirito arguto. “Perché?” – gli fu chiesto un giorno. “Perché dicono la verità: dire la verità è fare del disfattismo”.

UN ANNO TERRIBILE Il 1917 inizia con le ennesime spigolature tra le forze alleate, emerse nella “Quinta Conferenza Interalleata” che ebbe luogo a Roma dal 5 al 7 gennaio. Ufficialmente fu diffuso un comunicato finale che sanciva il perfetto accordo sulle strategie da seguire; in realtà i dissensi erano profondi e riguardavano sia l’ambito militare sia quello politico e diplomatico. Cadorna propose di sferrare un’offensiva congiunta in primavera, da tutti bocciata, eccezion fatta per il Primo Ministro inglese Lloyd George. Cinque conferenze interalleate non erano servite a saldare i rapporti in modo armonioso e a stabilire una linea condivisa. La responsabilità maggiore dei marcati dissensi va attribuita proprio ai governanti italiani, che privilegiavano gli interessi nazionalistici rispetto alle esigenze di una guerra di coalizione. Si ritorna in guerra con le idee confuse e in un clima d’incertezza, particolarmente sentito dai soldati, che non mancavano di lasciare trasparire il “disgusto” sia per come erano trattati al fronte sia per le notizie che giungevano dal resto del Paese, pregne di critiche da parte di coloro che la guerra la leggevano sui giornali e la discutevano nei salotti. Le ingenti perdite richiedevano continui rimpiazzi e pertanto anche i quarantenni furono richiamati, ancorché impegnati solo nelle retrovie, senza peraltro che ciò alleviasse il dolore e le preoccupazioni delle famiglie, in massima parte private del principale sostegno. Sul fronte avverso si registrava l’intensificazione della guerra sottomarina da parte della Germania, che già nel 1915 aveva turbato il mondo con l’affondamento del “Lusitania”. Il 15 febbraio ne fece le spese anche il piroscafo italiano “Minas”, che trasportava un migliaio di soldati italiani e francesi a Salonicco: 870 le vittime. In Russia, intanto, un popolo stremato da una guerra che non comprendeva, scrisse una controversa pagina di storia con una rivoluzione antitetica rispetto a quella auspicata da Carlo Marx, per il quale le premesse avrebbero dovuto essere il capitalismo industriale giunto al suo massimo sviluppo e un forte proletariato urbano. La grande massa di contadini ridotta alla fame, invece, in una fase di limitato sviluppo industriale, chiuse la partita con una dinastia fallace sotto tutti i punti di vista, illudendosi di soppiantarla con un governo capace di alleviare le pene. Illusione che s’infranse quasi subito: già alla fine di marzo fu sancito il monopolio del grano e la vendita a prezzi controllati effettuabile solo dai rappresentati governativi (con quali nefaste conseguenze per i ceti poveri è facilmente immaginabile) e subito dopo, cedendo alle pressioni degli alleati, il governo accettò di continuare la guerra.


Ad aprile, finalmente, entrarono in gioco anche gli USA. Sui libri di storia è scritto, con reboante enfasi non scevra di reboante retorica, che Wilson riuscì a ottenere il voto favorevole toccando il cuore dei connazionali con il richiamo alle navi mercantili affondate dai sottomarini, a cominciare dal Lusitania (colpito però nel maggio del 1915 e in circostanze, come emergerà molto tempo dopo, che ribaltano completamente la tesi di un attacco contro inermi civili, considerato che la nave trasportava “anche” un consistente carico di armi destinato agli inglesi), per finire col “Vigilantia”, colato a picco solo poche settimane prima (19 marzo). La verità, come sempre, ha un sapore più amaro e, al di là del toccante discorso pronunciato da Wilson quando chiese il voto al Congresso (1), l’insensibilità politica durata ben tre anni fu scossa precipuamente da due fattori: la paura di perdere la riscossione dei crediti maturati grazie alle massicce forniture ai paesi belligeranti amici, in caso di sconfitta; la paura di vedere saldata un’alleanza tra Germania e Messico, che avrebbe consentito al paese sudamericano di riconquistare Nuovo Mexico, Texas e Arizona. L’entrata in guerra degli USA rinvigorì gli alleati e determinò un importante “fenomeno sociale interno” che condizionerà la vita degli americani nei decenni successivi. Prima del 1917 negli Stati Uniti era tutt’altro che ininfluente il partito socialista, che alle elezioni del 1912 ottenne quasi 1milione di voti, pari al 6% del totale. La decisione di schierarsi contro la guerra fu fatale: giornali sequestrati, dirigenti arrestati e l’associazione del termine “socialista” a tutto ciò che potesse configurarsi come “tradimento” e “non americano”. Il partito socialista cessò di esistere e senza un partito socialista vero non si crearono le condizioni per lo sviluppo di una vera destra, sociale e democratica, capace di contrapporsi all’illusione marxista. Da qui la nascita di quella distorsione tutta americana che vede alternarsi al potere due partiti farlocchi, che costituiscono una ridicola parodia dei concetti di “destra” e “sinistra” “ e si assomigliano non poco nel privilegiare quanto di peggio vi possa essere nella gestione del potere, riuscendo a reprimere con sfrontato cinismo (e ferocia) anche quel poco di buono che, occasionalmente e casualmente, dovesse riuscire ad affermarsi, come nei casi di Kennedy e Obama. DECIMA BATTAGLIA DELL’ISONZO Il sostegno americano alimentò di nuovo la speranza che la guerra potesse terminare presto e con esito favorevole. Dal 9 aprile al 16 maggio un contingente composto da inglesi, canadesi, australiani, neozelandesi e soldati del dominio britannico di Terranova attaccò i tedeschi presso Arras, nel nord della Francia, riuscendo a conquistare importanti punti strategici, anche se a costo di numerose perdite: 160.000, più o meno le stesse subite dai tedeschi. Sul fronte italiano, intanto, continuava lo stillicidio dei nostri soldati grazie alla dissennata condotta bellica di Cadorna che, nonostante il mancato appoggio degli alleati, decise comunque di sferrare un nuovo attacco nella zona di Gorizia. La battaglia, combattuta tra il 12 e il 26 maggio, ebbe un esito non dissimile da quelle precedenti: un inconsistente vantaggio territoriale che costò 36.000 morti e


124.000 feriti e dispersi a fronte dei 17.000 morti e 104.000 feriti e dispersi registrati sul fronte avverso. Dopo pochi giorni di relativa calma e di riposo, gli austro-ungarici, il 3 giugno, lanciarono una controffensiva inaspettata colse di sorpresa le truppe italiane, stanche, demoralizzate e mal gestite. Cadorna era addirittura assente e i suoi sottoposti non riuscirono a comprendere subito la portata dell’attacco. In tre giorni, quella che è ricordata come la “disfatta di Flondar”, perirono 1.400 soldati mentre circa 21.000 ingrossarono le fila dei feriti e dei prigionieri. Cadorna, che proprio non ne voleva sapere di comprendere lo stato di difficoltà oggettiva delle truppe, ordì una vigliacca repressione e propose al Governo di sciogliere tre reggimenti, composti di soldati siciliani, che a suo dire si erano resi responsabili della pesante sconfitta per disobbedienza e indisciplina. Si replicò all’Ortigara, dal 10 al 29 giugno: altra inutile battaglia con un ingente numero di perdite (4.500 tra morti e dispersi; 12.000 i feriti, ma il balletto delle cifre su questa battaglia perdura ancora oggi e vi sono storici che parlano addirittura di 25.000 perdite) e l’ennesima sfuriata isterica di Cadorna, che se la prese prima con “le avverse condizioni metereologiche” (come se fossero valse solo per lui) per poi ripetere la solita cantilena del “diminuito spirito combattivo di una parte delle truppe per effetto della propaganda sovversiva che aveva prodotto le sue tristi conseguenze sul Carso nei primi giorni di quello stesso mese”. I soldati italiani, in realtà, combatterono con ardore, cozzando contro le formidabili difese austro-ungariche e riscuotendo l'ammirazione degli avversari, a riprova che Cadorna era pregno di pregiudizi e assolutamente non in grado di produrre analisi serie e concrete, dalle quali trarre insegnamento. I SOLDATI SONO STANCHI Nei capitoli precedenti si è fatto riferimento alla dura repressione inferta ai disertori e a coloro che si rifiutavano di attaccare il nemico, consapevoli di andare incontro a morte sicura. Sul fronte italiano in molti casi si trattava di scegliere tra il morire in combattimento subito dopo aver messo il naso fuori dalla trincea o essere fucilati per codardia. Non vi è guerra, in effetti, che non registri atti di diserzione e di codardia, che però si configurano “pienamente” come tali e incarnano le debolezze di taluni soggetti. Nel caso della Prima Guerra Mondiale, però, l’analisi è più complessa perché investe un numero massiccio di soldati, su tutti i fronti, e in massima parte non si può parlare né di codardia né di diserzione, ma del rifiuto convinto a obbedire agli ordini che si ritenevano impartiti da ufficiali ritenuti non all’altezza del ruolo. Questo comportamento, spesso culminato con una condanna a morte, presuppone una presa di coscienza razionale da parte dei soldati, non scevra di coraggio. In Italia i soldati percepivano pienamente due “scollamenti”: quello con il Paese e quello con gli ufficiali, attenti alla carriera, a pararsi il sedere e, salvo casi eccezionali, che proprio perché tali non fanno testo, cinicamente disponibili a passare sui loro cadaveri rispettando in pieno il principio del “mors tua vita mea”. A tal proposito val la pena di citare quanto argutamente osserva Curzio Malaparte (2): “La nazione non aveva ancora capito che la guerra che si stava combattendo era


un’agonia terribile, senza uno sventolio di entusiasmo, senza un momento di bellezza eroica: era rimasta affondata nella vecchia concezione della “bella morte” e dell’atto eroico. Quando i fanti scesero dalle trincee per la prima licenza invernale, nessuno quasi si accorse di quegli uomini seri, sudici, logori, che passavano in silenzio senza sventolare bandiere e cantare inni di guerra. Lo spettacolo di quelle interminabili tradotte piene di popolo sbrindellato e grave, faceva pena e noia. Quei soldati avevano l’aria di uscire da una prigione. Non dovevano avere molto coraggio, pensavano i pacifici borghesi, se la guerra li aveva ridotti in quel pietoso stato di abbattimento. La guerra, invece, nell’immaginazione di quelli che erano rimasti lontani dalle trincee, era sempre la bella lotta in campo aperto, nel sole, con le bandiere spiegate e i colonnelli a cavallo alla testa dei reggimenti bene allineati e ben vestiti, con zaino e scarpe nuove. E sole e sole e sole. E la gioia di morire per l’Italia bella, giardino del mondo, madre di civiltà, imitando le gesta degli antichi romani e dei nostri eroi del risorgimento! E i morti col sorriso sulle labbra, pietosamente raccolti sul campo dalle dame della Croce Rossa, sorelle buone tergenti il sudore dalle fronti eroiche: “ muoio contento per la patria mia!” E fiori! Fiori agli eroi!” […] Il fante ritornava in linea disgustato della nazione. Vi ritornava profondamente mutato: qualcosa germinava nel fondo della sua coscienza. Perché battersi? Perché soffrire? Perché morire? Per chi, dunque? Per la nazione. Per il suo bene, per la sua grandezza, per la sua gloria. Ma che faceva la nazione per rendersi degna di lui, per dimostrargli la sua gratitudine, per fargli sentire il battito del grande cuore accanto al suo povero scheletro condannato a sacrificarsi? Niente. Anzi: faceva di tutto per fargli capire che il suo sacrificio, in fondo, aveva qualche cosa di grottesco. [Continua con il tributo ai francesi e ai tedeschi, che lo scrittore vedeva partecipi delle sofferenze dei propri soldati. Ndr]. Ma il fante dell’Italia, l’umilissimo e cristianissimo fante analfabeta, sentiva salire fino a lui, dal paese, il tanfo di marcio e di vigliaccheria, l’insulto di una nazione che si ostinava a non capire, a non soffrire, a non benedire il suo spasimo. Sacrificarsi è necessario, quando la patria lo vuole e lo ordina. Ma sacrificarsi per la patria, quando questa continua a vivere la sua grassa vita, insultando, per idiozia o per vigliaccheria, chi muore e chi dolora per lei, è ridicolo e stupido”. Al di là del tributo al popolo francese, senz’altro poggiato su basi veritiere, la stanchezza per la dura guerra e il suo rifiuto s’incunearono prepotentemente anche nelle truppe d’oltralpe, ingigantendosi smisuratamente rispetto ai pur numerosi episodi registrati negli anni precedenti. Il primo giugno un reggimento di fanteria s’impadronì della città di Missy-aux- Bois e nominò un governo pacifista. Ben 27.000 soldati si diedero alla macchia nel corso del 1917, spaventati dalle ingenti perdite registrate dall’inizio della guerra, quasi un milione di morti, e incoraggiati dalle notizie provenienti dalla Russia, diffuse dai giornali socialisti. La repressione fu massiccia e furono istituite 3.400 corti marziali, anche se molte condanne a morte furono commutate in pene detentive. La rivolta rientrò quasi totalmente con la sostituzione dell’inetto generale Robert Nivelle, che aveva sfiancato le truppe nell'inutile “Offensiva Nivelle” (3). Philippe Petain, che prese il suo posto, dimostrò subito maggiore attenzione alle esigenze dei soldati,


concedendo un numero maggiore di licenze, rispetto al passato, aumentandone anche i giorni di fruizione; fu anche disposta l’immediata sospensione delle “grandi offensive” fino all’arrivo degli americani e dei più moderni carri armati, prodotti dalla Renault. Anche in Russia il vento della stanchezza, alimentato dalla tempesta rivoluzionaria, incominciò a farsi sentire in modo massiccio. Kerenskij, ai primi di luglio, era ancora ministro della guerra, anche se di fatto rappresentava la voce più autorevole e carismatica del governo provvisorio, presieduto dall’opaco e inconsistente principe Georgij Evgen'evič L'vov. Non ebbe difficoltà alcuna, quindi, nel convincere il Gabinetto ad approvare l’offensiva contro i tedeschi, che secondo lui si sarebbe rivelata salutare per il futuro del paese, nonostante il forte anelito di pace che giungeva dal fronte e dalla maggioranza della popolazione. Il primo luglio, ben quattro armate attaccarono i tedeschi nell’antica regione della Galizia, obbligandole a ritirarsi verso Leopoli. L’avanzata, però, fu arrestata il 18 luglio e i tedeschi ben presto riconquistarono tutto il terreno perduto, obbligando a loro volta i russi a una disastrosa ritirata, che costò oltre 60.000 morti. Il morale delle truppe crollò e si moltiplicarono gli episodi di diserzione. In Italia non si sopportavano più gli stenti e le privazioni: il 16 luglio, nei pressi di Udine, scoppiò una rivolta nell’accampamento della Brigata Catanzaro, culminata con la morte di due ufficiali e nove soldati. Il comandante della brigata, senza nemmeno istruire un processo o accertare le cause della rivolta, dispose la fucilazione immediata di ventotto soldati, più quella di altri dieci che gettarono le munizioni durante il trasferimento in prima linea. Le circolari del Comando supremo prescrivevano di “passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi” e di ricorrere alla “decimazione” (4) nel caso in cui non fosse stato possibile individuare i responsabili. Il Duca D’Aosta, comandante della III armata, pur essendo consapevole che i soldati erano stressati per il prolungato (e infruttuoso) impegno sul Carso e per la disparità di trattamento rispetto ad altre brigate, approvò i severissimi provvedimenti, ivi compresa la decimazione, che costituisce un’aberrazione giuridica in quanto viola il principio della responsabilità personale, oltre a configurarsi come aberrazione etica, essendo evidente l’assoluta incapacità di comprendere la natura umana e risolvere in modo fruttuoso e intelligente le gravi crisi esistenziali che, inevitabilmente, possono insorgere in contesti drammatici come quelli bellici. Durante tutto l’arco della guerra furono circa 1.100 i soldati che persero la vita a seguito di fucilazione o decimazione; a loro, però, vanno aggiunte le tantissime vittime delle “esecuzioni sommarie”, effettuate in trincea per i capricci e le psicopatologie degli ufficiali, il cui computo non è semplice, anche perché artatamente occultato dalle alte sfere militari e politiche. LA VIGILIA DEL TRAGICO AUTUNNO Il 29 luglio è una data storica per l’esercito italiano: nascono gli “Arditi”, corpo speciale d’assalto addestrato per la totale conquista delle linee nemiche, in piena autonomia. Come tutti i reparti speciali era riservato ai soldati capaci di superare


severi test psico-attitudinali e di reggere un addestramento estremo, al limite delle umane capacità di sopportazione. Li vedremo in azione sia a Caporetto sia nella battaglia di Vittorio Veneto. Il primo agosto si leva alta la voce del Sommo Pontefice (5) contro l’inutile strage. I paesi belligeranti sono invitati a cessare la lotta tremenda e a sottoscrivere un piano di pace composto di sette punti: evacuazione delle zone occupate, disarmo reciproco, libertà di navigazione, rinuncia reciproca agli indennizzi di guerra, esame delle questioni territoriali irrisolte, negoziati che tengano conto “per quanto possibile, delle aspirazioni dei popoli”, istituzione dell’arbitraggio internazionale. Parole al vento di una calda e drammatica estate, che si appresta a lasciare le consegne belliche a un autunno ancora più tragico.

NOTE 1) Il 3 febbraio scorso vi presentai ufficialmente lo straordinario annuncio del governo imperiale tedesco che, a partire dal 1° febbraio avrebbe utilizzato i sottomarini per affondare ogni nave che cercava di avvicinarsi ai porti della Gran Bretagna, dell'Irlanda o alle coste occidentali dell'Europa o a uno qualsiasi dei porti controllati dai nemici della Germania nel Mediterraneo. […] Dall'aprile dello scorso anno il governo imperiale aveva in qualche modo limitato l’attività dei sottomarini, conformemente alla promessa di non affondare le navi passeggeri […] La nuova politica ha spazzato via ogni restrizione. Navi di ogni tipo, qualunque sia la loro bandiera, il loro carattere, il loro carico, la loro destinazione, la loro commissione, sono stati spietatamente affondate senza preavviso e senza alcun aiuto per i superstiti. Persino le navi ospedaliere […] sono state affondate con la stessa mancanza di compassione. Non riuscivo a credere che cose del genere sarebbero state fatte da un governo iscritto alle pratiche umane delle nazioni civili. […] Non sto pensando ora alla perdita di beni materiali, ma solo alla sfrenata e totale distruzione della vita di non combattenti: uomini, donne e bambini, impegnati in attività che da sempre, anche nei periodi più oscuri della storia moderna, sono stati ritenuti innocenti e legittimati nelle loro azioni. L'attuale guerra sottomarina tedesca contro il commercio è una guerra contro l'umanità. È una guerra contro tutte le nazioni. Le navi americane sono state affondate, le vite americane sono state prese […]le navi di altre nazioni neutrali sono state affondate nello stesso modo. Non c'è stata alcuna discriminazione. La sfida è per tutta l'umanità. Ogni nazione deve decidere da sola come fronteggiarla. La scelta deve essere fatta con una moderazione e una temperanza di giudizio che si addicano al nostro carattere e ai nostri motivi di nazione. Dobbiamo accantonare i sentimenti di eccitazione. La nostra ragione non sarà la vendetta o l'affermazione vittoriosa della forza fisica della nazione, ma solo la rivendicazione del diritto, del diritto umano, di cui siamo solo un leale


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difensore. Quando mi sono rivolto al Congresso il 26 febbraio scorso, ho pensato che sarebbe stato sufficiente affermare i nostri diritti di neutralità con le armi, il nostro diritto di usare i mari contro le interferenze illecite, il nostro diritto a proteggere il nostro popolo dalla violenza illegale. Ma la neutralità armata, ora, è impraticabile. Poiché i sottomarini sono in effetti fuorilegge quando vengono usati contro la navigazione mercantile, è impossibile difendere le navi contro i loro attacchi […]Il governo tedesco nega il diritto dei neutrali di usare le armi, in tutte le aree del mare da esso indicato, per difendere quei diritti che nessuno ha mai messo in discussione. Sostengono che le navi mercantili protette da personale armato saranno trattate come se fossero navi dei pirati. La neutralità armata è nel migliore dei casi inefficace; in tali circostanze e di fronte a tali pretese è peggio che inefficiente: è probabile che produca solo ciò che doveva impedire; è praticamente certo che ci trascinino in guerra senza i diritti o l'efficacia dei belligeranti. C'è una scelta che non possiamo fare, che siamo incapaci di fare: non sceglieremo la via della sottomissione. […] Consiglio al Congresso di accettare formalmente la condizione di belligeranti impostaci e di prendere misure immediate per costringere la Germania ad accettare le nostre condizioni e porre fine alla Guerra. Ciò che questo implicherà è chiaro. Comporterà la massima cooperazione possibile nel consiglio e nell'azione con i governi ora in guerra con la Germania e, come conseguenza, l'estensione a quei governi dei crediti finanziari affinché le nostre risorse possano essere aggiunte alle loro. Implicherà l'organizzazione e la mobilitazione di tutte le risorse materiali del paese per fornire i materiali di guerra e servire i bisogni della nazione in modo “abbondante” (sic) e allo stesso tempo nel modo più economico ed efficiente possibile. “Viva Caporetto – La rivolta dei Santi maledetti”, Prato, Stabilimento LitoTipografico Martini, 1921 (Pubblicato con il suo vero nome: Curzio Erich Suchert) Causa primaria delle massicce diserzioni, l’offensiva Nivelle (16 aprile - 9 maggio) si prefiggeva di costringere la Germania alla resa entro quarantotto ore. Furono impegnati 1.200.000 soldati e 7.000 pezzi di artiglieria su un fronte che andava da Roye a Reims. Venne meno anche l’effetto sorpresa perché Nivelle non seppe resistere alla tentazione di parlare del piano con tutti, giornalisti compresi. La disfatta fu totale e la morte di circa 350.000 soldati gli valse l’appellativo di “macellaio”. Estrema pratica di disciplina militare mutuata dall’antica Roma: si sceglieva un soldato a caso ogni dieci e lo si giustiziava in assenza di colpevoli certi. “Fino dagli inizi del Nostro Pontificato, fra gli orrori della terribile bufera che si era abbattuta sull’Europa, tre cose sopra le altre Noi ci proponemmo: una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale si conviene a chi è Padre comune e tutti ama con pari affetto i suoi figli; uno sforzo continuo di


fare a tutti il maggior bene che da Noi si potesse, e ciò senza accettazione di persone, senza distinzione di nazionalità o di religione, come Ci detta e la legge universale della carità e il supremo ufficio spirituale a Noi affidato da Cristo; infine la cura assidua, richiesta del pari dalla Nostra missione pacificatrice, di nulla omettere, per quanto era in poter Nostro, che giovasse ad affrettare la fine di questa calamità, inducendo i popoli e i loro Capi a più miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una «pace giusta e duratura». Chi ha seguito l'opera Nostra per tutto il doloroso triennio che ora si chiude, ha potuto riconoscere che come Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta imparzialità e di beneficenza, così non cessammo dall'esortare e popoli e Governi belligeranti a tornare fratelli, quantunque non sempre sia stato reso pubblico ciò che Noi facemmo a questo nobilissimo intento. Sul tramontare del primo anno di guerra Noi, rivolgendo ad Essi le più vive esortazioni, indicammo anche la via da seguire per giungere ad una pace stabile e dignitosa per tutti. Purtroppo, l'appello Nostro non fu ascoltato: la guerra proseguì accanita per altri due anni con tutti i suoi orrori: si inasprì e si estese anzi per terra, per mare, e perfino nell'aria; donde sulle città inermi, sui quieti villaggi, sui loro abitatori innocenti scesero la desolazione e la morte. Ed ora nessuno può immaginare quanto si moltiplicherebbero e quanto si aggraverebbero i comuni mali, se altri mesi ancora, o peggio se altri anni si aggiungessero al triennio sanguinoso. Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l'Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all'abisso, incontro ad un vero e proprio suicidio? In sì angoscioso stato di cose, dinanzi a così grave minaccia, Noi, non per mire politiche particolari, né per suggerimento od interesse di alcuna delle parti belligeranti, ma mossi unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre comune dei fedeli, dal sospiro dei figli che invocano l'opera Nostra e la Nostra parola pacificatrice, dalla voce stessa dell'umanità e della ragione, alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. Ma per non contenerci sulle generali, come le circostanze ci suggerirono in passato, vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche ed invitare i Governi dei popoli belligeranti ad accordarsi sopra i seguenti punti, che sembrano dover essere i capisaldi di una pace giusta e duratura, lasciando ai medesimi Governanti di precisarli e completarli. E primieramente, il punto fondamentale deve essere che sottentri alla forza materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la decisione. Stabilito così l'impero


del diritto, si tolga ogni ostacolo alle vie di comunicazione dei popoli con la vera libertà e comunanza dei mari: il che, mentre eliminerebbe molteplici cause di conflitto, aprirebbe a tutti nuove fonti di prosperità e di progresso. Quanto ai danni e spese di guerra, non scorgiamo altro scampo che nella norma generale di una intera e reciproca condonazione, giustificata del resto dai beneficai immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la continuazione di tanta carneficina unicamente per ragioni di ordine economico. Che se in qualche caso vi si oppongano ragioni particolari, queste si ponderino con giustizia ed equità. Ma questi accordi pacifici, con gli immensi vantaggi che ne derivano, non sono possibili senza la reciproca restituzione dei territori attualmente occupati. Quindi da parte della Germania evacuazione totale sia del Belgio, con la garanzia della sua piena indipendenza politica, militare ed economica di fronte a qualsiasi Potenza, sia del territorio francese: dalla parte avversaria pari restituzione delle colonie tedesche. Per ciò che riguarda le questioni territoriali, come quelle ad esempio che si agitano fra l'Italia e l'Austria, fra la Germania e la Francia, giova sperare che, di fronte ai vantaggi immensi di una pace duratura con disarmo, le Parti contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante, tenendo conto, nella misura del giusto e del possibile, come abbiamo detto altre volte, delle aspirazioni dei popoli, e coordinando, ove occorra, i propri interessi a quelli comuni del grande consorzio umano. Lo stesso spirito di equità e di giustizia dovrà dirigere l'esame di tutte le altre questioni territoriali e politiche, nominatamente quelle relative all'assetto dell'Armenia, degli Stati Balcanici e dei paesi formanti parte dell'antico Regno di Polonia, al quale in particolare le sue nobili tradizioni storiche e le sofferenze sopportate, specialmente durante l'attuale guerra, debbono giustamente conciliare le simpatie delle nazioni. Sono queste le precipue basi sulle quali crediamo debba posare il futuro assetto dei popoli. Esse sono tali da rendere impossibile il ripetersi di simili conflitti e preparano la soluzione della questione economica, così importante per l'avvenire e pel benessere materiale di tutti gli stati belligeranti. Nel presentarle pertanto a Voi, che reggete in questa tragica ora le sorti dei popoli belligeranti, siamo animati dalla cara e soave speranza di vederle accettate e di giungere così quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno più, apparisce inutile strage. Tutti riconoscono, d'altra parte, che è salvo, nell'uno e nell'altro campo, l'onore delle armi; ascoltate dunque là Nostra preghiera, accogliete l'invito paterno che vi rivolgiamo in nome del Redentore divino, Principe della pace. Riflettete alla vostra gravissima responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre risoluzioni dipendono la quiete e la gioia di innumerevoli famiglie, la vita di migliaia di giovani, la felicità stessa dei popoli, che Voi avete l'assoluto dovere di procurare. Vi inspiri il Signore decisioni conformi alla Sua santissima volontà, e faccia che Voi, meritandovi il plauso dell'età presente, vi assicuriate altresì presso le venture generazioni il nome di pacificatori. Noi


intanto, fervidamente unendoci nella preghiera e nella penitenza con tutte le anime fedeli che sospirano la pace, vi imploriamo dal Divino Spirito lume e consiglio. Dal Vaticano, 1° Agosto 1917. BENEDICTUS PP. XV



I SENTIERI DEL CINABRO Ho riflettuto non poco sul taglio da conferire al tema del mese. La mente suggerisce cose che mi rifiuto di accettare; dare ascolto esclusivamente al cuore, per un’analisi così delicata, costituirebbe un’ingenuità perdonabile a un liceale, non certo a un vecchio cavaliere errante. Parlare dei personaggi, poi - sia di quelli cui si guarda con simpatia sia di coloro che si lesserebbero a fuoco lento - in un contesto come questo, dopo aver camminato al fianco di qualcuno che si chiama Ernst Jünger, per tacer degli altri, davvero non ha senso. Non se ne esce, pertanto, seguendo un percorso razionale, perché siamo ben lontani dalla resa dei conti, non è detto che si realizzi, almeno in tempi brevi e, quandanche così non fosse, non è detto che si realizzi secondo i propositi sani di chi vorrebbe chiudere un ciclo negativo e aprirne uno positivo. E’ tutto in fermento. E’ tutto in itinere, in un modo così confuso, approssimativo, labile, friabile, da lasciare aperta ogni prospettiva. Per segnare in modo tangibile “questo tempo”, pertanto, non resta che uscire dai soliti sentieri, nei quali si combatte l’eterna lotta tra bene e male, e incunearsi in quelli percorsi da coloro che non hanno bisogno di “combattere”, incarnando l’essenza stessa del bene e del male, come non mai facce contrapposte e conniventi di un’unica medaglia. I sentieri del cinabro sono percorsi dagli immortali, che vengono da lontano e sono destinati ad andare ancora più lontano, sorretti da un elemento prezioso, una sorta di pietra filosofale dalla quale non si separano mai e che spiana loro la via, quando ciò si renda necessario. Non vi sono misteri per chi percorre quei sentieri, essendo adusi a cavalcare il tempo in ogni dimensione: all’indietro, per vedere ciò che è successo; in avanti, per vedere cosa accadrà. O accadrebbe, perché nel divenire nulla è definito e ciò che si vede in un viaggio può variare, anche di molto, in quello successivo. Resta immutabile, ovviamente, “ciò che è stato e che non può cambiare”: elementi più che sufficienti, per chi percorra quei sentieri, a trarre delle conclusioni su qualsivoglia fenomenologia sociale ed esprimere un “verdetto”. Perché ridursi a questo, tuttavia? A cosa servirebbe? A spegnere ogni speranza? A sancire certezze passibili di smentite? Tutte cose labili, e quindi inutili. Cosa è preferibile tra una negazione – sempre preconcetta – e una generosa illusione? Ciò che aiuta a vivere meglio: la generosa illusione. Culliamola, allora, questa generosa illusione, e da essa lasciamoci cullare. Tutto può accadere: anche vedere i sogni trasformarsi in realtà. Tutto dipende da noi e dalla nostra capacità di camminare su un filo sospeso a mezz’aria, sorridendo, senza cadere. Il percorso del funambolo è un altro elemento simbolico che si associa alla pietra filosofale capace di cicatrizzare la materia, di trasformarla, di plasmarla secondo la “visione”, quasi sempre onirica, di “visionari”, a loro volta capaci di cambiare il mondo. Il simbolo, quindi, diventa il rifugio ineluttabile, in un momento di grandi tensioni, per dominare gli eventi e, magari, stabilire cosa debba prevalere. Nell’eterna lotta tra bene e male, infatti – e qui ritorniamo su sentieri terreni – il male ha sempre trionfato negli


“scontri diretti”, come insegna la storia. Ha soccombuto, invece, quando è stato disorientato dal simbolo, quale che fosse la sua natura. Il male, quello “vero”, quello perpetrato con piena volontà di coscienza, può solo muoversi in una dimensione razionale e nulla può contro la forza del simbolo, come ben spiega Bachofen: “Il simbolo desta un presagio, mentre la lingua può solo spiegare. Il simbolo fa vibrare le corde dello spirito tutte insieme, mentre la mente è costretta a darsi a un singolo pensiero per volta. Il simbolo spinge le sue radici fino alle più segrete profondità dell’anima, mentre la lingua giunge a sfiorare, come un lieve alito di vento, la superficie dell’intelletto: quello è orientato verso l’interno, questa verso l’esterno. Solo al simbolo riesce di raccogliere nella sintesi di una impressione unitaria gli elementi più diversi. Le parole fanno finito l’infinito, i simboli conducono invece lo spirito di là delle frontiere del mondo finito e diveniente, verso il mondo infinito e reale”. Mondo infinito, quindi, ma anche “reale”. Se davvero vogliamo che qualcosa cambi; se davvero vogliamo giungere a un redde rationem soddisfacente, come quello che vide protagonisti simbolici gli Hobbit e gli Elfi di Tolkien, i Cavalieri di Re Artù, e protagonisti “reali” coloro che, senza alcun bisogno di nominarli, rappresentano per ciascuno di noi un elemento simbolico di grande valenza, avendo sacrificato la loro vita per il bene comune, scegliamo i nostri simboli e incarniamoci in loro: la forza che si acquisirà sarà straordinaria e l’insieme di queste forze sarà travolgente. Che la forza sia con noi.


IL PIAVE MORVORAVA PARTE NONA: L’INIZIO DELLA FINE INCIPIT “Fuggivano gli imboscati, i comandi, le clientele, fuggivano gli adoratori dell’eroismo altrui, i fabbricanti di belle parole, i decorati della zona temperata, i generali, i cantinieri, i giornalisti, fuggivano i napoleoni degli Stati Maggiori, gli organizzatori delle difese arretrate, i monopolizzatori del patriottismo degli angoli morti e delle retrovie, decisi a tutto fuorché al sacrificio, fuggivano gli ammiratori del fante, i dispensatori di oleografie di cartoline illustrate, gli snob della guerra, gli imbottitori di crani, gli avvocati e i letterati dei comandi, i preti del Quartier Generale e gli ufficiali d’ordinanza, figli di pochi ma onesti genitori, fuggivano i roditori della guerra, i fornitori di carne andata a male e di paglia putrefatta, i buoni borghesi quarantotteschi che non volevano dare asilo al fante perché portava in casa pidocchi e cenci da lavare e parlavano del Re come del primo soldato d’Italia, fuggivano tutti in una miserabile confusione, in un intrico di paura, di carri, di meschinerie, di fagotti, di egoismi e di suppellettili, tutti fuggivano imprecando ai vigliacchi e ai traditori che non volevano più combattere e farsi ammazzare per loro. Fuggivano le dame della Croce Rossa, le sorelle buone, le madri pietose, le eroine in soggolo che non sapevano fasciare una ferita, che avevano bisogno di un pappino per attendente, le dame inanellate marce di umanitarismo e di decadentismo patriottico che non volevano vuotare i putali e le sputacchiere, aiutare i feriti gravi a defecare, compiere i più umili e perciò i più sacri servizi, (c’erano le suore, per questo!), fuggivano sui camion e sulle automobili dei comandi e degli ospedali, imprecando ai vigliacchi che non sentivano amor di patria e non volevano più farsi ammazzare per il loro umanitarismo sportivo. Fuggivano con i cagnetti, con le borsette, con le valigette, piagnucolando sull’immane sciagura, sul disastro che apriva le porte all’invasione del barbaro nemico di nostra gente civilissima (che esse conoscevano soltanto dai manuali castrati di storia patria), piagnucolavano istericamente sull’altrui vigliaccheria che rovinava l’Italia e che, soprattutto, le costringeva a lasciare il loro comodo ed erotico (non eroico) angolo morto e a soffrire le pene e lo strapazzo di un viaggio in camion. (Curzio Malaparte, “Viva Caporetto, 1921) Il 24 ottobre 1917 è il giorno della grande umiliazione di un intero popolo, almeno così è scritto sui libri di storia: 400.000 soldati italiani fuggono davanti al nemico austro-tedesco. Un disastro come non si era mai visto. Resta da chiedersi, tuttavia, se vi sarebbe mai stato Vittorio-Veneto senza quell’immane disastro. UN ESERCITO ALLA DERIVA E UN PAESE STREMATO. Da trenta mesi l’Italia è in guerra, su un fronte lungo più di seicento chilometri, definito da Erich von Falkenhayn strategicamente “ideale per la difesa contro forze preponderanti”. L’esercito dei suonatori di mandolino – secondo l’espressione sprezzante dell’imperatore Francesco Giuseppe - dissanguatosi in


inutili offensive, ancorché protagonista di atti di puro eroismo, è sfiduciato e demoralizzato, condizione drammatica per chiunque debba impugnare un fucile. Il toccante appello del Papa (1) era rimasto lettera morta: Austria e Germania si rifiutavano di dare esplicite garanzie sul futuro del Belgio; Francia e Germania ritenevano (forse a ragione) che l’appello fosse mosso da sentimenti filoasburgici e non risposero nemmeno. In Italia, oramai, si è sempre più convinti che solo una vittoria militare potrà portare alla liberazione dei territori occupati e il Governo guarda con fastidio e diffidenza alle iniziative vaticane. Benedetto XV, tuttavia, aveva messo il dito nella piaga: il paese era stremato e bastava poco affinché una scintilla si trasformasse in incendio. A Torino, il 22 agosto, i cittadini trovarono le panetterie chiuse per l’esaurimento delle scorte di farina e la rivolta insorse in modo tumultuoso e spontaneo. Al grido “vogliamo il pane” si associarono gli appelli a favore della pace. Nei giorni successivi gli scioperi e i saccheggi si moltiplicarono a vista d’occhio e il Governo non trovò di meglio che chiedere l’intervento dell’esercito. Il 26 agosto era tutto finito, al prezzo di quarantuno morti e centocinquanta feriti. Al fronte, intanto, si celebrava il solito inutile rituale degli attacchi senza costrutto. Il 17 agosto ebbe inizio l’undicesima battaglia dell’Isonzo, con un massiccio attacco sull’altopiano della Bainsizza, teso ad aggirare le forze nemiche e puntare su Trieste. L’offensiva si concluse il 31 agosto con un bagno di sangue sostanzialmente inconclusivo: 30.000 morti, 110.000 feriti e 20.000 dispersi. Nel corso della battaglia emersero aspri i contrasti tra Cadorna e il capo della II Armata, il generale Capello, che aveva modificato gli ordini di attacco, ritenuti inefficaci. Anche le forze austro-ungariche, tuttavia, subirono pesanti perdite e il comandante delle forze imperiali sull’Isonzo, generale Svetozar Borojević von Bojna, non ebbe remore nell’affermare che le sue truppe non avrebbero resistito a un nuovo attacco. L’imperatore Carlo I, succeduto a Francesco Giuseppe nel novembre 1916 (2), chiese aiuto alla Germania, a sua volta preoccupata per l’eventuale crollo dell’Austria, che si sarebbe rivelato esiziale per le sorti della guerra: ben sette divisioni, pertanto, tra le migliori disponibili, furono affiancate alle otto divisioni austriache. Il piano prevedeva di attaccare gli italiani sull’alto Isonzo, in un’area non particolarmente protetta. Venne scelta la zona di Caporetto, punto di giunzione tra i grandi comandi italiani e, come tutti i punti di giunzione, più vulnerabile. L’obiettivo, sostanzialmente, era molto limitato: s’intendeva alleggerire la pressione sul fronte, obbligando gli italiani ad arretrare di qualche chilometro. Non si riusciva nemmeno a concepire che, nel giro di pochi giorni, sarebbero penetrati in profondità nel territorio italiano, conquistando l’intero Friuli e buona parte del Veneto, giungendo addirittura alle porte di Venezia. Cadorna era al corrente, già dalla fine di settembre, che una divisione alpina germanica si era collocata nel Tirolo. Grazie a due ufficiali austriaci disertori era stato anche informato dell’imminenza di un attacco a Caporetto e Cividale del Friuli; sempre più frequentemente, poi, si vedevano nel cielo gli aerei da caccia tedeschi. Con il passare dei giorni le avvisaglie di un imminente attacco prendevano crescente consistenza. Anche l’ufficio informazioni prevedeva un


attacco tra Plezzo e Tolmino (Caporetto è più o meno a metà strada tra i due avamposti, che distano solo trentasette chilometri l’uno dall’altro). Cadorna, però, non era ancora convinto: considerava possibile l’attacco, visto che gli austriaci non erano più impegnati sul fronte russo, ma allo stesso tempo riteneva che le condizioni climatiche avrebbero indotto i nemici a desistere. Pensava, inoltre, che (l’eventuale) attacco si sarebbe sviluppato su due linee del fronte: sull’asse PlezzoTolmino, come diversivo, e dal Trentino con una massiccia offensiva. Da qui la decisione di potenziare le difese sul fronte che riteneva minacciato, senza preoccuparsi della pianura friulana, secondo lui sostanzialmente irraggiungibile. Il 23 ottobre, per il comando italiano, era un giorno come un altro: Cadorna si recò sull’alto Isonzo per ispezionare le linee del IV Corpo d’Armata, non restando particolarmente contento della loro consistenza, pur considerando i soldati comunque in grado di respingere i nemici. Il generale Capello, comandante della II Armata, schierata sull’altopiano della Bainsizza, in ospedale per una nefrite, fu sostituito dal mediocre generale Montuori, con il quale era in perenne disaccordo. Le condizioni climatiche erano pessime: neve in montagna, acquazzoni violenti sugli altipiani, nebbia fitta nelle vallate. Per l’attacco vi è tempo, conclusero gli ufficiali dello Stato Maggiore, a cominciare da Cadorna. I soldati, dal loro canto, pensavano esclusivamente a difendersi dal nemico ritenuto più minaccioso: il freddo pungente. L’ATTACCO E LA ROTTA Alle due del mattino, dal Monte Rombon, un infernale volume di fuoco prese di mira l’avamposto di Plezzo e l’area circostante, cogliendo di sorpresa le truppe italiane, colpite sia dalle granate sia dai gas asfissianti. L’artiglieria fu ben presto ridotta al silenzio. Intorno alle sei e trenta l’intero fronte da Plezzo a Tolmino era sotto il massiccio fuoco nemico. I soldati italiani, travolti dai nemici che sbucavano dai campi, non ebbero nemmeno il tempo di comprendere cosa stesse accadendo. L’irruzione austro-tedesca generò uno scompiglio pazzesco, aggravato dall’impossibilità di comunicare, essendo fuori uso tutte le linee di collegamento. Gli stessi austriaci restarono sorpresi dalla debole resistenza e conclusero che il grosso delle truppe li attendeva su posizioni arretrate. Alle otto in punto la XIV Armata tedesca si mosse come un rullo compressore, aprendo in pochissimo tempo una breccia di ben venticinque chilometri. Il XXVII Corpo d’Armata, comandato da Pietro Badoglio, non sparò un solo colpo: gli ufficiali avevano avuto ordine, ovviamente quando non si pensava a un’azione difensiva, di non aprire il fuoco senza espresso ordine del loro comandante, essendo sottinteso che ciò valeva in previsione di un attacco. Non potendo ricevere ordini a causa delle linee telefoniche interrotte, obbedirono ciecamente, finendo uccisi o catturati e lasciando i cannoni intatti nelle mani del nemico. Tra i reparti scelti tedeschi si distinse un giovane tenente che, al comando del suo plotone, nella zona di Tolmino, penetrava alle spalle dei nostri soldati, abituati solo alla difesa frontale, e li eliminava: si chiamava Erwin Rommel. Di ora in ora la situazione diventava più drammatica. Centomila soldati italiani si trovavano in posizione avanzata,


sull’altopiano della Bainsizza, a Sud-Est di Plezzo e Tolmino e quindi tagliati fuori dal resto delle truppe italiane, in rotta sulla riva destra dell’Isonzo. Cadorna, nel suo quartier generale di Udine, non immaginava minimamente cosa stesse accadendo a quaranta chilometri da lui. Il colonnello Angelo Gatti, suo biografo e stretto collaboratore, annotò nel diario, nella mattina del 24 ottobre, mentre a frotte morivano i soldati italiani: “Nella giornata, niente di nuovo”, per poi aggiungere verso le ore 20: “Vado al cinematografo” (3). L’ufficio informazioni, finalmente, alle 19 comunicò la presenza di nove divisioni tedesche, ma Badoglio reputò la notizia non veritiera. Bisognerà attendere le 22 prima che lo Stato Maggiore si convincesse della drammatica realtà. Il IV Corpo d’Armata, di fatto, si era dissolto nel giro di un minuto. E’ eufemistico parlare d’incertezza e confusione nella sede del Comando Supremo. Scrive ancora Gatti, nel suo diario: “Sento parlare di Sedan italiana; Cadorna ha detto che ritirerebbe tutto sul Tagliamento: la cosa è mostruosa e inconcepibile”. Il giorno 25 s’incomincia ad avere un quadro, se non esaustivo, più realistico. Capello suggerì a Cadorna di ripiegare Sul Piave, al fine di riorganizzare al meglio le difese. Cadorna, più testardo di un mulo, pensava ancora di resistere sul Tagliamento e diramò un ordine che, però, giunse solo nella serata del giorno dopo. La resistenza sul Tagliamento, mal strutturata per truppe addestrate precipuamente alla guerra d’attacco, si dimostrò subito fallace e pertanto il generalissimo ordinò un nuovo arretramento tra il Monte Grappa, il Piave e, più a Sud, verso la laguna veneta. Di fatto, il 29 ottobre, si convinse di ciò che Capello aveva capito già all’alba del 25. La manovra, tra l’altro, non era tra le più semplici: 1.500.000 soldati dovevano ritirarsi in un territorio per buona parte occupato dal nemico. La rotta di Caporetto non restò senza conseguenze sul fronte politico. Il 26 ottobre, il debole e inadeguato presidente Boselli, a seguito del voto di sfiducia espresso dalla Camera, annunciò le dimissioni ai due rami del Parlamento. Pagò, in tal modo, anche il forte e ingiustificato sostegno assicurato a Cadorna che, nel frattempo, aveva spostato il comando da Udine alla più arretrata Treviso (molto arretrata: circa 130 chilometri) e redatto un bollettino con il quale scaricava tutta la responsabilità della disfatta sulla II Armata e quindi su Capello (4). Il bollettino, pubblicato nelle prime edizioni dei giornali, il 29 ottobre, suscitò vivo sconcerto nei palazzi della politica. Il ministro dell’Interno ne bloccò la diffusione, diramando una seconda versione con alcune sostanziali correzioni protese a mitigare le accuse (5). L’operazione, però, riuscì a metà in quanto il bollettino originale fu riportato integralmente dai giornali esteri. Cadorna, di fatto, con quel bollettino si era tirato definitivamente la zappa sui piedi, offrendo al Re l’opportunità di conferire il mandato a varare un nuovo governo al suo nemico giurato: Vittorio Emanuele Orlando. Gli austriaci utilizzarono il bollettino per far conoscere ai soldati italiani la condotta infame del loro comandante supremo, lanciando dagli aerei dei volantini sui quali si leggeva testualmente: “Il vostro generalissimo, che insieme a Sonnino è uno dei più colpevoli autori di questa guerra inutile, ha l’audacia di accusare il vostro esercito di viltà, quello stesso esercito che tante volte si è slanciato per ordine suo ad inutili e disperati attacchi. Questa è la


ricompensa del vostro valore. Avete sparso il vostro sangue in tanti combattimenti e il vostro generalissimo vi disonora, vi insulta, per discolpare se stesso”. Gli eventi assunsero in fretta connotazioni surreali, non facilmente descrivibili e, soprattutto, di difficile decantazione. Quattrocentomila alpini, fanti, artiglieri, lasciarono il campo e scapparono verso le retrovie. In virtù di quegli strani meccanismi della mente, che appassionano tanto gli psicologi, tutti pensarono la stessa cosa: la guerra, almeno per loro, era terminata. Sempre congiuntamente, e apparentemente in modo incomprensibile, addirittura riuscirono a recuperare un “minimo di calma irrazionale” nella fuga, di frequente rallentata per mangiare, bere e saccheggiare. I civili in fuga non erano meno numerosi e le strade, ben presto, si trasformarono in un groviglio disordinato e scomposto di persone, animali e mezzi. Su questo aspetto della vicenda, tuttavia, occorre fare chiarezza: non solo le mendaci dichiarazioni di Cadorna, ma anche quelle di molti storici, tendono ad acclarare il principio di una ribellione di massa dei soldati italiani, attribuita alla loro vigliaccheria e alla consapevolezza di non poter reggere alla pari il confronto con i nemici. Niente di più falso. Violenze e saccheggi, che vi sono stati e rispondono ai dati fisiologici di ogni guerra, non hanno nulla a che vedere con la “fuga”, magistralmente caratterizzata nei suoi molteplici e complessi aspetti dalle opere di Curzio Malaparte e Prezzolini (6), la cui genesi va attribuita alla rottura della catena di comando che, dopo anni di stenti, di privazioni, d’inutili morti scaturite dall’inettitudine di ufficiali e comandanti vari, determinò il rifiuto (inevitabile) delle regole, ritenute semplicemente “assurde”. Più che di ribellione, quindi, si deve parlare di “disorientamento indotto”. Sotto il profilo delle cifre, i giorni di Caporetto offrono riscontri spaventosi: 13.000 morti; 30.000 feriti; 280.000 prigionieri; circa 400.000 soldati sbandati, rimasti isolati nel territorio occupato dagli austro-tedeschi. Non meno ingente è il bottino di guerra: 3.000 cannoni; 1.700 bombarde, 3.000 mitragliatrici, campi di aviazione, ospedali da campo, munizioni, 5.000.000 di scatolette di carne, 700.000 scatolette di salmone, 27.000 quintali di gallette; 13.000 quintali di pasta; 7.200 quintali di riso; 253 quintali di caffè; 4.900 ettolitri di vino; 672.000 camicie; 637.000 mutande; 430.000 pantaloni; 823.000 paia di calze; 321.000 paia di scarpe. In soli tre giorni furono annullate le faticose conquiste di tre anni di guerra e per di più si aveva il nemico in casa, che premeva minaccioso sul Piave, per ricacciare gli italiani oltre l’Adige e puntare verso la Lombardia. Una vergognosa pagina di storia, non a caso artatamente dimenticata dalla storiografia ufficiale, riguarda i prigionieri di guerra, lasciati morire di fame nei lontani campi di prigionia, perché ritenuti “codardi e traditori”. Francia, Inghilterra e Stati Uniti, di fronte alle angoscianti notizie provenienti dai campi di prigionia, con l’ausilio della Croce Rossa, inviavano vagoni piombati di viveri, coperte e indumenti. L’Italia si rifiutò di adottare provvedimenti analoghi e proibì la spedizione di pacchi da parte dei privati e le sottoscrizioni di beneficenza, con il chiaro intento di impedire il convincimento che presso il nemico fosse possibile trovare condizioni di vita almeno tollerabili (7).


VERSO VITTORIO VENETO Il 6 e 7 novembre 1917, a seguito degli eventi di Caporetto, fu organizzata a Rapallo una conferenza interalleata per stabilire le strategie da adottare nei mesi successivi. Per l’Italia parteciparono Vittorio Emanuele Orlando, il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, il generale Vittorio Alfieri, il sottocapo di Stato Maggiore Carlo Porro, l’onorevole Leonida Bissolati e il diplomatico Luigi Aldovrandi Marescotti, stretto collaboratore di Sonnino. Inglesi e francesi presero atto della relazione di Orlando con aria di sufficienza e, senza tanti giri di parole, espressero il loro punto di vista: massimo rispetto per i soldati italiani, dei quali si lodarono il coraggio e lo spirito di sacrificio; massimo disprezzo, invece, per i comandanti, ritenuti TUTTI INCAPACI, eccezion fatta per il Duca d’Aosta, comandante della III Armata, non a caso passata alla storia come “invitta”. Gli aiuti erano pronti, pertanto, e anche consistenti, ma a una sola condizione: sostituzione di Cadorna (e anche di Porro). Vittorio Emanuele Orlando, ovviamente, non si fece pregare due volte. “Magnifichiamo quei soldati”, scrive Curzio Malaparte. “Viva i fanti luridi e sudici, strappati e pidocchiosi, magnificati sui giornali e nei discorsi ufficiali, ma dappertutto maltrattati nei fatti, al fronte e nelle retrovie, durante i turni di linea e i quindici giorni d’amarissima licenza; viva i fanti conquistatori del santo, della Bainsizza, delle quote Carsiche, viva i fanti che, dopo tante battaglie e tanti eroismi, ebbero il coraggio di abbandonare le trincee nell’ottobre del 1917”. Dopo solo quindici giorni, anche grazie a loro, scocca l’ora di Armando Diaz. E la Storia prende un’altra direzione.

NOTE 1) Vedere capitolo precedente. 2) Pur essendo il quinto nella linea di successione, la sua ascesa al trono imperiale fu favorita da una serie di eventi imponderabili: Rodolfo, figlio di Francesco Giuseppe, morì suicida A Mayerling; il nonno, Carlo Ludovico, fratello minore dell’Imperatore, morì nel 1896 a causa di una febbre tifoidea contratta durante un viaggio in Egitto e Palestina; il padre, Ottone Francesco, morì nel 1906 a causa di una malattia venerea; il fratello maggiore del padre, l’arciduca Francesco Ferdinando, fu assassinato con la moglie Sofia nel famigerato attentato di Sarajevo, il 28 giugno 1914. Nei primi anni di guerra fu a capo del XX Corpo d’Armata, dimostrando però scarse attitudini al comando che, se da un lato lo resero simpatico a molti soldati, dall’altro furono aspramente criticate dagli osservatori, non solo austriaci. Da imperatore favorì senz’altro l’iniziativa di pace di Papa Benedetto XV, senza, peraltro, ostacolare in alcun modo le iniziative dello Stato Maggiore, ivi compreso l’utilizzo del gas nervino nella battaglia di Caporetto. Nondimeno fu considerato dalla Chiesa cattolica “un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica” e pertanto, il 3 ottobre 2004, fu beatificato da Papa Giovanni Paolo II. La


beatificazione è stata fortemente contestata sia nella sostanza (non se ne ravvisavano i presupposti) sia nella forma (la Gebestliga, Pia Unione di Preghiera che l’aveva fortemente perorata, è composta di simpatici soggetti in massima parte coinvolti in oltre 2.000 casi di pedofilia e violenze sessuali, considerati però delle “ragazzate” dal vescovo Kurt Krenn, che all’epoca ne era il presidente). 3) “Caporetto, diario di guerra – maggio dicembre 1917, Il Mulino, 2014. 4) “La mancata resistenza di riparti della II Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia. Gli sforzi valorosi delle altre truppe non sono riusciti a impedire all'avversario di penetrare nel sacro suolo della Patria. La nostra linea si ripiega secondo il piano stabilito. I magazzini e i depositi dei paesi sgombrati sono stati distrutti. Il valore dimostrato dai nostri soldati in tante memorabili battaglie combattute e vinte durante due anni e mezzo di guerra, dà affidamento al Comando Supremo che anche questa volta l'esercito, al quale sono affidati l'onore e la salvezza del Paese, saprà compiere il suo dovere”. 5) La prima frase fu sostituita con la seguente: “La violenza dell'attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della II Armata hanno permesso… etc. etc.” 6) Curzio Malaparte (op. cit.); Giuseppe Prezzolini, “Dopo Caporetto-Vittorio Veneto, Editore Storia e Letteratura, 2015. 7) Giovanna Procacci, “Soldati e prigionieri italiani nella guerra”, Bollati Boringhieri, 2016. Camillo Pavan, I prigionieri italiani dopo Caporetto, Editore Pavan, 2001.



EXSURGE, ITALIA L’Italia, geograficamente parlando, è la nazione che tutti conosciamo: uno stupendo stivale che dalle Alpi si dipana nel cuore del Mediterraneo, dando forma a scenari naturali d’incommensurabile bellezza. Gli italiani, invece, non sono mai stati “popolo”, nel senso pieno della parola, avendo lasciato affiorare, nel corso dei secoli, più gli elementi di divisione che quelli di unione. Il retaggio di questa caratteristica viene da lontano e affonda le radici nella caduta dell’Impero romano, che lasciò campo aperto alle migrazioni di tanti popoli, attratti da un territorio che consentiva migliori condizioni di vita. Secolo dopo secolo, pertanto, in virtù delle varie dominazioni, si formarono molteplici tipologie umane, con caratteristiche antitetiche. Gli italiani di oggi, in massima parte, scaturiscono dal miscuglio genetico di queste tipologie, ben radicato nel DNA di ciascuno. E’ pur vero, tuttavia, che l’ambiente in cui si vive può incidere sensibilmente sul cosiddetto “retaggio ancestrale”, come sostenuto da Hobbes, Loke, Hume, che però vedono nella sola esperienza l’unico processo in grado di sviluppare e organizzare la mente umana, superando in tal modo la teoria innatista di Cartesio. Una teoria più attinente alla realtà, tuttavia, trova una sintesi tra le tesi degli empiristi e l’innatismo, armonizzandole in modo razionale. Un soggetto che porti nel sangue il marcio di una discendenza adusa al male, se da bambino si trovasse a crescere in un ambiente sano, civile, culturalmente evoluto, molto probabilmente sarebbe “condizionato positivamente” e gli elementi genetici non riuscirebbero a emergere, ma non è detto che ciò debba accadere per forza. Di converso, un soggetto geneticamente orientato al bene, inserito in un contesto sociale degradato, molto più facilmente di quanto non accada nel primo esempio proposto sarà condizionato dall’ambiente in cui vive, perché il male è sempre più attraente del bene. Anche in questo caso, però, il dato non assume valore assoluto. In buona sostanza, volendo sintetizzare le cause del perché non sia ancora possibile parlare, nel nostro Paese, di “italiano vero”, bisogna partire proprio dalle varie dominazioni, distinguendole, sia pure “empiricamente” e senza pretesa di generalizzazione, in positive e negative. Tale differenziazione serve anche a comprendere le sostanziali differenze tra Nord e Sud, che costituiscono ulteriore elemento divisorio. Nel Mezzogiorno d’Italia si pagano ancora oggi gli effetti nefasti di cinque colonialismi: quello Bizantino, che lo depredò di ogni possibile risorsa, non promosse alcuna attività, represse quelle floride già in essere e lasciò quel lascito genetico “levantino”, sulle cui caratteristiche è inutile soffermarsi perché già il termine le ingloba tutte; quello Angioino, non meno terribile del precedente; quello Aragonese e quello Spagnolo, che somma tutti gli elementi nefasti dei precedenti, amplificandoli: malcostume, malapolitica, gestione improvvida del potere, inefficienza, inettitudine, propensione truffaldina e criminale; gli Arabi, dal canto loro, è pur vero che hanno lasciato tracce tangibili della loro presenza sotto il profilo culturale, scientifico e sociale, ma si esagera in tali riconoscimenti,


specialmente quando si scrive, per esempio, che “tenevano molto alle buone maniere e il comportamento a tavola era ineccepibile: mangiavano a piccoli bocconi, masticavano bene, non mangiavano aglio e cipolla, non si leccavano le dita e non usavano gli stuzzicadenti. Il gentiluomo musulmano si lavava ogni giorno, si profumava con acqua di rose, si depilava le ascelle e si truccava gli occhi. Per la strada ogni tanto si fermava davanti ai numerosi portatori di specchi per controllare e accomodare la propria acconciatura. Si vestiva con eleganza e non indossava pantaloni rattoppati”. Non si capisce, infatti, perché siffatti gentiluomini si dedicassero “anche”, con immenso piacere, a continue scorribande nei territori occupati e in quelli limitrofi, per trucidare gli abitanti d’interi villaggi e rapire le donne che, dopo l’inevitabile stupro, erano costrette a soggiacere ai loro piaceri in compagnia delle altre concubine. Come ben sa chi mi onora della propria attenzione, se oggi posso scrivere queste righe lo devo all’abilità dei miei antenati che, nell’anno 864, riuscirono a scampare alla distruzione di Telesia, praticata dal feroce emiro di Bari Sawdan. Ostrogoti, Longobardi, Normanni, Svevi, viceversa, sono stati protagonisti di quello sviluppo economico e sociale, del quale fu beneficiario non solo il Mezzogiorno ma l’intero Paese. Il confronto tra buono e cattivo sangue, tuttavia, nel corso dei secoli ha visto via via affermarsi, in modo preponderante, i soggetti più biechi e negativi. Non è possibile, in questo contesto, riassumere quindici secoli di storia patria e dopo tutto non è necessario. Basta solo ricordare che, dopo la Prima Guerra Mondiale, sorvolando sull’epopea fascista, meritevole di un discorso a parte, abbiamo visto la progressiva disgregazione del Paese grazie alle azioni dissennate di una classe politica famelica, criminale e inetta. Per settantatré anni, di fatto, il Paese è stato di nuovo terra di conquista, ma questa volta da parte di “soggetti interni”, che l’hanno ridotto nello stato in cui oggi si ritrova. La parte sana del Paese non è mai riuscita a entrare in partita, eccezion fatta per la sfera individuale, che ha visto tanti talentuosi italiani affermarsi in ogni ambito. Si è dovuto aspettare l’istrionismo di un comico – e anche questo è un paradosso tutto italiano – affinché una consistente fetta di popolo si svegliasse dal torpore e tirasse un sonoro ceffone al potere malato, del quale aveva però sostenuto le malefatte per troppo tempo, a volte per pigrizia mentale e più spesso per colpevole complicità. Non è ancora finita, ovviamente, e occorrerà molto tempo affinché si possa registrare davvero quel radicale cambiamento teso a proiettare il Paese verso presupposti eticamente più accettabili, capaci di infondere, in tutti coloro che per decenni si sono vergognati di sentirsi italiani, l’orgoglio e la fierezza per le proprie radici. Solo quando questo percorso sarà realmente compiuto, è bene ricordarlo a cento anni dalla fine della Grande Guerra, si potrà portare un fiore sulle tombe dei caduti e onorarne degnamente la memoria, con un delicato sorriso, sussurrando loro: “Non siete morti invano”. E solo allora, respirando a pieni polmoni, magari abbagliati dalla bellezza di qualche stupendo paesaggio, sarà possibile socchiudere gli occhi e volare con la mente indietro nel tempo, per poi compiacersi pienamente dei passi in avanti compiuti. Accadrà mai? Come ho


scritto più volte, una generosa illusione e sempre preferibile a una negazione preconcetta ed io voglio credere che accadrà, perché, al di là di tutte le storie brutte che abbiamo dovuto subire, di una realtà contingente ancora confusa e fragile, non si deve mai perdere la speranza che le cose possano cambiare davvero, ricordando a tutti e, soprattutto a noi stessi, che la vita è troppo breve per chiunque affinché ci si possa permettere il lusso di NON essere italiani. “EXSURGE, ITALIA”.


IL PIAVE MORVORAVA PARTE DECIMA: DA CAPORETTO A VITTORIO VENETO INCIPIT Comando Supremo, 4 Novembre 1918, ore 12 La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte a occidente dalle truppe della VII Armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, dell'VIII, della X Armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III Armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perduto. L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinque mila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Armando Diaz L’ESERCITO ITALIANO DOPO CAPORETTO Nei primi mesi del 1918 i soldati italiani beneficiarono di una relativa calma: le truppe nemiche erano esauste e necessitavano di riposo e rifornimenti prima di potersi impegnare in nuovi scontri. Dopo Caporetto anche l’esercito italiano aveva bisogno di essere riorganizzato in tutti i sensi, soprattutto nel morale. Il clima rigido dell’inverno 1917-18 e l’intrinseca debolezza delle truppe nemiche si trasformarono in ottimi alleati del nuovo comandante supremo, il generale Armando Diaz. Lungimirante e pronto nel cogliere l’essenza di ogni situazione (doti che dovrebbero caratterizzare ogni leader, soprattutto in contesti militari, e che invece scarseggiavano o erano del tutto assenti nel predecessore e in tanti altri alti ufficiali), comprese subito che la partita si sarebbe giocata sulle nuove linee del


Monte Grappa, che consolidò in modo impeccabile. La II Armata del generale Capello si era completamente dissolta a Caporetto e fu sostituita dalla V Armata, in precedenza destinata a funzioni di riserva. I tremila cannoni perduti a Caporetto furono ben presto soppiantati grazie all’impegno profuso dai lavoratori dell’Ansaldo, che riuscirono a consegnare, addirittura in anticipo rispetto agli impegni assunti, ben 2.200 nuovi cannoni, ai quali si aggiunsero ottocento pezzi forniti da inglesi e francesi. In pochi mesi furono costruiti anche seicento aeroplani e ogni mese le officine di Milano e Torino sfornavano 1.700 nuovi automezzi. Le straordinarie peculiarità “psicologiche” di Diaz funsero da suggello taumaturgico per il morale delle truppe: soldati che stancamente combattevano una guerra non capita e non voluta, accettandone di pagare il duro prezzo con rabbia frammista a rassegnazione, si trasformarono, in un baleno, in valorosi guerrieri che recepirono senza ombre la necessità di resistere a ogni costo e ricacciare il nemico dal “patrio suolo”. “QUALCOSA” DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE Tre anni di guerra di trincea avevano dissanguato gli eserciti senza portare a nessun risultato concreto. La strategia tedesca mirava a ridurre il potenziale umano anglo francese, attaccando le posizioni più esposte. Le forze dell’Intesa, però, erano numericamente superiori a quelle tedesche e quindi la strategia si dimostrò fallimentare. La sostituzione di Erich von Falkenhayn, dopo la batosta di Verdun, non servì a cambiare le cose: Hindenburg, di fatto, che ne aveva chiesto la testa prendendone il posto, continuò sulla stessa linea. L’entrata in guerra degli USA aveva complicato maledettamente le cose, annullando il vantaggio acquisito a Est grazie alla Russia fuori dai giochi dopo la “rivoluzione d’ottobre”. In buona sostanza la ragionevolezza avrebbe dovuto suggerire che non vi era più spazio d’azione sul fronte militare. Lo avevano ben compreso, per esempio, il conte Hugo Lerchenfeld (ministro plenipotenziario di Baviera) e il cancelliere Gerg von Hertling, favorevoli ad avanzare proposte di pace con l’aiuto di referenti neutrali: Svezia, Olanda e Santa Sede. Lo stesso Imperatore non sarebbe stato ostile, ma con uomini del calibro di Hindenburg ed Erich Ludendorff ai vertici del comando militare, cultori di un retaggio storico che non riusciva a concepire una soluzione bellica che non fosse affidata alle armi, i saggi propositi maturati in ambiente politico naufragarono sul nascere. Anche in Francia, del resto, gli eventi seguirono una sorte più o meno analoga: il Governo Briand fu costretto alle dimissioni per il malcontento generato dalle operazioni militari, ritenute fallimentari, e per la spinta dei militaristi più convinti, tra i quali spiccava George Benjamin Clemenceau, la cui forte personalità (non a caso era chiamato “Tigre”) ebbe facile gioco nel disarcionare il mediocre Briand, avvocato socialista che aborriva la guerra (nel 1926 fu addirittura insignito del premio Nobel per la pace). Clemenceau, divenuto capo dell’esecutivo il 16 novembre 1917, tenne per sé anche il ministero della guerra e formò un governo che non voleva proprio sentire parlare di compromessi e soluzioni pacifiche. In Gran Bretagna, infine, dove le intenzioni pacifiste non avevano mai incontrato largo


consenso, Lloyd George aveva fatto progressivamente fuori i “tentennanti”, sostituendo prima lord Kitchener come ministro della guerra e poi il pavido liberale Herbert Henry Asquith come capo del governo. Con siffatti presupposti era impraticabile ogni soluzione che escludesse la vittoria sul campo di battaglia. Il 21 marzo, pertanto, Hindenburg e il principale collaboratore, Ludendorff, diedero inizio a quella che è passa alla storia come “l’offensiva di primavera”. Sul fronte opposto si trovarono, a sostegno delle truppe francesi, contingenti freschi e ben armati provenienti dal Regno Unito, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Terranova, Stati Uniti, Portogallo, Italia. I soldati italiani erano comandati dal generale Alberico Albricci, che si distinse per ardimento e capacità tattiche, soprattutto nel mese di luglio, quando costrinse Ludendorff a ordinare un’ignominiosa ritirata alle truppe che avevano oltrepassato la Marna. La municipalità di Epernay rese onore ai suoi meriti nominandolo “Difensore della città” e intestandogli una strada. L’inutile offensiva si tramutò nell’ennesimo bagno di sangue. Oltre ottocentomila le perdite (morti, feriti e dispersi) tra tutte le forze dell’Intesa e circa settecentomila le perdite tedesche. La Germania perse la guerra in quest'offensiva, avendo esaurito tutte le riserve. Nei restanti mesi di guerra poté solo difendersi, per poi essere umiliata a Compiegne, nel famoso vagone ferroviario in cui fu firmato l’armistizio, esattamente cento anni fa. (Termino di scrivere questa parte del capitolo nel pomeriggio dell’11 novembre 2018. L’armistizio fu firmato all’alba dell’11 novembre 1918) L’AUSTRIA RESTA SOLA Gli imperi centrali, dopo la disfatta della Germania, si trovarono nella difficile condizione di prendere decisioni importanti senza avere il tempo di ponderarle e in un momento particolarmente convulso, caratterizzato dal crescente peso nella guerra degli Stati Uniti e dai disordini insorti nei paesi governati a causa delle restrizioni, della stanchezza, della fame. Era ben chiaro, inoltre, che non si poteva più contare sul massiccio aiuto dell’esercito tedesco. Anche in questo caso la logica avrebbe dovuto suggerire di prendere atto della realtà e tentare una soluzione diplomatica. Se è vero, però, che in Italia, a quel punto, si pensava solo a chiudere la partita armi in pugno, va detto che i tentativi di porre fine alla guerra, esperiti da Carlo I già nel 1917 e sistematicamente rifiutati dal nostro governo, erano semplicemente osceni perché prevedevano il ripristino di una condizione “prebellica”: tanti morti senza ottenere alcun compenso territoriale. La chiusura di Carlo I fu totale, anche perché i fatti di Caporetto avevano lasciato trasparire la possibilità di una “pace vittoriosa”. Le avvisaglie di una probabile offensiva austriaca si ebbero verso la fine di maggio e Diaz dispose subito il potenziamento difensivo della zona montana, al fine di impedire l’eventuale penetrazione dei nemici nella pianura di Vicenza e Verona. Contestualmente concentrò nei dintorni di Treviso nove divisioni, da tenere in riserva e pronte a intervenire nel caso in cui il nemico avesse attraversato il Piave. (Non sembrino


inutili dettagli queste notizie: la vittoria finale scaturì proprio dalla capacità di Diaz di non sbagliare mai una mossa, di prevedere e prevenire). Il 10 giugno, intanto, la marina italiana scrisse una delle pagine più gloriose della sua storia. Due MAS, al comando del sottotenente Luigi Rizzo (già partecipe della leggendaria “Beffa di Buccari”) e del guardiamarina Giuseppe Aonzo, nei pressi dell’isola di Premuda scivolarono silenziosamente tra le navi della flotta imperiale fino a portarsi a soli centocinquanta metri dalla corazzata “Santo Stefano”, portentosa machina da guerra e fiore all’occhiello della flotta, insieme con la gemella “Tegettoff”. Lanciarono i loro siluri e sgusciarono via indisturbati. La Santo Stefano affondò in pochi minuti, gettando nel più profondo sconcerto l’ammiraglio ungherese Horthy, capo della flotta imperiale, che da quel momento sospese ogni operazione in mare aperto. LA BATTAGLIA DEL SOLSTIZIO Dopo un infruttuoso diversivo tentato il 13 giugno, subito bloccato dalle nostre truppe, alle tre precise del 15 giugno scattò l’offensiva austro-ungarica. Cinquantacinque divisioni, supportate da 7900 pezzi di artiglieria e 540 velivoli furono fronteggiate da cinquanta divisioni italiane (i cui organici erano però inferiori di numero rispetto a quelli delle divisioni nemiche), tre britanniche e due francesi, supportate da 7.040 cannoni e 666 velivoli. Le linee italiane erano ben difese e ressero bene all’urto iniziale. Sugli Altipiani, addirittura, l’artiglieria della VI Armata incominciò a sparare mezz’ora prima di quella austriaca, infliggendo notevoli perdite. A causa della nebbia si registrò solo un leggero sfondamento nell’altopiano di Asiago, in zona Cesuna, presidiata dagli inglesi. Il tempestivo intervento del X Corpo d’armata italiano e della XII Divisione bloccò l’infiltrazione e verso sera la postazione fu riconquistata. Il generale Conrad aveva previsto di sferrare il colpo decisivo a sud-est di Asiago e fu proprio in quella zona che si ebbero gli scontri più sanguinosi. Le strategie del feroce feldmaresciallo (ricordiamo che fu l’autore della “spedizione punitiva” del 1916), tuttavia, s’infransero contro la determinazione dei nostri soldati, che già dopo mezzogiorno costrinsero gli austriaci alla ritirata. In modo particolare si distinsero la “Brigata Pinerolo” (decorata con medaglia d’oro al Valor Militare), la “Casale”, la “Lecce”. Al tramonto del primo giorno di battaglia le dodici divisioni austro-ungariche impegnate nella battaglia contavano già cinquantamila perdite tra morti, feriti e prigionieri. Il panico incominciò a diffondersi in modo sempre più consistente e molti soldati si diedero alla macchia. Anche sul Monte Grappa, le truppe austriache, letteralmente dissanguate, furono costrette al ritiro. Conrad e il capo di Stato maggiore dell’esercito austroungarico, generale Von Arz, si resero conto che ogni intento offensivo era stato bloccato e insistere avrebbe generato solo un inutile massacro. In campo italiano, invece, si conquistò un posto importante nelle pagine di storia il generale Gaetano Giardino, rientrato nell’esercito dopo la breve parentesi politica quale ministro della guerra nel governo Boselli: al comando della IV Armata creò buona parte delle premesse che condussero alla vittoria, trasformando il massiccio del Grappa


in un fronte inespugnabile e soprattutto prestando particolare attenzione alle esigenze dei soldati (“i suoi soldatini”, li chiamava), che ricambiarono con dedizione assoluta e grande affetto. 19 GIUGNO: IL DOLORE VIENE DAL CIELO Gli aviatori italiani non davano tregua al nemico e, di fatto, erano i padroni del cielo. Tra tutti, però, spiccava la “91^ Squadriglia”, comandata dal maggiore Francesco Baracca, che selezionava in prima persona i componenti. La “squadriglia degli assi” era il vero orgoglio dell’Aeronautica Militare e il comandante, trentenne, aveva sostenuto sessantatré combattimenti e abbattuto trentaquattro apparecchi. Il 19 giugno, dopo aver già compiuto tre missioni, ripartì con un aereo di riserva per la quarta, dal momento che il suo era rimasto danneggiato in quelle precedenti. Non era spavaldo, come qualcuno ha scritto, ma sicuro di sé e ciò, inevitabilmente, lo portava a osare oltre i limiti imposti dalla prudenza: non si è mai visto, del resto, un eroe di guerra “prudente”. La sua tattica era micidiale: con vertiginose piroette si portava sotto l’aereo nemico e lo abbatteva con raffiche brevi e precise. Classico soldato “gentiluomo”, di nobile lignaggio (figlio della contessa Paolina de Biancoli, cugina di Italo Balbo), colto, raffinato, brillante e intriso di una bellezza che incantava le donne, rispettava gli avversari e disdegnava l’uso delle pallottole traccianti per evitare che l’aereo prendesse fuoco, condannando il pilota a una morte atroce. Parimenti non amava mitragliare le truppe a terra, perché considerava tale pratica poco cavalleresca. Cosa sia successo in quel tragico giorno non si è mai saputo e non lo sapremo mai. Ciascuno può solo decidere di scegliere una delle tesi sulle quali si arrovellano fior di studiosi da cento anni. Si tolse la vita in volo, dopo che l’aereo fu colpito, per non cadere nelle mani del nemico? Non riesco a credere a questa tesi: se l’aereo fosse stato colpito in modo non grave, da consentire un atterraggio di fortuna, per quale ragione non avrebbe dovuto ripiegare verso le linee italiane? Se fosse precipitato, invece, non vi sarebbe stato comunque scampo. La tesi più accreditata è quella del cecchino che spara all’aereo sceso troppo in basso, facendolo precipitare in fiamme. Anche questa tesi mi sembra inverosimile: perché sarebbe sceso a una quota tale da consentire a un cecchino di centrare l’aereo? Non lui, attenzione, ma l’aereo in un punto tale da determinarne l’esplosione con un colpo solo! Erano i due compagni di squadriglia, Osnago e Costantini, che si cimentavano nel mitragliamento delle truppe nemiche volando a bassa quota: lui, invece, duellava “in alto”. Una terza ipotesi è quella del biplano austro-ungarico che riuscì a coglierlo di sorpresa. Il pilota Max Kauer e l’osservatore Arnold Barwing relazionarono, con tanto di documentazione fotografica, di aver abbattuto un aereo sul Montello, senza sapere, ovviamente, che era pilotato dall’asso dell’aviazione italiana. Mi sembra la versione più credibile, perché anche i migliori, a volte, si distraggono. E’ la meno accreditata, tuttavia, per non intaccare l’aura di “imbattibilità” che aleggia sulla figura del leggendario pilota.


SI MIETE IL GRANO La difficoltà più grande per uno studioso che parli di guerra senza averla vissuta o combattuta è quella di riuscire a coglierne le sfumature. In guerra accadono cose difficili da spiegare, che riguardano sia i combattenti sia la popolazione civile, perché apparentemente assurde. Mi sia consentito, a tal proposito, rivolgere un affettuoso e commosso ringraziamento ai miei Genitori, Papà Lorenzo e Mamma Giuseppina: le loro spiegazioni e testimonianze dirette su come si viva in determinate circostanze, su ciò che si prova, su come si riesca a “convivere”, anche serenamente, in contesti particolari, mi hanno consentito di non “perdermi”, per esempio, al cospetto di fatti come quelli che mi accingo a narrare. Nelle immediate retrovie del Montello, proprio dove cadde Francesco Baracca, lo scenario di guerra era tra i più caldi. Nondimeno, tra i campi, i contadini continuavano “serenamente” a mietere il grano, incitando come tifosi allo stadio i soldati che avanzavano sulla linea del fronte. La guerra era solo uno dei tanti “accidenti” con i quali bisognava fare i conti. Si può comprendere quello stato d’animo se lo proiettiamo, nel nostro tempo, relazionandolo agli effetti del terrorismo: un po’ di paura vi è in tutti, ma di certo non ci priviamo di visitare le capitali europee, di prendere l’aereo, di condurre una vita “normale”. Dal 16 al 23 giugno, in un clima di rinnovata fiducia, si registrò l’avanzata impetuosa dei nostri soldati e lo sgretolamento dell’esercito austro-ungarico. Nei pressi di Fagaré, piccolo borgo non lontano dalla sponda destra del Piave, sui bianchi muri di una casa diroccata furono scritte due frasi immortalate in foto che si trovano su tutti i libri di storia e riassumono lo spirito eroico con il quale si vivevano quei giorni, che ciascuno avvertiva come i più importanti della propria esistenza: “Tutti eroi. O il Piave o tutti accoppati”; “Meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora”. La sera del 23 giugno, con il Piave in tumultuosa piena, l’Alto Comando austriaco ordinò la ritirata sulla sponda sinistra, sotto il tiro implacabile dell’artiglieria e dei nostri bravissimi aviatori. Il fiume sacro s’impregnò del sangue delle vittime e molti soldati, scampati alle pallottole, non scamparono alla furia dell’acqua. All’alba del 24 giugno tutto il teatro di guerra si svegliò in un irreale silenzio, rotto solo dal canto degli uccelli e dai cori dei contadini che mietevano il grano. La battaglia del solstizio, nota anche come “seconda battaglia del Piave e “battaglia d’Italia”, era terminata. Il prezzo pagato per la vittoria fu comunque alto: 8.396 morti, 30.603 feriti; 48.182 prigionieri; dal canto loro gli austriaci ebbero 11.643 morti, 80.852 feriti, 25.547 prigionieri. Secondo lo storico inglese George Trevelyan: “La vittoria italiana del giugno 1918 può essere aggiunta al lungo elenco delle battaglie decisive della storia del mondo”. Dopo il ripiegamento austriaco, il comando italiano, che in un primo momento aveva ordinato al generale Giardino di lanciarsi all’inseguimento delle truppe austriache, diede un contrordine. Decisione saggia perché le truppe erano stanche e solo sei divisioni non sarebbero state in grado di ottenere un successo decisivo. Occorreva attendere ancora per l’assalto finale. Intanto scomparve dalla scena bellica il generale Conrad, destituito dall’imperatore Carlo: era il più irriducibile nemico dell’Italia, contro la quale non riuscì mai a vincere.


MONTE GRAPPA TU SEI LA MIA PATRIA Il Comando austro-ungarico, ancorché demoralizzato, con le truppe debilitate e sobillate dalle notizie che giungevano dai rispettivi paesi di appartenenza, in subbuglio per staccarsi dall’impero, pensava di poter riprendere l’offensiva nel tardo autunno, ritenendo che gli italiani fossero ancora in fase di riorganizzazione degli organici e non sarebbero stati pronti prima di marzo 1919. All’alba del 24 ottobre, invece, anniversario di Caporetto, l’Armata del Grappa scattò all’attacco, conquistando in un baleno il monte Asolone, il Valderoa e i fianchi del Pertica e del Solarolo. L’offensiva principale sul Piave, però, fu bloccata a causa della piena vorticosa, che travolgeva traghetti e passerelle. Il generale Enrico Caviglia, che già dai mesi estivi aveva iniziato a studiare il corso del fiume, ebbe l’incarico di trovare in fretta il modo di attraversarlo, nonostante la piena. Non deluse le aspettative e individuò nelle Grave di Papadopoli il punto più idoneo per l’attraversamento, disponendo la realizzazione di otto ponti e tredici passerelle. Nelle retrovie austriache del Grappa, intanto, si registrarono moltissimi casi di diserzione e ammutinamento: i soldati percepivano minuto dopo minuto il radicale mutamento “caratteriale” avvenuto tra le fila dei nemici, sempre più somiglianti a leoni imbattibili, e caddero in preda al panico. Tra il 28 e il 29 ottobre le truppe del generale Caviglia erano tutte sulla sponda sinistra del Piave e poterono marciare spedite senza incontrare molta resistenza: in un crescente disordine, infatti, due armate nemiche ebbero l’ordine di ripiegare. Nel pomeriggio del 29 furono liberati i primi villaggi in territorio veneto e intere comunità si riversarono nelle strade abbracciando e baciando i nostri soldati. Per loro, al di là del picare di ricongiungersi al patrio suolo, si trattò della fine di un incubo: le violenze, gli stupri, i misfatti compiuti dai soldati tedeschi e ungheresi durante l’occupazione rappresentano una delle pagine più tristi dell’intera vicenda bellica e le tante testimonianze raccolte da una Commissione d’inchiesta promossa dall’Ufficio Tecnico di Propaganda Nazionale, inserite nel volume “Il martirio delle terre invase”, fanno accapponare la pelle. Atterrisce, tra l’altro, l’avallo delle alte sfere, che legittimavano e incoraggiavano le violenze, facendo proprio il pensiero del filosofo Eduard von Hartmann: “Ogni sforzo militare esige che il combattente sia liberato da tutti gli impedimenti di una legalità molesta e sott’ogni rispetto oppressiva. Violenza e passione, ecco le due leve poderose d’ogni atto bellico, e, diciamolo senza timore, d’ogni grandezza guerriera”. Alle 15 del 30 ottobre le scene festanti si ripeterono a Vittorio Veneto, dove già nel mattino erano entrati alcune unità di ciclisti. “Siamo felici, felici, felici! L’incubo è cessato! La realtà è più bella del più bel sogno: è un’ebrezza, una follia”. (Caterina Arrigoni, “Quando senza polenta si moriva di fame”, Edizioni DBS, in uscita nel mese di dicembre 2018) Liberata Vittorio Veneto, tutto il fronte entrò in movimento e gli austriaci furono costretti ad abbandonare il massiccio del Grappa. In pianura fu raggiunto il Tagliamento e il 1° novembre, nel porto di Pola, fu affondata la corazzata “Viribus Unitis” grazie all’azione ardimentosa del maggiore Raffaele Rossetti e del tenente medico Raffaele Paolucci. In Valsugana dilagò la VI Armata e le avanguardie della


VIII Armata si assestarono nel Cadore. Nessuna comparazione è plausibile con le azioni belliche dei secoli precedenti, ma è lecito sostenere che, per la prima volta nella storia dell’umanità, si poteva assistere a un’avanzata di tale portata. I soldati italiani furono accolti dappertutto con grida entusiastiche: “Benedèti, benedèti”, urlavano donne e anziani, commossi fino all’inverosimile. Alle 15,15 del 3 novembre i “Cavalleggeri di Alessandria” entrarono a Trento; alle 16,30 il cacciatorpediniere “Audace” attraccò sul Molo San Carlo di Trieste e i bersaglieri guidati dal generale Petitti di Roreto presero possesso della città giuliana, abbandonata dagli austro-ungarici già da due giorni. Alle ore 18, nella villa del conte Vettor Giusti del Giardino, le delegazioni austriache e italiana s’incontrarono per sottoscrivere l’armistizio che aveva gettato nel più profondo sconcerto la corte imperiale. A capo della delegazione austriaca vi era il generale Viktor Weber Edler von Webenau, che chiese l’immediata cessazione delle ostilità. Il generale Badoglio, che capeggiava la delegazione italiana, si oppose fermamente e pertanto le operazioni militari furono interrotte alle ore 15 del giorno dopo, 4 novembre. La Prima Guerra Mondiale, per l’Italia, si chiude con il famoso bollettino di guerra emanato dal generale Armando Diaz, anche se solo nei giorni successivi si perfezionarono le occupazioni di Pola, Sebenico, Valona, Cattaro, dove le truppe italiano non furono accolte con molto entusiasmo, e Zara, che invece accolse con trepidante gioia i nostri soldati. Il 17 novembre anche Fiume diventò italiana, creando le premesse per future tensioni tra l’Italia egli alleati. L’Italia aveva conquistato le terre irredente pagando un alto prezzo in vite umane: 651.000 militari e 589.000 civili. Un intero popolo aveva sofferto dure privazioni per tre anni e mezzo, contribuendo con tutte le proprie forze al successo finale perché, come più volte scritto, la Prima Guerra Mondiale fu “guerra totale” grazie all’impiego di tutte le risorsi disponibili. L’Italia, finalmente, poteva definirsi geograficamente unita. Restava da costruire l’unità nazionale, perché, ancor più di quanto non fosse vero nel 1860, “si era fatta l’Italia e ora bisognava fare gli italiani”. Ma questa è tutta un’altra storia. Fine Il 4 novembre di ogni anno è dedicato al ricordo imperituro di chi ha immolato la propria vita per la Patria. Dal 1919 la data è stata consacrata come “festa nazionale” e come tale è rimasta fino al 1976. Dal 1977, però, il 4 novembre è un giorno come un altro e ciò è molto triste. A conclusione di questo lavoro, pertanto, rivolgo un appello a tutti i lettori affinché aderiscano all’iniziativa promossa dall’ex ufficiale paracadutista Pasquale Trabucco, che ha organizzato un comitato per ripristinare la festività del 4 novembre, conferendo alla data la dignità perduta. Per aderire al comitato basta accedere al sito: www.noistiamoconpasqualetrabucco.it


Termina qui il saggio dedicato alla “Grande Guerra”, ma solo per quanto riguarda “CONFINI”. I capitoli pubblicati, infatti, saranno raccolti in un volume che conterrà una ricca raccolta fotografica e una seconda parte dedicata agli approfondimenti di eventi specifici, alcuni dei quali ancora oggi controversi. Al termine di ogni lavoro editoriale è buona norma ringraziare tutti coloro che siano stati d’aiuto con le loro specifiche competenze o anche con il semplice incoraggiamento. Il primo ringraziamento va al mio beneamato direttore, Angelo Romano, che conferendomi questo prestigioso incarico, nell’anno del centenario della vittoria, mi ha riempito il cuore d’immensa gioia. Un grazie sincero va al colonnello Cappellano, dello Stato Maggiore dell’Esercito, per il prezioso supporto documentaristico. Ringrazio ancora il colonnello Pasquale Pino e il generale Ippolito Gassirà, che “recuperandomi” dopo un momento esistenziale molto particolare e proiettandomi d’impeto nelle attività dell’Associazione Nazionale Bersaglieri e dell’Unione Ufficiali in Congedo, mi hanno inferto la forza necessaria per cimentarmi nelle migliori condizioni in questa non facile impresa editoriale. Nessuno si offenderà, tuttavia, se il ringraziamento più speciale lo riservo alla persona che mi è vicina ogni giorno, supportandomi con la sua insostituibile presenza: mia sorella Annalisa. E’ una vera e talentuosa cacciatrice di “refusi” e l’attento contributo, non solo nella correzione delle bozze, è stato per me preziosissimo. Grazie di cuore, sorella mia, per tutto quello che fai per me.


CREDITS www.lavorgna.it www.europanazione.eu www.galvanor.wordpress.com www.confini.info Raccolta numeri arretrati “Confini”


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