La Bussola n°01

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Attualità dovevano e oggi più che mai richiedono di essere affrontati e risolti. Ci si deve aspettare, quindi, che gli elettori italiani pretendano di essere trattati con rispetto e di non dover per l’ennesima volta assorbirsi l’ insultante, per la loro intelligenza, campagna elettorale incentrata sulla paura dell’uomo nero, del diverso e pericoloso di turno. Sicuramente il minimo che si possa pretendere è sentire finalmente non più discussioni urlate su chi gioca a fare nazionalismo più o meno demagogico in sterili dibattiti politici di stampo razzista o neorazzista. È un diritto degli elettori poter seguire dei dibattiti che nella civile e democratica contrapposizione politica permettano la cristallizzazione di soluzioni condivise per il lavoro e la sanità, per la scuola e l’università, e non per ultimo per la giustizia, in poche parole su tutti i settori della vita che sono la vera garanzia per il futuro del paese. Se proprio dobbiamo parlare dell’immigrazione allora incominciamo a cambiare la terminologia usuale che non rivela rispetto per le persone di nazionalità straniera che sono ormai una componente strutturale della società. Cominciamo a riconoscere che non di una emergenza si tratta ma di un fenomeno. Occorre senz’altro cambiare il nostro modo di discuterne abbandonando la finzione collettiva di immenso stupore e indignazione della sorpresa di fronte a notizie come quella dei fatti di La procedura di assunzioni Rosarno, o quella descritta negli La procedura di assunzione degli immigrati si fonda sull’ipocrita presunzione articoli del giornalista Gatti di conoscenza diretta tra datore di lavoro e lavoratore ancora residente dall’Espresso. Lo sapevamo tutti, le all’estero.Come è avvenuto il famigerato incontro tra offerta e domanda istituzioni, la cittadinanza del luogo e di lavoro ancora nessuno si è degnato a rispondere. Forse perché nella ogni persona pensante nel paese, collettiva finzione in cui sono impegnati in primo luogo le istituzioni è scomodo quello che succedeva lì e in tanti ammettere che ciò avviene nel periodo iniziale di clandestinità di sette su dieci luoghi. Peraltro si tratta degli attuali regolarmente soggiornanti immigrati.In quel periodo ma anche dell’identica situazione descritta per tutta la vita il lavoratore straniero è posto sotto la costante minaccia che il quasi venti anni fa dal A. Dell’Atti venir meno di una della numerose condizioni di legalità dell’ingresso e della nell’articolo La presenza straniera permanenza comporti anche la perdita della posizione di regolarità acquisita, in Italia. Il caso di Puglia, Milano, vive e lavora in condizione di precarietà ed incertezza, spesso confinato nei 1991, secondo il quale si può dire che veri e propri ghetti. Se poi si considera che dalla sussistenza del rapporto era diventata una sorta di clausola di di lavoro dipende non solo la regolarità della permanenza sul territorio, ma stile di ogni ricerca sul tema ricordare anche il riconoscimento dei diritti in materia civile in condizione di parità l’effetto della perversa sinergia tra con il lavoratore nazionale, la possibilità di ricongiungersi con il coniuge e i la disattenzione legislativa e il figli minori, iscrizione nel SSN, si colgono a pieno le conseguenze perverse progressivo ampliamento degli spazi dell’ancor più stretto collegamento istituito tra la regolarità della permanenza occupati dall’azione e della e il rapporto di lavoro.Aver ancorato tutta questa serie di importanti aspetti regolarizzazione burocratica tanto della vita alla persistenza di un rapporto di lavoro che per definizione del Ministero del lavoro, quanto più è un contratto sbilanciato, fa legittimamente pensare che la nozione di intensamente, di quello dell’Interno: subordinazione insita nel rapporto di lavoro con lo straniero in particolare di determinare una “regressione” ed stia subendo una torsione che la riporta a quella condizione di soggezione anzi un “imbarbarimento” del personale da cui si sperava di essersi definitivamente affrancati. sistema “giuslavoristico “ il cui significato reale è (stato) quello di creare una quantità crescente di forza lavoro disponibile a lavorare a condizioni molto inferiori a quelli del mercato ufficiale.”Paradossalmente a distanza di quasi venti anni siamo ancora a parlare di fenomeno nuovo e dell’emergenza nell’affrontarlo sempre e comunque negando i diritti dei lavoratori immigrati. Forse è ora di incominciare a chiederci se non ci conviene, essendo anche giusto e legittimo, richiedere la loro affrancazione da ogni condizione di inferiorità,di schiavismo moderno, di emarginazione e discriminazione perché più che mai sono in gioco i diritti di tutti i lavoratori. I diritti e in primo luogo quelli dell’uguaglianza e solidarietà sono come la democrazia, non costituiscono uno stato delle cose cristallizzato, garantito e consolidato, ma un ideale verso cui tendere e in ogni caso da difendere e costruire quotidianamente. La conquista dei diritti è costata tanto in termini anche di vite umane ed aspre lotte sociali per permettere la loro erosione lenta ma progressiva attraverso l’oppressione dei più deboli. Questo processo potrebbe essere inarrestabile se non viene impedito dalla società che ha tutto l’interesse a difendere chi oggi viene indicato come causa di tutti i mali per essere, in modo indisturbato, ridotto in schiavitù e agitato come arma di ricatto per il resto della società. Eppure è già capitato e la storia dovrebbe insegnarci qualcosa. Questa a cui assistiamo è un’azione del tutto analoga a quella protrattasi negli anni trenta negli Stati Uniti e negli anni settanta in Germania, Francia, Olanda e Inghilterra dove l’iniziale apertura verso gli stranieri andava sostituendosi con una disciplina dell’immigrazione più restrittiva, conformemente all’opinione di alcuni gruppi di pressione che nel dibattito si concentravano sulla questione della criminalità degli immigrati. I diritti dei lavoratori hanno subito conseguenze devastanti.Uno dei primi studiosi che rilevò tale azione fu Clifford Shaw: “Un’ azione dimistificante degli ingenui stereotipi diffusi nel corpo sociale, che tendevano a demonizzare il diverso, a far rivivere, in forma nuova, il mito sempiterno dello straniero come nemico, come invasore, come causa di tutti i mali”. Forse è il caso di riflettere piuttosto che lasciarsi pervadere dall’onda devastante dell’odio razziale.

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La legge di riforma n. 189/2002 c.d. Bo Dalla legge di riforma n. 189/2002 c.d. Bossi-Fini è possibile ricavare la rappresentazione dell’immagine della figura dello straniero, che è quella di un soggetto destinato a restare estraneo alla società civile, quasi naturalmente predisposto a delinquere, perciò sottoposto a prova perpetua e costantemente monitorato. Solo che anche il primo strumento attraverso il quale è possibile controllare la regolarità della presenza dello straniero, cioè il permesso di soggiorno, nonostante lo straniero si sia doverosamente attivato di richiedere il suo rinnovo e di documentare con le enormi buste zeppe di documenti comprovanti l’esistenza di un regolare rapporto di lavoro, di reddito sufficiente per la famiglia, di contratto registrato della casa, di residenza e permanenza dei legami e la convivenza parentale, il permesso di soggiorno non arriva mai nei termini di legge, cioè venti giorni. Arriva dopo molti mesi, a volte dopo oltre un anno di attesa e a volte viene consegnato nelle sue mani già scaduto. Ricapitolando, l’immigrato paga 73 euro circa per ogni componente della famiglia che ha più di 14 anni e per mesi e, a volte oltre un anno, aspetta. Nel frattempo la sua tessera sanitaria è scaduta insieme al permesso di soggiorno e il suo rinnovo o proroga diventa una via crucis anche se gli viene effettuata regolarmente la trattenuta per il SSN nella busta paga.Se, malauguratamente, nella crisi economica in corso l’immigrato perde il lavoro, anche se assicurato e con il diritto riconosciuto alla cassa integrazione o ai trattamenti di mobilità e disoccupazione, non può avere più di sei mesi di permesso di soggiorno per attesa occupazione. Anche dopo anni di lavoro in Italia non potendo fare affidamento sull’aiuto di quell’ improprio ammortizzatore sociale che è la famiglia, preziosa anche per i giovani indicati come colpevoli bamboccioni, l’immigrato rischia di ricadere nelle condizioni di clandestinità.

di Paola Bacchiocchi

Credo, più vado avanti mi convinco, che viviamo in una società dove l’apparenza conta più di qualsiasi altra cosa. Si dice che la prima impressione é quella che conta, ma ho scoperto che non si finisce mai di conoscere le persone. Quindi é bene non fermarsi ma andare oltre. Siamo giunti in un epoca dove più sei ben vestito, meglio sarai accettato. Se vediamo un ragazzo nero cambiamo strada avendone paura, se vediamo un gay pensiamo che è malato. Ma perché abbiamo paura di marocchini, africani, cinesi, che girano nel paese ma non ne abbiamo paura invece se sono in televisione, anzi li prendiamo come esempio? Perché un africano che raccoglie arance non deve essere rispettato? Perché indossiamo vestiti di un ragazzo/a gay e ne ascoltiamo la musica, se pensiamo che è un rifiuto della società? La tv influenza e stordisce condizionando i nostri comportamenti ma anche le nostre apirazioni. La massima aspirazione che può avere un adolescente che guarda la televisione è di partecipare al grande fratello per avere una vita piena di tempo libero. Questi messaggi ci vengono non solo dalla pubblicità ma addirittura da testate giornalistiche. Proprio qui si prepara il terreno. Discutendo delle mode e delle tendenze alcune volte le anticipano preparando il terreno a chi poi deve semplicemente lanciare il messaggio pubblicitario su quelle mode o tendenze. Un telegiornale non deve confezionare comportamenti ma deve fare semplicemente pubblica informazione. La pubblicità, di per sé, brucia la facoltà di pensiero di grandi e piccoli, non dice cosa ti offre di più di altri prodotti, ma ti fa credere che é meglio solo perché usa le emozioni. Ad esempio, la pubblicità sulla pasta usa la famiglia, fa vedere che sopra i fusilli ci lavorano nonna, figlia e nipoti, inquadrando immense distese di grano e mettendo in evidenza il costo conveniente. Ma l’industriale non dice che il grano lo paga 14 euro circa al quintale, che i nostri contadini con i soldi che ci prendono non riescono a coprire neppure i costi, che col tempo sono costretti anche a vendere i loro terreni alla nuova borghesia latifondista che preferisce pagare un clandestino e non un italiano. Non dice che la pasta industriale spesso contiene ferro e cromo, non dice che, per giochi di prezzo, il grano viene portato in posti che distano centinaia di chilometri per tornare trasformato in pasta nei luoghi d’origine. L’impatto ambientale, l’aumento di CO2, lo spreco di energie non stanno in cima ai pensieri di quell’industriale che ci propone improbabili nonni a tavola con irrequieti nipoti. Una soluzione potrebbe essere acquistare merce della propria regione. Ma una famiglia dove ci sono più di sei membri preferisce mangiare la pasta che costa 60 centesimi circa al pacco e non quello della propria regione che ne costa il doppio anche se il prodotto è migliore e rispetta le persone. Lo spot pubblicitario, ovviamente, non lavora solo sugli alimenti ma giochi, abbigliamento, cosmesi per tutte le età. C’è da vergognarsi se ci si accontenta di un paio di scarpe per stagione, abbiamo bisogno di averne tre. Le rughe a settant’anni meglio toglierle e l’uomo che non regala il diamante alla propria donna non è in regola con i canoni di convivenza di questa società. Lo sfruttamento di mano d’opera, di risorse, l’aumento di CO2? Perché preoccuparci di tutto ciò quando possiamo essere belle, alla moda e possedere magari un diamante?

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