La Pausa N. 25

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C PI

ANNO 3 NUMERO 25

O A G R U AT

A IT

ARTE

Jackson Pollock, artista ribelle

NATURA

Grand Canyon, il sogno americano di geologi e non

SPORT

Michael Phelps, i trent’anni del Cannibale

MADDY SQUILLACE CITTADINA DEL MONDO


GREEN INTERVISTA Maddy Squillace

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VIAGGI Los Angeles

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NATURA Il Grand Canyon

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ANIMALI Wapiti

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TELEFILM Californication

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RED

LIBRI 26 Consigli per (l’ultima) spiaggia MISTERO 28 Impatto con gli extraterrestri STORIA 36 Circuito aereo settembre 1909 MUSICA Il nuovo album dei Muse

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MODA The september issue

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BLUE SPORT Michael Phelps

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SPORT MINORI Capre, calci e ferri da stiro

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SPORT CERTIFICATI Andrea Benelli

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PSICOLOGIA DELLO SPORT Obiettivi

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YELLOW

ARTE Jackson Pollock

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CASA & DESIGN Richard Meier

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SPECIALE EVENTI 70 Mostra d’arte cinematografica di Venezia CURIOSITÀ Settembre

PINK

GAMES L’allegro chirurgo

72

76

SPAZIO POSITIVO 78 Vogliamo vivere il presente? RICETTA SALATA VINO ABBINATO

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RICETTA DOLCE VINO ABBINATO

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FOTO DEL LETTORE

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ANTICIPAZIONI

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ANNO 3 N. 25 Rivista on-line gratuita DIRETTORE RESPONSABILE Pasquale Ragone DIRETTORE EDITORIALE Laura Gipponi GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giulia Dester HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Laura Gipponi, Diana Ghisolfi, Nicola Guarneri, Gaia Badioni, Simone Zerbini, Susanna Tuzza, Raffaele d’Isa, Sylvie Capelli, Gianluca Corbani, Gianmarco Soldi, Luca Romeo, Valentina Viollat, Roberto Carnevali, Carlo Cecotti, Sirigh Sakmussen, Matteo Simone. Foto di copertina a cura di Marvin Rinnig

DIREZIONE/REDAZIONE/PUBBLICITA’ AURAOFFICE EDIZIONI S.R.L. a socio unico Via Diaz, 37 / 26013 Crema (CR) Tel 0373 80522 / Fax 0373 254399 www.auraofficeedizioni.com Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013


STORIE DI VITA VISSUTA - MADDY SQUILLACE

Foto a cura di Idris Erba

MADDY SQUILLACE

Una vera cittadina

del mondo

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Maddy Squillace è venuta a trovarci la scorsa estate, e abbiamo chiacchierato amabilmente sulle sue molteplici esperienze di vita all’estero. La voce è argentina, lo sguardo diretto e franco. di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com


Come ti chiami e quanti anni hai?

Mi chiamo Maddy Squillace, età scenica dai 25 ai 34.

Dove vivi, da quanto tempo, per quale motivo? Attualmente la mia dimora è un po’ a Los Angeles, un po’ a Milano e, anche se per meno tempo, un po’ a Parigi. Da quanto tempo? Buona domanda: ho lasciato l’Italia quando avevo due anni! Concentrandoci su Los Angeles e Milano direi da circa 5 anni. I miei genitori mi hanno inculcato questa vita errante fin da piccolissima e non riesco più a fermarmi, ma oggi viaggio soprattutto perché seguo la mia arte che mi porta in diverse parti del mondo: a seconda degli ingaggi, mi muovo. Ho scelto Los Angeles perché è la patria internazionale per eccellenza della recitazione. Avendo imparato l’inglese quando vivevo in India da bambina, mi trovo molto bene anche a recitare in inglese. Mi piace molto inoltre collaborare con i registi e i produttori che ci sono là, perché ce ne sono di ogni nazionalità; e quindi richieste, cultura e progetti sempre molto diversi. A Milano le produzioni sono nazionali; un po’ meno interessanti, per il momento.

Che lavoro fai?

Sono attrice. Ma alcuni mesi all’anno lavoro anche nella moda (sales manager in show-room) tra Milano e Parigi, quando ci sono le presentazioni delle collezioni. Cerco sempre di indirizzare i clienti ad acquistare i prodotti più adatti al proprio negozio. La mia esperienza di attrice mi aiuta nell’improvvisare e nel comprendere velocemente il tipo di persona che mi trovo di fronte, adattando così il mio atteggiamento nei confronti di ciascuno in modo naturale: è molto divertente.

Foto a cura di Cristina Franzoni

Qual è stata la prima impressione al tuo arrivo negli Stati Uniti?

Oh my goodness it’s amazing! (Oh mio Dio è incredibile!) Ho toccato le terre americane per la prima volta a New York circa 15 anni fa. Ho preso la metropolitana per Manhattan e la mia impressione uscendo è stata: “Wow! Questa è casa!”. Ho poi scelto Los Angeles in quanto Hollywood è lì, per incrementare quindi la parte attoriale e cinematografica di me; e poi perché c’è un clima fantastico sia dal punto di vista del tempo atmosferico che della gente.

Descrivi una tradizione caratteristica (usanze, aneddoti, superstizioni)

Tra le festività americane che amo di più c’è il pranzo del ringraziamento che mi piace molto nella sua dimensione di condivisione. Essendo vegetariana, mi piace un po’ meno la massa di questi tacchini immensi; ma l’atmosfera è davvero speciale. La festa che comunque mi è piaciuta di più in assoluto è il 4 luglio: l’Indipendenza, la festa dell’America in tutto. A Los Angeles quasi tutti i giovani (ci sono moltissimi giovani in città) aprono le loro case e fanno festa. Soprattutto a Venice


STORIE DI VITA VISSUTA - MADDY SQUILLACE

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Beach ci sono queste villette a più piani con piscina e giardino, una accanto all’altra; ovunque musica a go-go. Ovviamente tutti hanno la bandiera americana disegnata sulla faccia, sul corpo, sui vestiti. Quello che mi piace è proprio la condivisione: puoi portare qualcosa da mangiare o da bere; ma se anche arrivi a mani vuote, vieni accolto senza bisogno di invito o di conoscere i padroni di casa. Quando poi cibo e bevande sono terminate, si passa alla casa seguente e poi a quella successiva, così tutto il giorno. E poi i fantastici marshmallow: sono dei dolcissimi bastoncini di caramelle fatti a “nuvoletta” morbida che loro mettono sul barbecue.

Ti sei sentita o ti senti straniera? Come sei stata accolta?

No, come in ogni parte del mondo, non mi sono mai sentita straniera; ma parte della città. Quando sono partita, non conoscevo nessuno. Ho trovato una stanza in affitto tramite un sito web, di proprietà di un simpaticissimo uomo dell’Arizona e, al mio arrivo in aeroporto, ecco la sorpresa: era lì ad aspettarmi, insieme a quello che ho poi scoperto essere il terzo co-inquilino, in un’auto decapottabile. È importante incontrare le persone giuste quando si arriva in un luogo nuovo: se avessi incontrato persone antipatiche, scortesi o poco collaborative avrei


dovesse fare un’esperienza simile alla mia, è di non nascondersi, non negare una parte importante di sé e della propria cultura di vita.

Descrivi i pro e i contro di essere un italiano all’estero.

Foto a cura di Amina Touray

avuto un’impressione diversa; ho trovato invece la mia seconda famiglia, e questa sensazione è bellissima. Inutile dire che molto dipende anche da come ti poni e dal tipo di relazioni che riesci a instaurare. Rientrare in Italia dopo oltre 10 anni vissuti all’estero con i tuoi genitori è stato uno shock e un piacere allo stesso tempo. Mentre in America c’è da sempre l’abitudine a raffrontarsi con persone di varie provenienze, in Italia questo non c’era quando sono tornata. Ora con le classi multirazziali ci si sta un po’ aprendo, per fortuna. Al mio arrivo i compagni di scuola mi hanno vista come una “diversa”, e questa cosa non mi è piaciuta affatto. Al punto che, per integrarmi, ho scelto di nascondere per anni la mia internazionalità, di non parlare più inglese né di raccontare le esperienze di vita con l’incantatore di serpenti fuori dalla porta di casa in India o le passeggiate sul dromedario. Il mio consiglio oggi, a chi

L’America è pro-Italia, sia che tu venga da una grande città sia da un paesino sconosciuto. L’Italia per loro ha ancora, per fortuna, un gusto di ricercatezza: è quella destinazione che tutti vogliono scegliere prima o poi. Mi è capitato durante un casting di essere in compagnia di due ragazze che parlavano in americano, ma sostenevano di essere italiane. Ho iniziato allora a parlare in italiano e la loro risposta è stata: “No, noi non parliamo italiano, la nonna era italiana!”. Gli elogi ricevuti in America non li ho mai avuti nei Paesi anglosassoni, e tantomeno nei Paesi arabi o asiatici. L’italiano in generale è visto abbastanza bene, tranne che per le poche esperienze che hanno avuto con turisti irrispettosi; ma questo succede in qualsiasi nazione. Noi abbiamo il pro di avere una cultura, un’arte e una


STORIE DI VITA VISSUTA - MADDY SQUILLACE

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tradizione importanti in tutto il mondo. centrata su questo. Quindi il tuo ego Negli altri Paesi in cui ho vissuto ero artistico va a mille! in residence per stranieri. Che fossi quindi italiana, francese, inglese o altro, poco interessava ai libici o agli Consiglieresti a un italiano di seguire le tue orme? arabi in generale. Assolutamente sì. Sempre di più conosco persone che si stanno Cosa ti manca dell’Italia? lanciando all’estero, sia in America Fondamentalmente gli amici, e poi che in Oriente o in Europa. Un po’ mi quel piccolo gusto di antichità che dispiace per la fuga dei cervelli e dei trovi camminando per le strade. talenti, ma sono certa che avranno Inoltre vivendo a Los Angeles – che successo e riconoscimenti anche in è una città immensa, grande quanto quanto italiani. la Lombardia – non ritrovi la vita di quartiere e quando ti dicono: “Questo palazzo è antico”, magari ha 60 anni. Programmi futuri? Continuare così: tra Milano, Parigi e Los Angeles. Devo terminare un film Quando sei in Italia, cosa ti che è stato ambientato in Tailandia, manca dell’America? ma le cui ultime scene verranno girate Le opportunità perché lì, soprattutto in studio a Los Angeles. E poi si vedrà: come attrice, hai tante possibilità tutto quello che viene mi farà super di lavorare (malgrado le difficoltà piacere. burocratiche): puoi lavorare per video musicali, per la televisione, girare film, stare in teatro; la città è proprio Foto di sfondo a cura di Idris Erba


Foto a cura di Idris Erba

La pagella di Maddy Offerte di lavoro

Voto da 1 a 10… 100

Difficoltà linguistiche

Nessuna, parlo 4 lingue: inglese, italiano, francese e spagnolo. Conoscevo anche l’arabo ma, non usandolo, l’ho ormai Stipendio medio dimenticato. Però negli Stati Uniti devi Ci sono progetti low-budget sia in parlare l’inglese, perché la gente non Italia che in America. Se mi parli di parla altre lingue. Hollywood, il budget è ovviamente molto più alto, ma non ci sono ancora arrivata. Relazioni sociali Secondo me dipende molto da te e da Costo della vita come ti poni. Metto allo stesso livello Los Milano e Los Angeles hanno Angeles e Milano. Quando sono arrivata praticamente lo stesso tenore di vita. a Milano, mi avevano detto che i milanesi In più là c’è la possibilità di avere erano molto freddi. Sinceramente ho qualsiasi tipo di cucina e molto vintage trovato degli amici fantastici, quindi non a prezzi bassissimi, darei quindi 10 a sono d’accordo su questa immagine di Los Angeles, ma 8 a Milano. città chiusa.


VIAGGI - LOS ANGELES

LOS ANGELES

di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com

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Il 4 settembre 1781 venne fondata una città dal lungo nome “El Pueblo de Nuestra Señora de los Ángeles de Porciúncula de Asís”, oggi nota semplicemente come Los Angeles. La Contea di Los Angeles è una vasta megalopoli composta da 85 città-quartieri. È la seconda città degli U.S.A. per numero di abitanti; una città orizzontale, e di conseguenza sconfinata, percorsa da 23 autostrade con 11 milioni di auto registrate che circolano a tutte le ore del giorno e della notte. A Los Angeles non si va a piedi e neppure con i mezzi pubblici, quasi inesistenti e comunque inefficienti, ma è necessario avere un mezzo privato. È una città moderna, senza monumenti da visitare, ma interessante in quanto specchio dell’America proiettata verso il futuro; ed è inoltre esemplificazione di tutti i problemi sociali americani: una città non facile da capire, ma indispensabile da conoscere. È l’agglomerato urbano più importante della California del Sud, affacciata sull’Oceano Pacifico e confinante a Nord con le montagne di Santa Monica e a Est con quelle di San Gabriel che la dividono dal deserto del Mojave. Il clima è dolce durante tutto l’anno e la pioggia è scarsa; la temperatura varia parecchio da una zona all’altra: mentre a Santa Monica la giornata può essere gradevole e ventilata, a Hollywood il clima è caldo-umido e l’aria spesso irrespirabile.

vecchio Pueblo de Nuestra Senora de Los Angeles, resta solo Olvera Street; una stradina che pare un pezzetto di Messico con il mercato artigianale e i bar all’aperto. Qui si trova anche Avila Adobe, la casa più antica della città costruita nel 1818. Su una piccola collina si trova Music Center: un complesso di teatri raccolti attorno a una piazza che domina il Centro Civico. L’edificio più conosciuto è Dorothy Chandler Pavillion, sede dell’Opera e della Filarmonica di Los Angeles, dove si celebra la notte degli Oscar. In questo quartiere si trovano alcuni grandi alberghi. Fra i più prestigiosi ricordiamo il vecchio Biltmore, con belle decorazioni Déco, e il moderno Bonaventure, progettato nel 1976 da John Portman: un insieme di 5 torri rotonde di acciaio e vetro scuro.

DOWNTOWN

HOLLYWOOD

Considerato il centro storico di Los Angeles, perché è il punto dove alla fine del ‘700 si stabilì il primo nucleo abitativo, è oggi un moderno quartiere dove sono concentrati gli uffici amministrativi, finanziari e dove sono sorti splendidi grattacieli dalle linee eleganti costruiti con i più avanzati sistemi antisismici. Del

All’inizio del secolo questo era il posto più noto della città; dove viveva e lavorava il mondo del cinema di cui oggi rimane solo il mito. Hollywood Boulevard, l’arteria principale, è ormai decaduta; ma resta tuttavia tappa obbligata per i turisti che vengono a fotografare le impronte di mani e piedi di famosi attori davanti al


VIAGGI - LOS ANGELES

della Filarmonica o di cantanti che attirano grandi folle tipo Michael Jackson, Bruce Springsteen, Madonna e altri.

WEST HOLLYWOOD

Teatro Cinese, e le stelle della “Passeggiata delle celebrità” incastonate nel marciapiede a ricordo dei grandi del mondo dello spettacolo. Sulle colline ci sono ancora ville lussuose, soprattutto ai piedi di Mount Hollywood dove, all’interno del parco Griffith, si trova l’osservatorio e il planetario. Dalla terrazza si domina una parte della città, e si vede la famosa scritta che un tempo reclamizzava la vendita dei terreni di Hollywood e che oggi è parte del paesaggio. Alla periferia del quartiere si trova Hollywood Bowl, uno dei più grandi teatri all’aperto che può contenere 30.000 persone, e dove in estate si tengono i concerti

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Quartiere alla moda, frequentato dalla gente del cinema soprattutto di notte. Si trova a mezza costa e gode quindi di una bella vista sulla città. Il tratto di Sunset Boulevard chiamato lo Strip, dove si trovano i grandi cartelloni pubblicitari dei nuovi film, è la parte più animata di tutta Los Angeles con ristoranti, locali notturni e negozi in stile europeo.

BEVERLY HILLS

Gran parte di questa città è immersa nel verde che protegge le lussuose ville degli attori; è elegante, tranquilla, ben curata, ricca: un insieme di quartieri residenziali molto esclusivi fra cui Bel Air, arrampicato sulla collina di Santa Monica. La parte commerciale si sviluppa attorno a Rodeo Drive, la via dove gli attori fanno i loro acquisti e dove si trovano negozi dai nomi prestigiosi: Cartier, Chanel, Yves


Saint Laurent, Armani , Valentino e Fendi. costruiscono le loro case sulle brulle colline; non ha grandi spiagge, ma scogli e calette. Al 17985 di Pacific Highway si trova LE SPIAGGE il Paul Getty Museum, fedele ricostruzione La costa di Los Angeles si sviluppa su di una villa romana contenente una ricca un centinaio di chilometri, partendo dalle collezione di antichità greche e romane e montagne di Santa Monica ai cui piedi una vasta raccolta di opere che vanno dal si trova Malibù, per terminare a Long Rinascimento al XVIII secolo. Beach: grande porto commerciale della

SANTA MONICA

È la spiaggia più nota, grazie alla passeggiata ombreggiata da altissime palme e all’ampia spiaggia dorata.

città. Lungo il percorso si incontrano parecchie cittadine, ognuna con la sua caratteristica.

MALIBÙ

È la città preferita dagli attori che


VIAGGI - LOS ANGELES

VENICE

è la capitale del surf. La baia è protetta Il rifugio di artisti di avanguardia e dalla massiccia penisola rocciosa di intellettuali. La sua spiaggia è famosa Palos Verdes, zona residenziale di lusso per l’eccentricità dei personaggi che la con splendide ville adagiate nel verde nella più assoluta tranquillità, in quanto frequentano. il traffico è controllato e fortemente limitato.

MARINA DEL REY

Tranquilla e benestante, è la città LONG BEACH preferita dagli sportivi. Vi si trova Non ha spiagge famose, ma è conosciuta un ampio porticciolo artificiale dove perché possiede due grosse attrazioni: attraccano diverse centinaia di il transatlantico Queen Mary, ora imbarcazioni da diporto. trasformato in albergo; e il gigantesco aereo Spruce Goose, che durante la MANHATTAN BEACH seconda guerra mondiale avrebbe È una quieta residenza per yuppy e dovuto trasportare in Europa truppe e giovani produttori del cinema. mezzi, ma che non ha mai funzionato.

HERMOSA BEACH

DISNEYLAND

La continuazione della precedente, 1313 S Harbor Boulevard, Anaheim. ma più popolare e trafficata. Situato nella Contea di Orange a Sud di Los Angeles, lo si raggiunge con la Santa Ana Fwy in un’ora da Downtown. REDONDO BEACH Tutta raccolta attorno all’ampia baia, Sorge nell’abitato di Anaheim e può

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essere considerato la maggiore attrazione della California per grandi e piccini, e il parco dei divertimenti più visitato del mondo. Nel magico regno di Disneyland — una vera città da sogno, pulita, ordinata, stupendamente organizzata — tra centinaia di attrazioni si possono incontrare tutti i personaggi creati dalla fervida fantasia di Walt Disney. Divisa in settori che fanno perno sul castello di Biancaneve, offre qualsiasi tipo di servizio ed è dotata di diversi punti di ristoro e

richiede almeno 4 ore ricordando che gli Studios aprono alle 09.00, ma chiudono alle 17.00 nei mesi estivi e alle 15.30 nelle altre stagioni. Una serie di scale mobili conducono nella parte bassa della valle dove si effettua un giro di un’ora in tram attraverso i vari set e le fantastiche ambientazioni di alcuni film, che illustrano bene i trucchi cinematografici. Nella parte alta si può inoltre assistere a spettacoli allestiti sul tema di film e telefilm di successo.

VITA NOTTURNA

Anche se è difficile da credere, la vita notturna come la intendiamo in Europa non esiste a Los Angeles: i locali si animano solo venerdì e sabato sera, e nessuno se ne va in giro a spasso per le strade. Si trova gente solo nei ristoranti, nei bar e nelle discoteche situate prevalentemente sullo Strip.

SHOPPING

L’immensità della città e la difficoltà dei trasporti limitano le possibilità di “andar molti negozi. Una giornata a Disneyland per negozi”. Meglio affidarsi ai grandi è un tuffo nei sogni dell’infanzia, e un shopping center. modo per conoscere da vicino le famiglie della società media americana dell’Ovest. Disneyland si raggiunge esclusivamente con un mezzo proprio, o con l’autobus di un tour organizzato.

UNIVERSAL STUDIOS

100 Universal City Plaza. Sono gli studi televisivi e cinematografici più grandi del mondo, occupano un’intera vallata dietro le colline di Hollywood e offrono al visitatore una serie di attrazioni utilizzando alcune scene dei film più famosi girati dalla casa cinematografica. Questa escursione


NATURA - IL GRAND CANYON

Il sogno americano

dei geologi e non solo

IL GRAND CANYON

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di Diana Ghisolfi dianaghiso@gmail.com


GRAND CANYON

Per “canyon” si intende una stretta valle fluviale profonda caratterizzata da versanti rocciosi ripidi e scoscesi, essa è il risultato del segno profondo lasciato da un fiume nel proprio letto e dalle conseguenti erosioni. La gola più famosa del mondo è il Grand Canyon dell’Arizona, nella parte sud-occidentale degli Stati Uniti d’America. Il Grand Canyon comprende più canyon uniti tra loro e la sua straordinaria fama deriva dall’insieme di grandezza, profondità ed eccezionale varietà dal punto di vista geologico. Creato dal sollevamento tettonico dell’Altopiano del Colorado e dall’erosione provocata dal fiume Colorado, la quale ha permesso di studiare la deposizione di sedimenti appartenenti a ere geologiche distanti centinaia e migliaia di milioni di anni da oggi. La maggiore esposizione geologica nel Grand Canyon varia in età dai 2 miliardi di anni (Scisti di Vishnu) ai 230 milioni di anni di età (Calcare di Kaibab).

comunque imponenti. Lungo 446 chilometri e profondo 1600 metri, la sua larghezza varia dai 500 metri ai 27 chilometri.

IL PARCO

Con la gioia del movimento ambientalista, il parco viene istituito il 26 febbraio del 1919, dopo essere stato riconosciuto come monumento nazionale nel 1908. DIMENSIONI I suoi 4927 km2 vengono dichiarati Non è il più grande né il più profondo patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel canyon esistente, le sue misure restano 1979 e la fama sempre crescente arriva a consacrare il parco come una tra le meraviglie naturali del mondo, proprio grazie alle sue caratteristiche. L’intera area del parco è un deserto semi-arido, uno dei paesaggi geologici più studiati al mondo dal momento che offre moltissime risorse geologiche, paleontologiche, archeologiche e biologiche. A diversa altitudine corrisponde un diverso habitat naturale. Oltre al Grand Canyon, protagonista assoluto, il parco comprende grotte, rocce, fossili, foreste, praterie, fiumi e torrenti, boscaglie e terreni variabili (forestali umidi, minerali


NATURA - IL GRAND CANYON

asciutti, argillosi e sabbiosi).

FLORA E FAUNA

Il parco ospita oltre 1500 piante, 89 specie di mammiferi, 47 di rettili, 9 di anfibi, 17 di pesci e 316 di uccelli. I più noti sono: l’orso nero, il coyote, l’antilocapra, il puma, il wapiti, il condor della California, l’aquila di mare dalla testa bianca, il pellicano bruno californiano, la civetta pezzata, il chuckwalla (specie di iguana) e il serpente a sonagli.

SOUTH E NORTH RIM

Il Grand Canyon si divarica sulle due sponde del fiume Colorado, cioè il bordo nord (North Rim) e il bordo sud (South Rim). Il North Rim è più tranquillo, alto e impegnativo, meno accessibile e meno turistico. La meta ideale per gli

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amanti delle camminate pesanti e dei panorami mozzafiato. I sentieri più famosi sono il Widforss Trail (il più facile), Cliff Springs Trail e Cape Final Trail. Il South Rim è la zona più attrezzata e turistica. Percorrendo il sentiero chiamato Rim Trail, è possibile fermarsi in diversi punti di osservazione per godersi il panorama unico. Il punto migliore è Desert View, il più alto del bordo sud, dove si erge una torre in pietra.

QUANDO LA INGHIOTTE...

VALLE

Dal 1870 il Grand Canyon ha visto morire 600 persone. Le cause sono varie: caduta, arresto cardiaco, disidratazione, ipotermia, annegamento, incidenti aerei, caduta di rocce, suicidi e omicidi.


Aneddoto

Strani incontri al Grand Canyon di Nicola Guarneri - guitartop@libero.it Dopo diverse ore di strada le luci di Las Vegas sono solo un lontano ricordo. Io, Francesco e Carrie (il nostro van) attraversiamo l’ingresso del Grand Canyon National Park un po’ stanchi (soprattutto Carrie) ma emozionati ed eccitati. Sono quasi le 17:00 ed è novembre, il sole scappa verso l’orizzonte e riusciamo di sfuggita a godere del panorama. Il giorno seguente ci attende una lunga escursione, meglio riposare. Tutti gli alloggi sono prenotati quindi durante la notte godremo dell’abbraccio di Carrie. È proprio nel bel mezzo del sonno che mi capita un’esperienza strana, terrificante ed emozionante. Saranno le tre, forse le quattro quando Madre Natura bussa alla mia spalla: devo proprio andare in bagno. Inforco casualmente le infradito, apro la portiera di Carrie e con gli occhi ancora semichiusi vado alla ricerca di un posto isolato. Non faccio in tempo nemmeno a circumnavigare il veicolo che mi trovo muso contro muso con un alce gigantesco – che al momento dell’incontro per me è solamente un grosso animale con le corna, scoprirò in seguito essere un wapiti. Resto paralizzato, nonostante l’esemplare non sembri molto interessato alla mia presenza e rumini noncurante. Quando i miei occhi si abituano all’oscurità noto che non è solo. Altri dieci, forse venti animali hanno invaso il parcheggio durante la notte, facendo risuonare gli zoccoli sul cemento dell’uomo moderno. Osservo la scena, ora divertito, ma non ho altra scelta che tornare sui miei passi, richiudere la portiera e mettermi a dormire. Sperando di non farmela addosso.


ANIMALI - WAPITI

WAPITI

Il cervo nobile dalla voce acutissima

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di Diana Ghisolfi dianaghiso@gmail.com


CHI È

Il wapiti è una sottospecie di cervo nobile, secondo della sua famiglia per dimensioni (il più grande è l’alce). Il suo nome scientifico è Cervus elaphus canadensis, e proprio di questo animale sono state riconosciute dieci sottospecie: sei del Nord America e quattro dell’Asia. In italiano viene chiamato “wapiti”, nome derivante dalla lingua shawnee che significa “sedere bianco”, mentre in inglese è tradotto “elk”.

COME È FATTO

In media un esemplare maschio misura 2,70 metri di lunghezza e 1,50 di altezza al garrese (cioè dal punto più alto del dorso a terra), mentre il peso è circa 3 quintali (300 kg). La femmina è più piccola del 25%. Torace e collo sono robusti, mentre le gambe sono sottili e terminano con degli zoccoli. Il wapiti è infatti un ungulato. Interamente ricoperto da pelo marrone scuro, la parte posteriore del corpo ha una macchia più chiara.

Il muso snello e allungato e le meravigliose corna, contribuiscono a rendere l’animale “nobile”, anche se tutti i cervi nobili sono chiamati così grazie alla camminata elegante con il collo ben eretto che sono soliti tenere. Le corna presentano 6 punte, possono misurare 1,50 metri di lunghezza e 18 chilogrammi di peso. La loro crescita dipende dal testosterone e, nonostante la presenza di corna caratterizzi fortemente il tipo di animale, sono infatti possedute solamente dai maschi. Altra caratteristica presente solo nei maschi è la criniera bruna attorno al collo.


ANIMALI - WAPITI

spariranno durante la crescita. In due mesi vengono svezzati, ma restano nel Diffuso nelle zone temperate del Nord branco con la madre per almeno un anno. America. È stato introdotto in Argentina e in Nuova Zelanda.

DOVE SI TROVA

COSA MANGIA

Il wapiti è un erbivoro. Si nutre di erba, bacche, arbusti e germogli.

RIPRODUZIONE

Il wapiti è un mammifero. Nel periodo degli amori, cioè da agosto a novembre, i maschi lottano per conquistare e difendere un gruppo di femmine. Dopo la fecondazione, la gestazione dura 260 giorni. La femmina partorisce un solo cucciolo all’anno. I piccoli pesano 12 kg circa, appena nati, e hanno il corpo ricoperto di macchie bianche che

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CURIOSITÁ

I maschi si occupano di controllare i gruppi di femmine, e si sfidano tra loro per farlo. Lo scontro serve a dimostrare la propria forza, e spesso entrambi i contendenti escono dal combattimento gravemente feriti. Le corna, la dimensione del corpo e il bramito — cioè il suono emesso — denotano la forza di un wapiti. Il verso del wapiti è un suono acutissimo e stridente, e viene utilizzato per intimorire l’avversario. Questo maestoso animale sopravvive generalmente 13 anni in natura e 20 in cattività.



TELEFILM - CALIFORNICATION

CALIFORNICATION UN ANNO DOPO

di Nicola Guarneri guitartop@libero.it

Nell’estate 2014 terminava la settima e ultima stagione di Californication: a un anno di distanza Duchovny si butta a capofitto in una nuova serie, senza dimenticare le spiagge assolate della California.

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Se non avete mai visto un episodio di Californication questo potrebbe essere il momento ideale per iniziare una nuova serie. A un anno dal termine del tv-show della Showtime i fan non si sono ancora rassegnati a dire addio a Hank Moody e Charlie Runkle. Il successo planetario di Californication va di pari passo con i problemi esistenziali di Hank Moody (interpretato da David Duchovny, sì, quello di X-Files) e della stessa serie, che già prima del suo debutto

deve far fronte a una causa dei Red Hot Chili Peppers, che accusano la Showtime di aver copiato il nome da una loro canzone del 1999 (la causa sarà vinta dal network della CBS che dimostrerà come il termine venne utilizzato in un articolo del Time Magazine del 1972). Ma veniamo allo show: Hank Moody è il vero centro nevralgico di ogni puntata, attorno a cui è cucita tutta la serie. Hank è uno scrittore di successo che insieme alla figlia Rebecca (Madeleine Martin) e alla


ex-moglie Karen (Natascha McElhone) vive Los Angeles, Hollywood e Venice Beach, in ogni loro sfumatura. Le sette stagioni vedono un continuo tira-e-molla tra Hank e Karen, con in sottosfondo una miriade di avventure, sessuali e non. L’accoppiata scrittore-California non può non far pensare a Charles Bukowski, con il quale ci sono diverse analogie: dall’uso smodato di alcool fino al nome dell’alter ego letterario che Bukowski utilizzava nei suoi romanzi (Henry “Hank” Chinaski). Le somiglianze però finiscono qui: se Bukowski in alcuni racconti (tra cui Donne) non pare un adone e si “accontenta” di ragazze esteticamente mediocri, Hank Moody è un vero conquistatore (in tv l’occhio vuole la sua parte) e le sue “compagne di sbronze” (cit.) sono sempre molto attraenti. Una menzione speciale va fatta per Charlie Runkle (Evan Handler), agente di Hank a cui tocca il ruolo di moderno scudiero: piccolo, tarchiato e imbranato, incline all’onanismo (che tra l’altro – spoiler alert – sarà causa di un licenziamento) Charlie vive di luce riflessa, soprattuto quando cerca di dissuadere Hank dalle sue (dis) avventure per portarlo sulla retta via del

lavoro, prima di cedere egli stesso ai piaceri carnali che Los Angeles può offrire in ogni stagione dell’anno. Attorno alle scene di sesso e nudità, trattate in modo ilare e con una volgarità raffinata mai fine a se stessa, ci sono i problemi familiari di Hank che, a detta dello stesso Duchovny, devono solo essere un contorno alla serie: « […] questo show ha sempre avuto a che fare con sesso e nudità. […] Gli spettatori tendono a diventare ciechi di fronte a quello che stiamo facendo, ovvero uno show simpatico su una famiglia. Se Californication deve lasciare un’eredità, vorrei che fosse “Quello show sulla famiglia che era così divertente e allo stesso tempo sembrava così vero” » I fan si mettano il cuore in pace: non ci sarà un’ottava stagione e le avventure di Hank Moody terminano nell’estate del 2014. Duchovny infatti ha già iniziato a girare una nuova serie, Aquarius, che racconta la storia di due detective alle prese con un micidiale serial killer nell’America di fine anni ’60. Qualcuno ha pensato a Charles Manson? Ebbene, per scoprirlo non dovete fare altro che leggere il prossimo numero de La Pausa!


LIBRI - CONSIGLI PER (L’ULTIMA) SPIAGGIA

CONSIGLI

PER (L’ULTIMA)

SPIAGGIA di Luca Romeo luca.rom90@yahoo.it

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Sogni (letterari) di tante notti di mezza estate. La stagione più calda dell’anno è anche quella, si sa, in cui la maggior parte degli italiani tira fuori dagli scaffali quel vecchio libro che non ha avuto tempo di leggere durante l’inverno. Complice il tempo libero, però, sono tanti anche gli editori che provano a lanciare sul mercato la novità super-ricercata che, in quel di settembre, risulterà anche la più letta sulle spiagge e — soprattutto — la più venduta nelle librerie. E chi vincerà la scommessa quest’estate? Siamo proprio agli sgoccioli per capire quale sarà stato il romanzo più «consumato» dagli italiani, anche se alcune tracce inducono a riflettere soprattutto su alcuni titoli. Uno dei primi a spiccare dall’elenco non può che essere La ragazza del treno, lavoro intrigante di Paula Hawkins, che per il titolo ha disturbato un vecchio racconto della regina del noir Agatha Christie. Ed è sempre il mistero a gravitare intorno a Rachel, protagonista assoluta della trama, implicata suo malgrado in un affare più grosso di lei. Sempre sul versante «mistery», una citazione va fatta anche per Uomini senza donne, ultima fatica di Murakami Haruki: una serie di racconti che oscilla tra l’amore e l’assurdo. Avanti per di qua, si arriva al secondo romanzo del cantante dei Baustelle Francesco Bianconi che, dopo aver stupito con Il regno animale, ritrova il successo

lontano da microfoni e chitarre rock con il nuovissimo La resurrezione della carne, avvincente ed empatico proprio come il predecessore. Ma l’estate e la letteratura sono territori di caccia perfetti anche per i fan delle «star» dello sport o dello spettacolo, che vanno a cercare la storia del proprio idolo tra le pagine stampate. Così, l’estate 2015 ci fornisce alcuni spunti interessanti: Johnny Depp, l’uomo dietro la maschera, realizzato da Fuchs Thomas su uno degli attori hollywoodiani più famosi al mondo — e che in libreria può essere affiancato dal nostro Sordi, immortalato dal critico Tatti Sanguineti in Il cervello di Alberto Sordi, spaccato sul cinema italiano in generale più che sul Marchese Del Grillo in sé. Gli sportivi preferiranno invece Michael Jordan, la vita: biografia di Roland Lazenby su quello che è probabilmente il miglior cestista di tutti i tempi. Dal canto suo, sta suscitando curiosità e sorrisi Vite segrete dei grandi scrittori, racconti decisamente «sopra le righe» e spesso «hot» su illustri letterati del calibro di William Shakespeare, Jean-Paul Sartre e Giacomo Leopardi. Ma, è cosa risaputa, la vera sorpresa delle classifiche è il successo non annunciato. Manca poco alla fine dell’estate e tanti altri libri sono già stati letti e straletti lungo lo Stivale. Il più venduto? Lo scopriremo tra poche settimane. Intanto, i suggerimenti per l’ultima Pausa estiva non mancano di certo.


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FUTURO CONTATTO O PROSSIMO IMPATTO CON GLI EXTRATERRESTRI?

Sirigh Sakmussen compagniadelthe@gmail.com


Una cosa appare ormai certa. Ammesso che la fenomenologia ufologica sia riconducibile a entità biologiche intelligenti non appartenenti a questo pianeta, le intenzioni di questi extraterrestri nei confronti degli umani non sono affatto ostili. Gli avvistamenti di U.F.O. (ricordiamo il significato dell’acronimo: Unidentified Flying Object) sono infatti in gran parte riferibili ad oggetti 1) artificiali, 2) dalle prestazioni di gran lunga superiori a qualunque tecnologia conoscibile sulla Terra, e 3) controllati — direttamente o con modalità da remoto — da entità intelligenti. Chi sostiene che gli U.F.O. altro non sarebbero che prototipi militari ad alte prestazioni, dimentica che, ogni volta che l’umanità ha costruito manufatti superiori a tutto ciò che esisteva un attimo prima, ne ha fatto un uso immediato e deciso ai danni dei propri simili; se non addirittura un uso direttamente bellico. Ma, anche ribadendo con forza queste premesse a fondamento della moderna ufologia, la materia non può dopotutto ridursi ad una sorta di “birdwatching” avente ad oggetto velivoli dalla presumibile origine spaziale. Affermare la sola possibilità, anzi ormai la ben alta probabilità, che non siamo soli — tanto nella nostra galassia, quanto nell’intero universo — crea tutto un insieme di problematiche a cascata che impongono all’ufologo conoscenze e competenze vaste e complesse in seno a un approccio alla materia senza alcun dubbio di tipo interdisciplinare. La gran mole di domande, che deriva dalla possibilità di un incontro-confronto fra l’umanità terrestre e una o più civiltà provenienti da pianeti appartenenti ad altri sistemi stellari, si articola attraverso argomenti scientifici, tecnologici, economici, socio-politici, etici e religiosi. Ma partiamo proprio dall’affermazione

iniziale, relativa alla certezza di una non ostilità di civiltà extraterrestri enormemente superiori agli umani, e impegnate da tempi molto lunghi in un monitoraggio delle attività sul pianeta Terra. Se ostilità ci fosse, questa si sarebbe manifestata ormai da molto tempo; e già tutti i nostri antenati sarebbero stati ridotti in cibo per alieni. Si sostiene che uno sviluppo tecnologico in grado di trasportare esseri viventi da un sistema stellare all’altro — o addirittura da una galassia all’altra — debba necessariamente associarsi a un’evoluzione sul piano etico altrettanto importante. Ciò in quanto la crescita tecnologica di specie intelligenti non può non associarsi a una crescita di potere che — inizialmente e visceralmente — può facilmente scivolare verso un desiderio di sopraffazione nel quadro di un delirio di onnipotenza. Più potere (derivante a una specie intelligente da una più sviluppata tecnologia) deve quindi associarsi a più controllo; e questo non può che derivare da una parallela evoluzione etica che metta comunque al centro della morfologia di una siffatta civiltà un principio di pace e fratellanza fra tutti gli esseri viventi. Basta d’altra parte osservare il nostro pianeta, con la brusca accelerazione tecnologica degli ultimi 200 anni e con l’uso che l’umanità ne ha fatto fino ad


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oggi. L’uomo è forse in procinto di autodistruggersi con la violenza alla quale sottopone i suoi simili e l’intero pianeta — nient’affatto rispettato nella sua dimensione geologica, ecologica e climatica. Superare questo delicato stadio è probabilmente un passaggio non dissociabile da un salto evolutivo innanzitutto etico. Chi altrove nell’Universo ci avesse già preceduto in un analogo stadio evolutivo, avrebbe quindi raggiunto un livello etico tale da non avere adesso alcuna volontà, intenzione e interesse a nuocerci nel quadro di un’ideologia di conquista, sfruttamento o distruzione. Da queste ragionevoli premesse si apre a ventaglio tutta la problematica dell’impatto che verrebbe a prodursi nell’essere contattati da una civiltà extraterrestre per diretta rivelazione di questa a noi; senza più dubbi, ambiguità e tentennamenti. A partire da questo eventuale incontro, accadrebbe una radicale rivoluzione sul piano energetico. Dalle più attente osservazioni di velivoli classificabili come di origine extraterrestre, emerge infatti che l’energia usata da questi mezzi non è di tipo esplosivo,

come quella derivante dall’uso di combustibili chimici o dalla stessa fissione nucleare. Ricostruzioni, analisi, studi (e talvolta perfino testimonianze di personale tecnico che avrebbe partecipato a operazioni di retroingegneria su reperti di velivoli alieni conservati in basi militari segrete) concorderebbero sull’ipotesi di un impiego di flussi elettromagnetici capaci di generare un effetto antigravitazionale. Solo così potrebbero spiegarsi le inaudite velocità raggiunte dagli U.F.O. e le brusche deviazioni, ad angoli anche molto stretti, eseguite da queste macchine. Per di più, questo tipo di tecnologia — che fosse capace di convertire elettromagnetismo in gravitazione — sarebbe anche coerente con la percorrenza di lunghissime tratte interstellari o intergalattiche mediante manipolazione del tessuto spaziotemporale secondo le previsioni del modello di relatività generale di Einstein. Riusciamo solo a immaginare quali e quanti problemi energetici sarebbero risolti sul nostro pianeta implementando una simile tecnologia?


Sarebbe la fine dell’economia trainata dal petrolio e dai combustibili chimici. Sarebbe l’accesso a una forma di energia pulita a costo praticamente zero, perché derivante solo dalla capacità di manipolare la forza di gravità in base a una conoscenza a noi ancora ignota. Pensiamo adesso a un secondo tipo di rivoluzione. Civiltà in grado di esplorare l’universo con viaggi a lungo e lunghissimo raggio, devono necessariamente aver sviluppato un controllo pressoché totale sulla salute fisica di un organismo vivente. Solo così potrebbe giustificarsi la possibilità di spedizioni, anche remote, di equipaggi alla ricerca di altri pianeti abitati. Questi equipaggi non possono trovarsi nelle condizioni di richiedere quella che noi chiameremmo “assistenza medica” a distanze enormi dal proprio pianeta madre. Questi equipaggi devono essere necessariamente costituiti da individui che godano di buona salute permanente; dotati perciò di condizioni di perenne giovinezza biologica.

Non sarebbe anche questa una rivoluzione applicata alla medicina su scala terrestre? L’umanità sarebbe sollevata di colpo da molte patologie che affliggono ancora buona parte del pianeta, se una medicina extraterrestre di gran lunga avanzata fosse rivelata ai nostri scienziati. Energia a costo zero, risoluzione integrale di problematiche sanitarie su scala planetaria; occorre aggiungere altro per presagire una rivoluzione anche di tipo socio-economico? Sarebbe la fine della povertà e delle disuguaglianze. Sarebbe la fine delle guerre e delle prevaricazioni. Sarebbe — o potrebbe essere — l’inizio di una nuova era dell’umanità terrestre accolta in una sorta di “confederazione galattica” delle civiltà planetarie più avanzate, per un cammino di evoluzione a livelli decisamente superiori; e ben oltre il piano meramente tecnologico. Si aprirebbero anche problematiche di xenodiplomazia, che riguarderebbero tutti gli aspetti di contatto e di confronto fra civiltà interplanetarie; con scambi di


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delegazioni, soggiorni più o meno prolungati su altri pianeti, trasferimenti reciproci, e perfino scambi di tipo sessuale fino all’esogamia e a fenomeni di ibridazione biologica fra la nostra e altre civiltà planetarie. Si può già a questo punto facilmente comprendere quanta interdisciplinarietà debba affrontare l’ufologia più seria tra fisica, biologia, ingegneria, economia, sociologia, politologia; solo per citare alcune fra le branche di conoscenza più cruciali in materia. Ma perché un simile scenario — che potrebbe già aver fatto compiere a più di un lettore un gran volo a occhi aperti — non si è a tutt’oggi ancora realizzato? Secondo alcuni, i terrestri sarebbero invisibilmente guidati — praticamente da sempre — verso gradi via via successivi di evoluzione da parte di entità extraterrestri assimilabili a “Fratelli maggiori”, ma non senza difficoltà e battute di arresto. Questi Altri, che qualcuno chiama anche Controllori, di sicuro hanno sempre lasciato all’umanità terrestre una totale libertà di arbitrio. Secondo certe analisi, esisterebbe addirittura un protocollo galattico di monitoraggio e “accompagnamento” delle civiltà abitanti su pianeti in via di sviluppo — come il nostro — da parte dei Fratelli più evoluti. Alle condizioni attuali, il contatto esplicito, diretto e inequivocabile — lo sbarco, in termini forse più coloriti, di navi extraterrestri sulla Terra —sarebbe in definitiva un passaggio delicatissimo e addirittura assai rischioso. È ben noto ai cultori di sociologia che un contatto fra due civiltà, di

cui una sia di gran lunga superiore all’altra, è in grado di provocare una vera e propria implosione della civiltà più arretrata per effetto di uno shock culturale da contatto: una vera e propria annichilazione. Chi fosse avvezzo a visitare l’universo alla ricerca di altre civiltà, sarebbe ben consapevole che — imbattendosi in un pianeta in via di sviluppo come il nostro — occorrerebbe agire con la massima prudenza. I potenti del mondo conoscono molto bene queste implicazioni, relative a un’ipotesi di contatto con una o più civiltà extraterrestri; e le temono senz’altro. Se gli extraterrestri dovessero sbagliare il “timing” di una loro rivelazione di massa al mondo intero, gli effetti potrebbero essere catastrofici: crisi totale dei valori consolidati, perdita di ogni punto di riferimento, panico, suicidi, insurrezioni; insomma: il caos più totale. Non dimentichiamo che il regista americano Orson Welles sperimentò a modo suo un’esperienza simile — su scala molto ridotta, ma con esiti comunque drammatici — quando nel corso di una trasmissione radiofonica nel 1938 annunciò lo sbarco dei


marziani sulla Terra. Si dice, d’altra parte, che il nostro pianeta sia ormai prossimo al collasso totale: crisi demografica, ipertrofia della finanza internazionale, crisi alimentare ed energetica, inestinguibili focolai di guerra. A queste condizioni, è in fin dei conti più rischioso rivelarsi in maniera esplicita e definitiva oppure continuare a giocare a rimpiattino da parte dei semi-invisibili Fratelli dello spazio? Ma, anche portandoci su di una logica del giocare al “tutto per tutto”, come potrebbero operativamente rivelarsi a noi gli extraterrestri? Chi sceglierebbero, innanzitutto, quali destinatari di questa rivelazione? La superpotenza mondiale degli Stati Uniti d’America? L’ex grande rivale russo, un tempo Unione Sovietica? Il Paese più popoloso del mondo, che è la Cina? O la vecchia Europa, in quanto culla della civiltà (e in questo caso, quale fra i Paesi europei)? La risposta non appare semplice, osservando una Terra disunita e conflittuale. Occorre anche considerare che l’apparizione dalla sera alla mattina

degli extraterrestri potrebbe anche non essere affatto desiderata. Non tanto dai governi mondiali eletti più o meno democraticamente, quanto da quei gruppi di potere economico e finanziario che si muovono dietro di essi. Gioverebbe alle industrie petrolifere e farmaceutiche uno sconvolgimento — a questo punto più che evidente — delle proprie prospettive di profitto? Residuerebbe l’ipotesi che gli extraterrestri decidano di rivelarsi a un’autorità morale più che politica. Anche in quest’ultima ipotesi, le difficoltà non mancherebbero. Il Vaticano ha, ad esempio, ammesso da diversi anni la possibilità dell’esistenza di vita extraterrestre (circostanza già riconosciuta curiosamente da Giordano Bruno più di 4 secoli fa); e notevoli studi in materia sono in corso in quella sede, se si considera che lo Stato della Chiesa investe ingentissime somme in attività di osservazione astronomica con installazioni collocate addirittura all’estero. Ma gli ultimi Papi in carica hanno ridotto in sostanza la problematica del contatto con civiltà extraterrestri alla mera necessità (tutta di parte) di “evangelizzare” le nuove entità intelligenti che si palesassero al mondo. Resta invece molto più probabile che la rivelazione ai terrestri di esseri di origine altra, e ad un livello evolutivo a noi superiore anche di milioni di anni, abbia come effetto la totale ridefinizione dell’idea stessa di religione. Ma c’è anche la possibilità che gli extraterrestri scelgano un’autorità morale alternativa, ad esempio il Dalai Lama; anche in considerazione del fatto che molta letteratura buddhistica sembra affermare da tempi non sospetti una natura dell’universo perfettamente compatibile con la coesistenza di diverse civiltà planetarie. A voler essere imparziali, si dovrebbe


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tuttavia concludere che il destinatario ufficiale di un’attenzione esplicita di origine extraterrestre dovrebbe essere l’ente super partes per eccellenza, rappresentato dall’O.N.U.. È piuttosto lunga la storia dei tentativi di attribuire a questo organismo un ruolo ufficiale in materia di possibili contatti con civiltà extraterrestri, ma basterà qui considerare che un protocollo internazionale di coinvolgimento dell’O.N.U. in realtà esiste. Esso riguarda tuttavia solo l’ipotesi di intercettazione di un segnale radio di origine artificiale dalle profondità del cosmo in relazione alle attività di ricerca svolte dal S.E.T.I. (Search for Extra-Terrestrial Intelligence). In caso di ricezione affermativa, il S.E.T.I. dovrebbe — una volta espletate alcune indispensabili verifiche tecniche — avvisare il Segretario della Nazioni Unite per il tramite dell’UNOOSA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari dello spazio extra-atmosferico, con sede a Vienna). Non esiste invece alcun protocollo per il caso di vero e proprio “sbarco” di delegazioni extraterrestri sulla Terra. In questo caso, il mondo si muoverebbe un po’ a caso, improvvisando. Le uniche proiezioni, realizzate sotto forma di studio, riguardano l’ipotesi di un attacco ostile. Ma sorge a questo punto una domanda: non è che conviene a precisi gruppi di potere costruire un’immagine potenzialmente ostile degli extraterrestri? Giova sicuramente a chi avrebbe tutto da perdere nella realizzazione di un contatto epocale. E si aggiungono, alle multinazionali del petrolio e del farmaco, anche quelle degli armamenti.

Molti documentari, passati ad ogni ora in tv, sottopongono agli occhi di un telespettatore intento al suo pasto serale, o al rilassamento sul proprio divano domestico, uno scenario di guerre stellari contro alieni minacciosi, desiderosi solo di depredare il nostro pianeta e ridurci in schiavitù. Una simile “strategia della tensione” potrebbe avere anche lo scopo, nemmeno troppo nascosto, di mantenere alti gli stanziamenti governativi a vantaggio dell’industria bellica — proprio in vista di questa grossolana ipotesi di guerre stellari —, a detrimento di altre forme di spesa pubblica probabilmente più vantaggiose per le esigenze dei cittadini. Questo vale innanzitutto per il contesto U.S.A., ma non senza ricadute anche per il resto del mondo. Mettetevi a questo punto voi nei panni degli extraterrestri, e provate a chiedervi se è giunta l’ora di intervenire mediante “rivelazione diretta” a questa pazza pazza umanità, oppure se è appena il caso di continuare a monitorare il nostro pianeta per timore che prima o poi la Terra diventi capace di produrre danni anche nel resto della galassia.


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STORIA - CIRCUITO AEREO SETTEMBRE 1909

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ALTA TECNOLOGIA A BRESCIA CON IL CIRCUITO AEREO DI MONTICHIARI NEL SETTEMBRE 1909

di Raffaele d’Isa scrivi@raffaeledisa.it


A soli sei anni dal primo volo aereo della storia, eseguito dai fratelli Wright, nel settembre 1909 la città di Brescia saliva all’attenzione della cronaca mondiale per l’allestimento di un campo di volo che sarebbe stato il teatro delle evoluzioni di 14 aviatori: 8 italiani, 5 francesi e un americano. Si trattò di una delle più prestigiose fra le prime prove di volo in pubblico realizzate in Europa. Tra gli assi del volo presenti per l’occasione, va senz’altro ricordato il francese Louis Blériot: il primo trasvolatore in aeroplano del Canale della Manica, impresa realizzata a bordo di un monoplano di sua costruzione proprio il 25 luglio di quello stesso anno. I fratelli Wright non erano personalmente presenti in quell’occasione, ma erano rappresentati da un altro importante pioniere dell’aviazione: Mario Calderara, il primo pilota italiano a ottenere nel marzo 1909 un brevetto di volo sui campi di Centocelle a Roma. Il pilota riuscì a raggiungere a Montichiari la percorrenza di un minimo di 40 km, e vedersi riconosciuto il premio di 5.000 lire bandito dal Corriere della Sera per il raggiungimento di quel record. Altro nome di gran rilievo era quello dell’americano Glenn Curtiss, il gran rivale dei fratelli Wright. Recordman, inventore e industriale — oltre che aviatore — Curtiss fu a lungo in causa coi fratelli Wright per delicate questioni brevettuali; ma la sua impresa di costruzioni aeronautiche finì curiosamente col fondersi con quella dei due fratelli, dando luogo alla Curtiss-Wright Corporation. Ognuno degli aviatori presenti sarebbe degno di nota, vista la natura assolutamente pioneristica dell’attività aviatoria all’epoca e la dimensione di tecnologia di frontiera connessa alla nascente industria aeronautica. Nei giorni della manifestazione si aggirava nel perimetro

del circuito anche il senatore Giuseppe Colombo. Il brillante ingegnere, ormai preside per meriti del Politecnico di Milano, aveva predetto con largo anticipo che il volo si sarebbe definitivamente affermato con le “macchine più pesanti dell’aria”. Cosa significa? Bisogna considerare che all’indomani dell’invenzione dell’aereo nel 1903 — e ancora per qualche decennio — l’aeroplano avrebbe ricevuto la concorrenza del più antico volo aerostatico. Ed era proprio questo, risalente alla fine del XVIII secolo con l’iniziativa dei fratelli Montgolfier, a costituire il volo alternativo realizzato con “macchine più leggere dell’aria”. In questo caso, infatti, le mongolfiere e i dirigibili si sollevavano dal suolo grazie all’uso di aria calda o idrogeno, per realizzare complessivamente dispositivi effettivamente più leggeri dell’aria. Nel caso del volo aereo, lo svincolamento dalla forza di gravità era ottenuto invece grazie all’utilizzo di motori in grado di imprimere al mezzo una spinta, con una conseguente portanza applicata al profilo alare del velivolo. E la storia della tecnologia del volo ha dimostrato la possibilità di realizzare il massimo


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controllo dell’aeromobile in tutte le direzioni, oltre a velocità raggiungibili decisamente superiori, proprio con quest’ultimo tipo di mezzi. Il volo con le “macchine più pesanti dell’aria” era insomma di gran lunga più efficace, e rispondeva anche all’esaltazione di uno dei grandi miti dell’epoca, già alimentato dalla crescente diffusione dell’automobile: quello della velocità. Non a caso, il Circuito aereo internazionale di Montichiari era stato ubicato in prossimità di Brescia. Città di ingegno e di notevole sensibilità per le applicazioni tecnico-motoristiche, Brescia aveva già ospitato alcune competizioni automobilistiche (e avrebbe più tardi legato il suo nome ancor più al mito della velocità su quattro ruote con le “Mille miglia”). Nell’agosto 1909 la città era stata inoltre sede di una Esposizione dell’elettricità che pure aveva contribuito a creare il terreno all’imminente Circuito aereo. Trovandosi infatti Brescia in una favorevole posizione idrografica, la città

era all’avanguardia nell’illuminazione elettrica del territorio ed in altre applicazioni elettrotecniche: un altro elemento che contribuiva ad alimentare il mito della modernità. Ma l’eccitazione e il coinvolgimento della comunità bresciana nel progetto di ospitare una storica competizione aerea sono più di tutto testimoniate dalla stampa locale dell’epoca. Ben tre quotidiani erano pubblicati a Brescia a quei tempi: La Sentinella Bresciana di orientamento liberale, La Provincia di Brescia collocata su posizioni socialiste, e Il Cittadino di Brescia di ispirazione cattolica. I tre quotidiani cominciarono circa due mesi prima del 9 settembre (data di inizio del Circuito) a solleticare la curiosità dei lettori con tutta una serie di informazioni che andavano dagli aspetti ingegneristici dell’impresa fino alla trasformazione che il territorio stava subendo per via dei necessari allestimenti. Il campo di volo fu allestito nelle campagne di Montichiari (area in cui oggi sorge


l’aeroporto Gabriele d’Annunzio) in un perimetro di forma trapezoidale i cui lati misuravano rispettivamente 4.500, 2.000, 3.000 e 500 metri. Le cronache descrivono in quelle settimane l’allestimento del “villaggio di legno” ed elencano inoltre la

di eleganti signore, che restituivano un po’ il clima dell’ippodromo. I velivoli, di costruzione e concezione fra loro anche assai diversa fra biplani e monoplani, sono descritti nelle diverse quote e durate di volo raggiunte dai piloti. Lo schianto di Mario Calderara danneggia parzialmente il suo “Wright Ariel”, ma il pilota salta atleticamente fuori dal velivolo del tutto indenne. Quando un giorno le condizioni del vento interrompono i voli per lunghe ore, un gruppo di visitatori reclama con la direzione sostenendo che essi avevano in ogni caso diritto ad assistere allo spettacolo per aver pagato regolarmente il biglietto di ingresso. Ma la crema di queste cronache riguarda i VIP presenti sul Circuito. Oltre a senatori e altri esponenti della politica, si segnala l’apparizione di Guglielmo Marconi, Giacomo Puccini e Gabriele d’Annunzio; tre personalità che costituivano — ognuno nel proprio campo — veri divi per l’epoca. Le cronache del Gabriele d’Annunzio Circuito aereo di Montichiari sono tuttavia arricchite anche da un ulteriore contributo, presenza di “hangar per gli aerei, servizi oltre a quello dei tre solerti quotidiani dei commissari sportivi, cronometristi, bresciani. Nei primi giorni di settembre controllori; ufficio di posta, telegrafo e telefono; ambulanze da campo, garage coperti per automobili, deposito benzina e lubrificanti, osservatorio meteo, rimesse per carrozze, depositi di biciclette, officine per meccanici, servizi di toilette, ampie e confortevoli tribune, chiosco per i carabinieri e il ristorante”. Ma anche nei dintorni del Circuito sono descritti spacci alimentari “a prezzi vili”; fino a elaborare un’espressione di sintesi per questa vera e propria cittadella del volo, che rivela a distanza di più di un secolo un suono curiosamente arcaico: l’aeropoli di Montichiari. Le cronache raggiungono poi il vivo dell’evento, nei giorni compresi fra il 9 e il 20 settembre descrivendo con dovizia di dettagli le tribune arricchite dalla presenza Franz Kafka


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soggiornava a Riva del Garda un anonimo impiegato ventiseienne dell’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori del regno di Boemia, assieme a due suoi amici. Il suo nome era Franz Kafka, e all’epoca non aveva ancora scritto nulla di ciò che lo avrebbe poi reso famoso. Il 9 settembre Kafka lesse del Circuito aereo di Montichiari, e i tre amici decisero di vivere insieme quell’esperienza così à la page. L’arrivo alla stazione di Brescia, la sistemazione in albergo e il successivo trasferimento in treno all’aerodromo di Montichiari sono descritti nel diario del giovane Kafka con notevole fastidio a causa della chiassosità degli italiani, della sporcizia dell’albergo e della sgangheratezza delle carrozze ferroviarie. Kafka fu critico anche nei confronti dell’area del circuito aereo, secondo lui sproporzionata rispetto

alle esigenze dell’evento. Kafka ebbe poi l’avventura di imbattersi in Puccini e d’Annunzio. Il compositore è descritto con «volto energico» e «un naso che si potrebbe definire da bevitore». Nemmeno molto lusinghiera è la descrizione di un d’Annunzio sgambettante e ostentante una timidezza solo apparente. Il poeta riuscì tuttavia a stupire tutti non limitandosi a fare da spettatore d’eccezione, ma levandosi effettivamente in volo nella sua prima esperienza di quel tipo. Curiosamente, un d’Annunzio già dichiaratamente nazionalista non scelse per il suo primo volo l’asso italiano Mario Calderara, ma si affidò all’esperienza dell’”Uomo più veloce della Terra”, l’americano Glenn Curtiss: il gran rivale dei fratelli Wright. Un dettaglio di cronaca per il quale il troppo giovane Kafka non riuscì però a stupirsi.


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MUSICA - IL NUOVO ALBUM DEI MUSE

UN DRONE CHE VOLA BASSO

IL NUOVO ALBUM DEI MUSE di Gianmarco Soldi gianmarcosoldi@gmail.com

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Nonostante un recente passato per alcuni versi discutibile, nel 2015 i Muse si confermano una delle rare formazioni in grado di riempire gli stadi di tutto il mondo, forti di una tecnica musicale e scenica ineccepibile e di un pareo di hit che poche band coeve possono vantare. Il settimo lavoro della loro discografia, Drones, li riporta (in teoria) verso sentieri più grezzi e rigorosamente chitarristici rispetto agli ultimi lavori, riproponendo il suono potente e più diretto fautore dei successi del passato. L’allontanamento dall’elettronica — dall’utilizzo sempre più massiccio di sintetizzatori e sequencer — è stato così giustificato da Chris Wolstenholme, bassista della band: Eravamo arrivati al punto in cui i brani stavano diventando sempre più difficili da suonare dal vivo. Era un vero rompicapo con certe canzoni dell’ultimo album, e riuscire ad arrangiarle in modo da farle suonare bene dal vivo si stava rivelando un’impresa. Negli ultimi sei dischi sono emersi particolari che ci hanno allontanato dal trio rock classico, abbiamo sperimentato molto e unito al rock influenze classiche ed elettroniche. Credo che se ci fossimo spinti oltre saremmo diventati una band elettronica.

Nonostante questo suono meno barocco e più vicino alle origini rock sia riuscito solo per metà in un album come Drones, è innegabile che la potenza di certi brani sia il tratto distintivo di questo settimo disco del terzetto inglese. A riguardo, Chris Wolstenholme ha aggiunto: Per questo disco abbiamo deciso che fosse ben più importante tornare indietro da dove avevamo cominciato; e concentrarci su un solo chitarrista, un solo bassista e un solo batterista per vedere dove potessimo arrivare. Sulla carta le premesse erano ottime, soprattutto per i fan della prima ora; gli stessi che già da Black Holes And Revelations (2006) — e soprattutto con The Resistance (2009) e The 2nd Law (2012) — avevano cominciato a storcere il naso per le continue infiltrazioni di generi esterni al rock nella maggior parte delle composizioni. La realtà ha presentato però un lavoro decisamente diverso rispetto alle aspettative: se non un disco mediocre, decisamente un disco


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stanco; in alcuni momenti quasi simile ad una sorta di tappabuchi all’interno di una carriera fin qui al limite della perfezione. Drones viene presentato come un concept album riguardante le scellerate azioni di un ipotetico governo incentrate sul lavaggio del cervello, l’annullamento dell’individuo e l’apocalittico sopravvento dei droni. Un tema caro ai Muse, già affrontato negli ultimi due lavori, e oggettivamente quasi banale. I riferimenti a The Wall dei Pink Floyd sono rintracciabili dappertutto: dalle voci dei militari urlate all’inizio dell’album, fino alle tracce di soli cori nella seconda metà; senza però riuscire nemmeno ad avvicinare la vivida atmosfera creata da Waters & Co alla fine degli anni Settanta. Preso il ritmo di un disco ogni tre anni, con Drones i Muse pubblicano un lavoro che ha il sapore amaro del compitino ordinato e ben svolto da parte

di chi è sicuro di poter agguantare il successo senza troppi sforzi: nessuna trovata originale, nemmeno un guizzo che faccia rivivere gli esaltanti esordi di quasi vent’anni fa, quando il suono crudo che tutti in quest’ultimo album si aspettavano (invano) faceva impazzire folle di adolescenti underground.


Le tracce dell’album si susseguono senza sussulti e perle, abbastanza simili le une con le altre, con la voce di Bellamy sempre impeccabile su un tappeto pseudo-rock (a volte spudoratamente simile a vecchi successi di Doors e Deep Purple) che fa battere il piede ma non il cuore. A dire il vero, Drones non è davvero brutto: più che altro nasce molto vecchio nella realizzazione, nell’ispirazione, nell’aspirazione e anche nell’immaginario. L’album strappa la sufficienza per il semplice fatto che è stato creato e prodotto dai Muse, ma la parabola discendente è ormai più che visibile — sebbene a livello di marketing, diffusione presso le nuove generazioni e impatto live, il trio capitanato da Bellamy

non abbia praticamente rivali. Ancora una volta i Muse non si sono reinventati, ma sono stati abilissimi nel rimescolare gli ingredienti della loro formula vincente. Seppure con un disco non all’altezza dei precedenti, lo status di rock star che ormai li avvolge non ne è uscito scalfito. Che si siano nel tempo trasformati in un fenomeno costruito, o che siano rimasti gli incredibili showman possessori di talento sopraffino, probabilmente i Muse rappresentano tuttora la migliore sintesi contemporanea tra corrente underground e mainstram. Ma del resto toccherà, come sempre, ai fan dare un giudizio definitivo.

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MODA - THE SEPTEMBER ISSUE

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di Valentina Viollat shoppingamoremio@gmail.com


Nel mondo della moda tutto cambia ad una velocità semestrale, l’innovazione è d’obbligo e la ripetizione è il nemico numero uno, a meno che non sia passato qualche decennio, sufficiente a far sì che si possa trasformare in citazione, omaggio, ispirazione. In un mondo così fluttuante, in cui gli abiti e gli accessori sono creati per durare quanto un fiore a primavera o una foglia sul ramo in autunno, si celebra l’impermanenza e la caducità della bellezza che ha sempre la necessità di rinnovarsi per non perdersi. Galleggiano, sulla superficie di un mondo fugace, le suggestioni create dalla moda. La liquidità del processo creativo, che chiede ai designer voli pindarici — e al contempo un’impronta precisa, riconoscibile — non prevede certezze. La moda è fatta di genio e desiderio, che sono entrambe creature erratiche, destinate a rincorrersi anelanti. In tutta questa fluida caducità, una sola certezza costituisce la boa necessaria per saper, ogni anno, virare verso il nuovo senza perdere la rotta: il numero di settembre delle riviste di moda — the September Issue —, che caratterizza le scelte editoriali e di stile di tutto l’anno. Ogni anno si sparge un’euforia inimmaginabile per il numero di settembre di Vogue, Harper Bazaar, Elle, Marie Claire, Cosmopolitan ecc. Le edizioni di settembre sono di solito le più voluminose dell’anno, contengono i servizi di moda più sontuosi e sono le più ambite per la comparizione in copertina, che garantisce lo status di it-girl all’astro nascente della moda o del cinema o, viceversa, consacra ulteriormente la rivista che si riesce ad accaparrare la star del momento. Nonostante ormai le vendite avvengano tutto l’anno e i marchi presentino fino a otto diverse collezioni durante i dodici mesi, il numero di settembre è l’araldo ufficiale della nuova moda.

Settembre — mese in cui cade il capodanno scolastico in numerosi Paesi, almeno nel nostro emisfero — è infatti ancora considerato l’inizio del nuovo anno per il fashion system. Febbraio, il mese in cui si presenta la moda primavera-estate, non ha minimamente il peso e il carisma di settembre. Settembre ha un fascino magnetico per i fashion lovers. È una combinazione di più fattori: da un lato si tratta del periodo che precede la stagione dello shopping di Natale, ed è il momento in cui dopo i mesi caldi si torna a coprirsi: stivali, cappotti, cappelli, calze, capi stratificati, abiti per le feste e lana sono come le attrazioni del luna park; numerose, attraenti e da brivido (per il portafogli). A settembre torna inoltre la voglia di make up e profumi (dopo una certa astinenza estiva: questi prodotti non sono grandi venditori in estate a causa del caldo), ed è infatti il momento del lancio delle nuove linee di trucco e delle nuove fragranze. Il numero di settembre è sempre il più voluminoso anche per via delle numerose inserzioni pubblicitarie: l’inizio dell’autunno è oro (non solo sulle foglie) per chi vuol instillare desideri come necessità, approfittando di un numero di capi e accessori costosi molto più ingente, richiesto dalla stagione fredda. Molti consumatori acquistano solo il numero di settembre delle riviste specializzate, che è la grande bibbia dell’anno in corso; per cui gli inserzionisti si scatenano proprio su quel numero. Spesso le riviste sono costituite in gran parte da inserzioni pubblicitarie, destando stupore in coloro che non sono affetti dal morbo fashionista.


MODA - THE SEPTEMBER ISSUE

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Il segreto è presto svelato: nel caso della moda, le pubblicità non sono fastidiose interruzioni dello show principale, ma sono parte del divertimento; sono parte dell’arte, sono la vera performance. Il numero di settembre più imponente che si ricordi, a proposito di pagine di inserzioni, resta quello di Vogue nel 2007 (727 pagine pubblicitarie), soggetto del documentario The September Issue di RJ Cutler. In esso è testimoniato il lavoro di Anna Wintour — la celebre direttrice di Vogue US — seguita dalle telecamere per gran parte dell’anno, durante il lavoro quotidiano e le settimane della moda. Il volume di inizio autunno di Vogue è sempre il più atteso, e quello del 2007 è stato il più voluminoso in 117 anni di storia della celebre rivista. Ogni fashionista lo sa: lo spessore folle dei numeri di settembre è testimonianza della loro importanza. Il loro peso è un privilegio che inebria; li si porta in giro come reliquie sacre, nella borsa shopping appena acquistata. Il fatto che gli inserzionisti stiano ancora facendo fluire i loro soldi nelle riviste di moda, nonostante tanta concorrenza on-line, è una notevole testimonianza della fedeltà dei lettori alla carta patinata di testate storiche come le sopra citate. Con l’avvento di Instagram la foto di un vestito può essere su internet mentre il modello è ancora in passarella; eppure le riviste vendono ancora. Laddove un tempo l’inaccessibilità al dorato mondo delle sfilate rendeva necessaria e irrinunciabile l’opera di diffusione delle redazioni di moda, oggi la sovrabbondanza di informazioni

è paradossalmente responsabile della fedeltà alla rivista: si potrebbero guardare migliaia di fotografie di ogni sfilata mai presentata, ma chi ha il tempo o l’interesse? Le riviste offrono competenza, una voce informata che afferma autorevole ciò che è rilevante e ciò che non lo è. Le pubblicazioni svelano infatti il mood della stagione (e di tutto l’anno, nel caso del numero di settembre), imponendo i must-have in una sintesi quasi mistica; che è uno sguardo profetico sul futuro prossimo, irrinunciabile per gli appassionati di moda. Se gli stilisti sono i demiurghi che ogni anno ricreano l’universo dell’abbigliamento, in una cosmogonia ciclica ma perenne, le riviste di moda sono gli oracoli che mostrano la verità ai comuni mortali; e il numero di settembre è il testo liturgico dell’anno in corso. Sì, perché la moda non è che una sacra rappresentazione che si ripete di anno in anno, di stagione in stagione, a beneficio degli osservanti e praticanti che credono nello Stile e nella Bellezza Effimera; che seguono il dogma imposto dalle riviste specializzate e amano la propria immagine più di quella del prossimo loro. Trattandosi di Fede, non resta che venerare, devoti ai marchi ma avidi di nuove icone: tutti in pellegrinaggio in edicola, allora!



SPORT - MICHAEL PHELPS

I TRENT’ANNI DI MICHAEL PHELPS (e il difficile ritorno della leggenda) 50 di Gianluca Corbani corba90@hotmail.it


La condanna per guida in stato di ebbrezza sulle strade di Baltimora è costata a Micheal Phelps la presenza ai Mondiali di Kazan, rimasti così orfani dell’atleta più dominante di sempre nelle discipline acquatiche. L’ultimo 30 giugno il miglior nuotatore di tutti i tempi ha compiuto trent’anni: un compleanno amaro, segnato dall’esclusione dalla rassegna iridata che per sei volte ha monopolizzato nel corso di una carriera leggendaria, e che ora impone al ‘Cannibale’ della piscina un recupero poderoso in vista del grande obiettivo finale: le Olimpiadi di Rio 2016. Phelps sta attraversando la fase più sofferta della sua vita sportiva: dopo il pleonastico ritiro del 2012, l’ex Kidprodigio della vasca ha scoperto di non poter vivere, a soli 28 anni, sull’esclusivo status di leggenda sportiva raggiunto ai Giochi di Londra. Aver demolito tutti i record dell’universo osservabile ed essere l’atleta più titolato della storia delle Olimpiadi moderne può non bastare, se l’improvviso distacco dal nuoto genera un

buco esistenziale destinato a corrodere un’anima già inquieta di per sé. Phelps è tornato nel 2014 – e se si è vecchi a 22 anni nel nuoto, figurarsi alle porte dei Trenta –, ricalcando lo scenografico ritorno che negli anni Novanta vide protagonista un’altra leggenda dello sport americano come Michael Jordan. Il Corcovado dei Giochi 2016, che conduce al Cristo Redentore di Rio de Janeiro, ora, è l’ultima montagna da scalare per aggiornare il Mito. Ma pure una sorta di meta simbolica per la redenzione di un passato burrascoso, con qualche birra e qualche canna di troppo. Come quando, a nemmeno 20 anni, “guadagnò” 18 mesi di libertà vigilata per una bravata al volante oltre i limiti alcolici; o nel 2009, quando le foto che scandalizzarono l’America purista e benpensante lo ritrassero mentre fumava cannabis a un party con gli amici. Ragazzate, che però hanno spinto la madre Debbie – la donna che ha cresciuto Michael – a scendere in campo come testimonial della Fondazione che porta


SPORT - MICHAEL PHELPS

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avanti la battaglia sulla responsabilità dei genitori e della scuola rispetto alla piaga dell’alcol tra i minori. Qualche macchia sull’immagine pubblica non cancella tuttavia il ritratto del giovanotto semplice e buono al quale Madre Natura ha donato talenti senza precedenti: Phelps è probabilmente il mammifero che più ha giovato, nella storia dell’uomo, dall’immersione in un ambiente ostile, in un mondo estraneo che per natura è dei pesci. Centonovantratré centimetri di lunghezza, il sorrisone spontaneo da anti-divo, l’apertura alare più imponente della storia del nuoto e i segni di un’inevitabile grandezza nelle curve di una gioventù difficile e tormentata, segnata dal divorzio dei genitori a soli 7 anni e dall’ispirazione offerta dalle sorelle maggiori Whitney e Hilary, entrambe nuotatrici, che al fratellino hanno presto tracciato la via. Per Michael, che prima di trasformarsi nel Dio delle piscine era un ragazzino debole e con le orecchie a sventola, facile preda per gli scherzi del branco, il nuoto è stato soprattutto un mezzo di affermazione e di rivincita. Durante

l’infanzia gli venne diagnosticata l’ADHD, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, e nessuno avrebbe scommesso su quel bambino sgraziato che in acqua trasferiva la rabbia accumulata in quegli anni di silenzio e derisione. Ecco perché la piscina l’ha salvato e l’ha consacrato: la classica trasfigurazione fiabesca da anatroccolo a cigno ha reso Michael prima il ‘Kid di Baltimora’, quindi lo ‘Squalo’ e infine il ‘Cannibale’ dei titoli mondiali e dei record olimpici, vertici raggiunti anche grazie a Bob Bowan, l’allenatore-padre che ha cresciuto Phelps dentro e fuori dall’acqua abituandolo a scrivere, a inizio stagione, gli obiettivi da porsi per quell’annata. La sua carriera prima del 2012 è la storia di un’ascesa inarrestabile, dai contorni mitici. Dopo aver monopolizzato la scena giovanile locale, a soli 15 anni Phelps prende parte ai Giochi di Sidney diventando il più giovane nuotatore olimpico americano dal 1932. Il precoce quinto posto nei 200 farfalla olimpici è l’epifania di un predestinato che solo un anno più tardi – nel 2001 – trionfa nella stessa disciplina ai Mondiali di Fukuoka. Quattro ori e due


argenti alla rassegna iridata di Barcellona 2003 lo proiettano da protagonista verso le Olimpiadi di Atene 2004, dove avvicina il record di Mark Spitz fermandosi a sei ori e soprattutto vincendo la spettacolare sfida con Ian Thorpe, raccogliendone l’eredità. Il dominio ai Mondiali di Montreal e Melbourne (2005-2007) annuncia le leggendarie performance di Pechino: con otto medaglie d’oro nel giro di pochi giorni, Phelps diventa l’atleta con più titoli in un’unica edizione dei Giochi. Il Cannibale divora qualsiasi disciplina: 100 e 200 farfalla, 200 stile libero, 200 e 400 misti, staffette 4x100 e 4x200 stile libero e misti. Quattro anni dopo, a Londra, Phelps deve fare i conti con l’età – 27 anni nel nuoto si portano con parecchia fatica –, con l’attesa spasmodica dei media e con il rivale connazionale Ryan Lochte, deciso a spodestare lo Squalo dal trono. Non a caso, la partenza ai Giochi 2012 è tutta in salita: Lochte lo supera nei 400 misti, quindi perde in rimonta la staffetta 4x100 stile libero, dove gli USA vengono sorpassati dai francesi. Amaro anche l’argento nella finale dei 200 farfalla, la notte del 31 luglio, quando il sudafricano Le Clos lo beffa al fotofinish. Ma, dopo

pochi minuti, Phelps è di nuovo in vasca: è in quel momento che gli affanni del presente si perdono nella grandezza della Storia, quando lo Squalo di Baltimora trionfa da ultimo frazionista nella staffetta 4×200 stile libero, portando gli Stati Uniti alla medaglia d’oro. Dopo il sorpasso su Mark Spitz, nel 2008, anche l’ultimo record viene preso a picconate, e Larissa Latynina è costretta ad abdicare. Phelps torna il Cannibale di sempre: il 2 agosto centra l’oro nei 200 misti, diventando il primo nuotatore a trionfare per tre volte consecutive nella stessa disciplina; il 3 agosto raddoppia il record piazzandosi sul gradino più alto del podio nei 100 farfalla. Infine, il 4 agosto, corona una carriera unica vincendo anche la 4×100 misti a squadre, e porta il medagliere olimpico personale a quota 22(!!), prima di annunciare il ritiro con l’elezione – direttamente a bordo piscina – a ‘’miglior olimpionico di tutti i tempi’’. L’apoteosi di una vita complicata da una scelta affrettata e da quasi due anni (metà 2012 e 2013) di angosciante pensione dorata. Quella vita, ora, vuole ripartire, a caccia del proprio passato. Verso la redenzione di Rio.


SPORT MINORI - CAPRE, CALCI E FERRI DA STIRO

chi fa da sé fa per tre

Dalle capre ai calci negli stinchi…

passando per

un ferro da stiro!

54 di Simone Zerbini simone-z90@hotmail.it


Visto il caldo africano che ci ha tormentato per diverse settimane nella scorsa estate, per questo numero vi siete meritati non uno, non due, ma ben tre sport alternativi. Sì, avete capito bene. Il primo avete potuto ammirarlo in Rambo III (alzi la mano chi non l’ha mai visto e poi la riabbassi vergognandosi) e si chiama Buzkashi o Kokpar, “acchiappa la capra”. Si tratta di uno sport equestre tipico dell’Asia Centrale, in particolare è sport nazionale in Afghanistan e Kazakistan. L’origine di questo gioco pare derivi addirittura dai Mongoli di Gengis Khan i quali, al posto della capra, davano la caccia ai prigionieri di guerra mettendo in palio la mandria dell’avversario. Il gioco in sé è molto semplice: due squadre di chapandoz, i cavalieri, devono impadronirsi della carcassa di boz, la capra, e lanciarla oltre una linea o dentro un’area. La semplicità e la violenza del gioco sta nel fatto che sostanzialmente non esistono regole: ci si può strattonare, colpire, frustare, fare lo stesso coi cavalli degli

avversari; ed è per questo che spesso è possibile assistere a gravi infortuni. Negli anni Quaranta nella zona di Cleveland venne inventata una variante, il Kav Kaz, a metà tra il polo e il buzkashi, in cui si gioca con una palla ricoperta di pelle di pecora. Se sopravvivrete a questa esperienza nelle steppe asiatiche, e vorrete liberarvi di vostra moglie in maniera del tutto discreta (dando naturalmente la colpa al caldo), ecco lo sport che fa per voi: Extreme Ironing. Metà sport estremo, metà performance art, unisce l’utile al dilettevole: l’azione consiste nel portare asse e ferro da stiro in posti remoti ed estremi e... stirare! Per rendere meglio l’idea, l’Extreme Ironing Bureau l’ha definito come lo sport “che combina il brivido di un’attività estrema all’aperto con la soddisfazione di una camicia ben stirata”. I luoghi dove si può svolgere questo sport sono montagne, foreste, in canoa, piste da sci, in mezzo ad una strada o sott’acqua,


SPORT MINORI - CAPRE, CALCI E FERRI DA STIRO

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mentre si viene paracadutati o su un lago ghiacciato. La leggenda narra che l’EI venne inventato nel 1997 a Leicester da Phil Shaw, lavoratore in un maglificio appassionato di scalate. Al fine di promuovere la sua invenzione viaggiò attraverso gli Usa, la Nuova Zelanda, le Fiji, l’Australia e il Sud Africa. Gli episodi di EI ad oggi sono numerosi, i più audaci dei quali sono i tentativi fatti sul Monte Rushmore, nel bel mezzo dell’autostrada M1 in Inghilterra, vicino alla statua sommersa del Cristo degli Abissi a Key Largo (Florida). L’EI ha influenzato altre attività simili come, per esempio, l’Extreme Cello Playing, che funziona allo stesso

modo solo che al posto di stirare si suona un violoncello. L’ultimo sport che proponiamo prima di lasciarci è una vera e propria ciliegina sulla torta, un cioccolatino da scartare e lasciar sciogliere


sulla lingua: Calci negli Stinchi. Sport tipico della Gran Bretagna, risale addirittura al Seicento, quando appare ai Cotswold Olympick Games, una tradizionale gara annua di sport e pratiche tipicamente inglesi. Anche per questo sport la bellezza risiede nella sua semplicità: due avversari si fronteggiano in tre round di calci negli stinchi; vince chi per primo fa cadere l’altro due volte. L’attrezzatura richiesta consiste di pantaloni lunghi imbottiti e scarpini morbidi (tranquilli, il dolore si sente lo stesso), mentre una volta — in tempi molto più oscuri, violenti e incivili — si usavano stivali di ferro e, come allenamento, gli atleti si colpivano sugli stinchi con pezzi di metallo. Sicuri di non avervi turbato con la pericolosità e la violenza di questi sport,

non vediamo l’ora di poter ammirare qualche nostra lettrice stirare sul tetto di casa (rigorosamente in pendenza e bagnato), o un paio di nostri lettori che risolvono pacatamente una vecchia disputa con un match di calci negli stinchi.

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SPORT CERTIFICATI: PEC - ANDREA BENELLI

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ANDREA BENELLI

IL CT DEI SOGNI di Roberto Carnevali robertocarnevali@eutelia.com


È risaputo che la Toscana è terra di grandi campioni, di atleti, di personaggi sportivi coronati di fama e gloria; che sono stati il fiore all’occhiello della nostra nazione in terre straniere. In tutte le discipline sportive non c’è un italiano che non abbia lasciato il proprio nome alla stregua di leggenda indelebile nel tempo. Uno di questi (e sono onorato di constatarlo, vista l’amicizia che ci lega) è Andrea Benelli, attuale Commissario Tecnico della Nazionale maschile e femminile nella specialità skeet. Toscano di Firenze e grandissimo tifoso Viola, è ancora oggi l’unico atleta al mondo ad aver vinto almeno una volta tutte le competizioni nazionali e internazionali come tiratore nella disciplina del tiro a volo. Per descrivere Andrea dal punto di vista sportivo servirebbero fiumi di parole... e forse non basterebbero nemmeno. Conoscendolo personalmente, lo descriverei come una figura semplice: amico di tutti, consigliere di buoni propositi e — soprattutto — garanzia di sicuro successo per i suoi nuovi progetti volti a portare l’Italia sempre ai massimi livelli in

questa disciplina (lo skeet, appunto). In passato ha vinto come atleta tutto quello che c’era da vincere, arrivando all’oro dell’Olimpiade di Atene con entusiasmo semplice ma allo stesso tempo vivissimo, facendo piangere dall’emozione l’intera Italia degli appassionati alla disciplina. È ancora impresso nella memoria e nel cuore degli sportivi italiani il suo giro di campo con le braccia aperte. Dopo l’esperienza greca, Andrea Benelli ha trascorso un periodo all’estero in qualità di CT della Nazionale cipriota per poi tornare di nuovo in Italia, dove è attualmente il commissario delle nazionali maschile e femminile. Vanta un bel vivaio di giovani promesse sparse qua e là per l’Italia, che riescono costantemente a migliorare sotto la sua guida. Nonostante i suoi 54 anni, è ancora un panzer “asfalta piattelli”; ancora ragazzino nel cuore e nell’anima. Perché Andrea riesce più di ogni altro a restituire quel senso di grande sportività, vero principio educativo propedeutico a un futuro ricco di soddisfazioni agonistiche. E a questo punto noi tutti auguriamo ad Andrea e ai suoi giovani un grande in bocca al lupo… e magari qualche medaglia alle prossime Olimpiadi!


SPORT CERTIFICATI: PEC - ANDREA BENELLI

Biografia

Il palmarès di

Andrea Benelli 1996: Olimpiadi Atlanta, Bronzo 2004: Olimpiadi Atene, Oro Dal 1979 al 2006: Campionato del Mondo 9 medaglie d’oro (2 individuali e 7 a squadre), 4 medaglie d’argento (1 individuale e 3 a squadre), 4 medaglie di bronzo (1 individuale e 3 a squadre) Dal 1996 al 2004: Finale di Coppa del Mondo (1 oro, 2 argenti e 1 bronzo individuali) Dal 1988 al 2005: Coppa del Mondo, 18 medaglie d’oro (4 individuali e 14 a squadre), 10 medaglie d’argento (4 individuali e 6 a squadre), 5 medaglie di bronzo (4 individuali e 1 a squadre) Dal 1978 al 2007: Campionati Europei, 9 medaglie d’oro (2 individuali e 7 a squadre), 7 medaglie d’argento (1 individuale e 6 a squadre), 6 medaglie di bronzo (1 individuale e 5 a squadre) Dal 1997 al 2005: Giochi del Mediterraneo, 2 medaglie d’oro e 1 medaglia d’argento (individuali) Dal 1977al 1990: Gare Internazionali, 15 medaglie d’oro (6 individuali e 9 a squadre), 6 medaglie d’argento (3 individuali e 3 a squadre), 4 medaglie di bronzo (1 individuale e 3 a squadre)

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Dal 1977 al 2005: Finale Campionato Italiano (10 medaglie d’oro individuale e 3 medaglie d’argento individuale) Record stabiliti: record mondiali alla prova di Coppa del Mondo di Shuhl nel 1996 con 125/125 e con 150/150; record con 200/200 nel 1986.


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PSICOLOGIA DELLO SPORT - OBIETTIVI

OBIETTIVI NELLO SPORT E NELLA VITA di Matteo Simone matteo.simone@areonautica.difesa.it “Ho cercato, sin da piccolo, di vedermi in campo l’ultima domenica di Wimbledon giocare la finale, per me è sempre stato l’obiettivo numero uno.” Novak Djokovic

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LA PRATICA DI DARSI OBIETTIVI Fai un programma dei tuoi prossimi obiettivi. Cosa vuoi raggiungere in ordine prioritario e temporale? E come? Cosa sei disposto a fare, a rinunciare, a sacrificare? Cosa devi evitare o devi fare per raggiungere i tuoi obiettivi? Qual è il costo? Ne vale la pena? Solo con una chiara e dettagliata idea di quelli che sono i tuoi propri obiettivi, la mente riesce ad organizzare comportamenti in funzione del raggiungimento dell’obiettivo stesso.

È necessario innanzitutto formulare obiettivi: a breve termine fissare un determinato risultato da raggiungere entro uno o due mesi; a medio termine, periodo di 6 mesi, deve prodursi il risultato di una serie di obiettivi a breve termine; a lungo termine, può essere fissato in un periodo di un anno, occorre procedere alla pianificazione di un’intera stagione. Un esempio di obiettivo a lungo termine lo dichiara in un’intervista Roberto Rugo, responsabile del


settore giovanile della Scaligera basket targata Tezenis: “Qual è il vostro obiettivo a lungo termine? Sicuramente non quello di primeggiare in città né quello di ottenere risultati di squadra. L’obiettivo è di costruire giocatori per le categorie senior: dalla Legadue ai campionati regionali. La problematica maggiore oggi è che i ragazzi che escono dalle giovanili non sono pronti per le categorie senior: sia come impegno, che come approccio mentale”. I PRINCIPI DEL GOAL SETTING Obiettivi difficili conducono a prestazioni migliori rispetto a obiettivi facili. Le persone adattano lo sforzo alle difficoltà della meta da raggiungere, e perseverano maggiormente nei compiti difficili. Fabrizio Macchi sostiene: “Non esiste una vera e propria ricetta per diventare campioni, ma esistono delle capacità che ognuno di noi possiede, che concorrono fra loro per diventare campioni: bisogna

trovarle. Ecco, questo è il segreto: trovare dentro di noi la giusta strada, le giuste motivazioni per perseguire un obiettivo che ci porti ad essere campioni nella nostra vita. Nel mio caso la malattia ha avuto un ruolo fondamentale per trovare in me le motivazioni per riemergere e trovare la strada per costruirmi una seconda vita. Le doti sportive non te le regala nessuno. La mente poi fa la differenza. Puoi allenare la mente lavorando con tenacia e voglia di arrivare sempre più lontano, mettendoti in discussione per migliorare ogni nanosecondo. La forza dell’uomo sta proprio lì, nel perseguire l’obiettivo fino in fondo. Le cose che rendono importanti la nostra vita sono amore, rispetto e dedizione. Così si riesce ad essere orgogliosi di noi stessi realizzando i propri sogni”. Obiettivi specifici conducono a prestazioni migliori rispetto a obiettivi vaghi del tipo “fai del tuo meglio” o alla mancanza di obiettivi. Un obiettivo specifico mette a confronto la persona con standard di prestazione predefiniti, e quindi inequivocabili.

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ARTE - JACKSON POLLOCK

Jackson Pollock Autumn Rhythm (Number 30), Metropolitan Museum of Art, New York

JACKSON POLLOCK ARTISTA RIBELLE

di Susanna Tuzza susannatuzza@gmail.com

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Jackson Pollock è «il grande pittore americano», come lo definisce lo storico Budd Hopkins. «Se cercate di immaginarlo, pensate ad un vero americano, non a un europeo trapiantato. Con le virtù virili del maschio americano: un duro di poche parole e, se cowboy, ancora meglio. Certamente non uno dell’Est o uno che abbia studiato ad Harvard. Senza influssi europei, ma con influssi messicani, indiani americani e così via. Uno uscito da queste terre d’America, non da Picasso o Matisse». L’americanismo di Pollock non è tanto questione di cittadinanza, quanto di approccio all’opera e di costruzione del personaggio; che va ben al di là del semplice essere artista. Pollock «scopre» il dripping, lo sgocciolamento del colore sulla tela, abbandonando definitivamente la pittura da cavalletto. Lavora in maniera fisica su tele di grandissime dimensioni ispirato, nei suoi movimenti, dall’ascolto di musica indigena americana. Colpisce il Pollock personaggio — non si sa quanto suo malgrado, o quanto invece abilmente costruito sullo stereotipo «genio e sregolatezza» — che farà da apripista a diversi divi irregolari di Hollywood e, soprattutto, alle rockstar maledette di fine anni Sessanta. In effetti la grande popolarità del pittore — nato a Cody, Wyoming, nel 1912 e scomparso a soli 44 anni l’11 agosto 1956 — ha origini mediatiche; e il messaggio non sarebbe mai arrivato in modo così diretto ed esplicito, e di conseguenza neppure la sua fama, senza le fotografie e il breve film diretto da Hans Namuth nel 1950 nel suo studio a Springs, Long Island, dove Pollock si rifugiava per lavorare. Nessuno dei suoi colleghi degli anni Cinquanta incarna meglio di lui quel personaggio unico: mix tra maudit e romanticismo, che lo rende immortale come artista. Soprattutto l’archetipo di una gioventù nuova, ribelle, allontanatasi presto dai temi postbellici dei propri genitori, insopportabile ai più e dannatamente modaiola. È il primo pittore hipster della storia americana e, nell’agosto 1949, la rivista Life gli dedica la doppia pagina centrale, «facendo arrivare l’artista e la sua opera su tutti i tavoli e i caffè d’America».



CASA & DESIGN - RICHARD MEIER

RICHARD MEIER, GETTY CENTER, LOS ANGELES La luce è vita

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di Gaia Badioni gaia.badioni@hotmail.it



CASA & DESIGN - RICHARD MEIER

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Richard Meier (New Jersey, 1934) è l’architetto contemporaneo che più di ogni altro ha saputo imporre uno stile invariabilmente basato su griglie organizzative, proporzioni calcolate al millimetro ed elementi aritmetici. I suoi lavori non sono tuttavia così sterili come le rigorose figure bianche lascerebbero supporre. “Il bianco è l’emblema effimero del movimento perpetuo. Il bianco è sempre presente ma non è mai uguale: brillante e ondeggiante di giorno, argenteo ed effervescente nella notte di San Silvestro a New York. Tra il mare della coscienza e la vasta materialità della terra, si stende questa linea sempre cangiante di bianco. Bianca è la luce, mezzo di discernimento e forza trasformatrice.” Dopo la laurea negli Stati Uniti, si recò in Europa; e mentre era in Francia conobbe Le Corbusier, che ebbe una grande influenza sul modo di Meier di concepire lo spazio. Fin dall’inizio della sua carriera, Meier si è volontariamente aperto ad una pluralità d’influenze — come le ville di Le Corbusier e i progetti geometrici e rivoluzionari del Bauhaus —, e già alla metà degli anni ’60 aveva scelto il bianco per valorizzare lo spazio

e la luce di casa Smith. È tuttavia in Mies Van Der Rohe, con le sue forme pure e semplici, che si ritrovano i riferimenti più alti del lavoro recente e maturo dell’architetto. Meier è uno degli architetti contemporanei rimasti fedeli al proprio stile. Con i suoi pannelli di alluminio bianco, le balaustre in stile nautico e la pianta ruotata, è uno dei più facilmente distinguibili. Sotto questa superficie, il suo vocabolario è spesso basato sul cerchio e sul quadrato; e nelle sue massime espressioni, il suo lavoro aspira a una dimensione spirituale attraverso la luce utilizzata come vero e proprio materiale plastico che pervade tutte le sue migliori opere, modificandone costantemente l’architettura.


Alla luce di quanto detto fino ad ora, il Getty Center di Los Angels (198497) costituisce un mondo a sé nella produzione dell’artista; una solida e ampia architettura ben lontana dalla caducità caratteristica della maggioranza degli edifici di Los Angeles, così come il tono decisamente europeo delle collezioni e la natura globale delle attività del centro. Per molti versi, questo è l’incarico più importante assegnato a un architetto americano negli ultimi trent’anni. Situato su un terreno di 44,5 ettari sulla cima della collina vicino a Brentwood, Los Angeles, il complesso in cui sono raggruppate le attività del Getty Trust si divide in sei edifici per un totale di 88.000 metri quadrati. “Il Getty è un’istituzione legata alla cultura greca e romana, e l’edificio — già esistente a Malibu — si basa su una ricostruzione della Villa dei Papiri a Ercolano.” La complessità del centro è dovuta al terreno accidentato, ma anche alla volontà del cliente di separare diverse aree del centro. Il risultato è un insieme di varie entità individuali e diverse, ma al tempo stesso parte di un tutto — come Villa Adriana a Tivoli e/o Villa Caprarola, il Palazzo Farnese realizzato dal Vignola nei pressi di Viterbo nella seconda metà del 1500.

Una legge in vigore a Los Angeles impedisce di realizzare edifici bianchi, e per questo l’architetto ha deciso di utilizzare del robusto travertino a spacco che riveste gran parte degli edifici, conferendo all’insieme un aspetto caldo e mediterraneo; molto più del bianco puro per cui l’architetto è conosciuto. Lo stesso carattere mediterraneo si trova anche nel fluido rapporto tra gli edifici e i cortili fioriti, che fanno riferimento all’arte classica. La superficie è ruvida e gli spessi pannelli sono attaccati alle facciate in maniera irregolare evocando le rovine greche e romane. “Nella mia mente mi figuro una struttura classica, elegante e senza tempo, che emerge — serena e idealizzata — dalla collina accidentata; una sorta di struttura aristotelica del paesaggio.”


SPECIALE EVENTI - MOSTRA D’ARTE CINEMATOGRAFICA

Il settantaduesimo ruggito del Leone

La Mostra Internazionale

d'Arte Cinematografica

di Venezia

In questi giorni e fino al 12 settembre il capoluogo veneto ospita la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica per la settantaduesima volta: tante le novità, come il primo film della Netflix.

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di Nicola Guarneri guitartop@libero.it


Amanti degli Oscar, beccatevi questa: il festival del cinema più antico del mondo ce l’abbiamo noi. Ebbene sì, il Leone di Venezia si mangia le statuette di Hollywood in un sol boccone. Era il lontano 1932 quando ebbe luogo la prima Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica, su idea del Presidente della Biennale Giuseppe Volpi di Misurata, dello scultore Antonio Maraini e del segretario generale dell’Istituto Internazionale per il cinema educativo Luciano De Feo. A onor del vero, il primo Oscar venne assegnato nel 1929, tanto che all’Academy Award spetta il primato per il premio cinematografico assegnato da più tempo. Ma tant’è, ci accontentiamo del festival più antico. Ma veniamo all’edizione del 2015, la settantaduesima: tanti e prestigiosi sono i film in gara. Sono 21 i titoli in concorso, quattro made in Italy: Sangue del mio Sangue di Marco Bellocchio, con Roberto Herlitzka e Filippo Timi, A Bigger Splash di Luca Guadagnino, nel cui cast c’è anche il premio oscar Tilda Swinton, L’Attesa di Piero Messina, al suo prestigioso esordio dopo gli anni da aiuto regista di Sorrentino, e Per Amor Vostro, di Giuseppe Gaudino, con Valeria Golino, Massimiliano Gallo e Adriano Giannini. Grande attesa anche per i titoli americani; il Leone per la curiosità spetta sicuramente al prodotto della Netflix, che dopo aver rivoluzionato il mondo televisivo, punta anche al grande schermo esibendo uno dei suoi pezzi forti:

il regista Cary Fukunaga (vi ricordate la prima stagione di True Detective?). Non mancherà nemmeno la classica sfilata di star hollywoodiane: se in concorso troveremo “solo” Kristen Stewart (la Bella della serie di Twilight) e il premio oscar Eddie Redmayne (recentemente incoronato per la sua performance nei panni di Stephen Hawking in La teoria del tutto), molte saranno le star fuori concorso. Partiamo con le bellezze: Emily Watson, Keira Knightley e la “first lady” Robin Wright (House of Cards) saranno in scena con il film d’apertura, Everest, del regista Baltasar Kormakur, nel cui cast ci sono anche Jake Gyllenhaal e Sam Worthington. Grande attesa anche per Johnny Depp, assente a Venezia dall’edizione del 2007, e per Martin Scorsese, che presenta il corto The Audition e si avvale di un cast non proprio low-cost: per fare tre nomi, Brad Pitt, Leonardo DiCaprio e Robert De Niro. Fuori concorso per la bandiera italiana anche Non essere cattivo, il lavoro del regista Claudio Caligari, scomparso lo scorso maggio, e terminato da Valerio Mastandrea. Novità di quest’anno è Il cinema del giardino, un’arena in cui si terranno incontri illustri con personaggi del mondo dello spettacolo che presenteranno alcune proiezioni (tra gli ospiti confermati Vasco Rossi). È il momento del Leone d’oro: che il festival più antico del mondo abbia inizio.


CURIOSITÀ SETTEMBRE

Curiosità SETTEMBRE di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com

Serenissima Repubblica di San Marino

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San Marino è un’enclave situata all’interno dell’Italia, confinante con le regioni Emilia-Romagna e Marche. È ritenuta la più antica repubblica del mondo ancora esistente, fondata il 3 settembre 301 quando San Marino stabilì sul Monte Titano una piccola comunità cristiana per fuggire alle persecuzioni dell’Imperatore Diocleziano. La proprietaria dei terreni li donò alla comunità chiamandola “terra di San Marino” in memoria del suo fondatore le cui parole – “Vi lascio liberi da ambedue gli uomini” (intendendo l’Imperatore e il Papa) – sono la base dell’indipendenza della Repubblica. Dal 2008, il centro storico e il Monte Titano sono patrimonio dell’umanità dell’UNESCO in quanto testimonianza della continuità di una repubblica libera fin dal Medioevo.


La prima autostrada del mondo L’Autostrada dei Laghi nasce dall’idea dell’Ingegnere Piero Puricelli per unire Milano a Como e Varese e le zone turistiche del Lago di Como e del Lago Maggiore: una via a pagamento per sole automobili, riservata al traffico veloce; quindi niente carri, carrozze, biciclette o pedoni a rallentare la marcia. Il 21 settembre 1924 a Lainate ci fu l’inaugurazione del primo tratto della prima autostrada a pedaggio realizzata in Italia e… nel mondo! A tagliare il nastro inaugurale fu una Lancia Trikappa di casa Savoia con a bordo re Vittorio Emanuele III, accompagnato dallo stesso Puricelli e seguita da un corteo di automobilisti. Ecco il commento di un cronista dell’epoca: “Viaggio attraentissimo su di un cemento liscio come un parquet, senza callaie insidiose o ciclisti o simili da mandare all’altro mondo…”


CURIOSITÀ SETTEMBRE Voglia di calendari

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Alternativamente questo mese venne chiamato “september” (dal latino in quanto settimo mese del calendario romano che iniziava in marzo) e “germanico” (scelto da Caligola per onorare il padre e successivamente da Domiziano per celebrare la vittoria sui Chatti). Per un breve periodo si chiamò anche “amazonius”. Il 06 settembre 3761 a.C. segna l’inizio del calendario lunisolare ebraico. Il 06 settembre 3114 a.C. segna invece l’inizio del calendario maya. Particolare il calendario rivoluzionario francese: l’anno terminava nel mese di Fruttidoro il 16 o 17 settembre. C’erano poi 5 giorni (6 negli anni bisestili) denominati Sanculottidi, e dal 22 settembre iniziava il nuovo anno con Vendemmiaio.


Equinozio L’equinozio (“notte uguale” – giorno e notte hanno la stessa durata) è il momento in cui il sole si trova allo zenit dell’equatore e quindi i suoi raggi sono perpendicolari all’asse di rotazione della Terra. Avviene due volte all’anno: in marzo e in settembre, indicando l’inizio della nuova stagione. Nell’emisfero boreale l’equinozio di settembre introduce l’autunno e quello di marzo la primavera. Viceversa nell’emisfero australe (dove le stagioni sono al contrario rispetto a noi): l’equinozio di settembre segna l’inizio della primavera e quello di marzo l’autunno.

Proverbi Italiani Di settembre e di agosto bevi vino vecchio e lascia stare il mosto. Di settembre o porta via i ponti o secca le fonti. Aria settembrina, fresco la sera e fresco la mattina. Brache, tela e meloni in settembre non son buoni.


- L’ALLEGRO CHIRURGO

GAMES

L’ALLEGRO CHIRURGO

John Spinello e un’operazione lunga mezzo secolo di Nicola Guarneri guitartop@libero.it

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Sono passati ben 50 anni dalla nascita del gioco da tavolo “Operation”, il nome originale de L’Allegro Chirurgo. Mentre l’America si interrogava sulla morte di Malcolm X, un ragazzetto nemmeno ventenne di nome John Spinello stava frequentando un corso di Industrial Design presso l’Università dell’Illinois. Si presentò all’esame di un corso con un gioco elettrico: lo scopo era inserire questa bacchetta di metallo in alcuni buchi senza toccare le pareti, che avrebbero creato un contatto. “Presi una A” racconterà Spinello in un’intervista: aveva appena inventato L’Allegro Chirurgo. Un amico di famiglia lo aiutò ad incontrare Marvin Glass, uno dei toy designer di maggior successo in tutti gli States. “Entrai nel suo ufficio e gli piazzai il mio lavoro sulla scrivania. Gli dissi: ‘Devi prendere questa sondina e passare attraverso il labirinto, vedi se riesci a completarlo’”. Glass non sembrò molto convinto fino a quando non andò a toccare una parete, generando la piccola scossa elettrica. “Quando la scintilla saltò fuori dalla stilo perse la testa. ‘Mi piace, mi piace!’ continuava ad urlare”. Glass acquistò i diritti dell’invenzione di Spinello per 500 dollari, l’equivalente di circa 3.500 dollari di oggi, oltre alla promessa di un futuro lavoro “che però non arrivò mai” racconterà in seguito John. Un grosso errore, con il senno di poi: pare che dal 1965 ad oggi L’Allegro Chirurgo, con le sue numerose edizioni, abbia generato vendite per circa 40

Jhon Spinello

milioni di dollari. Ancora oggi – dopo che la Hasbro ha rilevato i diritti dalla Milton Bradley – L’Allegro Chirurgo è un gioco di successo: milioni di bambini (e anche i “giovani medici”, come racconta il sito della Hasbro) si sfidano a chi riesce a terminare più operazioni nel minor tempo. Da sottolineare le ultime edizioni: dopo Shrek nel 2004 è toccato a Spiderman e a Homer Simpson (quest’ultimo pieno di caramelle) recitare la parte delle vittime sacrificali. Ma torniamo a John Spinello: per un beffardo scherzo del destino, lo scorso ottobre John si è ritrovato senza i soldi necessari per un’operazione orale non coperta dalla sua assicurazione medica. I suoi colleghi disegnatori di giochi hanno così lanciato una campagna online per raccogliere i 25mila dollari richiesti. Fortunatamente la campagna è andata a buon fine; inoltre la Hasbro, venuta a conoscenza della notizia, si è proposta di acquistare il prototipo originale di “Operation”, messo in vendita dallo stesso Spinello a 35mila dollari. “Lo esporremo nel nostro quartier generale di Pawtucket, in Rhode Island, per onorare il contributo di John alla storia della Hasbro”. Quel che è bene finisce bene: dopo 50 anni, anche John Spinello ha avuto la sua “Operation”.


- VIVERE IL PRESENTE

SPAZIO POSITIVO

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VOGLIAMO VIVERE IL PRESENTE? Laura Gipponi info@lauragipponi.com

Dopo la pausa estiva e i giorni di ferie, con settembre si riprendono le attività lavorative, scolastiche e in generale la normale routine quotidiana. Penso che, più o meno tutti abbiano rallentato i propri ritmi durante l’arco di tempo delle vacanze, non avendo più avuto l’assillo di timbrare il cartellino, o di rispettare una scadenza per qualche settimana. A tal proposito, suggerisco di fare una riflessione sulle vostre giornate standard di tutto l’anno. Fermatevi un attimo ad analizzare che rapporto avete con il vostro tempo: siete sempre di corsa? State facendo qualcosa e intanto pensate a ciò che farete più tardi? O domani? State procedendo talmente in velocità, che nemmeno vi accorgete di ciò che avete intorno o vi passa davanti? Se le vostre giornate scorrono mediamente in questo modo, è arrivato probabilmente il momento di cambiare i vostri schemi. Ogni giornata è composta di 24 ore, o se preferite 1440 minuti, o 86400 secondi. Non dimentichiamo però che ogni giorno è diverso da quello passato e sarà diverso da quello successivo. Spesso ce ne dimentichiamo, ma il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo perché è l’unica cosa che non si rigenera: trascorre e basta! Ogni cosa che non facciamo, che lasciamo, che non notiamo, che ci lasciamo sfuggire, non torna. Ogni istante della nostra giornata è vita. E, trascorrerlo senza assaporarlo, significa non viverlo. Questo è l’effetto che produce una vita vissuta prevalentemente di corsa. Correre — rincorrere qualcosa mentre sei impegnato in qualcos’altro — non ti permette di godere a pieno le emozioni, le sensazioni trasmesse dal momento presente. Perché perdervi l’opportunità di vivere il presente, il luogo in cui vi trovate, l’azione che state facendo? Perché preoccuparvi adesso di ciò che farete tra dieci minuti, fra un’ora, o domani? Il momento successivo arriva comunque. Quello che però non avete colto nell’istante presente, è svanito e non torna più. Una vita di corsa non è la soluzione per vivere meglio e per vivere serenamente; ma è solo il modo per ritrovarsi avanti con gli anni, per poi guardarsi indietro e dire a se stessi: “Se solo mi fossi fermato mille volte ad apprezzare i momenti che mi sono scivolati fra le dita e che non ritornano, ora non li rimpiangerei e avrei dentro di me le emozioni vissute, che invece non ho assaporato…”. Vi esorto quindi a prendere bene in considerazione quel momento di fisiologico rallentamento scaturito dalle appena trascorse vacanze estive, e a farne tesoro; adottandolo come viatico per la ripresa della vita di tutti i giorni. Per poter vivere intensamente senza sprecare nemmeno un istante.



RICETTA SALATA CON VINO ABBINATO

Trofie al pesto

di Sylvie Capelli - sylvieannacapelli@gmail.com

INGREDIENTI: Per la pasta: ½ kg di farina di grano duro, acqua Per il pesto: 1 mazzo di basilico fresco, 1 spicchio di aglio, 2 cucchiai di pinoli, 2 cucchiai di parmigiano grattugiato, 2 cucchiai di pecorino grattugiato, 6 cucchiai di olio extra vergine di oliva, sale grosso Inoltre: 2 patate, 200 grammi di fagiolini

Preparazione: La pasta: versare la farina sul piano di lavoro e lavorarla con l’acqua fino ad ottenere un impasto omogeneo; coprirla con la pellicola e lasciarla riposare a temperatura ambiente per circa 30 minuti. Lavorare la pasta e staccarne dei piccoli pezzi da arrotolare sul piano lavoro con le dita o con il palmo della mano schiacciandole un po’ alle estremità per conferire loro la tipica forma.

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Il pesto: mettere nel mortaio un pizzico di sale, aggiungere il basilico e iniziare a “pestare”; aggiungere pinoli, aglio e continuare a pestare fino a ridurre tutto in poltiglia; aggiungere parmigiano, pecorino e olio versato a filo. Cottura: tagliare le patate a dadini, pulire i fagiolini dal “filo” e romperli a piccoli pezzi. Mettere patate e fagiolini in abbondante acqua salata e portare a bollore. Aggiungere le trofie fino a cottura ultimata. Scolare il tutto e condire con il pesto diluito con due cucchiai di acqua di cottura.


Colli di Lumi Vermentino Groppolo 2013

Il Monticello

di Carlo Cecotti - carlocecotti@yahoo.it

Bianco Doc Vermentino 100% Rispettando i dettami di una viticoltura biodinamica della prima ora, Davide e Alessandro Neri producono sulle colline di Sarzana vini eclettici, mai banali e scontati, che vedono nel vitigno vermentino il rappresentante pi첫 autorevole della loro intrigante gamma. Giallo paglierino brillante. Sfilano complessi aromi di pesca nettarina, frutto della passione, mughetto e gelsomino. A mano a mano che acquista temperatura si delinea una garbata nota di erbe aromatiche, con un soffio balsamico di eucalipto a chiudere. Profilo gustativo grintoso ma equilibrato, dal finale avvolgente.


RICETTA DOLCE CON VINO ABBINATO

Creme Caramel

di Sylvie Capelli - sylvieannacapelli@gmail.com

INGREDIENTI: Creme caramel: ½ litro di latte, 4 uova, 140 grammi di zucchero, 1 stecca di vaniglia Caramello: 150 grammi di zucchero, un cucchiaio di acqua

Preparazione: Creme Caramel: far sobbollire il latte con la vaniglia e lasciare raffreddare. A freddo sbattere le uova con lo zucchero, filtrare il latte e unirlo all’impasto mescolando delicatamente.

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Caramello: far sciogliere lo zucchero con un cucchiaio d’acqua in un pentolino mescolando continuamente fino a bollore e fino a raggiungimento del colore desiderato. Porre il caramello sul fondo dello stampo (o degli stampini), aggiungere la crema di uova. Cuocere al forno a 160° per 50 minuti a bagno-maria ponendolo su una teglia contenente acqua fino a metà altezza dello stampo. Lasciare raffreddare e porre in frigorifero per almeno 4 ore. Capovolgere su un piatto da portata e servire freddo.


Recioto di soave classico le sponde 2012

Coffele

di Carlo Cecotti - carlocecotti@yahoo.it

Bianco Docg Passito Garganega 100% La cantina Coffele può vantare una tradizione enoica che ha radici antiche. Oggi vinifica uve provenienti dai 25 ettari posizionati in quel di Castelcerino, uno dei cru più vocati e culla vitivinicola della zona del Soave classico, potendo contare su di un gruppo familiare di grande affiatamento. Attira subito lo sguardo con un bellissimo color oro antico. All’olfatto avvicenda note di fiori d’arancio e lavanda a quelle di albicocca disidratata, litchi e mandarino candito. E poi ancora miele millefiori, fichi secchi e biscotti al burro. Sorso levigato, ma subito ravvivato da pungente freschezza che accompagna un lungo finale dai richiami floreali.


Maurizio Genovesi, Isole Borromee


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Eleonora Vezzini, Copenaghen


SOCIOLOGIA Uomini e donne

Nuovo anno (lavorativo), nuova rubrica: la nostra esperta Nia Guaita ci racconta tutte le differenze tra uomo e donna!

VIAGGI Alsazia

Invischiata per anni nei giochi politici europei, andiamo alla scoperta dell’Alsazia, tra natura, animali e ovviamente.. i suoi vini!

TELEFILM Aquarius

David Duchovny non è più uno scrittore e latin lover, bensì un sergente di polizia sulle tracce di uno spietato serial killer.

ANTICIPAZIONI

Sul prossimo numero troverete anche...



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