C PI
ANNO 3 NUMERO 23
O A G R U AT
A IT
Mistero
Mussolini e l’U.F.O. crash di Vergiate
Psicologia dello sport
Superare e gestire la crisi
Games
Gli ottant’anni del Monopoly
TIRO AL PIATTELLO
Mirco Cenci, una vita di successi
GREEN INTERVISTA Louviain-La-Neuve
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VIAGGI Bruxelles
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NATURA Riserva naturale dello Zwin
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ANIMALI La Cozza
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TELEFILM Six feet under
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RED
LIBRI 24 Guida galattica per gli autostoppisti MISTERO 26 Giugno 1933: Crash di Vergiate STORIA Il caso Watergate
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MUSICA Diventerai una star
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MODA Statement Jewelery
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BLUE SPORT Mayweather vs Pacquiao
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SPORT MINORI Il calcio storico fiorentino
50
SPORT CERTIFICATI Mirco Cenci
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PSICOLOGIA DELLO SPORT La gestione della crisi
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TECNOLOGIA Iphone
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YELLOW
ARTE L’impero delle luci
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CASA & DESIGN 66 Le gallerie reali di Bruxelles
ANNO 3 N. 23 Rivista on-line gratuita DIRETTORE RESPONSABILE Pasquale Ragone
LA PAUSA COMICA Il fumetto Franco-Belga
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DIRETTORE EDITORIALE Laura Maria Gipponi
CURIOSITA’ Giugno
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GRAFICA E IMPAGINAZIONE Giulia Dester
PINK GAMES Monopoly
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SPAZIO POSITIVO La paziente positiva
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RICETTA SALATA VINO ABBINATO
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RICETTA DOLCE VINO ABBINATO
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FOTO DEL LETTORE
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ANTICIPAZIONI
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HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Laura Gipponi, Diana Ghisolfi, Nicola Guarneri, Gaia Badioni, Simone Zerbini, Susanna Tuzza, Raffaele d’Isa, Sylvie Capelli, Gianluca Corbani, Matteo Pigoli, Gianmarco Soldi, Luca Romeo, Valentina Viollat, Roberto Carnevali, Carlo Cecotti, Sirigh Sakmussen. DIREZIONE/REDAZIONE/PUBBLICITA’ AURAOFFICE EDIZIONI S.R.L. a socio unico Via Diaz, 37 / 26013 Crema (CR) Tel 0373 80522 / Fax 0373 254399 www.auraofficeedizioni.com Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013
STORIE DI VITA VISSUTA - LOUVAIN-LA-NEUVE
Louvain-La-Neuve l’Universicittà 4
Questo mese La Pausa si sposta in Belgio: Piercarlo Bonetti ci racconta la sua esperienza a Louvain-la-Neuve di Nicola Guarneri guitartop@libero.it
Nome e età Piercalo Bonetti, 25 anni. Dove hai vissuto, per quanto tempo e per quale motivo? Ho vissuto a Louvain-la-Neuve, una piccola cittadina universitaria situata a sud di Bruxelles. Sono stato in Belgio da settembre 2013 a giugno 2014 all’interno di un programma di “double degree” organizzato dall’Università degli Studi di Milano, precisamente per un corso di Scienze Economiche. Cosa ti ha spinto a trasferirti all’estero? Innanzitutto la possibilità di impreziosire il mio curriculum accademico, dato che questo programma di studi mi ha permesso in soli due anni di ottenere due lauree invece di una: sono laureato in Economic and Political Science e Sciences Économiques à Finalité Spécialisée. In secondo luogo la mia scelta è stata orientata a una futura possibilità di impiego: nell’ambito lavorativo a cui aspiro le esperienze all’estero sono valutate positivamente ed in alcuni casi sono espressamente richie-
ste; inoltre il dipartimento di Economia dell’Université Catholique de Louvain è considerato uno dei migliori in tutta Europa secondo il Tilburg Ranking. (https://econtop.uvt.nl/rankinglist.php) Chiaramente anche la possibilità di vivere un anno all’estero e confrontarmi con una cultura diversa da quella italiano-mediterranea è stata una motivazione decisiva. Qual è stata la prima impressione del Belgio? Quando sono atterrato all’aeroporto di Charleroi mi sembrava di non essere ancora decollato: l’aeroporto è molto piccolo e la strada che mi ha portato a Louvain ha attraversato una serie di piccoli sobborghi molto simili visti per anni nel mio percorso da casa all’Università di Parma, dove ho frequentato la triennale. Louvain invece mi ha colpito per la sua conformazione: la città sorge in una zona dove una volta c’era un bosco e tutto si è
STORIE DI VITA VISSUTA - LOUVAIN-LA-NEUVE
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sviluppato intorno al campus universitario. Basti pensare che l’Università ospita 27mila studenti e gli abitanti della città sono 30mila: più di nove persone su dieci vivono lì per studiare. Descrivi una tradizione caratteristica che ti ha colpito (usanze, aneddoti, superstizioni) La tradizione che più mi ha colpito è la 24h velò, una competizione ciclistica che dura un giorno intero e alla quale possono partecipare sia corridori professionisti che amatori con biciclette addobbate a carro allegorico. Di solito si tiene alla fine di ottobre, e in questa occasione si tiene anche il secondo Beer Event d’Europa dopo l’Oktoberfest. Il successo è sempre assicurato: ogni
anno le presenze superano abbondantemente le quarantamila unità. Mi piace sottolineare il successo della manifestazione perché questa è organizzata interamente dagli studenti, un’opportunità che in Italia non viene concessa ai più giovani. Durante tutte le 24 ore dell’evento le forze di polizia hanno collaborato con gli studenti facendo sentire la manifestazione al sicuro e al contempo non limitando lo svolgimento della stessa. Descrivi i pro e i contro di essere un italiano all’estero Nel mio caso non è stato un problema essere un italiano all’estero, più che altro perché nella realtà universitaria nella quale mi sono calato la multiculturalità è la regola e non l’eccezione. Ho conosciu-
to molti più studenti stranieri che belgi; amici: fortunatamente skype mi ha fatto inoltre in Belgio c’è una nutrita comuni- sentire più vicino a casa e per capodanno tà di italiani, con più di trecentomila abi- gli amici più stretti sono venuti trovarmi. tanti che hanno la doppia cittadinanza. Consiglieresti ad un italiano di seguire Cosa ti è mancato dell’Italia (se ti è mai le tue orme? mancata)? Il mio iter è abbastanza particolare, chiaAlla partenza credevo che mi sarebbe ramente a chi ha intrapreso un percorso mancato il clima italiano ma sono stato di studi simili al mio lo consiglio vivamenabbastanza fortunato ad incontrare uno te: è un modo di vivere l’Università (e non degli inverni più miti degli ultimi anni. Pur solo) totalmente diverso da quello italiano, non essendo una persona chiusa dal sempre a contatto con gli studenti e con punto di vista alimentare mi è mancata lezioni sul modello anglosassone. In ogni parecchio la cucina mediterranea: la cuci- caso consiglierei anche a chi non deve na belga non mi ha entusiasmato, anche intraprendere un percorso universitario di perché non sono un amante delle cozze fare almeno una volta nella vita un’espe(le cozze alla birra sono uno dei piatti ti- rienza all’estero: accresce il proprio bagapici del Belgio). Infine, ovviamente, gli glio culturale e lascia un ricordo per la vita.
La pagella di Piercarlo Difficoltà universitaria
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La quantità di lavoro è maggiore rispetto all’Università italiana, forse è più simile a un liceo. Le scadenze sono settimanali e questo ti consente di organizzare al meglio lo studio per l’esame finale che quindi è molto più leggero.
Burocrazia universitaria
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Non ho trovato nessuna difficoltà in Belgio, poiché il programma è condiviso con l’Università di Milano. Ho avuto invece qualche problema al termine della laurea per il rilascio del diploma; una volta segnalato il disguido però le due Università hanno ovviato all’errore.
Burocrazie statale
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Essendo abituato all’Italia mi sono trovato meglio ma comunque ben lontano dagli standard ideali del nord Europa, forse perché Louvain si trova nella parte francese del Belgio (quella fiamminga è sicuramente meglio organizzata).
Difficoltà linguistiche
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Tutte le lezioni sono state fatte in inglese, che per me non è mai stato un problema dato che ho alle spalle un’altra esperienza di sei mesi a Boston. Con gli altri studenti si parla il francese, che ho studiato all’Università: se si vuole intraprendere un’esperienza in Belgio bisogna saper parlare entrambe le lingue.
Relazioni sociali
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Essendo sempre a contatto con studenti nella mia stessa situazione, mi sono trovato a condividere le stesse esperienze; quindi le stesse gioie e le stesse problematiche.
Extra
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A Louvain c’è un plesso sportivo immenso che può soddisfare qualsiasi tipo di esigenza. Se non bastasse, Bruxelles dista solo 30 chilometri e 40 minuti di treno mentre Amsterdam è a circa 2 ore e 30 di auto.
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VIAGGI - BRUXELLES
BRUXE
ELLES di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com
VIAGGI - BRUXELLES
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Il nome della capitale del Belgio deriva da un termine antico che significava “casa nella palude”. Ancora oggi il simbolo della città è un giglio giallo su sfondo blu che ricorda proprio i gigli di palude che sbocciavano sul sito dove attualmente sorge la città, punto di collegamento tra Bruges e Colonia. Bruxelles è anche capitale “di fatto” dell’Unione Europea dal momento che ospita, tra le varie istituzioni, il Parlamento Europeo. La popolazione è accogliente e i visitatori si sentono subito a proprio agio, sia che ci arrivino per un breve week-end di vacanza, che per soggiorni più lunghi; per lavoro o per partecipare alle attività istituzionali europee. Molti sono i luoghi interessanti da visitare, soprattutto a piedi vagando senza meta tra i vari quartieri caratteristici: Grand-Place, Dansaert, Sablon, Avenue Louise e Boulevard Waterloo, Cinquantenario e quartiere europeo. Nella Grand-Place sono concentrati gli edifici più antichi e interessanti.
A nord della piazza si trova il quartiere Ilot Sacré le cui stradine celebrano le antiche corporazioni; a pochi passi si trovano le Gallerie Reali Saint-Hubert (prima galleria coperta costruita in Europa nella prima metà dell’800), regno delle boutique alla moda, delle gallerie di design, delle birrerie eleganti e delle sale da the oltre che del celebre negozio di cioccolato Nauhaus dove nacque la prima pralina della storia. Lo spirito ironico degli abitanti è ben visibile nella statuetta di bronzo Manneken-Pis (un bambino che fa pipì). La rue Antoine Dansaert è il vero e proprio tempio della moda, con boutique degli stilisti di avanguardia, gallerie di design, negozi vintage con proposte anni ’60, ’70 e ’80. Da qui le stradine portano a Place Sainte Catherine (la grande concentrazione di ristorantini di pesce testimonia la presenza in passato del grande mercato ittico) e Rue du Viex Marché aux Grains; lo stile va dal ‘600 all’800 e qui si trova il gioiello del rinascimento, “Le Cheval
Marin”, e il particolare monumento ai piccioni viaggiatori, oltre al Museo dell’abito e del merletto. Sablon è il centro per gli appassionati di antiquariato di qualità e gallerie di arte moderna e contemporanea. Ogni sabato e domenica mattina si svolge l’affascinante mercatino dell’antiquariato, ma la domenica si svolge al mattino anche il tradizionale mercatino delle pulci di Marolles, dove si può trovare praticamente tutto. Per scendere dal quartiere Sablon a Marolles è possibile utilizzare l’ascensore in vetro del Palazzo di Giustizia con vista spettacolare sulla città. Le vie del lusso e dell’alta moda sono l’Avenue Louise e il Boulevard de Waterloo: qui si trovano le grandi firme dell’alta moda internazionale insieme ai migliori stilisti belgi. Nelle Gallerie de la Toison d’Or si trova invece il centro della moda trendy e di avanguardia. In questo quartiere si trovano anche i più eleganti edifici della città, soprattutto quelli in stile Art Nouveau, e ristoranti alla moda di fama internazionale. Ed ecco la nuova Bruxelles capitale d’Europa, dove si trova la sede di tutte le istituzioni europee: tra il Parco Leopold, il rondò Robert Shumann e il Parco del Cin-
quantenario. Qui si concentrano la Commissione Europea e il Parlamento Europeo ribattezzato “Caprice des Dieux” per la forma che ricorda il famoso formaggio. Inoltre palazzi in stile Art Nouveau (una ventina solo nel “quartiere delle piazzette”) che ben si combinano con le nuove architetture. La Grand-Place, centro nevralgico della città, è considerata una delle piazze più belle del mondo — patrimonio dell’umanità dell’UNESCO — ed è caratterizzata da palazzi maestosi e dai più importanti monumenti. Il Municipio è un grande capolavoro in stile gotico brabantino e risale al XV secolo. Al centro della facciata sorge la Tour Inimitable: una delle più belle torri civiche del mondo.La Maison du Roi era il mercato coperto del pane costruito nel XVI secolo e ricostruito su modello gotico alla fine dell’ottocento.
VIAGGI - BRUXELLES
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Il Palazzo Reale è stato costruito all’inizio del XX secolo ed è la residenza ufficiale del re, dove avvengono le cerimonie e gli incontri ufficiali, anche se la famiglia reale abita in realtà in un altro palazzo nei sobborghi della città. Il Palazzo di Egmont ospita attualmente il Ministero degli esteri ed è un palazzo nobiliare rifatto più volte fino alla sua forma definitiva che risale al XVIII secolo. Tra gli edifici religiosi meritano una visita la Chiesa di Notre-Dame du Sablon, la Cattedrale — entrambe in stile gotico brabantino — e la Chiesa di San Giovanni Battista al Beghinaggio in stile barocco. Particolari e numerosi i sinuosi edifici in stile Art Nouveau — opera di Victor Horta, Henry Van de Velde e Paul Hankar — tra cui spiccano il Museo Horta, l’hotel Hannon, il Museo del Fumetto e Villa Empain, che si trova in uno dei viali residenziali più eleganti di Bruxelles.
Tra le attrazioni moderne c’è Atomium: un monumento costruito in occasione dell’Expo 1958 che in origine doveva durare solo 6 mesi, ed è ora uno dei simboli cittadini. Dalle finestre della sfera più alta si gode di una visita panoramica di Bruxelles, mentre nelle altre sfere vengono allestite mostre temporanee. Numerosissimi i musei, ne citiamo solo alcuni: quello dedicato ai capolavori del surrealista René Magritte innanzitutto; la collezione d’auto più prestigiosa al mondo inaugurata nel 1986, Autoworld; la Birreria Cantillon, unica ancora in attività in città; il Museo dei Mastri Birrai; Choco-Story Brussels, tappa fondamentale per gli amanti del cioccolato belga; il Museo dell’abito e del merletto e il Museo del Fumetto: una vera e propria passione nazionale quella chiamata “nona arte”. Tra i personaggi del genere più noti al pubblico internazionale troviamo Lucky Luke, Spirou, Tintin e i Puffi.
Aneddoto 20.000 candele su 374 scalini
di Sylvie Capelli – sylvieannacapelli@gmail.com
Eccomi a Liegi. È il primo sabato di ottobre e l’accoglienza del receptionist dell’hotel mi sorprende: “Corri, corri!!! Devi sbrigarti se vuoi arrivare in tempo alla Montagna di Bueren!” Che cosa succede? Scopro che si celebra una festa dedicata alla luce, che attira persone da tutto il mondo — nel 2008 oltre 25.000 hanno partecipato all’evento —: la notturna dei Coteaux della Cittadella. Durante questa festa tutti sono invitati alla scoperta magica del cuore storico di Liegi con oltre 60 monumenti, ma soprattutto attraversando luoghi normalmente chiusi ai visitatori: un dedalo di corti, scalinate, orti e giardini fino a raggiungere la quiete delle terrazze — anch’esse aperte per l’occasione — per contemplare la distesa dei tetti della città dall’alto. Prima di mezzanotte hanno anche annunciato uno spettacolo di fuochi d’artificio. Inizio ad incamminarmi tra le viuzze, e l’atmosfera è tutta di festa: migliaia di persone di tutte le età, sia locali che turisti, si ritrovano insieme a scoprire le bellezze nascoste della città illuminate da proiettori, ghirlande luminose e torce. La cittadina è vivace e vibrante, e io continuo a passeggiare tra la folla. La birra scorre a fiumi, mentre ristoranti e bar si contendono la clientela con offerte di cibi tradizionali e non. Ma il grande spettacolo inizia non appena cala il sole: oltre 20.000 candele vengono accese sull’incredibile scalinata della “Montagna di Beuren” che sembra quasi incendiata!!! … il nome “ville lumière” per una notte è davvero meritato.
NATURA - RISERVA NATURALE DELLO ZWIN
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Il Belgio e la riserva naturale dello Zwin
di Diana Ghisolfi dianaghiso@gmail.com
CLIMA
In Belgio il clima è di tipo atlantico. La costa è caratterizzata da una forte umidità e da scarse variazioni di temperatura, mentre nelle regioni interne aumenta l’escursione termica. Le temperature diminuiscono col procedere dalla costa verso l’interno, in particolare verso i rilievi, dove gli inverni sono molto rigidi. In media l’estate gode di una temperatura di 25°C. L’inverno ha invece una massima di 7°C. Le precipitazioni sono abbondanti e regolari durante tutto l’anno, anche se sulle coste la pioggia prevale in autunno e all’interno del Paese in estate.
FLORA E FAUNA
La morfologia del Paese è molto semplice: a nord il territorio è pianeggiante, mentre a sud è montuoso grazie alla presenza delle Ardenne, una regione collinare ricoperta da foreste. A sud la varietà faunistica e floristica è maggiore: sono diffuse le foreste di conifere, le brughiere (vegetazione a crescita bassa, povertà di specie vegetali e ani-
mali) e le torbiere (ambienti caratterizzati da grande abbondanza di acqua in movimento lento e a bassa temperatura). La fauna selvatica presente in questa zona comprende: la volpe, il tasso, lo scoiattolo, la donnola, la martora, il daino e il cinghiale. Tra i fiori abbondano i giacinti, le verghe d’oro, le pervinche e i digitali. Nelle regioni pianeggianti, invece, si trovano foreste di latifoglie come le querce, gli olmi e i faggi.
NATURA - RISERVA NATURALE DELLO ZWIN
NATURA PROTETTA
La grande densità demografica sfavorisce la conservazione di ambienti naturali. La protezione di questi spazi si realizza in modo frammentato tra le istituzioni statali, mentre un ruolo importante viene giocato dalle organizzazione private. Proprio alcune di queste, nel 1952, hanno dato vita all’Unione nazionale per la protezione della natura, affiancandosi all’Associazione delle riserve naturali e ornitologiche del Belgio e all’associazione Wielewaal. Tutte di estensione contenuta, oggi si contano 100 riserve naturali statali e 263 riserve naturali di proprietà e gestione privata, che possono usufruire di sussidi statali.
ZWIN
La più importante riserva naturale del Belgio è quella dello Zwin, in fiammingo “Het Zwin”. Il nome si riferisce all’ormai insabbiato corso d’acqua che collegava Bruges con il mare del Nord nel Medioevo. La riserva si trova nell’estremo nord del
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Belgio, al confine con i Paesi Bassi, più precisamente nel comune di KnokkeHeist. È una piccola conca in comunicazione diretta con il mare, che si sviluppa tra le dune costiere e le dighe a protezione del polder (tratto di mare asciugato artificialmente). Si tratta di una zona che si estende per 155 ettari — di cui 25 sono in territorio olandese — che presenta una grande varietà di ambienti: si passa dalla laguna costiera con le sue acque salmastre, alle distese di fango dette “slikken”, al
prato salato. Paludi, stagni e fango sono gli elementi naturali principali di quest’area. Lo Zwin è invaso dalle maree invernali e primaverili in modo variabile, e l’incontro dato dalle acque salmastre e quelle dolci provoca una variazione di salinità che crea habitat diversi e interessanti per gli invertebrati che abitano la zona. La riserva è popolata da molte specie di uccelli acquatici: si tratta soprattutto di animali appartenenti all’ordine dei Ciconiformi, ovvero uccelli dalle gambe lunghe
e sottili, dal collo allungato e dal becco lungo. La star indiscussa della riserva è la cicogna, subito dopo viene l’anatra con le sue numerose specie. Inoltre popolano questa palude costiera anche oche, limicoli e altri uccelli trampolieri. Lo Zwin è stato istituito nel 1952 grazie alla coscienza naturalistica del sindaco Léon Lippens e dell’Associazione delle riserve naturali e ornitologiche. Attualmente ospita un centro di cura e conservazione di animali feriti e un centro di ripopolamento per le cicogne.
ANIMALI - LA COZZA
LA COZZA Piccola, senza cervello ma pericolosa!
di Diana Ghisolfi dianaghiso@gmail.com
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CHI È
La cozza è un mollusco la cui peculiarità è quella di possedere due valve uguali. Scientificamente viene classificata nel genere Mytilus. In Italia il mitilo viene anche chiamato “muscolo” o “peocio”, oltre a “cozza”.
COME È FATTA
Le valve si chiudono grazie a una cerniera: un legamento elastico di colore bruno costituito da tre dentelli. La cozza ha due lamelle branchiali, per respirare e per mangiare, che sono striate, di colore giallo-viola e dotate di ciglia vibratili. Queste branchie vengono utilizzate per assorbire l’ossigeno e per trattenere il cibo. In un giorno passano attraverso le branchie circa 50 litri di acqua. Il mitilo è acefalo: non possiede la testa né gli occhi né il cervello. Dal guscio escono filamenti bruni assai robusti, chiamati “bisso”, mediante i quali il mollusco si fissa alle rocce. Questa struttura filamentosa gli impedisce di venir spazzato via dalle correnti. Il mitilo può raggiungere la lunghezza di 11 cm e la larghezza di 4 cm, ma in genere è lungo 6 cm. Mediamente la vita della cozza dura 4 anni.
La cozza ha un corpo molle di colore bianco-giallo o giallo-arancio, nel caso si tratti rispettivamente di un maschio o di una femmina. Una volta raggiunta la maturità sessuale, il mantello — cioè il rivestimento del corpo — diventa trasparente e lascia vedere il colore delle gonadi, permettendone il riconoscimento. Il corpo è racchiuso e protetto all’interno di due valve allungate e rigonfie, di forma quasi triangolare. Le valve sono composte principalmente da carbonato di calcio, il loro colore è nero-violaceo e presentano striature conLa dieta è costituita da plancton e particentriche verso la parte appuntita. All’interno delle valve il colore è viola-ma- celle organiche in sospensione nell’acqua. dreperlaceo e la superficie è liscia.
COSA MANGIA
ANIMALI - LA COZZA
La cozza si nutre filtrando le particelle attraverso la bocca, la quale è posizionata nella parte anteriore, ha un’apertura trasversale di 1 cm ed è circondata da quattro palmi labiali.
DOVE SI TROVA
Le quattro specie principali di mitili vivono nell’oceano Atlantico, nel mar Mediterraneo, nel mar Nero, nell’oceano Pacifico settentrionale e nel mar Baltico.
RIPRODUZIONE 20
Una volta raggiunta la maturità, tra i 6 mesi e 1 anno, l’attività sessuale dura per tutta la vita. La riproduzione avviene durante tutto l’anno, non c’è un periodo preciso. Le cozze rilasciano sperma e uova nell’acqua — ci sono circa 10.000 spermatozoi per ogni uovo — e proprio in una colonna d’acqua avviene la
fecondazione, che è quindi esterna. Da qui nascono le larve, le quali affrontano diversi stadi prima di maturare. L’uovo fecondato si trasforma in poche ore in larva pelagica, e si lascia trasportare dall’acqua per un periodo che va dalle tre settimane ad alcuni mesi. Dopo di che la larva tende a fissarsi ad un substrato solido, dove lentamente prende la forma del mollusco finale. Lo sviluppo larvale varia nella sua durata a seconda delle condizioni ambientali, come temperatura e salinità. Solitamente la cozza diventa adulta dopo un anno.
CURIOSITÀ
Il mitilo, filtrando attraverso le branchie grandi quantità d’acqua e trattenendo particelle e microorganismi, può contenere al suo interno batteri e virus molto pericolosi. Da evitare è il consumo di mitili crudi
(anche se conditi con succo di limone) poiché è possibile contrarre malattie quali tifo, colera ed epatite virale. Si tratta di un mollusco piccolo, apparentemente insignificante, ma in realtà è molto pericoloso per l’uomo se non si prendono le giuste precauzioni!
MITILICOLTURA
In Italia la mitilicoltura, l’allevamento di mitili, ha una tradizione consolidata. Negli ultimi anni si è preferito allevare le cozze in mare aperto anziché in lagune e stagni costieri, a causa delle condizioni igienico-sanitarie. Impianti di mitilicoltura sono presenti in 11 regioni italiane ma la maggior parte della produzione si concentra in poche regioni. In ordine decrescente: Puglia, Veneto, Emilia Romagna, Friuli e Sardegna coprono l’80 % della produzione nazionale.
La coltura dei mitili si avvale di impianti posti in mare aperto e di strutture complementari di appoggio sulla terraferma. Le varie fasi del processo produttivo si distinguono in: raccolta di seme selvaggio, incalzo del seme, immersione delle reste (tubi di rete di plastica con fori dell’adeguata misura), raccolta, depurazione, selezione e lavorazione, stoccaggio refrigerato e spedizione.
TELEFILM - SIX FEET UNDER
SIX FEET UNDER SEI PIEDI SOTTO LA BANALITÀ Un’impresa di pompe funebri, una famiglia e la Morte sono gli ingredienti che, mescolati bene insieme, possono creare una serie televisiva di successo
di Maria Solinas solinasmaria1989@gmail.com
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Nata nel 2001 dalla mente dell’autore Alan Ball per HBO, la prima stagione di Six Feet Under ha riscosso immediato successo negli Stati Uniti; e le successive quattro stagioni, in onda fino al 2005, hanno ottenuto gli apprezzamenti della critica e diversi riconoscimenti. Il pubblico americano ha accolto l’evento televisivo con entusiasmo, sicuramente dovuto anche al fatto che la serie è decisamente “made in USA”: le vicende narrate, i personaggi, l’ambientazione rispecchiano la realtà quotidiana degli Stati Uniti e dei suoi abitanti; con le loro abitudini, i sogni, i limiti, gli atteggiamenti e le dinamiche sociali tipicamente americane. Questa forte connotazione a stelle e strisce non ha tuttavia impedito a Six Feet Under di essere vista e amata dal pubblico internazionale. Probabilmente a rendere questa serie fruibile da parte di ogni genere di pubblico è proprio il suo rapporto con il grande tema universalizzante della Morte, protagonista indiscussa dell’intero progetto. Le cinque stagioni affrontano la vita quotidiana della famiglia Fisher, proprietaria di un’impresa di pompe funebri nella periferia di Los
Angeles, California. Nella prima puntata si assiste alla morte del capofamiglia, Nathaniel Fisher, che lascia la responsabilità dell’attività ai due figli: la morte del padre è il motore scatenante dell’azione, nonché il primo vero approccio al lutto e alla sua elaborazione, leitmotiv delle cinque stagioni. Ogni puntata, dopo la sigla d’apertura (originale e piacevole, sia da vedere sia da ascoltare), presenta allo spettatore una morte: in pochi minuti si assiste ad un momento della giornata di uno sconosciuto qualsiasi e al suo decesso, per le cause più disparate. Il corpo di questo sconosciuto (che rare volte è invece un personaggio noto allo spettatore) finirà poi sul tavolo di preparazione della ditta Fisher & Sons dove Federico, imbalsamatore dell’azienda, riuscirà a renderlo presentabile per l’esposizione durante il funerale. Le vicende private del defunto e della sua famiglia si intrecciano inevitabilmente con le storie dei Fisher, creando sviluppi narrativi sempre nuovi e legami inaspettati con le trame preesistenti. Il nucleo familiare dei Fisher è composto, dopo la scomparsa del padre, dalla madre Ruth (donna timorata di Dio, madre tradizionale e apparentemente senza segreti, ma in realtà profondamente complessa, insoddisfatta e ricca di sorprese) e dal figlio maggiore Nate, tornato da Seattle per Natale e rimasto poi ad aiutare il fratello a mandare avanti l’impresa funebre. Nate è un uomo incapace di impegnarsi sen-
timentalmente e professionalmente, che però a questo punto è costretto a crescere. Il secondogenito si chiama David, è un omosessuale non dichiarato e per questo molto in conflitto con se stesso; è molto dedito al suo lavoro: la sua crescita personale si sviluppa principalmente in rapporto all’accettazione della propria omosessualità. L’ultimo membro della famiglia è la figlia minore Claire, adolescente problematica con uno spiccato senso artistico e la convinzione che l’essere nata e cresciuta in una casa con lo scantinato sempre pieno di cadaveri sia il motivo dei suoi problemi relazionali e comportamentali. Lo stile di Six Feet Under si pone a cavallo tra humour pungente e tragedia, tra dramma familiare e commedia; con un’interessante vena di surrealismo: il modo in cui questa serie televisiva affronta la Morte non è mai pesante, fine a se stesso
o ridondante; la fine dell’esistenza viene presentata allo spettatore con delicatezza, ma senza solennità o ossequiosità barocche (alcuni spettatori dallo stomaco delicato potrebbero trovare alcune inquadrature macabre, ma la scelta fa parte di una ben consapevole ricerca di realismo). Six Feet Under è riuscita in un compito non facile: affrontare senza banalità l’evento più banale in assoluto. Per questo, per il cast, per le scelte registiche e per la splendida sceneggiatura, merita senza dubbio il successo riscosso.
LIBRI - GUIDA GALATTICA PER GLI AUTOSTOPPISTI
GUIDA
GALATTICA PER GLI AUTOSTOPPISTI 24
di Luca Romeo luca.rom90@yahoo.it
Correva l’anno 1979 quando per la prima volta i lettori di fantascienza appresero che la Terra sarebbe stata distrutta per far posto a una superstrada intergalattica, e — cosa non secondaria — che da tempo i delfini (i veri essere più intelligenti del pianeta) stavano cercando di avvertire il mondo dell’imminente disgrazia. Ad annunciare il tutto fu un certo Douglas Adams — inglese di 27 anni — che, da semplice speaker radiofonico, diventò in breve tempo uno dei punti di riferimento della letteratura di genere. Quell’anno la Gran Bretagna (e il mondo intero) lesse per la prima volta Guida galattica per gli autostoppisti, romanzo simbolo della fantascienza umoristica e primo capitolo di una «trilogia in cinque romanzi» dell’autore di Cambridge, scomparso prematuramente nel 2001 per malattia. Protagonista è Arthur, unico terrestre tra i personaggi importanti della storia, il quale è sconcertato dopo aver appreso che la sua abitazione sta per essere demolita per fare posto a un’autostrada. Ma, mentre le ruspe sono al lavoro per abbattere la casa, l’uomo apprenderà dall’amico Ford Prefect (che successivamente gli rivela essere un alieno) che il pianeta stesso sta per fare la medesima fine dell’edificio: una grande superstrada è in fase di costruzione al centro della Via Lattea, e il piane-
ta Terra è di intralcio; motivo per il quale sarà demolito. Nonostante gli avvertimenti dei delfini (rivelati più precisamente nel successivo Addio e grazie per tutto il pesce, quarto romanzo della serie), il popolo umano non capirà in tempo che cosa stia succedendo; non riuscendo così a scampare all’annientamento. Tutti i terrestri soccomberanno dunque nell’operazione. Tutti tranne Arthur, che comincerà a girovagare per l’universo, attraverso la pratica guida galattica per autostoppisti «economica» ed efficace. Nonostante i temi apparentemente apocalittici, lo stile di Adams è «soft» e sempre votato alla battuta ironica, caratteristica che si manterrà viva per tutto il libro e per i lavori successivi dell’autore. Una comicità a tratti nonsense e comunque sempre disillusa, tipicamente british con battute come “Il tempo è una illusione. L’ora di pranzo è una doppia illusione”, che potrebbe essere elevata a simbolo dell’intera poetica dello scrittore. L’enorme successo della Guida porterà anche a un (dimenticabile) film del 2005 diretto dal regista inglese Garth Jennings. Non certo vicino alla popolarità del libro da cui è tratto, ancora oggi riconosciuto tra i testi di riferimento per chi ama la fantascienza (15 milioni di copie vendute in tutto il mondo); soprattutto se umoristica. Altri adattamenti della saga sono stati realizzati in fumetto, serie televisiva e videogioco. È dunque tempo, a distanza di trentasei anni dalla prima uscita, di rivedere il concetto di abbattimento delle case per fare spazio a superstrade — tema non ancora di dibattito aspro come ai giorni nostri — e anche (perché no?) l’intero mondo degli autostoppisti, «genere» umano in calo nel ventunesimo secolo ma ancora molto in voga in quegli anni Settanta in cui Adams mise mano alla penna. Per riflettere — e soprattutto per farci su una bella risata — esiste una Guida già pronta.
MISTERO - GIUGNO 1933: CRASH DI VERGIATE
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Giugno 1933: Mussolini e gli extraterrestri dopo l’U.F.O. crash di Vergiate
Sirigh Sakmussen compagniadelthe@gmail.com
E se le origini dell’ufologia moderna fossero un po’ meno americane e un po’ più europee di quanto si riesca attualmente a immaginare? E se alla radice di queste origini ci fosse addirittura un episodio accaduto su suolo italiano (per la precisione lombardo) in un’epoca istintivamente poco associabile all’ufologia, come il ventennio fascista? Certi fatti sembrano proprio supportare questa ipotesi. Sebbene il caso noto in ambito ufologico come “L’UFO di Mussolini” non possa a tutt’oggi considerarsi come accaduto senza alcun dubbio, è anche vero che questo dossier ha ricevuto le attenzioni del più autorevole ufologo italiano, molto noto e ascoltato anche in ambito internazionale: il dottor Roberto Pinotti, attuale segretario generale del C.U.N. (Centro Ufologico Nazionale). Davanti a una fenomenologia ufologica dall’enorme varietà di manifestazioni, in cui si può scivolare facilmente sul piano delle “sette” e dei culti alternativi, una personalità asciutta e schiettissima come Pinotti — che, nel quadro di un approccio metodologicamente scientifico, mette sul piatto anche il proprio background professionale di sociologo — sarebbe capace
di attirare l’attenzione del più feroce dei detrattori, che avesse solo la pazienza di ascoltarlo per cinque minuti. Tutta la vicenda ha inizio nel 1996, quando una fonte anonima (indicata in ambito ufologico come “Mister X”) fa recapitare al Centro Ufologico Nazionale (oltre che al quotidiano Il Resto del Carlino) un plico contenente documenti apparentemente ufficiali risalenti agli anni ’30, e riferentisi ad un velivolo dalla provenienza misteriosa che sarebbe precipitato in Lombardia nel 1933. Se Il Resto del Carlino non prese nemmeno in considerazione questo materiale, Il C.U.N. di Pinotti seguì invece un percorso più costruttivo, anche se orientato alla massima prudenza: si fecero sottoporre i documenti a una perizia tecnica che avrebbe dichiarato i materiali cartacei, l’impostazione grafica e tipografica, e gli inchiostri come effettivamente riconducibili all’epoca dei fatti. Esattamente il 13 giugno 1933 sarebbe precipitato o atterrato — in un’area compresa fra Milano e Varese — un aeromobile non meglio identificato, immediatamente trasferito a Vergiate (in provincia di Varese) dove esistevano le infrastrutture adatte ad accogliere il reperto, e cioè gli hangar
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della società di costruzioni aeronautiche S.I.A.I. (Società Idrovolanti Alta Italia) Marchetti. Il misterioso velivolo sarebbe rimasto custodito negli hangar di Vergiate fino al 1941, anno in cui sarebbe stato trasferito in Germania. La stessa fonte che ha contattato inizialmente il C.U.N. avrebbe successivamente fornito ulteriori elementi di prova relativamente alla creazione di un organismo scientifico inizialmente preposto a studiare il caso del velivolo di Vergiate. Tale organismo avrebbe poi finito con l’assumere una natura permanente allo scopo di esaminare ogni elemento a riguardo dei cosiddetti V.N.C. (Velivoli Non Convenzionali) connessi a una molteplicità di avvistamenti che oggi chiameremmo ufologici, ma che durante l’era fascista erano sottoposti a rigorosa censura. Il nome dell’organismo in questione sarebbe stato Gabinetto RS/33, dove RS stava per “Ricerche Speciali” e “33” faceva riferimento all’anno del ritrovamento del velivolo di Vergiate. Il Gabinetto RS/33 sarebbe stato direttamente collegato alla persona di Benito Mussolini, affiancato per l’occa-
sione da Galeazzo Ciano (genero del Duce e, di lì a qualche anno, Ministro degli Esteri) e Italo Balbo (quadrumviro della rivoluzione fascista e ministro dell’aviazione in procinto di essere promosso Governatore di Libia). Presidente del Gabinetto sarebbe stato Guglielmo Marconi, all’epoca gloria scientifica d’Italia, mentre per le attività investigative sul territorio — e le relative azioni di insabbiamento e censura — il Gabinetto RS/33 sarebbe stato funzionalmente collegato all’O.V.R.A., la polizia segreta di Mussolini con prevalenti compiti di repressione politica. L’esame complessivo della documentazione messa a disposizione del C.U.N. contiene ovviamente molti altri dettagli che qui sarebbe complicato anche solo riassumere. Occorre ancora sottolineare che la vicenda è oggi nota grazie al lavoro di Roberto Pinotti, che ha dedicato al caso di Vergiate uno dei tanti libri scritti in materia ufologica: “Mussolini e gli UFO” - Idea Libri, Rimini - 2001, scritto con Alfredo Lissoni. Collegando le fonti note con altri fatti e testimonianze degni di considerazione, sembrerebbe che il velivolo di Vergiate fosse anche provvisto di un equipaggio. Dal momento che sussiste una certa ambiguità di ricostruzione tra la circo-
stanza della caduta e quella dell’atterraggio del velivolo, si parla perfino di piloti dall’”aspetto nordico”, ritenuti inizialmente tedeschi ma ad un più accurato esame assolutamente non riconducibili a nessun tipo umano terrestre. E non occorre aggiungere altro, se si pensa che una delle presunte razze extraterrestri — di cui si legge abbondantemente nella letteratura ufologica — è proprio quella dei “nordici”. Il caso del presunto “U.F.O.” di Vergiate è controverso, perché è in buona sostanza esclusivamente basato sulla documentazione che il suddetto “Mister X” avrebbe messo a disposizione del C.U.N.. E, se è vero che Pinotti si è cautelato facendo sottoporre quelle carte a una perizia che ne ha attestato l’autenticità, è vero anche che l’esito degli esami considera autentica solo la datazione del materiale cartaceo con annessi e connessi. Non si può in altri termini escludere che si tratti di un falso, seppur realizzato su materiali e con inchiostri d’epoca; varrebbe a dire un “falso anticato”. Ecco perché i pareri sull’affidabilità dei documenti messi a disposizione da “Mister X” non sono concordi nemmeno in ambito ufologico, mentre non
occorrerebbe nemmeno aggiungere che la storiografia ufficiale non concede alcun credito all’intera vicenda. Ma l’indagine di Pinotti non è affatto ingenua. Lo studioso ha sempre ribadito (nella citata monografia, nonché in altri suoi libri e interviste) che la questione dell’U.F.O. di Vergiate va affrontata mettendo a confronto le fonti documentali (alle quali andrebbe comunque riconosciuto un certo grado di dignità) con l’analisi collaterale di altri fatti di rilevanza storica. La presenza, ad esempio, di Guglielmo Marconi al vertice del Gabinetto RS/33 non sarebbe casuale. Il “Mago degli spazi” (così d’Annunzio apostrofava l’inventore del radiotelegrafo) credeva infatti fermamente nell’esistenza di civiltà extraterrestri, e nella reale possibilità di comunicare via onde radio con i popoli di altri mondi. All’epoca non si era ancora sviluppata l’esoplanetologia (vale a dire lo studio di pianeti esterni al sistema solare), e così la categoria degli extraterrestri si faceva per lo più coincidere con quella dei marziani. E proprio ai marziani si riferì un discorso pronunciato da Mussolini alla Federazione fascista dell’Urbe, presso il Teatro Adriano il 23 febbraio 1941, e cioè
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qualche anno dopo i presunti fatti di Vergiate: “È più verosimile che gli Stati Uniti siano invasi, prima che dai soldati dell’Asse, dagli abitanti non molto conosciuti, ma pare assai bellicosi, del pianeta Marte, che scenderanno dagli spazi siderali su inimmaginabili fortezze volanti”. Con sviluppi quasi profetici, l’anno dopo — e precisamente la notte fra il 24 e il 25 febbraio 1942 — la città di Los Angeles fu sorvolata da un misterioso velivolo che fu oggetto di abbondanti scariche di artiglieria contraerea. Ci furono anche dei morti; ma solo per i colpi rimbalzati a terra contro un oggetto indistruttibile sospeso in aria. La stampa americana mostrò il giorno dopo l’inequivocabile sagoma di un flying saucer (disco volante) illuminato dai riflettori. Tornando in Italia, teniamo presente che la fondamentale preoccupazione di Mussolini, prima dei fatti di Vergiate, era quella di intercettare eventuali prototipi di velivoli militari di potenze rivali — segnatamente Francia e Gran Bretagna — ritrovatisi per avventura a sorvolare i cieli d’Italia. E ciò allo scopo di impadronirsi di precisi segreti industriali. Mussolini non pensava, in altri termini — e almeno inizialmente —, a ricerche di tipo ufologico; ma agiva con uno spirito di competizione nei confronti di Paesi con cui l’Italia rischiava di ritrovarsi in guerra da un momento all’altro, in uno scenario in cui il Regime fascista poteva ancora vantarsi di aver realizzato l’aeronautica più avanzata del mondo. Ma allora, perché il Gabinetto RS/33 risulterebbe essere stato costituito da scienziati competenti anche in materie bio-mediche? In caso di cattura di un velivolo segreto straniero, non si sarebbe dovuta porre l’esigenza di investigare
sulla natura biologica dei relativi piloti. Dopo i fatti di Vergiate, le investigazioni sarebbero state invece organizzate anche in quella direzione. Ecco quindi ritornare indizi a supporto del rinvenimento di piloti occupanti il velivolo di Vergiate, aventi origine non terrestre. Ed è anche vero che alcuni appassionati di ufologia avrebbero condotto ricerche supplementari, relativamente alla stampa d’epoca della provincia di Varese, su fatti verificatisi in area Vergiate-Sesto Calende. Pare che in quei luoghi sia ancora oggi molto viva la memoria storica di velivoli di forma sigariforme o discoidale talvolta avvistati perfino al suolo, e addirittura di incontri ravvicinati del terzo tipo con umanoidi di tipo nordico nei boschi della zona. Nel numero di maggio di questa rivista avevamo considerato l’articolo di giugno come il seguito di quello precedente, dedicato all’ufologia nazista. Ma i fatti di Vergiate ne costituiscono piuttosto un prequel. Non dimentichiamo che nel 1941 la Gestapo tedesca (in connessione col ramo più esoterico delle S.S., l’Ahnenerbe) trasferì in Germania tutto ciò che riuscì a trovare
negli hangar della SIAI Marchetti di Vergiate. Nel numero di maggio abbiamo indicato nella sperimentazione ingegneristica tedesca durante la seconda guerra mondiale — insieme con le teorie di Schauberger sul motore “a risucchio” Repulsine — le premesse dei cosiddetti “dischi volanti nazisti”. Adesso non possiamo fare a meno di ipotizzare che l’U.F.O. di Mussolini custodito a Vergiate abbia giocato un ruolo non secondario nelle ricerche naziste di retroingegneria volte a “imitare” tecnologie superiori di origine non terrestre. In Italia le ricerche del Gabinetto RS/33 pure avrebbero portato alla realizzazione, ad opera dello stesso Marconi, di un dispositivo militare in grado di erogare flussi di energia di natura elettromagnetica. Si tratterebbe del “Raggio della morte”, capace di bloccare o far addirittura esplodere qualunque motore di veicoli o velivoli nemici entro un certo raggio d’azione. La mancata implementazione di questa terribile “arma segreta” durante la seconda guerra mondiale si spiegherebbe solo con i profondi scrupoli umanitari di Marconi, che lo avrebbero infine spinto a distruggere il progetto. Non è possibile fino ad oggi sollevare completamente i veli che ricoprono la storia dell’”U.F.O. di Vergiate”. Ma, se solo ci fosse una minima parte di verità nella ricostruzione di quei fatti, si assisterebbe a una circostanza piuttosto rilevante. L’ufologia è più o meno consi-
L’ex idroscalo della Sant’Anna di Vergiate.
S.I.A.I.
Marchetti
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derata nell’immaginario collettivo come un’attività investigativa (o al peggio un fenomeno di costume) di marca prettamente americana. All’U.F.O. crash di Roswell (New Mexico) del 1947 si fa risalire la data di origine della stessa ufologia. Con la conseguenza di un impianto divulgativo della materia di “gusto” tutto statunitense, che predilige rappresentare l’extraterrestre come una creatura dall’intelligenza superiore, ma dall’aspetto fisico solo vagamente umanoide. Pensiamo infatti agli inquietanti “Grigi” o agli addirittura più allarmanti “Rettiliani”. I fatti fondativi dell’ufologia secondo l’ipotesi italiana vedono invece negli extraterrestri delle creature dall’umanità molto simile alla nostra, con appena la caratterizzazione della statura prestante e del colore biondo dei capelli. Sarebbe questa la memoria tramandata dai ricordi di più di una famiglia coinvolta in esperienze di contattismo in provincia di Varese negli anni dei fatti di Vergiate. E la saga ufologica di creature extraterrestri così simili agli umani da potersi confondere del tutto con loro è destinata, a partire dal giugno 1933, a sviluppi ancora più eclatanti nei successivi decenni della prima repubblica italiana. Arrivederci a quell’epoca.
STORIA - IL CASO WATERGATE
IL CASO
WATERGATE
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E GLI ANTICORPI DELLA DEMOCRAZIA AMERICANA di Raffaele d’Isa scrivi@raffaeledisa.it
Il 17 giugno 1972 ebbe inizio — con l’arresto di un gruppo di intrusi penetrati di notte negli uffici del Partito Democratico alloggiati nel Watergate Complex a Washington — quella gravissima incrinatura della tradizione democratica statunitense che sarebbe passata alla storia come “scandalo Watergate”. A distanza di diversi decenni dai fatti può essere utile sottolineare che la vicenda non risultò immediatamente esplosiva, ma si snodò per più di due anni fra alti e bassi per la reputazione dello “scandaloso” Richard Nixon.
Il Presidente rassegnò infatti le dimissioni “solo” l’8 agosto 1974, con un profilo politico personale ormai deteriorato, e una resistenza a ulteriori attacchi estremamente logorata. Tutto era quindi cominciato con l’arresto di una squadretta di individui assimilabili a topi di appartamento due anni prima presso la sede del partito avversario. Ma la vicenda all’epoca non fu talmente eclatante da precludere a Nixon la riconferma alla carica presidenziale per un secondo mandato, proprio con le elezioni
del 1972. Solo col suo progressivo montare, la questione prese il largo verso quello che si sarebbe infine rivelato come un attacco al cuore della più grande democrazia del pianeta. L’insabbiamento dei fatti — o almeno un loro drastico ridimensionamento — fu in gran parte evitato per merito dei due reporter del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein. I due giornalisti continuarono a scavare infaticabilmente sull’accaduto tenendo viva l’attenzione dell’opinione pubblica su tutta la vicenda per ben due anni. Col passare dei mesi, la posizione di Nixon fu via via appesantita da una serie di complicazioni: dichiarazioni da parte dei soggetti arrestati al Watergate (alcuni dei quali avevano degli innegabili collegamenti con la Casa Bianca, col Partito Repubblicano e con la C.I.A.); l’emergere di telefonate registrate dallo Studio Ovale con dichiarazioni ambigue da parte dello stesso Presidente; l’incriminazione di nuove personalità vicine a Nixon; e infine un netto peggioramento dell’atteggiamento dello stesso Presidente nei confronti della Procura inquirente, che portò alle dimissioni del procuratore generale Richardson e del suo vice William Ruckelshaus, nonché al drammatico licenziamento del procuratore speciale Archibald Cox, effettivo titolare delle indagini. Siamo così arrivati all’ottobre del 1973. A Nixon restava meno di un anno prima di arrendersi all’evidenza dello scandalo, fra estremi tentativi di depistaggio e l’ostentato successo del ristabilimento delle relazioni sino-americane, insieme al vanto di una tardiva cessazione della guerra nel Vietnam; della cui fine egli pretese di consegnarsi alla storia quale grande artefice. In politica estera il Presidente poté certamente vantare questi due successi, ma fino a un certo punto; perché nella guerra del Vietnam enormi responsabilità storiche finivano comunque col ricadere sul
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suo operato politico, specialmente per quanto riguardava i fronti cambogiano e laotiano del lungo e complesso conflitto. Il 9 agosto 1974 Nixon lasciò la Casa Bianca salutando a braccia larghe i suoi sostenitori con un radioso gesto “a V” delle sue dita. Senza cioè nessuna ammissione di colpa o dolo relativamente ai fatti del Watergate. Solo pochi giorni prima era stata divulgata la “pistola fumante”, ovvero la prova schiacciante che un certo tipo di coinvolgimento del Presidente nei fatti del Watergate doveva comunque esserci stato. Si trattava del nastro di una conversazione riservata fra Nixon e il Capo di Staff della Casa Bianca H. R. Haldeman, risalente ai giorni successivi all’incursione nel Watergate, in cui i due pianificavano di indurre la C.I.A. a trasmettere all’F.B.I un falso comunicato nel quale si sarebbe sostenuta la necessità di coprire le prove relative all’abuso per motivi di sicurezza nazionale. Con la procedura di impeachment già nell’aria nel luglio del 1974, quest’ultima grave complicazione spinse Nixon alle dimissioni spontanee per non gettare ulteriore discredito sulla carica dell’uomo più potente del mondo.
A distanza di tanti anni, la considerazione del caso Watergate sembra talvolta attenuarsi dentro un generale processo di parziale recupero della figura di Nixon. Si sente spesso dire in ambito storiografico che se Kennedy fu colui che fece decollare la guerra in Vietnam, Nixon fu il Presidente che la portò a termine. E, in questa alquanto frettolosa riabilitazione del Presidente repubblicano, sembra forse stemperarsi anche un’eccessiva durezza di giudizio sul caso Watergate. Lo stesso Presidente Clinton, pronunciandosi al momento della morte di Nixon nel 1994, affermò che quel suo lontano predecessore aveva pagato un prezzo superiore alle sue colpe; e invitò la nazione a riconciliarsi con la figura di quel Presidente. La stoccata finale sul caso Watergate non arrivò in realtà a Nixon all’epoca della sua Presidenza, ma qualche anno dopo; e cioè con il ciclo di interviste che egli concesse al giornalista britannico David Frost nel 1977. Ancora in possesso di tutta la sua abilità dialettica, Nixon resse inizialmente molto bene il confronto col suo intervistatore; ma in un momento di stanchezza non riuscì a fare a meno
di confessare che il suo operato nei fatti del Watergate si era in definitiva tradotto in un tradimento da parte sua nei confronti del popolo americano. Con questa pesante ammissione, l’intervista si tradusse — almeno in termini morali — nel processo che Nixon non aveva mai avuto, visto che il nuovo Presidente in carica dal 9 agosto 1974, Gerald Ford, aveva concesso al suo immediato predecessore il perdono presidenziale con cancellazione di qualunque addebito penale per i fatti intercorsi. Ci sembra che il punto oggi non sia tanto quello di tentare di alleggerire, storicizzare o contestualizzare la posizione di Nixon a distanza di un quarantennio. Lo scandalo Watergate è forse più utile come monito perenne — nell’era di conclamati principi democratici — rivolto alle classi politiche dominanti. I giochi pesanti del potere possono inebriare e ottundere chi quel potere detiene, fino a farlo regredire a uno stadio davvero arcaico della visione giuridica dello stato. Quello stadio che fu proprio degli antichi imperi fino alle meno lontane monarchie assolute del XVII secolo in cui poteva ancora farsi valere il principio posto nel III secolo d.C. dal giureconsulto romano Ulpiano «quod principi placuit legis habet vigorem» (ciò che piace al principe ha valore di legge) e «princeps legibus solutus est» (il principe è svincolato dalle leggi), che indicano la potestas absoluta che si riconosceva alla figura di un principe, di un monarca assoluto o di un imperatore; ma in ogni caso un dominatore dello stato dalle fattezze arcaiche e incompatibili con la maturazione democratica delle moderne istituzioni di diritto pubblico. Con l’affermazione del principio di legalità — grazie soprattutto alla Rivoluzione Francese — ogni organo dello stato, ogni potere costituito è soggetto alla legge e non può chiamarsi al di sopra di essa. E la regola valeva senz’altro an-
che per quell’”uomo più potente del mondo” che nei primi anni ’70 vide un pericolo per la sicurezza nazionale dentro il partito che democraticamente a lui si opponeva in vista del rinnovo del suo mandato presidenziale. Si può ottimisticamente considerare che a Nixon rimase aperta una ferita a vita per la consapevolezza di aver tradito le fondamentali regole del gioco del suo Paese; e della stessa cultura politica statunitense. Ma le dimissioni di Nixon ci raccontano anche che la spesso vituperata società nordamericana ha saputo allevare nel corso della sua storia poderosi anticorpi risultati efficaci, alla prova dei fatti, contro un grave episodio di oscura deriva antidemocratica. Lo dimostra, per di più, un fondamentale dettaglio. La fonte riservata di altissimo profilo istituzionale — alla quale i giornalisti del Washington Post Woodward e Bernstein si riferivano con l’appellativo di “Gola profonda” per giustificare la crescente divulgazione di informazioni riservate che lavorò Nixon ai fianchi per due
STORIA - IL CASO WATERGATE
anni —, ha rivelato la propria identità solo nel 2005. Si tratta di Mark Felt, all’epoca dei fatti cinquantanovenne vice direttore dell’F.B.I., non proprio l’ultimo arrivato. Quest’uomo incontrò i suoi contatti giornalistici in oscuri garage per due anni e fornì uno stillicidio di informazioni alla fine cruciali nel progressivo indebolimento della figura di Nixon. È singolare che in Mark Felt abbia di gran lunga prevalso la dimensione del comune cittadino portatore di quegli anticorpi contro ogni infezione antidemocratica, piuttosto che il ruolo di “uomo di apparato”, che pure avrebbe potuto pesare sulla coscienza di un dirigente F.B.I. Anche questa è America.
38 Mark Felt, dirigente F.B.I.: la misteriosa fonte giornalistica riservata del Washington Post nota come “Gola profonda”
Richard Nixon abbandona la Casa Bianca salutando i suoi sostenitori il 9 agosto 1974
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MUSICA - DIVENTERAI UNA STAR
“Diventerai una star” O FORSE NO
Da gruppi di successo a semplici meteore: i gruppi italiani più in voga nei primi anni 2000 non hanno saputo mantenere le promesse degli esordi. di Gianmarco Soldi gianmarcosoldi@gmail.com
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Che fine hanno fatto? Dove sono finiti i gruppi Made in Italy che fino a pochi anni fa imperversavano alla radio e facevano da sottofondo alle estati di folle di adolescenti? Stiamo parlando di formazioni come dARI, Lost e Finley, padroni della scena rock/pop di casa nostra nella prima decade del nuovo millennio, abili nello sfruttare le mode emo provenienti da oltreoceano ed oggi caduti miseramente nell’oblio. Come è stato possibile tutto questo? Il fenomeno forse più clamoroso del filone emo/teen è stato rappresentato senza dubbi dai dAri. Il gruppo emotronico, come amavano definirsi Dario Pirovano & Co, è nato ad Aosta ormai più di dieci anni fa ed ha ottenuto la fama nel 2008 col singolo “Wale (Tanto Wale)”, capace di attirare l’attenzione di migliaia di utenti YouTube e poi di approdare in televisione. Il momento di massimo successo ed esposizione mediatica è avvenuto nel biennio 2009-2010, con
la vittoria di due TRL Awards come “Best New Artist” e “Best Look” e la messa in onda del reality show “Dari4Real”, ma da allora la band è entrata in una fase involutiva senza fine. Solo nel 2012 è stato pubblicato un ulteriore singolo, Solo Punk Rock, rimasto però perlopiù ignorato dal pubblico online. All’interno dello scenario già di per sé problematico, è stato emblematico l’addio del pittoresco tastierista e co-leader Andrea Cadioli (lo stesso che nel 2010 affermava di sentirsi addirittura perseguitato dalle numerose fan che lo attendevano sotto casa), volato in Cina per studiare architettura. D’altro canto, non si può dimenticare come un’altra formazione storica all’interno della decade scorsa si sia letteralmente eclissata negli ultimi anni. Stiamo parlando dei Finley, rock band legnanese esplosa nel biennio 2005/2006 con singoli come “Diventerai una star” e “Tutto è possibile”, utilizzati in numerosi film e spot pubblicitari. Capaci anche di fondare una propria etichetta discografica indipendente e di vincere premi prestigiosi (come il “Best Italian Act” agli MTV Europe Music Awards per ben due volte), anche i Finley non sono riusciti a protrarre negli anni il successo guadagnatosi agli esordi. La partecipazione (non indimenticabile) alla 58esima edizione del Festival di Sanremo con il brano Ricordi è stata a
tutti gli effetti l’ultimo tassello di una carriera praticamente conclusasi nel 2012 con l’album Sempre solo noi. Altrettanto amati dalle ragazzine e altrettanto velocemente scomparsi, sono stati i Lost. Conosciuti grazie alla pubblicazione di un demo su MySpace e poi scritturati dalla major Carosello, i Lost hanno rappresentato a pieno la tendenza emo in Italia, aggiudicandosi anche un Disco d’Oro e vincendo il premio “Best Band” ai TRL Awards del 2009, oltre ad aver accumulato camei e apparizioni in numerose trasmissioni e fiction televisive. Dopo tanto successo, l’inevitabile scioglimento è avvenuto nel 2011, in concomitanza dell’addio del cantante Walter Fontana. Poi, più nulla. Da quel che risulta, i membri delle tre band hanno intrapreso strade differenti. Alcuni hanno abbandonato la musica per dedicarsi agli studi universitari, altri hanno continuato a lavorare nell’industria discografica, pur rivestendo ruoli sempre minori. Di altri ancora, si è semplicemente persa traccia. Eppure, dopo i fervori e l’idolatria dei tempi passati, sembra che i fan non soffrano particolarmente per l’assenza dei propri (ex) beniamini dalle scene musicali più di quanto rimpiangano i ciuffi tinti di fucsia e i pantaloni a vita bassa. Si sa, il business discografico, come quello della moda, è spietato.
MODA - STATEMENT JEWELRY
Le mode che liberano l’essere, invece di ingabbiarlo.
Statement Jewelry
42 di Valentina Viollat shoppingamoremio@gmail.com
Le mode, le tendenze, i trend del momento vorrebbero essere suggerimenti di stile, idee lanciate nell’immaginario collettivo per fecondarlo, sintesi di profondi processi di riflessione su costumi e direzioni della cultura, intuizioni dello spirito del tempo, che ne diventano traduzioni estetiche, visibili. Quasi sempre invece finiscono per essere l’ultimo anello della catena manipolatoria del mercato, con un diktat che suona più o meno così: abbiamo prodotto questi materiali, forme, serie di oggetti e questi dovete desiderare per sentirvi ok. Ci sono però tendenze che, se pure sono asservite alle logiche di mercato come è ragionevole che sia, rientrano nella prima definizione: sono, di fatto, Zeitgeist (spirito del tempo) in pillole. E quando si tratta di questa tipologia di trend, l’effetto è straordinario: liberano, invece di asservire ed omologare. Amplificano la creatività, inve-
ce di ingabbiarla. Basti pensare a pochi esempi paradigmatici, che mostrano come l’abbigliamento possa essere lo specchio di rivoluzioni culturali: le parrucche nel ‘700, il reggiseno, i pantaloni per le donne, le collant, i jeans, la minigonna, le creste e i piercing punk. Anche esempi meno eclatanti e rivoluzionari possono, per una o due stagioni, accendere l’estro. Permettono all’essere individuale di ciascuno di esprimersi di più, anziché di meno. Sono trampolini per la personalità, invece che rifugio di coloro che non ne possiedono. Sono atti di affermazione del sé, non sintomi del condizionamento. Sono piccole occasioni di ribellione alle regole imposte, diventano gesti che ostentano autoironia, allegria e capacità di giocare con la propria immagine, allo scopo di intrattenere prima di tutto se stessi e poi gli altri. Una di queste è certamente la tendenza
MODA - STATEMENT JEWELRY
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denominata Statement Jewelry, che è in auge da qualche tempo. L’understatement è, oltre che una figura retorica, l’atteggiamento di chi rifiuta di palesare il proprio status sociale attraverso oggetti costosi o comunque appariscenti, tendendo a nascondere in maniera sobria e discreta la propria ricchezza. Si comprende dunque come sia perfetto l’appellativo Statement Jewelry per designare la tendenza — non recentissima, ma in cui siamo ancora pienamente immersi — ad indossare gioielli vistosi, vistosissimi, esagerati e palesemente molto, molto finti. Un tripudio di collane e orecchini degni di un colossal sulla regina di Saba e Cleopatra. Una collezione di gioielli appariscente e da capogiro come quella di Elisabeth Taylor, ma alla portata di tutte e tutti (non sono esclusi gli uomini che ultimamente hanno riacquistato il diritto sacrosanto all’ornamento): nelle grandi catene del prontomoda, si trovano accessori di questo tipo a cifre ragionevolissime: dai 3 ai 10 euro la maggior parte. Alcuni accessori particolarmente complessi possono aggirarsi sui 25 euro, ma raramente raggiungono i 35. La componente liberatoria di questi accessori risiede in un contrasto: ap-
paiono principeschi, lussuosi, con una presenza scenica da gran soirée o red carpet, ma non sono affatto preziosi. Anzi, per la maggior parte, questi accessori di bigiotteria sono proposti a cifre davvero basse. Ciò consente di collezionarne diversi e, al contempo, di sfoggiarli con serenità e nonchalance ad ogni ora del giorno, poiché, appunto, non si tratta di preziosi, ma di imitazioni molto economiche. Ne deriva una componente ludica e combinatoria molto interessante. L’idea suggerita da questi gioielli, lo statement per l’appunto, è semplice e di immediata lettura. Attesta il diritto ad esprimersi giocosamente attraverso accessori accessibili: con divertimento e ironia mi concedo di apparire e stupire ogni giorno, senza attendere occasioni speciali, senza dover investire grosse cifre, anzi spendendo pochi euro. I gioielli Statement possono essere coloratissimi elementi di bigiotteria oppure più sobri accessori, nelle tonalità più neutre dei diamanti; in colori estivi si possono osare persino in spiaggia. E sono super chic con abbigliamento bon ton e vintage, anche se la vera rivoluzione è indossarli con capi casual, su camicie, felpe, t-shirt a righe, con jeans e sneakers o stivaletti texani.
SPORT - MAYWEATHER VS PACQUIAO
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E l’arrosto dov’è? di Gianluca Corbani corba90@hotmail.it
Doveva essere il match del secolo, è stato un gigantesco giro d’affari. Per lo spettacolo però — quello vero, tecnico e umano: ripassare un’altra volta. Incontri come quelli tra Muhammad Ali e i rivalissimi Frazier e Foreman (divenuti nel tempo autentici manifesti socio-politici dei bollenti anni ‘70) non torneranno più. Più che un match di pugilato, l’attesissima sfida tra Floyd Mayweather Jr. (38 anni) e Manny Pacquiao (37) passerà alla storia come un kolossal costruito ad arte per riempire i botteghini, oltre che le tasche dei protagonisti. In palio a Las Vegas c’era il titolo mondiale dei Welter, inseguito da due vecchi campioni tanto attempati quanto ancora seduttivi nei confronti dei tifosi-clienti, o forse sarebbe meglio dire finanziatori. Ad attrarre l’interesse della platea globale — come spesso accade
quando la rivalità sportiva mette di fronte degli uomini, anziché delle squadre — è stata principalmente la contrappo-
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sizione personalistica tra i due pretendenti. Una contrapposizione sfruttata ad arte dai cervelloni della boxe che, proprio sulla distanza culturale tra il “bad boy” Maywather e il “politicamente corretto” Pacquiao, hanno costruito una straordinaria campagna di marketing e comunicazione. In tempi difficili per la boxe serviva un evento universale che potesse rilanciare il prodotto e, almeno sotto questo profilo, il progetto è andato dritto al bersaglio. Nel cuore di una MGM Grand Arena gremitissima di Vip (Denzel Washington, Matt Damon, Robert De Niro, Andre Agassi, Magic Johnson) e di spettatori dissanguati dal prezzo del biglietto, Wayweather ha vinto ai punti unificando i 3 titoli mondiali dei welter (Wbc, Wba, Wbo) e restando imbattuto a quota 48 match consecutivi. A una sola vittoria dal record di
Rocky Marciano, che l’americano potrebbe agganciare a settembre quando disputerà l’ultimo match della sua ricchissima carriera. Sul ring lo sbruffone Floyd Jr. ha lasciato le briciole a Pacquiao, che pure ha avuto il merito di condurre il match costantemente all’attacco stringendo alle corde il rivale nella 4° e nella 6° ripresa col suo micidiale gancio sinistro.
moniare la propria ricchezza smisurata. In un mondo di ipocriti, lui almeno è sincero: combatte per i soldi. Agli antipodi, ecco il benefattore Pacquiao. Uno che nel tempo libero suona il pianoforte e fa il cantante, intellettualmente attivo e socialmente sensibile, amatissimo dalla sua gente nelle Filippine, dove studia da presidente per riscattare un popolo intero che lo adora. Da piccolo Manny vendeva sigarette per strada. Oggi, oltre a fare il pugile, allena e gioca in una squadra di basket del campionato filippino, ed è membro del Parlamento nazionale. Storie diverse, entrambe al capolinea; due vite incrociatesi nel crash dal match di Las Vegas. Celebrato il trionfo di Maywather con la caduta di Pacquiao, ai due semi-quarantenni resta un’unica certezza comune: ora che le tasche sono davvero piene, non ci sarà un’altra rivincita sul viale del tramonto dei due pugili. Come nel calcio, tuttavia, essere offensivi non è garanzia di successo. Spesso paga più il buon vecchio contropiede, e in effetti il match di Las Vegas ha premiato la strategia difensivista di Mayweather, straordinario calcolatore capace di accumulare progressivamente vantaggio sui cartellini con la sua boxe di rimessa, fino a rendere impietoso il verdetto dei giudici. Di copioni recitati tra chi difende e chi attacca, è piena la storia dello sport. Solo che stavolta la differenza tattica era fedele alla distanza che separa i due uomini fuori dal ring. Il nero e il filippino, il cattivo e il politico. Furbo, spudorato ostentatore e assetato di soldi, Mayweather detto “Money” (figlio di un pugile finito il galera per spaccio di eroina) viene da un’infanzia infernale, ha seguito il babbo in galera causa violenza domestica ed è solito postare su Twitter foto da rapper per testi-
SPORT MINORI - IL CALCIO STORICO FIORENTINO
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Quattro quartieri per una Chianina
IL CALCIO STORICO FIORENTINO di Simone Zerbini simone-z90@hotmail.it In questo numero vi presenteremo un pezzo della storia di Firenze, un evento che andrebbe visto almeno una volta nella vita, caratteristico tanto quanto il Palio di Siena, il Carnevale di Venezia o di Viareggio e la Corsa dei Ceri di Gubbio. Stiamo parlando del calcio storico fiorentino e no, non ci riferiamo al periodo in cui militavano nelle file della Viola i vari Batistuta, Toldo, Rui Costa, Roberto Baggio... Uno sport simile al calcio fiorentino che risale addirittura ai tempi degli Antichi Greci, apparendo nei poemi omerici, che gli Ellenici chiamavano sferomachia; attività ludica che verrà in seguito adottata dai legionari romani, che ne faranno un metodo di allenamento per i guerrieri detto harpastrum, letteralmente “strappare a forza”. Questo gioco veniva praticato su terreni sabbiosi, e l’obiettivo delle due squadre era quello di portare in qualsiasi modo una palla, solitamente riempita di stracci o pelle, oltre il campo avversario. Questo sport prese talmente piede in tutta Europa (Inghilterra, Normandia e Piccardia) che a tutto il Quattrocento veniva praticato dai giovani fiorentini in qualsiasi strada e
piazza della città. In questo periodo il gioco venne via via regolamentato: le partite si svolgevano solitamente nel periodo del Carnevale e vi prendevano parte adulti perlopiù della nobiltà (tra cui diversi futuri Papi e alcuni Signori dell’epoca) vestiti di sfarzose livree, utilizzate tutt’oggi nella rievocazione storica. La popolarità del calcio storico fiorentino durò fino a metà Settecento, epoca cui risalgono le ultime notizie di una partita organizzata (1739 in piazza di Santa Croce, alla presenza di Maria Teresa d’Austria). La ripresa delle “ostilità” risale al 1930, anno in cui per volere del gerarca fascista Alessandro Pavolini, venne organizzato un torneo fra i quattro quartieri della città per commemorare il quattrocentesimo anniversario dell’assedio di Firenze da parte di Carlo V. Da quel 1930 ad oggi la manifestazione non si è disputata solamente nel periodo bellico. Il regolamento odierno cerca di calcare il più fedelmente possibile i “33 articoli” fissati nel 1580 da Giovanni Bardi: la partita dura cinquanta minuti e si disputa su di un campo rettangolare ricoperto di rena e diviso in due quadrati identici da una linea. Sulla linea di fondo viene posizionata una rete nella quale i calcianti, ventisette per parte, dovranno depositare la palla per segnare la caccia (l’odierno goal). Ogni squadra è formata da quattro datori indietro (i portieri), tre datori innanzi (i terzini), cinque sconciatori (i mediani) e quindici innanzi
o corridori (gli attaccanti) posizionati sul campo da gioco, più un capitano e un alfiere, che risiedono in una tenda montata al centro della rete di fondo, e che hanno il compito di intervenire per pacificare eventuali (e oserei dire poco quotate) risse e di gestire il gioco della propria squadra. La disputa viene diretta da un giudice arbitro, aiutato da sei segnalinee e, fuori dal campo, da un giudice commissario e soprattutto dal maestro di campo. Il lancio della palla sulla linea centrale da parte del pallaio e i colpi di colubrina danno il via alle ostilità. Vince chi segna più cacce (una caccia per ogni goal, mezza caccia alla squadra che difende per ogni palla deviata o tirata sopra alla rete) al termine dei cinquanta minuti. Il premio consiste in una vitella di razza Chianina. Oggi il torneo si svolge interamente nel mese di giugno: due eliminatorie solitamente a metà mese e la finale il 24, giorno di San Giovanni, patrono della città. Le squadre partecipanti rappresentano i quattro quartieri fiorentini: i Bianchi di Santo Spirito, i Rossi di Santa Maria Novella, gli Azzurri di Santa Croce e i Verdi di San Giovanni.Vogliamo ricordare alcune edizioni degne di nota (oltre alla già citata del 1530): nel 1490 e nel 1605 si giocò eccezionalmente sull’Arno completamente ghiacciato; nel 1570 si giocò nelle Terme di Diocleziano a Roma; nel 1689 si sfidarono una rappresentativa europea ed una asiatica; nel 2013 per la prima volta nella storia la finale venne rinviata per maltempo; numerose sono le esibizioni tenutesi in tutto il mondo (Torino, Praga, Genova, Catania, New York, Agrigento, Brescia, Lione e Urbino). Siete sempre in tempo per visitare Firenze, ma farlo il 24 giugno potrebbe essere un’esperienza totalmente nuova e fuori dagli schemi. Volete mettere gli Uffizi e Palazzo Vecchio con una bella rissa rinascimentale?
SPORT CERTIFICATI: PEC - MIRCO CENCI
Mirco Cenci:
una vita di successi di Roberto Carnevali robertocarnevali@eutelia.com
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In questo numero vorrei delineare la figura di un noto e importante personaggio pubblico, prestigioso e con alto spessore tecnico nel palcoscenico del tiro a volo mondiale — per quanto voi tutti lo possiate già conoscere come sportivo e come persona nella vita quotidiana: Mirco Cenci, attuale CT della Nazionale Italiana nella specialità Double Trap. Una persona prestigiosa che ha dato il suo contributo ad altissimo livello al palmares della nostra Nazione, sia come tiratore sia come Commissario Tecnico. Persona semplice e umile nei modi, professionalmente si colloca tra i maggiori esponenti di spiccata importanza nel palcoscenico mondiale del tiro a volo (Specialità D.Trap). Umbro DOC, sin da giovane brucia le tappe per la scalata a tali e tanti trionfi che ancora oggi, in qualità di CT, è il fiore all’occhiello della nostra nazione. Perseverante nel suo lavoro e determinato nell’attuale suo progetto, scopre talenti di ineguagliabile valore, rivivendo con essi il sapore delle tante vittorie avvenute nella sua carriera personale da professionista. Nato tiratore di Trap nel 1972 fino al 1992, nel 1993 passò al D.Trap perché da vero eclettico era in grado di sparare praticamente a tutto: anche a skeet, piccione e sporting. Quando il tiro a volo mondiale — dopo l’ulti-
ma vera grande Olimpiade di Barcellona ’92 — perse il concetto di valore sportivo (ossia: il più forte vince) portando il numero di piattelli da 225 a 125, Cenci decise di cambiare disciplina, anche se non disdegnava continuare a sparare ancora al Trap. In questa specialità continuava infatti a vincere, ma la Federazione non amava assolutamente che un tiratore praticasse due discipline. Per quanto concerne la sua figura di istruttore, divenne “maestro di tiro” partecipando al primo corso di “maestri” nel 1984. Al CONI di Roma frequentò corsi di psicologia applicata al tiro e corsi per commissari tecnici di alto livello, che furono determinanti e fondamentali per il suo futuro di CT. Questi elementi — uniti all’esperienza di tiratore azzurro in ben due discipline — lo hanno reso sicuramente uno dei migliori tecnici di livello Mondiale, come testimoniato non solo dal sottoscritto, ma da dirigenti e tiratori di altri Paesi. L’abbondanza al giorno d’oggi di istruttori (certamente sproporzionata rispetto al numero di tiratori) non fa che sottolineare l’eccezionalità di questo personaggio, che è stato scelto per ricoprire il ruolo di Commissario Tecnico per la Nazionale. La sua prima esperienza di allenatore è avvenuta nel 1987 in Turchia, e ha poi nel corso degli anni effettuato stage in tanti Paesi del mondo, tra cui Brasile, Cecoslovacchia, Svizzera, Inghilterra, Cipro, Tuni-
SPORT CERTIFICATI: PEC - MIRCO CENCI
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sia e Marocco. In seguito alla sua decisione di cessare l’attività agonistica nel 2002 (non perché sparasse male, ma perché non riusciva più a sopportare l’enorme carico di lavoro) — appena due giorni dopo aver comunicato che si sarebbe ritirato, venne contattato dal Kuwait, cominciando così ad allenare quella squadra fino al 2004. Fu un’esperienza eccezionale perché, oltre a creare un fortissimo team, raggiunse ottimi risultati: Al Dheani Fhaed divenne la punta di diamante. Il tiratore fu messo in grado di vincere ben due medaglie Olimpiche, di cui l’ultima a Londra. Ben significativa è proprio quest’ultima medaglia, vinta da Fhaed con il fucile MX8 cedutogli dallo stesso Cenci nel 1991, e che lo sportivo usa tuttora. Cenci ebbe il piacere di diventare amico dello Sceicco Salman Al Shaba con il quale condivise, oltre al tiro, emozioni di pesca e di caccia; attività di cui erano entrambi appassionati. Nel 2005 rientrò nel suo Paese, trovando una situazione veramente di-
sastrosa nell’ambito del D.Trap. Fu inizialmente molto scettico nel constatare cosa realmente si trovava a disposizione. Si fece coraggio e, con determinazione, iniziò un grande lavoro per riportare a una potenza di tiro forti personalità che avevano “appeso al chiodo” il proprio fucile. Ne raddrizzò alcuni e se ne inventò degli altri. La squadra iniziò, dopo due anni di duro lavoro, non a vincere ma a stravincere. Il suo team divenne imbattibile e da allora non si è più fermato, anche se con alterne vicende e con nomi assai variabili fra i tiratori vittoriosi. Sono ancora oggi campioni del Mondo in carica ed hanno già conquistato le due carte Olimpiche per Rio 2016. Questo è Mirco Cenci: uno sportivo unico nel suo genere. Di seguito vi riporto il suo curriculum sportivo che lo ha incoronato tra i migliori atleti che la nostra Italia abbia mai avuto, e tuttora ha il privilegio di avere, in vista di un futuro ricco di trionfi ed emozioni come solo il tiro Italiano è in grado di offrire.
Il personaggio - Mirco Cenci Consulente aziendale sposato con due figli, ha iniziato con la fossa olimpica dove ha ottenuto risultati eccellenti. Secondo assoluto e vincitore a squadre ad Osijek in Coppa del Mondo nel 1989, è poi passato al double trap dove i risultati sono stati ancora migliori. Nel ’93 ha vinto il Mondiale a Barcellona e poi l’Europeo a Brno a squadre. Nel ’94 a Lisbona ha vinto ancora l’Europeo ed è stato quarto nella prova individuale. Ancora un successo nella tappa di Coppa del Mondo a Fagnano Olona, è stato secondo a Nicosia, dove ha vinto a squadre, sesto ai Mondiali di Fagnano e bronzo a squadre, quindi a fine stagione campione d’Italia. Nel ’95 ha vinto il Mondiale a squadre a Nicosia, poi gli Europei a Lathi, dove è stato anche bronzo individuale. È salito sul podio a Chiba e Nicosia, tappe di coppa che si è aggiudicato nella finale di Monaco di Baviera. Nel ’96 è arrivato nono alle Olimpiadi di Atlanta per rifarsi nel ’97, in Perù, dove ha vinto il Mondiale a squadre per la terza volta ed è stato bronzo individuale. Ha poi vinto a squadre anche in coppa a Brisbane, mentre è stato quarto sia individuale che a squadre a Seul. Nel ’98 bronzo a squadre e quinto individuale alla prima prova di coppa al Cairo ed ancora bronzo a squadre ad Atlanta. Vince ancora in coppa del mondo nel ’99 a Cipro, in India e in Francia.
Sempre nel ’99 in Francia è bronzo individuale agli europei. Nel 2000 a Lonato è oro a squadre nella prova di Coppa del Mondo ma non riesce ad andare a Sydney, è riserva. Comunque prosegue l’attività ed a Zagabria nel 2001 è campione d’Europa a squadre. Cessa di gareggiare nel 2002 ed assume la carica di C.T. del Kuwait che ricopre fino al 2005 quando la Federazione Italiana lo chiama a lavorare per la nazionale azzurra.
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PSICOLOGIA DELLO SPORT - LA GESTIONE DELLA CRISI
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Gestita e superata la crisi, torna la voglia di riprovare per far meglio
di Matteo Simone matteo.simone@areonautica.difesa.it
Tra gli aneddoti raccontati dagli ultramaratoneti, molti riguardano situazioni di crisi superate, dove si arrivava al punto di considerare di non fare più questo tipo di competizioni stressanti dal punto di vista fisico e mentale. Ma poi – dopo aver gestito la situazione e superata la crisi – la voglia di riprovare tornava nuovamente; per far meglio, per mostrare a se stessi e agli altri di riuscire in quello che si vuole. Ecco cosa viene raccontato. “A Brisighella (88°km) sono esausto, il ginocchio mi fa male soprattutto quando dal cammino passo alla corsa. Il piede è anestetizzato, non lo sento più; sento la scarpa che stringe parecchio: credo si sia gonfiato e circoli meno sangue. Iniziano così i 12 km più lenti della mia vita podistica. Cammino dal ristoro fino all’uscita del paese; ogni volta che riprendo a correre sento male al ginocchio. Vorrei continuare a camminare ma, con due rapidi calcoli, mi rendo conto che ci vorrebbe troppo tempo e in quel momento il desiderio più grande per me è arrivare il prima possibi-
le per smettere di correre. Mi faccio forza e cerco di ridurre al minimo i tratti di cammino. Il ristoro successivo sembra non arrivare mai perché si trova al 95° circa, a 7 km dal precedente di Brisighella – 2 km in più del solito – 2 km che sembrano non passare più. Afferro un bicchiere d’acqua, i volontari mi incitano, mancano 5 km a Faenza; ma con 95 km nelle gambe anche 5 miseri km sembrano interminabili. Maledico il giorno in cui mi sono iscritto e mi riprometto di non farlo mai più! Ormai è fatta! A 2 km dalla fine si entra nel paese,
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PSICOLOGIA DELLO SPORT - LA GESTIONE DELLA CRISI
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spengo la frontale e la metto in tasca. Ormai è fatta! 98 km e corro ancora. Sono appena passate le 4:00 del mattino, è ancora buio, ho vinto la scommessa col sole; arriverò prima io del suo sorgere. L’ultimo km è qualcosa che non si può descrivere: un misto di gioia, soddisfazione e sofferenza. Penso ai tanti km percorsi, al magnifico viaggio iniziato 5 mesi fa e che sta per terminare. Ultimi 400 mt, inizia la volata: ho un tizio davanti e non voglio mi rovini la foto dell’arrivo; lo supero a 200 mt dal traguardo, passo sotto l’arco di arrivo esausto ma soddisfatto! Alzo le braccia al cielo: ce l’ho fatta! Contro il ginocchio, contro il piede, sono fiero di me mentre una ragazza mi mette la medaglia al collo e mi dice “bravo”! Dedico questo traguardo a mia moglie che mi ha sempre sostenuto, ai miei figli ai quali spero di aver insegnato che “volere è potere”, ai numerosi amici che mi hanno sempre incoraggiato e a me: bravo ad averci creduto fin dall’inizio. Lo rifarò? Negli ultimi km mi ero ripromesso di non farlo più, e anche dopo il traguardo non avevo cambiato idea. Dal lunedì successivo invece i dolori iniziano a sparire e nella mente resta il ricordo
delle belle emozioni provate. Ogni tanto mi vengono a trovare, e credo e spero che queste rimangano per sempre dentro di me.” “All’ultimo passatore prima incontrai la vincitrice di una 100 km del Sahara, stava attraversando una crisi pazzesca, l’ho incoraggiata a non mollare, a camminare, sostenendo che la crisi prima o poi passa; ed è passata.” “La corsa mi ha insegnato che con impegno e sacrifici si possono realizzare i sogni; diverse volte mi è capitato di pensare che tutto era finito, con la mia forza di volontà sono riuscita a proseguire la gara e a vincere; questa è la mia forza! La mia testa ha sempre fatto la differenza. Ho imparato a resistere, a tenere duro; e così ho realizzato i miei sogni.”
“Un aneddoto potrebbe essere la mia prima 100 del passatore nel 1996: sulla colla ai 50 km giurai di dedicarmi solo ai 5000 mt: ero stravolto. Da allora ne ho fatto tantissime fino a vincere negli ultimi 3 anni 4 titoli italiani m 50 in 4 distanze diverse 6 ore, 12 ore, 24 ore, 48 ore.”
aver fatto il passo più lungo della gamba. E anche nei giorni successivi. Mai stato così convinto di aver fatto un errore più grande del partecipare a quella gara. Poi ho iniziato a ripensarci, dandomi un’altra possibilità; e direi che ho fatto bene.”
“Uno che mi piace è questo. Alla fine del mio primo tentativo di ultratrail di 50 km arrivai al traguardo 3 ore dopo il mio compagno e, quasi in lacrime per la troppa fatica provata gli dissi: ‘mai più!! asfalto tutta la vita!!’ Poi l’anno successivo cominciai ad allenarmi per il Tor des Geants.” “Ti posso raccontare di come la nostra testa sia importante in questo tipo di gare e di come basti poco per superare una crisi. Stavo partecipando alla mia prima 24 h. Dopo una buona metà gara, insorgono i primi problemi: stanchezza fatica ecc., ma io ero andato lì con l’obbiettivo di fare almeno 220 km. Ad un certo punto non volevo più quasi correre. Il mio assistente/allenatore mi ferma un attimo e trova le parole giuste, riattiva in me la voglia di correre l’ultima ora di gara – dovrei averla corsa addirittura più forte della prima. Questo per dire che su questo tipo di gare ti fermi solo per veri problemi fisici, altrimenti tutto il resto è superabile. Chi ci riesce può arrivare a grandi cose” “Aneddoti sono le crisi lungo il percorso che mi fanno fare di tutto ma poi passano, ed è un po’ come risorgere!” “La paura che ho provato salendo le scale del Palazzo dei Congressi per il ritiro del pettorale, una volta iscrittomi alla prima maratona: quella di Roma” “Al termine del mio primo ultratrail, nelle ultime due ore di corsa/camminata, senza più energie, ho pensato davvero di
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TECNOLOGIA - IPHONE
Che vita sarebbe senza iPhone? 60
Dal 29 giugno 2007 sono passati ben 8 anni, e diversi modelli dello smartphone della Apple che ha rivoluzionato la telefonia. Tanto che chi lo compra non può piÚ farne a meno. di Nicola Guarneri guitartop@libero.it
Sono ormai lontani i tempi in cui il telefono cellulare era utilizzato solo per fare telefonate – e solo quelle d’emergenza, visti i costi. La velocissima rivoluzione tecnologica ha portato il mercato della telefonia in pochi anni dall’utilizzo di device di plastica in bianco e nero con pixel giganteschi, a smartphone elaboratissimi in grado di svolgere le funzioni più assurde.
Gli antenati.
Nonostante la recente rivoluzione digitale, i primi smartphone sono datati inizio anni ’90: Eriksson e IBM commercializzano dei telefoni con diverse funzioni aggiuntive alle semplici chiamate. Ci limitiamo a calendario, rubrica, orologio e blocco note, ma è comunque un’idea che si fa strada nella mente dei consumatori e dei produttori: il telefono non deve servire solo a telefonare.
La svolta.
point sia arrivato con la messa il commercio dell’iPhone: in vendita negli USA dal 29 giugno 2007, lo smartphone della Apple ha rivoluzionato la concezione della telefonia. Dal 2007 – in media ogni due anni – il colosso di Cupertino ha sempre rinnovato lo stile del suo pezzo da novanta, incontrando ogni volta il favore dei Inutile dire che il turning consumatori. Alcuni numeri, a 8 anni di
TECNOLOGIA - IPHONE
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distanza, fanno capire come Apple sia ancora leader nel settore: a fine 2014 il 50% dei consumatori che aveva intenzione di cambiare cellulare avrebbe comprato un prodotto di marca Apple (per il 90% iPhone 6 o 6 plus, l’ultimo arrivato).
Un’app per tutto.
Uno dei pregi dell’iPhone è sicuramente il suo sistema operativo: iOS è garanzia di velocità e sicurezza (secondo uno studio Symantec). Nonostante ciò, come suggerito da un famoso spot commerciale di qualche anno fa, uno dei punti di forza più importanti dello smarphone per eccellenza sono le sue app: ci si può fare di tutto e lo svago è solo all’ultimo posto. Si prenotano taxi, hotel, ristoranti, si raddrizzano mensole e, in seguito a uno de-
gli ultimi aggiornamenti, iPhone si prende cura anche della salute del suo possessore. Vi consiglierei di provarlo, ma probabilmente state leggendo questo articolo proprio da un iPhone: ebbene sì, se non l’avete ancora fatto potete scaricare l’app di ISSUU dall’Apple Store. Che aspettate?
ARTE - L’IMPERO DELLE LUCI
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L ‘ impero delle luci di Susanna Tuzza susannatuzza@gmail.com
René François Ghislain Magritte nasce a Lessines, in Belgio, il 21 novembre 1898 in un’agiata famiglia: suo padre è un mercante e la famiglia si trasferisce spesso. Insieme a Paul Delvaux è considerato il maggiore esponente del Surrealismo in Belgio, e uno dei più originali esponenti europei dell’intero movimento. Magritte è l’artista che più di ogni altro gioca con gli spostamenti del senso, utilizzando sia gli accostamenti inconsueti sia le deformazioni irreali. Ciò che invece è del tutto estraneo al suo metodo è l’automatismo psichico, in quanto con la sua pittura non vuole far emergere l’inconscio dell’uomo, ma intende svelare i lati misteriosi dell’universo. L’unico desiderio che la sua pittura manifesta è quello di “sentire il silenzio del mondo”, come egli stesso scrisse. Nei suoi capolavori, tra reale e surreale, è emblematico L’Impero delle luci del 1954. L’accostamento inatteso di una scena notturna a un cielo chiaro e luminoso del mattino è inquietante, e fa pensare quasi a qualcosa di tragico che può accadere. Anche se poi vediamo che nessun pericolo sembra minacciare la serenità dei possibili abitanti della villetta. L’inquietudine che si prova nell’ammirare questo capolavoro può nascere dalla contraddizione tra tutto ciò che conosciamo e di cui siamo certi, e ciò che sembra mettere in dubbio le nostre certezze. Questo tipo di associazione ambigua è molto simile alle immagini che ci appaiono, mentre stiamo dormendo, quando per esempio nel sogno mescoliamo frammenti di oggetti diversi; e i confini tra cose distinte ci scompaiono. È proprio questo il segreto del suggestivo linguaggio figurativo dell’artista Magritte. E cioè, senza abbandonare i mezzi convenzionali del mestiere di pittore — come per esempio i colori ad olio, le tele, la resa esatta dei chiaroscuri e dei particolari della realtà — mette in dubbio la nostra abituale percezione del mondo.
CASA & DESIGN - LE GALLERIE REALI DI BRUXELLES
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SOTTO UN CIELO DI CRISTALLO: LE GALLERIE REALI DI BRUXELLES Un tour a Bruxelles alla scoperta delle gallerie ottocentesche coperte più affascinanti e gustose d’Europa
di Gaia Badioni gaia.badioni@hotmail.it
La storia dell’architettura moderna ci ha insegnato che, ciclicamente, a livello globale si verificano dei mutamenti nell’assetto urbanistico delle città, che ne ridisegnano i volti e il modo in cui stare nello spazio urbano. L’Europa ha sviluppato fin dall’antichità forme urbane adeguate alle proprie esigenze: se durante l’Impero Romano le città erano edificate secondo l’esempio di Roma — con strade diritte che si incrociavano ad angolo retto per facilitare la viabilità, piazze pubbliche (i fori), edifici commerciali e amministrativi (le basiliche), luoghi ricreativi (i circhi e gli anfiteatri) disposti in modo razionale e funzionale —, nel Medioevo questa concezione urbana viene abbandonata per lasciar posto ad una struttura angusta e caotica, priva di intenti comuni di pianificazione e utile soprattutto ad impedire scorrerie di predoni e di eserciti, proteggendo così gli abitanti in un periodo di forte incertezza politica e sociale. Si riscopre il mondo classico e con esso anche la forma urbana nel Rinascimento, per poi proseguire con uno sviluppo continuo in maniera pressoché costante fino alla fine del 1700, con l’avvento della Rivoluzione Industriale, che muta radicalmente le condizioni sociali delle città europee. Le nuove capitali europee, emblema di Stati ormai proiettati verso una pura economia di mercato all’interno della qua-
le l’industria ricopre ruoli di importanza sempre crescente, rinnovano così la propria veste, al fine di meglio adattarsi alle mutate esigenze economiche e sociali. Nella società capitalistica di fine ottocento, nella quale il commercio e la concorrenza internazionali cominciano a dettare le proprie ferree leggi, chi non si adegua è destinato a rimanere fuori dal mercato e, di conseguenza, a essere escluso dai ricchi profitti economici e dai vantaggi politici che ne derivano. Il tasto dell’igiene e della funzionalità sono i più usati per giustificare tali tipi di intervento, talvolta drastici e discutibili. Basti pensare all’abbattimento di interi quartieri storici di Parigi (1853-1869) o alla totale demolizione delle pregevoli mura medioevali di Vienna (1859-1872) e di Firenze (1865-1875); o ancora agli sventramenti di parte dei centri antichi di Barcellona (1859) e Stoccolma (1866) o
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alla ricopertura del fiume Senne, nel pieno centro di Bruxelles (1867-1871), al fine di ricavarvi una grande arteria che collegasse le due stazioni ferroviarie appena costruite. Tuttavia, proprio nella capitale belga si può ammirare uno dei gioielli di architettura e ingegneria europea migliori di tutto l’Ottocento: le Gallerie Reali Saint-Hubert. Costruite nel 1847 dall’architetto Jean Pierre Cluysenaar sono considerate ancora oggi le più belle gallerie coperte d’Europa. La struttura, costruita per permettere alla borghesia belga di evitare i quartieri meno nobili della città, ha una pianta lineare ed è divisa in tre parti: la Galleria del Re, la Galleria della Regina (prosecuzione della prima) e, infine, la Galleria della Principessa, piccolo ramo perpendicolare della struttura. Ricoperta da una volta in vetro e acciaio (anticipando il gusto nascente dell’epoca, poi sfociato del simbolico Crystal Palace di Londra eretto nel
1851) e scandita da una sequenza di preziose e lussuose vetrine, oltre ad ospitare negozi di alto artigianato ormai raro — come coltellerie, guanterie, cappellai, ombrellai e pellettieri —, vede la più alta concentrazione di gioiellerie della città, ma soprattutto di cioccolaterie. Questi storici laboratori hanno mantenuto viva la tradizione della lavorazione del cioccolato, come il celebre negozio Neuhaus che mise a punto la primissima pralina della storia della cioccolata. Luogo d’incontro per artisti e letterati francesi (Alexandre Dumas, Charles Baudelaire, Victor Hugo, Guillaume Apollinaire e Paul Verlaine), i locali del Café de la Renaissance non erano e tutt’ora non sono l’unico ritrovo culturale e di svago delle Gallerie; un cinema e ben due teatri, il Vaudeville Theatre e il Royal Theatre, insieme a numerosi bistrot e taverne riescono ad accontentare le esigenze dei molti fruitori del centro. Nel 1896 vi si trovava un teatro dove
fu proiettato il primo film dei Fratelli Lumière, esattamente come accadde in un’altra galleria europea dieci anni prima. Stiamo parlando della Galleria Umberto I di Napoli, che ha ospitato nel 1886 la prima sala cinematografica della città (una delle prime in Italia) dove furono proiettati i primi film dei Fratelli Lumière. Costruita tra il 1887 e il 1890 in una zona allora intensamente urbanizzata e caratterizzata da un groviglio di strade e vicoli che godevano di cattiva fama, la galleria napoletana venne progettata non per soddisfare i bisogni della borghesia partenopea, ma per risolvere una situazione igienica pessima. Nel 1885 la zona di Santa Brigida ricevette una nuova definizione territoriale e il progetto vincitore fu quello dell’ingegner Emmanuele Rocco che prevedeva una galleria a quattro braccia che si intersecavano in una crociera ottagonale coperta da una cupola. Esattamente come a Bruxelles, ha ospitato per oltre 50 anni negozi artigianali tipici e raffinati, oltre agli sciuscià: i lustrascarpe della città. Di impostazione architettonica completamente diversa da quella di Bruxelles, ma simile per destinazione, ricorda piuttosto nei numerosi elementi decorativi allegorici che vanno dalle stagioni, alle virtù e allo zodiaco, un’altra grande e celebre galleria commerciale: quella di Milano. La Galleria Vittorio Emanuele II, costruita
dal 1865 al 1878 su progetto di Giuseppe Mengoni, è considerata un notevole esempio dell’architettura eclettica della seconda metà dell’Ottocento milanese, sia per le scelte tecnico-costruttive sia per le sue notevoli dimensioni. Ispirandosi alle grandi capitali europee come Londra e Parigi — sede di quelle innovazioni tecnologiche che costituivano il simbolo della seconda rivoluzione industriale e, di conseguenza, del grande cambiamento sociale che si era messo in moto —, nel 1859 a Milano sorse l’idea di un passaggio coperto che collegasse Piazza Duomo a Piazza della Scala. Avrebbe dovuto essere grande e borghese, da dedicare magari al re che portò Milano ad unificarsi al Regno d’Italia. La Galleria è strutturata con un impianto a forma di croce (lunga 196m in direzione nord-sud, 105,5m in direzione est-ovest, larga 14,5 ed alta 21), e l’ottagono che si forma all’incrocio dei bracci è coperto da un’ardita cupola in vetro e ferro che raggiunge i 47m di altezza e che, per la sua tecnica moderna e per la sua originalità, è da mettere in relazione con le altre strutture simili create nello stesso periodo a Londra e Parigi.
LA PAUSA COMICA - IL FUMETTO FRANCO-BELGA
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IL FUMETTO FRANCO-BELGA
di Matteo Pigoli boyscoutzinthehood2@yahoo.it
Il fumetto, come arte espressiva, nacque negli Stati Uniti all’inizio del XX secolo ma, come accade per ogni innovazione e movimento artistico, venne poi tradotto in tutti i Paesi — in questo caso — del vecchio continente. Fu attraverso alcuni periodici importati in Belgio che nacque nel 1929 il personaggio di “TinTin”, primo storico caposaldo del fumetto Belga dell’omonima opera “Le avventure di TinTin” di Hergé. Il termine “fumetto” come “manga” in Giappone o “comics” nei paesi anglosassoni viene denominato “bande dessinée” (letteralmente: striscia disegnata) in tutti i Paesi francofoni quali Belgio, Francia, Canada, Antille, Polinesia. Non tutti sanno che personaggi come Asterix e Obelix, i Puffi e lo stesso TinTin nascono da fumetti ideati e disegnati in Francia e in Belgio. In particolar modo è doveroso ricordare George Prosper Remi, alias Hergé, nato il 22 maggio 1907 da genitori belgi che, oltre ad aver ideato “TinTin”, si adoperò anima e corpo negli anni della seconda guerra mondiale affinché il Fumetto non sparisse sotto il dominio nazista nel suo Paese.
Fu infatti così temerario e intraprendente nel dopoguerra, da fondare assieme ad amici (tutti autori di un certo rilievo nel panorama dell’epoca) lo “Studio Hergé” per far rivivere le avventure del suo personaggio tanto amato. Inizialmente nato con lo scopo di intrattenere i più piccoli, il fumetto Franco-Belga si è quindi evoluto negli anni in ogni forma possibile e immaginabile, acquistando sempre più prestigio a livello internazionale. Basti pensare che la prima fiera del fumetto di massimo prestigio a livello Europeo è proprio ad Angoulême, in Francia, dove artisti del campo di tutto il mondo si incontrano in un evento che riassume tutta la cittadina e offre omaggio alla “nona arte”.
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CURIOSITÀ GIUGNO
Curiosità GIUGNO di Sylvie Capelli sylvieannacapelli@gmail.com
Le prime olimpiadi Il 22 giugno 776 a.C. viene stilato il primo documento scritto con l’elenco dei vincitori dello “stadion”: una gara di corsa simile ai moderni 200 metri. I giochi si tenevano tra il Monte Olimpo e la città di Olimpia — da qui il nome “Olimpiadi” — ogni 4 anni e duravano 7 giorni (di cui 5 giorni di gare), durante i quali c’era sempre un fuoco acceso in onore di Zeus. Dal momento che i giochi erano dedicati al padre di tutti gli dei (Zeus), tutte le guerre in corso venivano interrotte ed era sacrilegio rompere la “tregua olimpica”. Le discipline inizialmente erano tutte gare podistiche (di varie lunghezze), per poi aggiungere tornei di pugilato, lotta, pentathlon (salto in lungo, giavellotto, lancio del disco, corsa e lotta) e gare equestri con carri e cavalli. Inizialmente potevano gareggiare solo i maschi che abitavano nel Peloponneso, poi la partecipazione fu estesa a chi poteva dimostrare origini greche. Il pubblico era numeroso e vario, comprendeva sia greci che stranieri e perfino schiavi; mentre alle donne sposate era vietato assistere. Lo spirito delle Olimpiadi era allora concentrato sull’esaltazione della bellezza fisica, sul senso di fratellanza e di appartenenza a un gruppo e sullo spirito con il quale si tributavano onori al vincitore.
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Solstizio d’estate Il solstizio d’estate è il giorno più lungo dell’anno: quando il sole raggiunge la sua massima altezza nel cielo boreale (quindi nell’emisfero settentrionale della terra). Il 21 giugno segna quindi l’inizio della stagione estiva. Per contro nell’emisfero australe, le stagioni sono esattamente invertite rispetto a noi e quindi questa data corrisponde al giorno più corto dell’anno. La parola solstizio deriva dal latino solis statio che significa arresto del sole e da sempre viene festeggiato dalle civiltà del passato con falò e rituali magici e religiosi. Al Polo Nord — ma in generale al di sopra del Circolo Polare Artico — in questo periodo si può assistere al fenomeno straordinario del “sole di mezzanotte”: il sole si abbassa sull’orizzonte per poi risalire senza scomparire del tutto per due mesi circa! Uno spettacolo straordinario che richiama migliaia di persone ogni anno. Il fenomeno opposto al “sole di mezzanotte” è quello delle “notti polari” invernali, durante le quali il sole non sorge proprio.
CURIOSITÀ GIUGNO
Telefono azzurro L’8 giugno 1987 a Bologna, nasce telefono azzurro per promuovere il rispetto dei diritti di bambini e adolescenti e tutelarli da abusi e violenze che possano pregiudicarne il benessere e il percorso di crescita. Un numero di telefono GRATUITO oggi attivo in tutta Italia 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno, con 30 linee telefoniche, 40 operatori specializzati e centinaia di volontari. Oltre all’ascolto, c’è ora una collaborazione con altre strutture sul territorio quali Tetti Azzurri a Roma e Treviso, Team di Emergenza, Ricerca e Formazione per genitori e insegnanti. Da febbraio 2003 gestisce il Servizio Emergenza Infanzia 114 e da maggio 2009 gestisce il numero 116.000: linea diretta per i bambini scomparsi. Ecco le aree di intervento: abuso e maltrattamento, bambini e media, dipendenze patologiche, gioco d’azzardo, separazione e divorzio, violenza tra adolescenti, eventi traumatici, scomparsa, bullismo, cyberbullismo, sexting e adescamento online. Il numero da chiamare per chiedere aiuto e assistenza attivo in tutta Italia è 1.96.96.
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Canale di Panama Una data memorabile il 7 giugno 1914: il primo vascello passa attraverso le chiuse del Canale di Panama. Si tratta di un canale artificiale che attraversa l’istmo di Panama in America Centrale unendo l’Oceano Atlantico e l’Oceano Pacifico. È lungo 81,1 km, ha una profondità massima di 12 metri e la larghezza varia tra 240/300 metri nel Lago Gatùn a 90/150 metri nel taglio della Culebra. È costituito da due impianti per la risalita e per la discesa, ognuno composto da sei conche con salti di livello di circa 9 metri, che permettono alle navi di superare il dislivello totale di circa 28 metri. Il tempo di percorrenza dipende dal traffico e dalle dimensioni della nave, in genere ci vogliono da 8 a 12 ore (davvero nulla rispetto ai tempi di circumnavigazione dell’America Meridionale). Dal 2009 sono in atto dei lavori di ampliamento che raddoppieranno la capacità del Canale di Panama, l’operazione è realizzata da un consorzio capitanato dall’azienda italiana Salini Impregilo ed è ormai alle sue battute finali.
Proverbi Italiani Biondo ondeggia di giugno il grano, pronto sta il contadino con la falce in mano. Giugno ha tesori in pugno: raccolti e promozioni, nozze e delusioni. Acqua di giugno rovina il mugnaio. Di giugno levati il cuticugno.
- MONOPOLY
GAMES
MONOPOLY
una torta con ottanta candeline di Nicola Guarneri guitartop@libero.it
Nel 1935 usciva il gioco da tavolo piÚ famoso del mondo. Nonostante siano passati ottant’anni, il Monopoly non ha smesso di divertire e di rinnovarsi.
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Ogni genitore stravede per il proprio figlio, non lo si può negare. Eppure la Hasbro pare non abbia esagerato definendo il “figlioletto” Monopoly come “il più giocato gioco da tavolo della storia”. Eppure, come per le grandi invenzioni, la storia del Monopoly è stata abbastanza travagliata. Secondo la leggenda, quando nel 1934 Charles B. Darrow propose la sua invenzione alla Parker Brothers, il rifiuto fu netto. Il buon Charles tuttavia sapeva di aver inventato qualcosa di speciale e produsse per proprio conto le prime 5000 copie. Queste andarono a ruba, consentendo a Darrow di imporsi all’attenzione degli editori. Secondo altri, invece, Darrow copiò il gioco rubando le idee a diversi giochi già in circolazione, tra cui The Landlord’s Game, inventato da Elizabeth Magie a scopi didattici per spiegare l’economia. Al di là delle dispute sulla sua paternità, non ci sono dubbi che Monopoly sia diventato un gioco di successo mondiale. Già dal 1935 la Editrice Giochi lo porta in Italia, ma le leggi fasciste vietano l’utilizzo di nomi inglesi: il gioco viene
pubblicato quindi come “Monòpoli” anziché “Monopòli”, e le vie utilizzate sono quelle di Milano (il cui ideatore è Emilio Ceretti). Dopo una pausa negli anni ’50 e ’60, le edizioni del Monopoly si sono succedute a più non posso. Assolutamente da citare quella di Star Wars (1997), quella dei Mondiali di Calcio (1998) e quella della Ferrari (2006). Nel 2009 la Hasbro rileva i diritti dalla Editrice Giochi e si occupa della distribuzione anche sul suo-
lo italiano, pubblicando negli ultimi anni ben sedici nuove edizioni. Tre di queste sono uscite proprio nel 2015: un’edizione speciale per l’80esimo anniversario, un’edizione dedicata al film degli Avengers e una, di prossima uscita, dedicata al quarto capitolo della saga di Jurassic Park, il cui debutto nelle sale italiane è previsto tra pochi giorni. A testimonianza del fatto che Monopoly è ancora uno dei giochi da tavolo più giocati in tutto il mondo, la Hasbro ha fornito sul proprio sito una serie di record e curiosità: - La più lunga partita di Monopoly è durata ben 70 giorni; - La versione più costosa è stata prodotta a San Francisco dal gioielliere Sidney Mobell ed è stata valutata due milioni di dollari: le pedine sono in oro a 23 carati mentre i dadi sono diamanti incastonati; - Dal 1935 sono stati costruiti seimila miliardi di mattoncini verdi e più di duemila miliardi di hotel; - Nel 1978 il catalogo di Natale di Nemain Marcus ne vendeva una versione di cioccolato a 600 dollari; - “Parco della Vittoria” è la carta più costosa, quella che tutti sognano, ma il nome varia da nazione a nazione: negli USA è “Boardwalk” (una strada di Atlantic City), in Spagna è “Paseo del Prado” (una via di Barcellona) mentre in Francia è “Rue de la Paix” (ovviamente da Parigi); - Nel 2008 i fan di Monopoly di tutto il mondo si sono uniti per celebrare l’edizione “Here&Now” e infrangere un record: più di 3000 giocatori sono passati dal via insieme.
- LA PAZIENTE POSITIVA
SPAZIO POSITIVO
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La paziente positiva Laura Gipponi info@lauragipponi.com Voglio raccontare un episodio accaduto ad una mia conoscente, Roberta, che pratica healing. Lei ha uno studio in una piccola città, e ogni giorno si recano da lei pazienti che necessitano delle sue capacità per guarire. Una mattina alle nove stava aspettando un nuovo paziente, mai visto prima, senza sapere quale fosse il suo tipo di problema. Ecco che all’ora stabilita sente un’auto che si ferma davanti all’edificio, e poco dopo il campanello suona. Dopo aver aperto, passano dieci minuti e ancora non arriva nessuno fuori dalla sua porta, che dista dal portone sulla strada una rampa di dieci gradini. A questo punto Roberta decide di uscire sul pianerottolo e vede con sorpresa una donna che si trascina lentamente, salendo un gradino alla volta, tirandosi dietro le gambe. Questa la saluta sorridente e con gli occhi scintillanti, dicendole: “Buongiorno, sono Patrizia! Ancora un minuto e arrivo da Lei”. Roberta, che quella mattina si era svegliata un po’ stanca all’idea di una nuova giornata di lavoro, rimase strabiliata dall’atteggiamento positivo di quella donna. È consuetudine per Roberta dare ad ogni nuovo paziente un libretto su come imparare ad avere un atteggiamento positivo, ma in quel caso vide che la paziente aveva già da sola tanta di quella positività, da regalarne a sua volta. Per circa un mese la paziente si trascinò una volta a settimana salendo a fatica i gradini dello studio; poi iniziò a salirli in modo meno difficoltoso fino a riuscire, dopo tre mesi, a salirli di corsa perfettamente guarita. Senza il contributo della sua positività — senza l’aiuto che lei dava a se stessa — non sarebbe riuscita a guarire totalmente. Non importava che il suo corpo fosse semiparalizzato, i suoi pensieri erano positivi. La sua energia mentale era in collegamento con il cosmo e, di conseguenza, la sua controparte energetica riceveva una potente stimolazione. Questa storia, realmente accaduta, dimostra come la nostra mente possa davvero fare miracoli grazie al pensiero positivo.
RICETTA SALATA CON VINO ABBINATO
Cozze e patatine fritte alla belga
di Sylvie Capelli - sylvieannacapelli@gmail.com
INGREDIENTI: Per le cozze: 2 kg di cozze, 2 coste di sedano, 1 cipolla bianca (o dorata) grande, 330 ml di birra bianca belga, 50 gr di burro, succo e scorza di 1 lime, pepe Per le patatine: 1 kg di patate, 1,5 kg di strutto, sale
Preparazione: Per le cozze: Pulire le cozze (guscio e bisso), affettare il
sedano cui saranno stati tolti i filamenti in pezzi di circa ½ cm di spessore, asportare la scorza del lime (evitando la parte bianca) e tagliarla a listarelle sottili. Affettare la cipolla in fette di circa 2-3 mm di spessore. In una casseruola capiente far sciogliere il burro, aggiungere sedano, scorza di lime e cipolla; lasciare appassire e unire il succo di lime e la birra. Cuocere per circa 5 minuti, quindi aggiungere pepe e cozze. Amalgamare bene gli ingredienti e cuocere il tutto a fuoco vivo finchè le cozze non si saranno aperte. Servire immediatamente, accompagnato da patatine fritte.
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Per le patatine: Lavare accuratamente le patate per eliminare eventuali residui di terra, asciugarle e pelarle. Affettarle realizzando dei bastoncini della stessa misura (8 mm di spessore x 8 cm di lunghezza) e metterli in ammollo in acqua fredda per almeno 30 minuti.In un tegame con i bordi alti porre lo strutto e farlo sciogliere a fuoco lento mescolando fino al raggiungimento di 160°C. Asciugare perfettamente le patate e metterne poche alla volta nello strutto che dovrà mantenere la temperatura di 160°C. Friggere fino a quando saliranno in superficie. Scolarle su un vassoio con carta assorbente. Portare lo strutto a 180°C e procedere alla seconda frittura per qualche minuto fino a che non saranno perfettamente dorate. Scolarle su un vassoio con carta assorbente, salare e servire ben calde.
Etna bianco erse 2012 Tenuta di Fessina
di Carlo Cecotti - carlocecotti@yahoo.it
Bianco Doc Carricante 80%, Minnella e Catarratto 20% Un progetto nato per volontà di Silvia Maestrelli e per il suo amore verso questa terra con la collaborazione di Federico Curtaz, già agronomo di Gaja per vent’anni. Vigne che sfiorano i 900 metri di altitudine, terreni di origine vulcanica e uve autoctone sono gli ingredienti che danno origine a vini unici e irripetibili. Giallo paglierino compatto. Naso elegante improntato su delicati profumi di fiori bianchi, zagara e giacinto. Le note di agrumi lasciano lentamente spazio ad un deciso sottofondo minerale, pietra focaia e grafite. In bocca è sostenuto da una decisa spalla acida, quasi salmastro, ben bilanciato dalla spiccata componente glicerica. Vinificato in acciaio.
RICETTA DOLCE CON VINO ABBINATO
Gaufres (Waffles)
di Sylvie Capelli - sylvieannacapelli@gmail.com
INGREDIENTI: 180 gr di farina, 180 ml di latte, 2 uova, 80 gr di zucchero, 60 gr di burro fuso, 5 gocce di estratto di vaniglia, ½ cucchiaino di lievito, un pizzico di sale, zucchero a velo
Preparazione: Accendere la cialdiera in modo che sia ben calda 82
quando l’impasto sarà pronto. Montare gli albumi a neve ben ferma con un pizzico di sale. A parte montare i tuorli con lo zucchero per circa 10 minuti. Aggiungere burro fuso, estratto di vaniglia, farina setacciata, lievito e latte, continuando a montare per amalgamare tutti gli ingredienti e senza creare grumi. Spennellare la cialdiera con un po’ di burro e versare l’impasto (circa 3 cucchiai per ogni gaufre). Cuocere per 3 minuti. Le gaufres sono pronte quando saranno belle dorate e si staccheranno dalla cialdiera senza fatica. Spolverizzare con zucchero a velo e servire. In alternativa è possibile spalmare marmellata, crema, nutella, gelato o panna montata.
Moscato d’Asti 2013
Saracco
di Carlo Cecotti - carlocecotti@yahoo.it
Bianco dolce Docg Moscato 100% Paolo è ormai da anni portavoce e interprete del Moscato di qualità, e la sua cantina meta imprescindibile per gli amanti di questo nobile vitigno aromatico. Verdolino, bollicine numerose, spuma cremosa. Naso tipico con invitanti aromi di salvia, menta, glicine e mandarino. Al sorso è soffice con una piacevole freschezza corroborata da pungente effervescenza. Perfetta corrispondenza gusto olfattiva e lungo finale. Un vino che saprà regalarci emozioni anche in futuro, come solo i Moscato d’autore sono in grado di fare.
Mirco Battaglia, Cattolica (Murano)
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Diego Fiorani, Antigua
TELEFILM
Game of Thrones
ANTICIPAZIONI
Sul prossimo numero troverete anche...
VIAGGI
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Come passare l’estate? Sognando il mare e l’oceano! La Pausa vi porta alle Seychelles, un paradiso acquatico
LA PAUSA MAGAZINE....raddoppia!
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Il tv-show della HBO, basato sulla serie di romanzi di George R. R. Martin, è arrivato al termine della quinta stagione, tra colpi di scena e… di spada!
Il numero 24 de La Pausa conterrà il materiale del bimestre luglio – agosto. Per questioni orga- 87 nizzative il numero sarà pubblicato nella seconda settimana del mese: d’altronde, si sa, l’attesa gratifica il piacere!