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2 SECONDA la Pagina • 13 giugno 2012 Militärstrasse 84, 8004 Zurigo Tel. 043 322 17 17 Fax 043 322 17 18 www.lapagina.ch

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Le vicende della formazione prima di un regime liberale in Italia e poi dell’affermazione della demo-

Dubois come Schettino? Il 5 luglio verranno resi pubblici i risultati dell’inchiesta sull’incidente dell’Air France decollato tre anni fa da Rio de Janeiro e diretto a Parigi Fra tre settimane il direttore della Bea, l’autorità che sta conducendo l’inchiesta sull’incidente accaduto nella notte tra il 31 maggio e il primo giugno 2009 all’Air France 447 in volo da Rio de Janeiro verso Parigi, darà la sua versione sulle cause del disastro in cui perirono 238 persone. Dalle indiscrezioni, viene fuori un’ipotesi che potrebbe avere delle somiglianze con l’incidente della Costa Concordia. Ecco quello che emergerebbe dai dati della scatola nera. Quella sera del 31 maggio ai comandi c’erano il capitano Marc Dubois, 58 anni, un veterano, e i suoi due vice, David Robert, 37 anni, e Pierre Cedric Bonin, 32. Un volo di linea, normale. A meno di metà viaggio, il comandante Dubois inserì il pilota automatico e si alzò per il suo turno di riposo per andare in cabina, secondo il programma. Non passò molto tempo che l’aereo incontrò una tempesta che i due vice non evitarono come avevano fatto altri aerei che l’avevano vista segnalata sugli schermi radar. Dopo pochi minuti i

sensori della velocità smisero di funzionare, il che provocò il disinnesco del pilota automatico e la restituzione ai due vice dei comandi dell’aereo. In quel momento ai comandi si trovava Pierre-Cedric Bonin, poco esperto, con appena 2900 ore di volo, il quale entrò subito in crisi: sia Bonin che Robert non sapevano cosa fare, per cui chiamarono il comandante perché tornasse a riprendere i comandi. È a questo punto che l’incidente entrò nella sua fase molto critica. Il comandante tardò a tornare ai comandi più di un minuto e quando arrivò – e qui fanno fede le conversazioni intercorse tra di loro e registrate sulla scatola nera – chiese a Bonin cosa stesse succedendo. Il vice rispose che non lo sapeva, che c’era un problema. In quel momento l’aereo continuava ad essere in fase di stallo e precipitava pancia in giù alla velocità di 180 km all’ora. Ai passeggeri era stato detto di allacciare le cinture di sicurezza. Un minuto prima dell’impatto con l’acqua nessuno dei piloti era riuscito a bloccare

la caduta e a recuperare il controllo del mezzo. L’aereo, infatti, si schiantò sull’acqua con la pancia e successe il finimondo: morirono tutti. Anche se le indiscrezioni vengono smentite, l’ipotesi è che il comandante Dubois nella sua cabina si trovasse con la sua amante, Véronique Gaignard, con la quale era andato a Rio. Si spiega così il ritardo con cui era tornato nella cabina di pilotaggio dopo essere stato chiamato dai due vice. L’ipotesi, in realtà, è più che un’ipotesi, anche se il direttore della Bea minimizza dicendo che non s’indaga sulla vita privata di Dubois, ma sulle cause che hanno provocato l’incidente. È probabile, però, che se il comandante fosse tornato subito, avrebbe potuto rimettere l’aereo sulla sua traiettoria. Marc Dubois come Schettino, dunque, o, per meglio dire, Schettino come Dubois: la superficialità, quando si tratta di aerei o di navi (e non solo) non è quasi mai senza gravi conseguenze. 7redazione@lapagina.ch

Emigrazione: i momenti di una grande storia crazia hanno costantemente avuto implicazioni con i nostri emigrati. I quali non sono stati mai osservatori distaccati e lontani, ma sempre partecipi delle dinamiche politiche e istituzionali del nostro paese, sia pure attraverso l’impegno delle élite più consapevoli. Del contributo degli esuli al Risorgimento e alla svolta unitaria si è detto. Dopo l’Unità, nelle nostre comunità più consolidate si sono riprodotte e talvolta accentuate le dialettiche che fervevano in Italia, tra monarchici e democratici, tra laici e cattolici, e, in prossimità della Grande guerra, tra interventisti e pacifisti. Durante il fascismo, gli italiani all’estero furono una larga cassa di risonanza internazionale del regime, ma anche la sede di un aspro confronto tra fascisti e antifascisti, che nella guerra di Spagna si è manifestato in tutta la sua asprezza. Alcuni paesi, anzi, come la Svizzera e la Francia, ma anche gli Stati Uniti, l’Argentina e il Brasile, sono stati meta di fuoriusciti contrari al regime e luoghi di fermentazione di quello spirito democratico che alimenterà la partecipazione ai movimenti di resistenza a livello europeo. Gli emigrati sono stati poi protagonisti, a fianco dei lavoratori dei paesi di residenza, della costruzione del modello di welfare europeo che ha garantito per decen-

ni la coesione sociale. In queste premesse risiede anche quel movimento per i diritti dei migranti e degli stessi cittadini europei che arriva ai nostri giorni ed è proiettato verso il futuro. Insomma, una questione democratica e di lotta per i diritti nel mondo dell’emigrazione c’è sempre stata e si è intrecciata costantemente con la non meno complessa evoluzione democratica del nostro paese, che nel corso del Novecento ha subito drammatici passaggi di regime. E’ mai possibile, dunque, che vi sia ancora qualcuno che eccepisca sulla piena cittadinanza, anche politica, e sul diritto di rappresentanza degli italiani all’estero, che – voglio ricordarlo – sono cittadini a tutti gli effetti, con le prerogative garantite dalla Costituzione? Tanto più che nella storia della nostra emigrazione, si è sviluppata un’esperienza di rappresentanza sociale e politica originalissima, alla quale altri paesi si stanno ispirando, che sarebbe letteralmente delittuoso abbandonare. Mi riferisco al ricco tessuto associativo che per oltre un secolo ha assicurato ai nostri emigrati tutela, identità e legami con i luoghi d’origine, ma anche alla lunga marcia compiuta dalle migliori forze dell’emigrazione per arrivare a istituti di rappresentanza e di autogoverno, che hanno reso l’acquisizione co-

stituzionale della Circoscrizione Estero la logica conclusione di un percorso di riconoscimento democratico. Una considerazione approfondita e critica della storia dell’Italia unita, quindi, potrebbe aiutarci a sgombrare il terreno da pregiudizi, ritardi culturali e incomprensioni riguardo alla nostra diaspora nel mondo. Questa realtà costituisce oggi non solo una rete di relazioni o un bacino di domanda dei nostri prodotti, di cui per altro abbiamo un bisogno vitale, soprattutto in questi tempi di pesanti difficoltà. La nostra presenza nel mondo, sia detto senza enfasi, ha ormai una solidità sociale, un profilo culturale, un’articolazione democratica e un riconoscimento nell’opinione pubblica e nelle classi dirigenti di importanti paesi che la rendono un riferimento essenziale e un fattore di forza per noi. Questo circolo virtuoso, però, non si può più realizzare in termini paternalistici, ma solo con senso di rispetto e reciproca accettazione. Il pieno esercizio della democrazia da parte dei cittadini italiani all’estero è dunque l’espressione più matura e necessaria della saldatura tra l’emigrazione italiana e la storia unitaria del paese. gianni.farina@lapagina.ch


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