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Sonetto del buco del culo

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La vera bellezza

La vera bellezza

WALTER FIORE Sonetto del buco del culo

La Francia di metà Ottocento era immersa in un opprimente rigore morale che condannava, tra le altre cose, l’omosessualità. Era un’epoca in cui persino camminare a braccetto tra uomini poteva generare scandalo. In quegli anni alcuni poeti iniziarono ad affrontare pubblicamente questa cultura, talvolta pagandone le conseguenze, come Charles Baudelaire che nel 1857 fu costretto, da un tribunale, a rimuovere 6 poesie da I fiori del male. In questo scenario, nel 1871 Paul Verlaine e Arthur Rimbaud si incontrarono a Parigi, diventando ben presto amanti. Entrambi privi di peli sulla lingua, decisero di prendere in giro la mentalità di quella società che li voleva nascosti. A tal fine, parodizzarono lo stile di Albert Mérat, il quale, pochi anni prima, aveva pubblicato una raccolta di sonetti volti ad enfatizzare la bellezza del corpo femminile, adattandolo a un corpo maschile. Inoltre, decisero di descrivere un amplesso, probabilmente ispirato alla loro intimità, per sfidare ulteriormente la censura vigente al tempo. Altre fonti ipotizzano che la scelta di prendere in giro lo stile di Mérat sia dettata dal cattivo sangue che scorreva tra quest’ultimo e i due amanti, forse dettato da un ipotetico disprezzo verso l’assenza di vergogna che loro provavano nel mostrarsi per chi erano. La relazione di Verlaine e Rimbaud fu piena di disavventure, evidentemente tossica, e valse a Verlaine una condanna a due anni di reclusione per “atti immorali”. Ciò che resta del loro amore e del loro non voler scendere a patti con la società è racchiuso nel Sonetto del buco del culo [1]:

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Oscuro e increspato come un garofano violetto respira, umilmente rannicchiato nel muschio ancora umido d’amore che segue il clivo dolce delle bianche chiappe fino al cuore dell’orlo.

Filamenti simili a lacrime di latte hanno pianto sotto il vento crudele che le respinge attraverso i piccoli grumi d’una rossa marna perché si perdano dove il pendio li chiama.

Il mio sogno sovente s’abboccò alla sua ventosa; la mia anima, del materiale coito gelosa, ne fece una fulva gronda e suo nido di singhiozzi.

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