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NEL NOMA DELLA NOTIZIA
Non mi sono appassionata all’annuncio su base planetaria della “non” chiusura del Noma: fin da subito ho pensato a un’abile operazione di marketing per camuffare da sensazionale notizia un normale e più conveniente cambio di rotta del format.
Perché diciamolo: se uno ha problemi di sostenibilità economica - come dichiarato - e quindi ogni mese aumenta i propri debiti, si mette subito ai ripari chiudendo il prima possibile e non dopo due anni. Sarebbe come sapere di avere una carie dolorosa, ma decidere di curarla due anni dopo.
Dunque il lasso di tempo che si è concesso, potrebbe servire a Redzepi non solo per rispettare impegni pregressi, ma anche per far cassa con quanti, temendo l’esclusione da quelle tavole mediatiche, si affretteranno a prenotare e a spendere.
Quindi per noi il motivo di interesse non sta nella notizia riportata da tutti i media del mondo, tant’è che nelle prossime pagine parliamo del Noma semplicemente raccontandone i fisiologici sviluppi, senza particolare enfasi narrativa.
Leggermente più pregnante, invece, il dibattito che si è acceso sull’effettiva sopravvivenza economica dei locali di alto livello, che comunque in Italia rappresentano lo 0,1% del totale dei ristoranti e lo 0,30% del fatturato annuo complessivo del settore.
Dunque, a livello numerico, di cosa stiamo parlando?
In soldoni, di poco; in termini di visibilità, invece, di tanto, perché si tratta di coloro che fanno notizia, tendenza, emulazione.
Pertanto più che parlare di crisi del modello ristorativo stellato, sarebbe bene parlare di crisi del modello Noma (o nordico) in particolare, e solo a latere della salute del nostro modello di haute cuisine, analizzandolo caso per caso perché, se c’è chi ha seri problemi economici (e chiude il prima possibile), c’è chi, anche se a fatica, cerca di far quadrare i bilanci.
A fronte di alcuni casi estremi, persino di suicidi dovuti a tracolli economici, alcune realtà, come l’indimenticabile Trigabolo, hanno chiuso ai primi venti di crisi, non certo dopo due anni.
In sintesi, siamo un po’ allergici alla comunicazione basata su sensazionalismi quotidiani spesso costruiti sul nulla: servono solo ad alimentare il fastidioso chiacchiericcio web di chi commenta e pontifica su tutto pur di ritagliarsi una sussidiaria visibilità personale all’ombra dei famosi.
MA LE DIETE SONO VERAMENTE TUTTE UGUALI?
Questo è il periodo in cui le persone si fanno maggiormente questa domanda: subito dopo le Feste Natalizie inizierà il tour de force per arrivare alla prova costume in gran forma; e quindi, ci si comincia a chiedere quale dieta seguire, se affidarsi a integratori o a semplice attività fisica e così via... non ambisco a risolvere in poche righe tutti i dubbi delle persone riguardo a quale sia il miglior tipo di dieta da seguire. Certamente possiamo partire da una verità incontrovertibile: le diete NON sono tutte uguali.
Per capire però alcune differenti sfumature tra un principio alimentare ed un altro, dobbiamo partire da una distinzione fondamentale: i tipi di dieta sono fondamentalmente 2 . Ebbene sì, non sono poi tantissimi... noi pensiamo che ogni dieta con un nome altisonante sia differente dall’altra, ma, alla fine, vi assicuro che le differenze sono poche, quasi nascoste... Il più delle volte, presentare una nuova dieta è come fare un gioco di illusionismo. Cosa fa l’illusionista nel suo show? Cattura l’attenzione delle persone verso un punto, mentre il trucco si svolge esattamente dalla parte opposta! Un esempio?
La dieta dell’ananas! Ci sono ancora persone convinte che, se hanno perso peso, lo hanno fatto grazie a questo frutto miracoloso, mentre la dieta proposta non è altro che una dieta iperproteica. E allora torniamo a noi. Come dicevo, ci sono 2 differenti metodi alimentari:
1. la dieta a controllo calorico;
2. la dieta di segnale.

Nella dieta a controllo calorico , quello che facciamo è stabilire un introito calorico massimo da somministrare alla persona e, così facendo, creiamo un bilancio energetico negativo (cioè facciamo in modo che la persona bruci di più energia di quella che ingerisce), in modo tale da andare ad intaccare le riserve energetiche di grasso e dimagrire. Le classiche diete in cui provate a fare un calcolo calorico di ciò che mangiate si basano su questo principio.
Dalla parte esattamente opposta di questo sistema alimentare c’è la cosiddetta dieta di segnale In questo tipo di approccio, si parte dal presupposto che le calorie non sono affatto tutte uguali, ma che il cibo, a prescindere dalle calorie che ha, rappresenta un segnale metabolico preciso per l’organismo. È questo messaggio metabolico che bisogna attivare, in modo tale da permettere al nostro corpo di controbilanciare alcuni fenomeni ormonali e infiammatori, indispensabili ai fini del dimagrimento.
Il prototipo più conosciuto della dieta di segnale (ma anche, in assoluto, il più estremo) è quello della dieta chetogenica. Questa è una dieta, in totale assenza di carboidrati , ma anche in totale assenza di quantità; quindi, in questo caso, non c’è minimamente un controllo calorico.
Se volete subito chiedermi quale dei due tipi funziona meglio, sappiate che funzionano entrambi. Il problema non sta tanto nel funzionare o meno, ma piuttosto nel valutare la fattibilità dei due metodi e di quanto questi possano, oltre al dimagrimento, apportare benefici a lungo termine.
In effetti, come in tutte le cose, gli estremi sono sempre quelli peggiori; è per questo che, nel tempo, sono poi sorti modelli alimentari che cercavano di modulare le calorie sfruttando però il cibo come segnale metabolico.
Perché, vedete, è ormai chiaro che 100 calorie di carne vi fanno dimagrire e 100 calorie di gelato, invece, no: eppure le calorie sono le stesse!
La differenza di risultato sta proprio nel fatto che carne e gelato, nel nostro corpo, danno poi segnali metabolici completamente opposti. Quello che fa il gelato (che invece la carne non fa) è aumentare immediatamente la glicemia; con l’aumento della glicemia abbiamo subito un incremento di insulina (che deve appunto occuparsi di riabbassare la glicemia). L’insulina svolge perfettamente il suo ruolo, ma per farlo, chiede all’organismo di concentrarsi solo su questo e dice a tutte le cellule: ”Abbiamo un’emergenza, dobbiamo abbassare la glicemia, quindi che nessuno di voi cellule si azzardi a bruciare grasso, perché dobbiamo bruciare l’eccesso di zucchero!”. Quindi 100 calorie di gelato dicono al nostro organismo “guarda che per le prossime 2 ore tu non devi dimagrire!”.
Capite bene quindi che il segnale che il cibo dà è molto importante , anche se noi spesso facciamo finta di nulla: quante volte ci è capitato di prendere un cioccolatino e dire “tanto cosa vuoi che sia!?”
Ma allora, come ci orientiamo?
Dieta a controllo calorico o dieta di segnale?
Direi che, come sempre, in medio stat virtus. Senza scomodare metodi estremi come la chetogenica, si possono ormai trovare sistemi che, da una parte, riescono a dare un segnale al nostro corpo senza privarci dei carboidrati e, dall’altra, riescono ad ottenere un controllo calorico senza dover pesare gli alimenti.
Un esempio importante di come si cerchi di trovare diete che coniughino il segnale con il controllo calorico lo troviamo nella Dieta Mediterranea , che non è propriamente quella che seguiamo noi tutti i giorni!
La Dieta Mediterranea, per essere considerata tale, ha bisogni di precisi apporti ed equilibri nutrizionali, affinché il segnale metabolico sia efficace; peccato che ancora sia troppo legate alle grammature dei cibi. Infatti, in questo momento, la Dieta Mediterranea è per il 75% controllo calorico e per il 25% segnale metabolico.
Ma ormai è solo questione di tempo: si stanno facendo avanti numerosi sistemi che, partendo dal modello mediterraneo, esasperando maggiormente il segnale metabolico, cominciano a staccarsi dall’obbligo del pesare tutti i cibi.
Questo è possibile anche grazie alle scoperte sul DNA, che ci aperto nuovi orizzonti (tramite la Nutrigenomica) nel campo delle diete di segnale. Una dieta che coniuga perfettamente controllo calorico e segnale, senza pesare il cibo è la dieta N.I.Ge.F. (Nutrizione Immuno Geno Funzionale) che sfrutta le conoscenze date dallo studio del DNA di ciascuno. Un altro modo di esasperare il segnale è quello di arricchire particolari diete con dei cibi (super food) dalle proprietà talmente peculiari che possono, inserite in un corretto contesto, portare messaggi metabolici importantissimi.
Un esempio è dato dalla Makai , la lenticchia d’acqua (non ancora in commercio in Italia) che si è dimostrata, all’interno di un piano alimentare di tipo mediterraneo, capace di ridurre in modo impressionante il grasso viscerale rispetto alla Dieta Mediterranea classica.
Come vi dicevo, le righe a mia disposizione sono tiranne... posso quindi chiudere con pochi consigli se volte approcciare ad una dieta:
• scegliete un professionista serio e con curriculum comprovato;
• non scegliete mai sistemi estremi;
• cercate un sistema che vi educhi a dare un segnale metabolico corretto all’organismo;
• cercato un metodo che, pur nell’indirizzarvi ad una misura, non vi obblighi a pesare tutti gli alimenti.
Detto questo: buona dieta a tutti!
INIZIARE L’ANNO CON ENERGIA, RIMANENDO IN FORMA
In vetta alla classifica dei buoni propositi di inizio anno, spesso ci si ritrova a scrivere “fare più esercizio fisico”. Un po’ per smaltire quei chiletti accumulati durante le feste natalizie, un po’ perché mai come oggi sappiamo che l’esercizio fisico è un fattore fondamentale contro il decadimento psicofisico.

Per rimanere sani e attivi occorre pianificare diete vegane selezionando un carburante d’alta qualità. Pertanto, oltre a comprendere che occorre impostare un’alimentazione sana, bisogna capirne i principi.
Energia
La maggior parte dell’energia nella dieta dovrebbe essere fornita da carboidrati presenti nei cibi ricchi di amido come avena, patate, pasta, cereali, legumi e frutta. Farne rifornimento qualche ora prima dell’esercizio fisico, tanto quanto nel recupero del post-allenamento è importante.
Le opzioni ricche di carboidrati contenenti anche una quantità moderata di proteine sono l’ideale.
Ad esempio, pane di cereali antichi con hummus di ceci, por- ridge con latte di soia o mandorle e frutta, pasta con fagioli, ceci, lenticchie, o pasta fatta di farina di legumi. Cibi e bevande zuccherati possono essere utili prima dello sport soprattutto di endurance.
Proteine
Il fabbisogno proteico standard è di 0,8-1 grammi per kg di peso corporeo al giorno, mentre il fabbisogno per lo sport può variare da 1,2-1,7 grammi sino a 2 grammi. I vegetali possono fornire tutti i mattoncini proteici essenziali, ovvero gli amminoacidi.
Le migliori fonti di proteine vegetali contengono buone quantità dell’aminoacido lisina, tra cui fagio - li, lenticchie, piselli, soia, arachidi, quinoa, anacardi, semi di chia, semi di lino macinati, semi di canapa e semi di zucca. Risulta quindi indiscutibile che in un pasto vegano si possano raggiungere i propri obiettivi proteici spaziando tra i cibi ricchi di proteine vegetali a disposizione.
Gli integratori in polvere proteici non sono essenziali in una persona atletica.
Il loro utilizzo è necessario se, con il proprio preparatore, si individua la necessità di seguire per un certo periodo un regime alimentare altamente proteico, che sarebbe difficile da raggiungere con il solo cibo, senza rischiare di sforare nel conteggio degli altri macronutrienti.
Questo vale sia per le diete vegane che per quelle onnivore ed è esclusiva di chi segue regimi altamente proteici dietro controllo specialistico. Ciò che rende unico il cibo vegetale è che può fornire fibre, vitamine e minerali, oltre che proteine.
Calcio Senza Latticini
Il Calcio è necessario per mantenere una struttura ossea forte e le diete iperproteiche sembrano aumentarne la perdita. Coloro che adottano una dieta basata su vegetali con un basso-normo livello proteico, possono avere un fabbisogno di calcio minore rispetto alla dose necessaria di chi segue diete ricche di proteine animali.
Raggiungere un soddisfacente livello di calcio attraverso una dieta vegetale è molto semplice: basta consumare verdure a foglia verde scuro come il cavolo, le cime di rapa e crucifere in generale, il tofu ottenuto con il solfato di calcio, fichi, mandorle, semi di sesamo ed altri cibi fortificati come yogurt o latte di soia, etc. (trovate un prezioso elenco delle quantità di calcio contenute nei vari cibi qui https://www.scienzavegetariana.it/conoscere/nutrienti/ calcio.html).
Massimizzare I Livelli Di Ferro
Mangiare cibi ricchi di ferro in associazione con una fonte di vitamina C ne ottimizza l’assorbimento. L’aggiunta di succo di limone nell’acqua o una spremuta di arancia ai pasti sono utili se, dopo controllo medico, bisogna aumentarne i livelli, altrimenti non è prassi necessaria. Ci sono anche fattori limitanti l’assorbimento del ferro come i tannini, i fitati, l’eccessivo apporto di calcio, alcune fibre e i polifenoli del vino rosso. Basta quindi utilizzare il buon senso e seguire un’alimentazione equilibrata considerando che buone fonti proteiche vegetali tendono ad essere ricche di ferro, ma anche cavoli, uvetta e cereali per la colazione, fortificati.
Mezzo pompelmo e cereali conditi con uvetta e semi di lino macinati al momento, un curry di ceci e pepe, oppure tofu e broccoli saltati in padella sono ottimi pasti bilanciati con adeguati livelli di ferro.
Mantenersi Idratati
Il nostro corpo è costituito da acqua per circa il 60% ed è quindi fondamentale assicurarsi una buona idratazione prima dell’esercizio fisico e durante tutto il giorno.
Se ci si allena per più di un’ora con notevole sudorazione, una bevanda o acqua contenente elettroliti ci aiuterà a mantenerci idratati, perché anche i muscoli necessitano di acqua!
Ottenere Il Giusto Equilibrio
Una dieta varia e bilanciata che includa molti alimenti minimamente trasformati ci dona equilibro.
Cibi amidacei e ricchi di fibre, cinque porzioni di frutta e verdura, fonti ricche di grassi omega-3, come noci o semi di lino macinati, ci aiutano nelle performance fisiche e mentali.
Integrazione
È essenziale integrare la vitamina B12 da un integratore e con l’aiuto di alimenti fortificati. Ci sono tanti altri integratori da considerare utili, ma in realtà non sempre sono necessari, poiché molti elementi sono a disposizione se si segue un’alimentazione equilibrata.

Il fabbisogno di selenio lo possiamo assumere con sole due noci del Brasile, lo iodio basta introdurlo utilizzando il sale iodato, etc...
L’integrazione di vitamina D è raccomandata ai vegani così come agli onnivori seguendo le linee guida e le indicazioni del proprio medico.
a cura di antonietta Mazzeo tecnico ed esperto degli oli d’oliva vergini ed extravergini

Olionostrum
Biodiversità e innovazione per l’EVO di qualità della Valdambra
“...Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione...”
(Franco Arminio da Cedi la Strada agli Alberi, Chiarelettere 2017)
Il progetto Olionostrum, “Biodiversità e Innovazione per un Olio Extravergine di Oliva di qualità” , nasce dalla volontà del Comune di Bucine di tutelare la biodiversità olivicola della Valdambra valorizzando l’intera filiera: dalla coltivazione alla raccolta, ai sistemi di frangitura fino alla conservazione del prodotto attraverso corsi di degustazione e di formazione con visite aziendali. Nato a febbraio 2019, il progetto, di cui il Comune di Bucine è il capofila del Gruppo Operativo, con il sostegno e la condivisione di alcune aziende del territorio, ha nel tempo sviluppato azioni mirate ad un concreto sviluppo del settore olivicolo della Valdambra finalizzate alla produzione di un eccellente olio di qualità, attraverso la definizione di un preciso disciplinare di produzione.
Olionostrum , come ricorda il nome, è frutto di un grande lavoro di squadra e ha costituito una scelta fondamentale per la sostenibilità dell’olivicoltura della Valdambra, attivando un processo virtuoso mirato al raggiungimento dei seguenti obiettivi:
• Tutelare e salvaguardare la straordinaria biodiversità olivicola della Valdambra anche attraverso la caratterizzazione genetica del patrimonio olivicolo ;
• Ottenere un Olio Extravergine di Oliva di elevata qualità utilizzando tecniche di estrazione innovative esaltando le caratteristiche degli olivi autoctoni di Bucine della Valdambra;
• Definire tecniche di produzione attraverso protocolli operativi e l’elaborazione di un disciplinare di produzione ;
• Formare olivicoltori e frantoiani specializzati in grado di assicurare la qualità, la sicurezza del prodotto e di controllare l’intera filiera produttiva;
• Mantenere il paesaggio olivicolo del territorio di Bucine della Valdambra.
Numerose le azioni attivate per la realizzazione, la gestione e lo sviluppo del progetto, in termini di divulgazione, partenariato, visite in azienda, caratterizzazione dei genomi autoctoni, definizione di protocolli operativi, formazione per la realizzazione di un frantoio prototipale .
Il rilevante finanziamento stanziato dalla Regione Toscana con i fondi PSR 2014-2020, al comune di Bucine, alle aziende agricole Bianconi Sara e Villa a Sesta, all’ Università degli Studi di Firenze Dipartimento di Agraria e all’ANCI Toscana, ha consentito di realizzare un prototipo di frantoio dotato di una tecnologia di estrazione innovativa per accrescere la professionalità degli operatori, la qualità dell’olio e la redditività dell’olivicoltura in Valdambra.
La Valdambra è caratterizzata da uno straordinario patrimonio di biodiversità di olivi: nel territorio del Comune di Buci- degli antichi patriarchi vegetali che prevede anche un itinerario di visita che si snoda fra campagna e castelli. ne i tecnici del CNR-IBE hanno individuato oltre 40 fenotipi , (varietà diverse tra loro anche geneticamente) esclusivi della Valdambra, tra cui l’ Olivone di Montebenichi , una pianta di olivo molto antica, probabilmente vecchia di oltre 300 anni , che ha superato indenne gelo, siccità e tutte le possibili avversità climatiche di una località collinare a 450 metri di altezza.
I fenotipi sono conservati e studiati nell’impianto di collezione di germoplasma realizzato dal Comune di Bucine in collaborazione con il CNR-IBE di Firenze e l’Azienda Agricola Villa a Sesta, per rilevarne i dati morfologici e bioagronomici necessari alla descrizione e all’iscrizione delle nuove cultivar autoctone della Valdambra ai repertori dell’olivo della Regione Toscana.
I dati agronomici di campo come la precocità di entrata in produzione, l’entità delle produzioni, la tendenza all’alternanza e la tolleranza agli stress biotici e abiotici vengono attentamente valutati nel corso degli anni.
I campioni in assaggio hanno confermato un cammino sulla strada della qualità certa.
La pianta presenta caratteristiche morfologiche diverse rispetto alle più comuni varietà di olivo toscano e rappresenta anche l’unico esemplare di una varietà finora sconosciuta. Il comune di Bucine ha inserito l’Olivone nell’elenco degli “Alberi della Memoria” , progetto di protezione e promozione

Sono otto i temi di formazione specifica per gli olivicoltori, non solo della Valdambra, che con un linguaggio appropriato e l’uso di schemi e illustrazioni spiegano l’innovazione del processo dalla raccolta delle olive al frantoio, l’olio come cibo salutare per l’alimentazione, la sua composizione chimica, fino ad una serie di indicazioni pratiche da non trascurare mai per ottenere il miglior olio possibile.


Olionostrum è un marchio registrato dal Comune di Bucine. Attualmente in commercio non è possibile acquistare Olio Extravergine di Oliva con il marchio Olionostrum: le uniche bottiglie sono distribuite dal Comune di Bucine ad uso esclusivamente promozionale.

Bab
Storia e mito del dolce dei Re
C ’ era una volta un re spodestato, lontan dal suo regno fu esiliato, in un palazzo dorato fu confinato a viver da nobile senza ducato. Il re si sentì così disperato che chiese un dolce per esser consolato. Lo chef di palazzo, suo amico fidato, un dolce un po’ secco gli portò trafelato. Ma son senza denti! - gridò il re stufato - inzuppalo un po’ che lo mangio ammollato. Di spezie e liquori il dolce fu bagnato e fu così che nacque il Babà prelibato.
No, non è una favola per bambini, ma sono i fatti storici (e un po’ di leggenda) che hanno portato alla nascita di uno dei dolci più popolari e goduriosi della pasticceria napoletana: il Babà. Se nell’immaginario collettivo il Babà è legato anima e cuore alla città di Napoli e ai napoletani viene attribuita in tutto il mondo la sua creazione, non è all’ombra del Vesuvio né per mano di un napoletano che questo dolce ha avuto i suoi natali.
Le sue origini, raccontate da Flavia Amabile nel suo libro “Si nu’ babbà”, sembrano siano attribuibili al re polacco Stanislao Lezsczinski, due volte detronizzato e mandato in esilio nel nord della Francia, precisamente nella cittadina di Luneville. Avendo parentele importanti (Stanislao era il suocero di Luigi XV di Francia, avendo questi sposato sua figlia Maria) ebbe come buona uscita il Ducato di Lorena (un ducato privato che non aveva peso politico).
Durante il suo esilio Re Stanislao si circondò di cuochi ed essendo molto goloso e appassionato di gastronomia, sperimentò egli stesso alcune ricette, tra cui quel- la del Babà, l’unica cosa della sua vita che lo avrebbe reso celebre.

Si narra che un giorno il re fosse particolarmente giù di morale e che chiedesse di poter mangiare un dolce per rallegrare i suoi umori.
I cuochi di palazzo gli portarono una fetta di kugelhopf, un dolce tradizionale austriaco molto in voga in Europa a quei tempi.
Il dolce, caratterizzato da un impasto poco “condito” di grasso, diventava piuttosto secco dopo pochissimi giorni. Il re, che aveva difficoltà di masticazione perché gli mancavano molti denti, andò su tutte le furie e chiese del vino per poter ammorbidire quel dolce e riuscire a mangiarlo.
Il vino che gli fu portato era il Madeira, e quell’aroma liquoroso, unito al sapore del dolce, ispirò particolarmente Stanislao, al punto che egli stesso si mise a sperimentare ricette e impasti per migliorarlo: la forma diventò a semicupola (per ricordare la cupola di Santa Sofia di Costantinopoli), le lievitazioni diventarono 3 e furono aggiunti uva passa, canditi e persino lo zafferano, che il re aveva conosciuto durante la sua prigionia ad Istanbul e la permanenza in Bessarabia, allora parte dell’Impero Ottomano.
Il dolce così creato fu chiamato da Stanislao Alì Babà , dedicandolo al protagonista de “Le mille e una notte”, tra le storie preferite da Stanislao che era anche un assiduo lettore, amante dell’arte e della cultura.
Questo incrocio di culture e di suggestioni portò Fabrizio Mangoni , autore de “La Fisiognomica del Cibo” e principale storico della pasticceria napoletana, a definire il Babà come “Dolce dei lumi”.
Ma siamo ancora molto lontani dal Babà napoletano e si dovrà passare per altre teste coronate e altri palazzi reali, prima di approdare alle falde del Vesuvio.
È l’inizio del Settecento quando la figlia di Stanislao, Maria Leszczynska, moglie del re di Francia Luigi XV, fa arrivare a Versailles il pasticcere polacco di suo padre, un certo Nicolas Stohrer (tra i più grandi pasticceri di tutti i tempi, inventore di alcuni dei dolci più celebri della pasticceria europea), a cui concederà la licenza per aprire la prima pasticceria privata in una città europea, al numero 52 di Rue Montorgue, dove Stohrer attuò i cambiamenti decisivi di quello che diventerà poi il moderno Babà e dove ancora oggi, allo stesso indirizzo, si possono gustare i suoi dolci.
In quegli anni alla corte francese impazzava la moda del rhum giamaicano e così Storher sostituì il Madeira col rhum, eliminò lo zafferano dall’impasto e cambiò la forma da cupola a fungo o cappello di cuoco, così come è conosciuta oggi e che caratterizza il tipico Babà napoletano.
Le modifiche ebbero un gran successo in una città alla moda e all’avanguardia come Parigi, ma pare che Stanislao non ne fu particolarmente entusiasta.
Qualche anno dopo, infatti, ne parlerà addirittura in una lettera indirizzata a Voltaire: “Ho diviso i giorni in ore e le ho riempite di emozioni, di cose degne di memoria, di cose fatte, ma anche di cose solo immaginate. Questo lasciamo di noi; anche l’Ali Babà. Non è cosa degna di un Re? Lasciamo questi pensieri ai cortigiani e agli intol-
OpereDolci
Bab
Dosi per 1 Babà Savarin grande cm. 28 oppure 12 Babà monoporzione
Per la pasta Babà g. 500 di farina 330 W g. 40 di zucchero semolato g. 200 di burro g. 15 di lievito di birra fresco g. 10 di sale fino g. 550 di uova intere
Per la bagna al Rhum g. 500 di acqua g. 200 di zucchero semolato g. 150 di Rhum a 70° volumi g. 50 di miele d’acacia scorza di 1 limone scorza di 1 arancia
1 stecca di cannella leranti; a chi pensa di dedicare la vita alla carriera, a chi se l’accorcia al servizio di cose che credono di dominare e di cui sono solo le dileggiate e luccicanti vittime. A me invece ricorderà la luna turca della notte di Costantinopoli, mi porterà il sapore dell’amicizia col Re di Svezia, e i canditi riproporranno l’eleganza e la preziosità dei vostri ragionamenti [...] Lo scorso mese mi hanno presentato un Babà, così lo chiamano ora, talmente inzuppato di liquore che gli ho dato fuoco. Perde di leggerezza e di memoria”.
In una planetaria col gancio porre la farina, il lievito sbriciolato e metà delle uova e cominciare ad impastare. Appena cominceranno ad omogeneizzarsi gli ingredienti, aggiungere le restanti uova e continuare a lavorare a bassa velocità finché saranno inglobate.
Aggiungere, quindi, il burro morbido a tocchetti un po’ alla volta, il sale, lo zucchero e continuare ad impastare a media velocità finché l’impasto si incorderà.
Ungere uno stampo da Babà Savarin grande o 12 monoporzione, pirlare l’impasto e riempire gli stampi per circa 2/3 della loro capienza.

Mettere a lievitare a 28 °C per circa 90 minuti (dovranno raddoppiare il loro volume). Preriscaldare il forno a 220 °C; al momento di infornare abbassare la temperatura a 180-185 °C e cuocere il Babà Savarin per circa 25-30 minuti, i Babà monoporzione per circa 15 minuti. Una volta sfornati, lasciarli riposare (asciugare) per circa 12 ore.
Nel frattempo preparare la bagna portando a bollore acqua, miele e zucchero fino a quando quest’ultimo risulterà ben sciolto. Spegnere la fiamma, aggiungere le scorze degli agrumi e il Rhum e lasciar intiepidire.
Trascorse le 12 ore, portare la bagna a 60 °C e immergervi i Babà finché la bagna non farà più le bolle e i Babà saranno omogeneamente inzuppati. Trasferire su una griglia a scolare l’eccesso di bagna.
Lucidare i Babà con gelatina neutra o gelatina di albicocca e procedere alla decorazione con panna, crema, frutta o lasciarli al naturale.

Arriviamo agli inizi dell’Ottocento e il Babà cambia ancora. Stavolta per mano di Anthelme Brillant-Savarin , uno dei più grandi gastronomi e autore della “Fisiologia del Gusto”, una vera e propria Bibbia della gastronomia di tutti i tempi. La versione di Brillant-Savarin elimina dall’impasto l’uvetta e aggiunge il burro che ne conferisce aromaticità e morbidezza, lo spennella con una gelatina di albicocche per preservarne l’umidità e soprattutto gli dà la forma di grande ciambella per poterlo farcire al centro con crema chantilly e frutta.
Questa nuova versione a forma di ciambella/torta, tuttora molto frequente sia nelle pasticcerie francesi che napoletane, prenderà il nome di Babà Savarin , o semplicemente Savarin (in onore del suo ideatore) e che si differenzierà dal classico Babà monoporzione a forma di fungo, che resterà semplice senza farcitura (almeno fino ai giorni nostri).
MA, QUINDI, IL BABÀ QUANDO
CI
Arriva A Napoli E Come Diventa
IL DOLCE ICONA DELLA SUA CULTURA GASTRONOMICA?
Di mezzo ci sono sempre dei reali, ma in questo caso delle Regine. Il successore di Luigi XV era Luigi XVI, lo sfortunato re ghigliottinato durante la Rivoluzione francese, sposato con la famosa Regina Maria Antonietta, icona di moda e di stile, presa ad esempio da tutte le nobildonne e teste coronate d’Europa.
Maria Antonietta aveva una sorella, Maria Carolina d’Austria, che aveva sposato il Re di Napoli Ferdinando IV di Borbone. Tra le due regine sorelle maturò una sorta di rivalità, in realtà più sentita da Maria Carolina che da Maria Antonietta, coltivata nel tempo con la spedizione continua di emissari napoletani alla corte di Francia per scoprire le ultime tendenze in fatto di moda e gastronomia.
È di questo periodo, infatti, la tradizione dei monsù, i cuochi francesi che prestavano servizio nelle case aristocratiche dei nobili napoletani e che diedero il via a quel favoloso meticciato gastronomico fra la tradizione napoletana e la cucina francese, che si può riconoscere nella nascita di alcuni tra i più famosi piatti della cucina napoletana, come il gattò di patate (dal gateau francese), la pasta al gratin con l’uso della besciamella, gli sciù (dolci tipici di pasta choux di forma allungata simili agli eclair francesi), per finire col re della pasticceria napoletana, il Babà.
È a Napoli che il Babà consacra la sua forma a fungo, la bagna al rhum decisamente alcolica viene miscelata sapientemente dai cuochi napoletani con uno sciroppo aromatico di acqua, zucchero e scorze di agrumi, la gelatina di albicocche lascia il posto ad una gelatina neutra e diventa il precursore del concetto di street food, dato che verrà degustato dai nobili passeggiando per le vie della città.
Se il Babà moderno nasce a Parigi, dunque, è a Napoli che rinasce e che segna in maniera decisiva la storia di un dolce che deve la sua popolarità proprio alla tradizione partenopea, che ne fa talmente un figlio della sua cultura, da cambiarne persino il nome da Babà in Babbà , con due b, ma pronunciate morbide e con la inimitabile musicalità del dialetto napoletano, ad indicare la rotondità e l’armoniosità raggiunta nella sua versione definitiva e ufficiale. Versione attestata già nel 1836 nel primo manuale di cucina italiana scritto da Vincenzo Agnoletti per Maria Luigia di Parma, in cui il babbà appare come “dolce tipico napoletano”.
A Napoli, poi, il Babà ha visto infinite versioni, dalla bagna al limoncello, al liquore strega, all’impasto al cioccolato, al caffè, con crema pasticcera e amarene, con panna e frutta fresca, con chantilly e fragoline di bosco, in versione torta, versione mignon, a forma di Vesuvio (Scaturchio docet), versione da passeggio con la sua vaschettina che funge da bicchiere dal quale bere il rhum avanzato.
Insomma, possiamo affermare senza indugi che un dolce nato da un Re è diventato il Re della pasticceria napoletana prima, e italiana poi. Chissà se la versione napoletana del Babà sarebbe piaciuta al caro Stanislao... a me piace pensare che le note agrumate aggiunte dai napoletani avrebbero fatto breccia nel suo cuore ammaliato dai profumi e dai ricordi dell’esperienza turca.
Come Gli Italiani Scelgono Il Ristorante
I canali più efficaci di acquisizione clienti
Come gli italiani scoprono i propri ristoranti preferiti? È una domanda solo all’apparenza banale, in realtà molto importante, perché letta in un altro modo potrebbe essere interpretata così: “quali sono i canali di acquisizione clienti più efficaci per chi ha un ristorante, una pizzeria o un’osteria?”
Per scoprirlo prendiamo in prestito i dati gentilmente forniti da Plateform all’interno dell’ultima edizione del Rapporto Osservatorio Ristorazione, dal quale divulghiamo i dati che seguiranno. Ma prima, una breve nota metodologica per sottolineare quanti i dati siano attendibili e veritieri. I dati che seguono sono attendibili per due ragioni:

1. l campione analizzato è vastissimo. Le ricerche che seguono hanno come campione 564.031 sondaggi inviati e 103.848 risposte ricevute, coprono più di 1.000 installazioni in tutta l’area italiana, isole comprese.
2. Non sono stati effettuati sondaggi sulle intenzioni, ma sulle effettive azioni compiute. Infatti abbiamo domandato a più di 500 mila italiani «Come ci hai scoperto?» effettuando la domanda “post-stay”, quindi dopo che il cliente aveva lasciato il ristorante.
Queste risposte sono importantissime perché ci permettono di scoprire quali sono i canali di acquisizione clienti più efficaci quando si tratta di scoprire nuove attività ristorative.
Questi i risultati: oggi sono quasi 15 (14,85, +44%) i clienti che scoprono locali grazie al motore di ricerca più famoso al mondo e solo 11 (10,97, -16%) quelli che lo fanno grazie a Tripadvisor.
In un’Italia sempre più diffidente, cattiva e cinica (lo dice il CENSIS nel suo annuale rapporto) il passaparola si conferma il canale di scoperta principale di imprese ristorative. Non ci stupisce: la sua imparzialità è il segreto del suo successo e della sua longevità. Sono infatti 46,13 su 100 - quasi 1 su 2 - i clienti che hanno scoperto il ristorante grazie al passaparola di amici, colleghi e famigliari.
Erano 48,5 su 100 due anni prima, nel 2019.
È la prima volta nella storia che avviene il sorpasso, ma non stupisce nessuno, era solo questione di tempo.
15 Clienti Su 100 Hanno Scoperto Il Ristorante Grazie Ai Social Media
Google, Tripadvisor, Instagram e Facebook, se presi nella totalità, fanno scoprire nuovi ristoranti a 4 italiani su 10. Il 40,72% degli italiani, infatti, ha scoperto il locale grazie alle piattaforme online.
Erano 37,9 solamente due anni prima, a conferma del fatto che la pandemia ha accelerato l’approccio e la confidenza con i nuovi media.
PORTALI DI RECENSIONE: CONTINUA IL LENTO E INESORABILE DECLINO DI TRIPADVISOR (-16%), GOOGLE CRESCE (+44%)
Se si parla di portali di recensione, nel 2019 Tripadvisor faceva scoprire a 13,1 clienti su 100 il ristorante, contro i 10,3 che lo facevano grazie a Google.
Nel 2021 il risultato è invertito: Google sorpassa Tripadvisor:
I Social Media si confermano canali fondamentali quando si tratta di scoprire nuovi luoghi dove mangiare, bere e divertirsi, ma non «dominanti» come si potrebbe erroneamente pensare.
Seppur di pochissimi punti percentuali, Instagram risulta un mezzo più efficace per acquisire clienti rispetto a Facebook: sono 7,76 i clienti su 100 che hanno scoperto il locale grazie ad Instagram, contro i 7,14 che lo hanno fatto grazie a Facebook.
La Location Ancora Determinante
13 clienti su 100 scoprono il locale dove pranzare, cenare o fare un aperitivo grazie ad essa, «passandoci» davanti. Il risultato non cambia dal 2019. La location è ancora importantissima nel Processo di Scelta del proprio ristorante preferito.
dott.SSa micheLa taioLi GiuriSta d’impreSa aLimentare
BIOLOGICO PER MODA O PER SOSTANZA?
Fragile in Italia il sistema dei controlli
Quante volte ci è capitato di andare al supermercato e di comprare prodotti biologici?
Ma siamo sicuri di sapere effettivamente in cosa consiste tale sistema produttivo?
Bisogna parlare infatti di sistema di produzione, specificatamente di metodo di produzione biologico, e non di prodotto biologico.
Non esiste infatti un marker che consenta di distinguere un pomodoro biologico da uno coltivato in maniera convenzionale ed è per questo che la disciplina di tale settore tratta del metodo di produzione e non del prodotto biologico . È quindi un sistema di processo e non di prodotto.
La produzione biologica è un sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione alimentare basato sull’interazione tra le migliori prassi in materia di ambiente ed azione per il clima, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali e l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali, con norme rigorose di produzione confacenti alle preferenze di un numero crescente di consumatori per prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali (considerando (1) Reg. (UE) 2018/848).
In effetti il numero di consumatori che fa uso di prodotti biologici è in forte crescita. Nel 2022 almeno l’89% delle famiglie italiane ha acquistato biologico , sei italiani su dieci consumano prodotti bio anche fuori casa e la crisi non sembra avere influenzato le scelte alimentari degli italiani. L’Italia è leader in Europea per superfici dedicate alla coltivazione biologica e per numero di operatori e la performance di export; rispetto al 2021 è cresciuto del 16%, con 3,4 miliardi di euro (fonte Nomisma).
Numeri quindi importanti che fanno comprendere che il consumatore è attento alle proprie scelte alimentari e che la produzione biologica è, nell’attualità, molto apprezzata.
La produzione biologica rientra tra i regimi di qualità dei prodotti agricoli dell’Unione, insieme alle indicazioni geografiche (DOP-IGP) e alle specialità tradizionali garantite (STG).
È opportuno evidenziare che non esiste una definizione giuridica di qualità, ragione per cui in dottrina ci si è interrogati se la produzione di determinati alimenti a DOP o IGP, per esempio, possa considerarsi effettivamente di qualità se si considera lo sfruttamento intensivo del suolo o l’inquinamento delle falde acquifere o, ancora, la produzione massiccia di deiezioni animali.

Certamente la produzione biologica, rispetto a quelle a DOP e IGP, incontra limiti più stringenti rispetto all’utilizzo di determinate sostanze considerate inquinanti; tuttavia v’è da evidenziare un dato tecnico-giuridico noto e che pare che il legislatore voglia continuare ad ignorare.
Il sistema legislativo italiano, invero non solo in materia di produzione biologica, è caratterizzato dall’opinabile scelta di disciplinare attraverso una nutrita serie di fonti sub-legislative, decreti ministeriali o direttoriali che, di volta in volta, hanno dato attuazione a normative e raccomandazioni provenienti dalle istituzioni europee.
Nello specifico e per il caso che ci interessa, si fa riferimento al D.M. n. 15962/2013 e alla allegata tabella delle non conformità riguardanti la qualificazione biologica dei prodotti e le corrispondenti misure che gli organismi di controllo devono applicare agli operatori.
In sostanza, la tabella prevede ipotesi sanzionatorie da applicarsi agli operatori del settore biologico qualora violino i principi enunciati dal Regolamento (UE) n. 2018/848 relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici.
Diverse sono le problematiche che riguardano tale apparato sanzionatorio ma, per l’aspetto che qui interessa, è opportuno menzionare la lacunosità delle previsioni sanzionatorie della suddetta tabella.
In altre parole, non tutti i principi relativi alla produzione biologica, che sono espressi nel regolamento comunitario e che tutti gli operatori devono rispettare per potere commercializzare i propri prodotti con il marchio relativo alla certificazione biologica, vengono tutelati dal legislatore italiano. Questo in quanto non sono state previste le sanzioni.
Ciò comporta, per gli operatori assoggettati al sistema di controllo e per gli organismi di controllo, incertezza rispettivamente al precetto da rispettare ed alla relativa sanzione da applicarsi nel caso di violazione della normativa unionale.
Tale lacuna normativa italiana, se portata all’attenzione del consumatore, evidenzia fragilità di non poco conto del sistema di controlli relativi alla produzione biologica e potrebbe minare la fiducia del consumatore con conseguente perdite economiche rilevanti per le imprese nostrane.
Per una più precisa e completa disamina della questione si segnala che è in corso di pubblicazione l’elaborato dell’avvocato Lucio Salzano sul prossimo numero della Rivista di Diritto Agrario edita da Editoriale Scientifica .

UN VOLUME METTE IN DISCUSSIONE LE NOSTRE DOCG DENOMINAZIONI D’ORIGINE INVENTATE?
Noi ne confutiamo le discutibili tesi
Sovente mi capita, alla radio - che seguo più della TV - di ascoltare notizie o interpretazioni di fatti che non condivido, ma quasi sempre mi adeguo al principio che ognuno abbia il diritto di esprimere il proprio pensiero.
Questa volta però il mio spirito si ribella in maniera incontenibile al sentire che un professore universitario, tale Alberto Grandi , ha scritto un libro dal titolo “Denominazione d’origine inventata”, dove demolisce le caratteristiche identitarie della cucina e in parte dei nostri prodotti alimentari.

L’autore di questa pubblicazione così provocatoria avrà pensato di vendere un mucchio di libri proprio per lo “scandalo” provocato, io non voglio dargli la soddisfazione d’incassare impunemente i miei 18 euro e ho cercato informazioni per entrare nel merito delle sue affermazioni.
Il prof. Grandi sostiene la falsità di molte leggende riguardanti le nostre cucine regionali, nate dai prodotti del territorio, suggerendo che siano state le aziende produttrici a inventare uno storytelling che ha fatto presa sul pubblico, con ottimi risultati dal punto di vista commerciale ma, secondo lui, ingiustificato se si scava nella realtà dei fatti.
Voglio rimarcare che, anche ammettendo che in qualche caso questo possa essere parzialmente vero, nessuno storytelling sarà mai sufficiente a creare un successo come quello della nostra cucina senza le adeguate qualità di base. Secondo Grandi la vera Cucina con la C maiuscola sarebbe quella francese, ma ci sono due fatti incontrovertibili che smentiscono questa affermazione. Parto dal secondo assunto che è, fatto innegabile, il grande successo della Cucina Italiana nel Mondo.
Grandi sostiene che, nel passato, in tutti i Paesi mediterranei si usassero dischi di pasta con qualcosa sopra e che quindi la leggenda della pizza italiana o napoletana non avrebbe alcun senso, ma allora a quale allucinazione globale si deve il fatto che ormai in tutto il mondo la pizza sia considerata italiana? Un amico, per motivi di lavoro con la moglie nella grande piazza di Berlino, trovò sul menù del ristorante prescelto anche la pizza, che fu ordinata per curiosità. Una volta gustata la pizza di buona qualità, chiesero al cameriere chi la facesse: forse un italiano? Fu così che scoprirono che le pizze arrivavano surgelate dall’Italia.
Chi abita, come il sottoscritto, in zone di frontiera, come mai può vedere ogni giorno arrivare a Ventimiglia o Sanremo frotte di francesi che si riforniscono di alimentari, salumi e formaggi in primis?
Perché sulla nostra costa non c’è più neppure un ristorante francese, mentre sulla bellissima Costa Azzurra c’è un gran numero di locali italiani?
Ora il primo punto, che sgretola dalle fondamenta la teoria del nostro autore. Ha infatti dimenticato, il nostro grande Grandi, il trascurabile episodio del matrimonio della nostra Caterina de’ Medici col Re di Francia Enrico II d’Orleans e successivamente il fatto che sia diventata madre di altri tre Re di Francia.
Trasferitasi alla Corte francese, Caterina non trovò di suo gusto la cucina della reggia e presto fece arrivare i suoi cuochi dall’Italia, toscani e siculi, introducendo in Francia prodotti e ricette di nostra provenienza; introdusse così oltralpe prodotti colà non in uso come cardo, scalogno, zucchine, sedano, funghi, fave e cipolle, oltre ai suoi prediletti carciofi cotti nel vino. Introdusse nella cucina francese anche la “salsa colla”, poi béchamelle, e altre ricette che hanno fatto grande la cucina francese quali macarons, omelette, crepes, bigné e zuppa di cipolle, per non parlare di tante specialità come i sorbetti di frutta, lo zabaione e altre specialità di cui i francesi s’impadronirono.
Sono bravi i francesi ad appropriarsi dei prodotti e delle ricette altrui vantandoli quindi come autoctoni; noi in questo siamo stati molto meno bravi, e comunque saremo sempre in ritardo rispetto ai nostri confinanti, sui quali stiamo comunque recuperando con la qualità.
Una piccola curiosità riguarda anche un elemento che fu sempre la nostra Caterina a introdurre sulle tavole di Versailles, ossia la forchetta: prima che lei la esportasse, i franchi si servivano delle tre dita principali della mano per assumere cibo.
Tanti possono essere gli esempi relativi ai nostri primati, sia autoctoni che mutuati da contaminazioni alloctone.
Un esempio su tutti è quello del Parmigiano: come mai si tenta di copiarlo e riprodurlo, tanto che troviamo nel mondo ampia offerta di falsi “Parmesan”?
Il Grandi sostiene che nel lontano Wisconsin esiste un formaggio molto simile a quello a suo tempo creato dai monaci emiliani.
Perché allora lo chiamerebbero Parmesan se non avessero bisogno di aggrapparsi a un riferimento italiano che fa da richiamo nel mondo?
Certo lo stoccafisso, arrivatoci dalle isole Lofoten per merito del navigatore veneziano Pietro Querini, è oggi piatto nazionale in Portogallo, oltre che specialità delle nostre cucine, in particolare campana, marchigiana, ligure e veneta, e allora? Dovremmo forse dare il merito alla Norvegia delle nostre ricette tipiche?
La ricca cucina sicula mostra evidenti influenze mediorientali, spagnole e addirittura normanne, frutto di storiche dominazioni: questi fattori ne hanno modificato usi ed abitudini anche a tavola, integrandosi con la cultura locale e diventandone caratteristiche identitarie.
Interessante, inoltre, la tesi per cui sarebbe assurdo attribuire alla Sicilia il merito di aver “inventato” il vino Marsala.
In effetti la sua storia è suggestiva: nella seconda metà del 18° secolo l’Inghilterra si trovò, per merito delle guerre napoleoniche, a corto dei vini portoghesi e spagnoli che là si consumavano, il Porto in particolare.
Per cercare rimedio il mercante John Woodhouse navigò verso la Sicilia e fu costretto da eventi temporaleschi ad attraccare al porto di Marsala; qui ebbe occasione di assaggiare un ottimo vino e ne approfittò per farne una grossa scorta, a cui aggiunse anche alcol per aver certezza della conservazione durante il viaggio.
Arrivato in Inghilterra il vino, grazie all’alcol e al periodo della navigazione, aveva assunto caratteristiche ancora migliori di quelle già apprezzate, da qui nacque la fama del Marsala, tanto che ancora esiste il Marsala Woodhouse, eppure le vigne sono quelle, siciliane, altrimenti perché non si fanno il Marsala in Inghilterra?
Perché svilire le virtù e cercar di immiserire la fama dei nostri prodotti?
I prodotti, direi mai, hanno una storia così lineare come pretenderebbe il Grandi; secondo la legge dei grandi numeri e certo anche per altre vicissitudini legate a migrazioni, guerre di conquista, sconvolgimenti sociali di vario genere, nel tempo accadono le cose più strane, le combinazioni più inverosimili; molti grandi prodotti, per non parlare di geniali invenzioni, hanno genesi spesso imprevedibili, ma non per questo si può metterne in discussione il radicamento storico che ne giustifica la denominazione d’origine.
In Italia, con venti regioni, abbiamo praticamente venti Cucine e una miriade di “sottocucine” territoriali o anche solo zonali che derivano dalle tradizioni e dalle caratteristiche del territorio: queste sono cose che si trascinano da secoli e che hanno contribuito alla creazione consolidata di un certo tipo di cultura enogastronomica nazionale.
Alberto Grandi vuole strapparci il tappeto da sotto i piedi, ma credo non ci trovi disponibili a disconoscere il valore storico del nostro patrimonio di prodotti, ricette, cucine territoriali, che dovremmo imparare a difendere da attacchi ingenerosi e ingiustificati.







