JUST KIDS #13

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JUST KIDS rivista indipendente di musica e arte #13

Poste italiane s.p.a. - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 conv. in L. 27/02/2004 n. 46, art. 1, comma 1 S1/RM - Anno II - n. 08 - 3,00 euro

[GIARDINI DI MIRO’] [FILIPPO GATTI] [BRONSON] [PIERPAOLO CAPOVILLA]

Giardini Di Miro’ . Filippo Gatti . Pierpaolo Capovilla . Brönsøn . Editors, Bologna . Ex Csi E Angela Baraldi, Napoli . Musicomix. Amphetamine Reptile Records . 1975, New York . Let’s Spend The Night Togheter . How Do You Diy? #2 . Oltre Il Festival Luce Astratta . Difendere L’idea Che Sei Diverso . Donatella . Blu Mare - Blues Notte . La Cosa Si Fece Seria . Suonatore d’Autobus Capitolo 4 . Ghiaccio Nove . Viaggio In Gran Garabagna Di Henri Michaux . Di Quella Volta Che Lucio Dalla Morì .


Ci pensavamo come Figli della Libertà col compito di preservare, proteggere e rinnovare lo spirito rivoluzionario del rock ‘n ‘roll. Temevamo che la musica che ci aveva sfamato corresse il pericolo di una carestia spirituale. La sentivamo perdere il senso dei suoi proponimenti avevamo paura che stesse finendo preda di mani ingrassate, avevamo paura che arrancasse nel pantano della spettacolarizzazione, dell’economia e di un’insulsa complessità tecnologica. Ripescammo dalla memoria l’immagine di Paul Revere che cavalcava la notte americana, incitando le persone a svegliarsi, a imbracciare le armi. Anche noi avremmo imbracciato le armi, le armi della nostra generazione: la chitarra elettrica e il microfono.”

JUST KIDS

rivista indipendente di musica e arte Musica, illustrazioni, poesia, cinema, libri, storie e suggestioni. Direttore Editoriale Anurb Botwin | direzione@justkidsmagazine.it Responsabile Musica Simona Strano | musica@justkidsmagazine.it Responsabile Web Claudio Delicato | web@justkidsmagazine.it Responsabile Commerciale Alessandro Buda | commerciale@justkidsmagazine.it Website www.justkidsmagazine.it con la collaborazione a cura di Citrino Design

da “Just Kids”, Patti Smith

Social Network facebook.com/justkidswebzine twitter.com/justkidswebzine Scrivono Alessandro Barbaglia, Andrea Barbaglia, Alina Dambrosio, Angela Giorgi, Anurb Botwin, Carlo Martinelli, Claudio Avella, Clara Todaro, Claudio Delicato, Daniele Aureli, David Colangeli, Edoardo Vitale, Fabio Capalbo, Fabrizio Morando, Flavia Sciolette, Francesca Amodio, Francesca Gatti Rodorigo, Francesca Vantaggiato, Francesco Capocci, Francesco Liberatore, Giorgio Calabresi, Giovanni Romano, Giovanni Sabatino, Gaia Caffio, Giulia Blasi, Luca Palladino, Marco Taddei, Maura Esposito, Nicholas David Altea, Orazio Martino, Paolo Battista, Sara Fusani, Skandergeb, Viviana Boccardi. Fotografi Luca Carlino, Enrico Ocirne Piccirillo, Michele Battilomo, Davide Visca, Noemi Teti, Betty Bryce, Alessio Jacona.

Editore Kaleidoscopio edizioni via San Rocco, 40 85050 Satriano di Lucania (PZ)

Stampa: DM Services S.r.l. Via di Valle Caia Km 9.900 00040 Pomezia (RM)

JUST KIDS, Registr. Tribunale di Potenza n.120/2013 ISSN 2282-1538

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SOMMARIO 04 | EDITORIALE [Musica] 06 | GIARDINI DI MIRO' di Fabrizio Morando 14 | FILIPPO GATTI di Francesca Amodio 20 | PIERPAOLO CAPOVILLA di David Colangeli 26| Brönsøn di Francesca Amodio 34 | EDITORS, bologna di Luca Carlino 36 | EX CSI E ANGELA BARALDI, napoli di Davide Visca 38 | MUSICOMIX di Gianpiero Chionna 44 | indiepedia di Fabrizio Morando|Amphetamine Reptile Records 46 | novecento di Gaia Caffio|1975, New York 48 | webziners di Angela Giorgi per STORDISCO|Let’s spend the night togheter di Davide Rolleri per BREAKFAST JUMPERS|How do you DIY? #2 di Nicholas David Altea per PAPER STREET|Oltre il festival [ILLUSTRAZIONI] 52 | PUNTO FOCALE di Giulia Blasi|Luce Astratta 54 | LA DIMENSIONE EROICA DEL MICROBO di Maura Esposito| Difendere l’idea che sei diverso [immaginario] 56 | sommacco di Luca Palladino|Donatella 58 | troppo tardi per gli onesti di Daniele Aureli e Francesco Capocci |Blu mare - Blues notte [storie] 60| sbevacchiando pessimo vino di Paolo Battista | La cosa si fece seria 64| suonatore d'autobus di Carlo Martinelli | Capitolo 4 66| le ricette del signor milgram di Dott. Milgram | Ghiaccio Nove [teatro - libri] 68| ruba questo libro di Marco Taddei | Viaggio in Gran Garabagna di Henri Michaux [STERILITA’ DEL BENPENSARE] 69 | PARODIA DELLA VOLOnTA’ di Edoardo Vitale |Di quella volta che Lucio Dalla morì

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editoriale

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uello che avete tra le mani è un Just Kids rinnovato, più leggero e fruibile dai nostri lettori più affezionati e da quelli che ci hanno appena conosciuto. Dopo la pausa estiva ripartiamo con molte novità, la prima delle quali è il nostro sito web. Da ora in poi troverete aggiornamenti, recensioni, ascolti in streaming e news su:

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crivere in assoluta libertà equivale all’edificazione di una struttura fortificata a salvaguardia di tutto ciò che va protetto:una vigilata libertà. Innanzitutto la dimensione dell’intimità che non ha niente da nascondere ma ancor meno da esibire si sottrae: all’intimità si addice il pudore. Esiste poi una dimensione del fare non riducibile alle parole, se un gesto può evocarne mille non saranno duemila parole a poterlo sostituire. Il mondo della comunicazione, soggetto alle leggi dello spettacolo, sfuma velocementenel regno della chiacchiera. Sottrarsi è sempre più difficile; forse l’eremo lo permette, qualche cenobio ne ribolle. lo sai che... no, non lo voglio sapere e comunque la mia simpatia tende agli sbeffeggiati, i disgraziati di turno che, si badi bene, non sono gli stessi delle generazioni precedenti. I riprovevoli di allora oggi dettano legge, hanno fatto dei loro vizi, delle loro manie, il galateo cosmopolita; sono i nuovi benpensanti, alfieri e custodi della civiltà che avanza. La polemica mi si addice: sono un grumo emotivo di nervi. Conosco la rabbia che prende lo stomaco e straparlare imprecando sembra l’unica possibile via di scampo. Devo rifuggire, me lo sono promesso, la polemica. Se le concedo spazio, me ne lascio prendere, ne divento succube: eccita la mia vanità intellettuale, mi tonifica ma dà assuefazione, occorre aumentarne le dosi per mantenere l’effetto; un macigno che cresce, annebbia l’intelletto e grava sullo stomaco. Inutile combatterla, vanno rifuggite le occasioni che la propiziano” (Giovanni Lindo Ferretti, Barbarico)

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[Musica] INTERviste

GIARDINI DI MIRO' di Fabrizio Morando | recensione a fumetti a cura di Gianpiero Chionna

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[Musica] INTERviste

Giardini di Mirò

I continuano la loro marcia verso una idea di musica personale e innovativa e lo fanno affrontando una seconda volta la sonorizzazione di un vecchio film muto, Rapsodia Satanica di Nino Oxilia. Incontriamo il gruppo di Cavirago proprio a poche settimane dall’uscita di questo loro ultimo disco, cercando di carpire dalla band emiliana i motivi che li hanno portati ad affrontare, di nuovo, una simile e particolare esperienza.

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on l’imminente Rapsodia Satanica affrontate per la seconda volta la sonorizzazione di un film muto, cominciata qualche anno fa con Il Fuoco di Giovanni Pastrone. Il fatto che molte vostre ispirazioni provengano dalle immagini suggestive e teatrali di film di inizio XX secolo è davvero intrigante: mi raccontate come nasce la musica attraverso la visione di una pellicola, e perché vi affascinano questi progetti di sonorizzazione di lungometraggi d’epoca? Corrado (C): Sin dalle prime recensioni dei nostri demo abbiamo sempre letto riferimenti a colonne sonore e atmosfere cinematografiche. Visto che spesso noi musicisti pensiamo che le recensioni, soprattutto quelle dei gruppi agli esordi, siano frutto dei deliri del giornalista malcapitato che deve recensire i demo, abbiamo voluto darvi una chance: abbiamo deciso di esplorare realmente il mondo delle colonne sonore. E questo lo facciamo da tempo, con una certa costanza. Da un paio d’anni curiamo un workshop al centro musica di Modena che si chiama Soundtracks dove partecipano compositori, registi, attori e si guardano tanti film e si mescolano gli spunti. Ecco la parola chiave è contaminazione. Musica ed immagini lavorano per contaminazione, un po’ dai, un po’ prendi ed il risultato è spesso sorprendente. Se la memoria non mi inganna, in modo analogo i Marlene Kuntz sonorizzarono il film La Signorina Else del 1929. La seconda domanda è subito provocatoria: Sono stati i Marlene a stimolarvi nell’intraprendere questi percorsi? Che rapporto avete con il gruppo di Cristiano Godano, nato negli stessi anni e nello stesso ecosistema dei

Giardini di Mirò? Jukka (J): Il nostro lavoro per Il Fuoco nasce da un’idea di Stefano Boni del Museo Nazionale del Cinema che

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ha commissionato il nostro lavoro così come quello dei Marlene all’interno del festival Crossroads 2007. Quindi possiamo dire che entrambe le band sono state stimolate dall’invito del museo. Non possiamo nascondere che però Catartica è stato un disco molto importante nella nostra formazione musicale.

Rapsodia Satanica, come Il Fuoco, ha un’indubbia ispirazione dannunziana (fra l’altro riprende anche il titolo di un romanzo di D’Annunzio). I temi sono quindi sempre molto forti, come l’esplorazione della psiche umana, le interazioni simboliche e uno sviluppo narrativo sempre complesso. La vostra musica del resto è introspettiva per definizione, con un’anima a

allontanati, possiamo comunque dire che sia questo connubio a portare la vostra musica a calzare perfettamente sulle immagini dei film? C: L’influenza dannunziana sullo stile e sul costume dell’epoca era trasversale e andava dalle lettere al cinema. Anche se in realtà, nel caso de Il Fuoco le cronache raccontato che ci fu tirato, non per i capelli che non aveva, ma, diciamo, per il bavero. Rappresentava una sorta di arbiter elegantiae e tutti quelli che cercano di imporre qualcosa di esteticamente potente dovevano passare al vaglio del poeta, tra questi anche Giovanni Pastrone, abile regista ma soprattuto astuto imprenditore del cinema ante litteram. Per il resto penso che la tua analisi sia condivisibile ma per favore non parliamo di math rock. In matematica ho sempre avuto voti terribili. La colonna sonora de Il Fuoco è firmata da Pietro Mascagni, uno dei maggiori compositori dell’epoca e primo compositore di professione in Italia a firmare una colonna sonora. Sincronizzandola con le scene del film lo definì “un lavoro lungo, improbo e difficilissimo”. E’ stato cosi difficile anche per voi arrivare alla fine delle registrazioni? Quali sono sommariamente le difficoltà maggiori nel perseguire progetti di sonorizzazione di questo tipo? J: Ogni lavoro ha le sue insidie ed angoli morti che non ti permettono di vederne chiaramente la fine. Un lavoro di sonorizzazione ti detta dei ritmi e dei tempi ben precisi che non poi eludere. Se ci sono immagini per 40 minuti tu non puoi concepire un commento musicale per 47 ma neppure per 15. Un altro mostro che si incontra nel fare queste esperienze musicali è la gestione del silenzio: è in partitura, è parte della composizione, non dobbiamo mai lasciarne. Abbiamo paura del silenzio? non c’è una risposta precisa a questa domanda che si ripresenta costantemente. I nostri tempi di scrittura per Rapsodia sono stati molto rapidi, 5 sessioni di prove tra scrittura e preparazione del live. Molto più complessa di conseguenza è stata la registrazione che ci ha visto ritornare più volte su alcuni passaggi.

volte intricata e destrutturata, tipica del postrock e del math-rock. Pur trattandosi di stili e stereotipi dai quali vi siete gradualmente

Nella prima esperienza, le registrazioni fatte per lo più in presa diretta, limitando al massimo le sovraincisioni, testimoniano e rafforzano l’intento di far arrivare il suono alle nostre orecchie come una “bolla sonora” che ci avvolge estraniandoci: percussioni dosate, droni e tocchi di tastiera, e

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un crescendo di chitarre psychedeliche e suono kraut (giocoforza riconducibile alla vostra collaborazione con Apparat). Dopo l’ascolto del teaser di Rapsodia Satanica credo di poter dire che l’approccio sia stato molto simile anche in questo secondo soundtrack. Sarà così in tutto il disco? Cosa è cambiato secondo voi sia musicalmente che concettualmente tra il primo lavoro di sonorizzazione e il secondo? C: Sono cambiate le persone. Alcune proprio non ci sono più perché hanno fatto scelte di vita diverse, altre sono cresciute e non di poco, di ben sette anni. In mezzo, se ci pensi, scorrono un sacco di cose, di stimoli, di vita vissuta, di situazioni che portano le persone a trasformarsi. L’unica speranza è che siano migliori ma di questo non ho certezza. Una delle prime impressioni che ho avuto sentendo il teaser è quella mettere sul piatto del mio giradischi una versione post-moderna di Disintegration dei Cure. Del resto, Rapsodia Satanica era definito (almeno per quel tempo) un film horror e le atmosfere che evoca sono sicuramente vicine al genere dark. Stiamo per sentire effettivamente un ritorno verso quelle sonorità cupe degli anni ’80 o si è trattato solo di una mia immagine fugace? J: I Cure? Davvero? A me vengono in mente i New Order però vanno bene anche i Cure. Nel suo complesso il disco è molto variegato, ci sono più ambientazioni sonore ed umori che si incontrano in questo lavoro. Ogni movimento ha una sua peculiarità ed è legato agli altri dal ritmico della narrazione filmica. Ci sono tanti colori non solo le tinte dark degli anni 80. Quel volto cereo di Lyda Borelli, seducente musa dell’inizio del XX secolo, amplifica quella tensione thriller che - senza alcun dubbio - mi angoscia molto di più della maggior parte delle attuali produzioni cinematografiche del genere. Deve avere angosciato anche voi del resto: questa attitudine al sound più cupo l’avevo già percepita cinque anni fa nell’ultimo vostro disco in studio: Good Luck (Santeria, 2012). Leggendo qua e là però questo umore più introspettivo che avvolge molti brani di quell’album non fu accolto in modo positivo da qualche testata: leggo frasi del tipo “…il gruppo prova a scrostarsi di dosso le ultime scorie post-rock, ma fallisce il tentativo di completare la transizione”. Come giudicano invece i Giardini di Mirò quel disco e perché ci fu

la scelta verso questo tipo di sonorità? C: In realtà Good Luck fu percepito molto bene dalla stampa. Finì in copertina sia di Rumore che di Rockerilla, cosa che in precedenza non era mai successa. Le recensioni positive o molto positive furono più che le negative. Poi le voci, le opinioni, i pareri sono sempre veri e rispettabili così quindi questa che riporti. Cosa ne pensano i Giardini di Mirò? Pensiamo che dentro Good Luck ci siano alcune delle nostre migliori canzoni e che, probabilmente, proprio per questo in futuro probabilmente cambieremo rotta. Novità assoluta nell’EP North Atlantic Treaty Of Love fu la voce di Jukka Reverberi, tra canto e spoken words, a recitare versi de L’Otello di Shakespeare. A me è piaciuta un sacco quella cosa lì… cosa prevede il futuro prossimo dei Giardini come linea compositiva? Dopo il soundtrack di Rapsodia Satanica, Il canto continuerà a rappresentare un asset fondamentale della vostra produzione? J: Othello naque in un mezz’ora a casa di Corrado. Voleva essere uno scherzo per gli amici. A chi ci chiedeva quale fosse la direzione per il prossimo lavoro rispondevamo con il demo di Othello, credendo di prenderli in contropiede e terrorizzarli. Ai più piaque e chisero chi cantava, quindi possiamo dire che non fu uno scherzo ben riuscito ma forse un esperimento involontario che ci ha dato suggerimenti per il futuro. Il futuro oggi è la promozione e la preparazione del live di Rapsodia Satanica. Quello che verrà dopo ce lo dirà la sala prove nei prossimi mesi. Jukka, in una recente intervista, ha manifestato con rammarico - la presenza da un po’ di anni a questa parte di una scena musicale al limite del deprimente, soprattutto nel panorama italiano, con conseguente sofferenza da parte dei locali e delle piccole case produttrici. A cosa attribuite questo visibile calo artistico e culturale? J: Mi sono sicuramente espresso male. La cosa che a me dispiace della musica italiana è la poca attenzione per i suoni ed in generale la poca voglia di sporcarsi le mani con la materia sonora. I dischi italiani di questi anni sono spesso precisi puliti ed un poco sapidi. Se la musica straniera qualcosa ci ha insegnato non è tanto nel cantare in inglese ma quello nel provare a disegnare traiettorie musicali nuove. Prima citavi i Marlene, ecco loro hanno fatto questo: scardinato musica chitarristica noise anglosassone e cantato italiano fondendoli assieme in modo nuovo ed

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[Musica] INTERviste

intelligente. Oggi i big seller indipendenti sono artisti normalizzati. Qualche eccezione esiste. Penso, per fare un esempio, che tutti si tenda a leggere la musica di Vasco Brondi solo in termini testuali mentre io trovo che ci siano sempre novità e tentativi interessanti nelle sue scelte sonore. Parlare di piccole etichette richiederebbe troppo tempo. In italia ci sono tantissime buone realtà che hanno il loro piccolo seguito. Non fanno grandi numeri, ma chi se ne frega. Va bene così. Una delle tante accuse fatte in questi ultimi anni è diretta al web 2.0 e a alla facilità con cui ci si possa autoprodurre attraverso internet, che avrebbe portato all’estinzione delle case di produzione indipendenti e, peggio ancora, ad un degrado nella qualità dei dischi messi in commercio. Voi cosa ne pensate? Che rapporto avete con la rete e con i social media in particolare? C: Io sono molto connesso, felice che ci sia un web sociale che dia voce e respiro a tutti. Penso che, al momento, i rischi siano molto meno dei vantaggi. Poi vedremo cosa succederà, tanto, come dimostrato dalla recente storia, la fantascienza è dietro l’angolo. Avresti mai pensato cinque, sei anni fa che mezzo mondo avrebbe girato con un telefono-computer in tasca sempre connesso, pronto a condividere la vita, le emozioni, i pensieri in tempo reale? Io no, eppure.. In questo scenario, chi potremmo considerare un superstite? Quali sono gli artisti attuali che ritenete ancora di un certo livello? Mi riferisco sia al panorama italiano che a quello internazionale. E quali di essi si possono ritenere ancora fonte di ispirazione per i Giardini di Mirò? J: Noi siamo dei veterani con oltre 15 anni di carriera e ci piacciono due gruppi ancora più vecchi del nostro, che però non hanno mai perso il mordente e la voglia di suonare a qualunque condizione: Cut e Julie’s Haircut, persone innamorate di un amore vero per la musica ed il suonare.

(spiegandomi anche il perché ovviamente…) C: Notwist - Neon Golden, Van Pelt - Sultan of Sentiments, Hood - Cold House Nel vostro percorso musicale avete collaborato con artisti di ogni genere. Di fatto nella vostre produzioni si assaporano, oltre ai sopracitati generi che vanno dal post-rock, psichedelia e shoegaze, anche indiscusse influenze blues e orientali, musica contemporanea e ambient. Tra essi nomi del calibro di Paul Anderson, Sasha Ring (aka il già citato Apparat) e Markus Acher dei Notwist. Quale è stata la collaborazione, in particolare tra questi ultimi tre pilastri della musica contemporanea, che vi ha maggiormente soddisfatti? C: Te ne dico tre oltre a quelli che hai citato tu. Glen Johnson dei Piano Magic che ha cantanto il pezzo Self Help contenuto in Dividing Opinions. Sara Lov in There is a place da Good Luck ed Emidio Clementi che prestò parole e voce per il pezzo Malmoe in Soft Touch EP. Salutandovi e ringraziandovi per il vostro tempo, vi chiedo: se doveste scegliere una nuova band o un nuovo artista contemporaneo con il quale intraprendere un percorso e magari realizzare un disco insieme, con chi vi piacerebbe collaborare? Grazie ancora e un gran in bocca al lupo per il futuro. C: Seguendo le orme di Lou Reed, direi i Metallica, tanto so che Jukka sta pensando agli Slowdive. J: Come puoi vedere su “nuovi artisti contemporanei” il mio socio risponde con delle cariatidi. Eh l’età, l’età che avanza. [ ]

Soffermandoci alla scena Emiliana invece cosa mi suggerireste di sentire? J: Vessel, Pillow e Crimea X C: Per quella romagnola suggerisco Secondo Casadei: spacca sempre. E adesso un classico! Tre dischi di ogni tempo che vi portereste sulla proverbiale isola deserta JK | 11


GIARDINI DI MIRO’ - RAPSODIA SATANICA (2014) Recensione a fumetti a cura di Gianpiero Chionna


GIARDINI DI MIRO’ - RAPSODIA SATANICA (2014) Recensione a fumetti a cura di Gianpiero Chionna


[Musica] INTERviste

FILIPPO GATTI di Francesca Amodio | ph Alessio Jacona Ho il piacere di chiacchierare con un

Filippo Gatti assolutamente rigenerato: la serenità che traspare,

anche da questa intervista, il cantautore romano l’ha trovata in maremma, lontano dalla roma che gli ha dato tanto, ma anche tanta instabilità e a volte tormento. Anche se ha cambiato residenza, filippo gatti non ha cambiato la testa: è sempre il solito adorabile logorroico, che senza peli sulla lingua dice la sua, con la sua solita coerenza, semplicità, spontaneità e con un sorriso sincero, al quale non siamo più abituati, soprattutto da chi nella vita calca palcoscenici. Filippo gatti però è la testimonianza che anche in questo ambiente esiste purezza, e ciò che lui proprio non conosce è la distinzione tra persona e personaggio. Per fortuna. JK | 14


[Musica] INTERviste

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[Musica] INTERviste

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artiamo subito col trash. La definizione di “artista” data da Simona Ventura a X-Factor è: “un artista è tale se riesce a fare tutto ciò che gli viene chiesto di fare”. Siccome qualcosa mi dice che non sarai d’accordo, qual è la definizione di “artista” per te? Forse l’unica definizione possibile di artista è che l’artista è proprio quello che non puoi definire. La definizione che ha dato la Ventura mi ha davvero impressionato, perché io credo che in base alla definizione che diamo della parola “artista”, si possa capire la mentalità del nostro Paese: il fatto che essere artista voglia dire fare la fine della carne da macello all’interno delle gare e delle competizioni, con l’unico scopo di accontentare tutti ed eseguire esattamente per filo e per segno quello che ti viene chiesto, esaudendo desideri non tuoi ma di altri, lo trovo davvero deprimente. E sinceramente che una donna dello spettacolo dica questo davanti a milioni di telespettatori, beccandosi pure un sonoro applauso, lo trovo spiazzante. Io dico quello che penso ad esempio in “Rigenerazione”, che Sinigallia ha cantato quest’anno a Sanremo: “È per la paura di conoscerci che ti dico quello che voglio e tu mi dici quello che vuoi”. Per quanto mi riguarda, se il giorno prima scrivo un pezzo di successo, il giorno dopo scrivo un pezzo opposto; odio “abituare” il mio pubblico, mentre amo stupire e soprattutto essere stupito dagli artisti che amo. Una volta hai detto che dovremmo fare una causa collettiva alla trasmissione televisiva che distrugge la credibilità della nostra musica, con riferimento ai talent show, sebbene la tv sia di fatto uno dei mezzi di comunicazione più potenti che l’Italia conosca. Come pensi si possano conciliare le due cose? Penso che la competizione sia bella quando si tratta di quella sportiva, stop. Quanti ragazzi negli ultimi dieci anni hanno partecipato ad un talent? E quanti ne sono usciti fuori? E per usciti fuori intendo quanti effettivamente lavorano nel campo della musica e vivono di quello. Beh, credo che su migliaia di ragazzi in questione, forse ne saranno usciti 4 o 5. E la cosa terrificante è che nessuno si preoccupa di cosa è successo alla testa e alla mente di tutti gli altri, che sono stati vestiti da star e messi su un palco davanti a milioni di telespettatori da degli sciacalli che per mesi dicevano loro che sarebbero diventati sicuramente qualcuno. Perché questa cosa non interessa a nessuno? Se si fa una piccola ricerca si scopre che la

maggior parte di questi ragazzi ha avuto, ovviamente, seri problemi di depressione e non solo. Ci si interessa solo del fatto che uno ce l’ha fatta, e non del fatto che gli altri cento stanno male. Quello dei talent è un meccanismo fallato ed in realtà già finito, come myspace! E’ un cadavere ambulante ormai. Io non ho un problema coi programmi di musica popolare, a me piacciono i programmi di musica popolare, anche perché non sta scritto da nessuna parte che uno debba ascoltarsi per forza Elliott Smith, o Ciajkovskij: uno può anche ascoltarsi Gigi D’Alessio ed essere felice, a me non crea certo problemi. Quello che mi crea problemi, e che combatto in quanto cittadino e poi artista, è il meccanismo di totale ferocia sul quale si basa il talent-show, che per il favore di uno ne abbatte cento. In una tua biografia si legge che parli molto e scrivi poco. In realtà hai avuto un blog su Il Fatto Quotidiano dove dicevi la tua non solo sulla musica. Dal tuo canto apprezzi il fatto che ultimamente sempre più musicisti decidano di uscire da un recinto esclusivamente musicale e si mettano in prima linea per far arrivare determinati messaggi che rientrano anche in sfere non musicali? Guarda in realtà è sempre stato così: ci sono artisti che si rifiutano categoricamente di prendere qualsiasi

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tipo di posizione e altri che dicono le cose “giuste” solo per vendere dischi. Io creo sempre dei casini pazzeschi perché dico sempre quello che penso, e va benissimo così, perché non vivo di strategie. La mia unica strategia è far vedere sempre la stessa persona nel corso degli anni, coerente, e non un pupazzo. Nonostante non mi convenga, io non intendo certo cancellare le prove di quello che ho detto o che dico, non mi fido di quelli che fanno dichiarazioni solo perché, appunto, fanno dichiarazioni. Mi spiego: le cose che uno dice, devono essere accompagnate dalle cose che uno fa. Il miliardario che parla del lavoro che non c’è dal suo attico di Manhattan non mi convince, così come non mi convincono quegli artisti di cui parli tu, che oggi fanno dichiarazioni “impegnate”: perché non le hanno fatte dieci anni fa? Perché sarebbero usciti fuori dal mercato dieci anni fa. Questo è quanto. Ora invece c’è esplosione di consenso per chi esprime critiche, è quasi una moda. Quando fare critiche ad un certo tipo di sistema era rischioso, io l’ho fatto, e ho pagato. Ora invece mi sento di dare solo messaggi positivi, non per fare il bastian contrario per forza, ma perché lo sento veramente: sento che è ora di cominciare a dire cosa si può fare di buono, invece di crogiolarsi nel malcontento generale. La musica è sempre più social. Rispetto a vent’anni

fa, quando più o meno hai cominciato tu, oggi farsi conoscere è relativamente facile, basta caricare il proprio video – che sempre più spesso non è nient’altro che una ripresa “casareccia” - su Facebook per ottenere già un principio di visibilità. Non sempre però la popolarità di cui si gode sul social corrisponde a quella reale: spesso anzi si tratta di una popolarità apparente, perché poi la gavetta nel locali è un’altra cosa, e riuscire a creare e soprattutto a mantenere un proprio pubblico, fatto di persone vere che si affezionano poi negli anni, è tutto un altro paio di maniche. Fino a che punto quindi è positiva e di ausilio l’esperienza di condivisione musicale sui social network, sulla quale soprattutto le giovani leve costruiscono un vero e proprio marketing? Io penso che come al solito questa veicolazione della musica tramite le nuove tecnologie abbia i propri lati positivi e negativi. Non c’è dubbio che possa creare delle false amicizie, dei falsi gradimenti, tante banalizzazioni e semplificazioni rispetto al rapporto vero che si ha con la musica; allo stesso tempo però è anche un altro mondo che si apre, e sta poi al singolo artista decidere di prenderne il buono ed incrementarlo facendo altro o fermarsi alla superficialità: se uno pensa di aver trovato moglie solo perché ha chattato per una notte con una ragazza, quello è un problema! E altrettanto vale per la musica. Forse c’è stato un momento inziale in cui chi faceva un certo tipo di bombardamento sul social ha avuto più riscontro di chi come me fa concerti da vent’anni, ma in realtà è un fenomeno che già si sta molto asciugando, nel senso che oggi se io posto un video su facebook non gliene frega più niente a nessuno, è stata solo la “novità”. Credo che adesso si ricomincerà a guardare al concerto vero, al disco vero, col vantaggio di reperire più informazioni tramite il digitale: ecco, credo che questa sia la maniera intelligente di usarlo. Il tuo è considerato un cantautorato rock. Nella scena musicale italiana attuale, fra i giovani, c’è qualcuno che consideri un buon cantautore? Ne sto ascoltando tanti ultimamente, ma non sono in grado di fare una segnalazione precisa perché per il momento non ritengo che ci sia qualcuno in particolare da sottolineare. Sicuramente posso dirti che ho la sensazione che ci sia un aumento di qualità e profondità, mi sembra che ci siano molti più artisti interessanti ora rispetto a quando ero giovane io, ma allo stesso tempo non mi viene in mente un’eccellenza.

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Magari all’epoca mia c’era più “disastro” in giro, quindi nel momento in cui usciva fuori uno, spiccava per forza. E poi, siccome la mia generazione è stata abbastanza “massacrata”, mi piace pensare di essere un “giovane” cantautore io stesso! Ti abbiamo visto esibirti sia in locali intimi e raccolti sia davanti a grandi platee. In entrambe le situazioni sembri comunque essere a tuo agio e divertirti molto. Quale situazione ti è più congeniale quando suoni? Sicuramente preferisco fare concerti in posti dove ci sia un numero di persone accettabile, diciamo un centinaio, in modo da avere uno scambio col mio pubblico; in realtà però quando sto sul palco penso al pezzo che sto suonando, poi è ovvio che in base al posto in cui ti trovi senti delle diverse energie in base al pubblico che hai di fronte. Ad esempio, ci sono stati dei momenti a Sanremo in cui la platea che avevo davanti mi sembrava selezionata da David Cronenberg! Ma al di là delle situazioni, io mi emoziono lo stesso, sempre. Suoni spesso anche all’estero. Come reagisce il pubblico straniero al tipo di musica che tu proponi e qual è la prima differenza che ti viene in mente con quello di casa nostra? Io comincio a risentire ora un certo amore nei confronti del pubblico del mio Paese, che per un po’ di tempo ho perso. Per qualche anno ho sofferto a fare concerti qui. Mi sono trovato in situazioni in cui addirittura ho dubitato di me come musicista, cosa che quando suono fuori non mi accade. Sarà anche un

luogo comune, ma il pubblico all’estero è davvero più attento e coinvolto. Non sempre, certo, ma secondo la mia esperienza suonare di fronte ad un pubblico non italiano è stato sempre molto gratificante. Come dicevo prima però, ora per fortuna le cose sono cambiate e ho iniziato già da tempo a “reinnamorarmi” del pubblico di casa mia, e questa è una cosa davvero molto bella. Nel 2012 nel disco Il pilota e la cameriera, registrato e mixato da tuo fratello Francesco, ci hai raccontato che “tutti ti volevano quando ti andava bene, che le mani correvano alle tasche per offrire e che le donne più belle si sfilavano gli anelli dalle dita”, parafrasando naturalmente il tuo pezzo Tutti mi vogliono quando mi va bene. È ancora così? Quella è sicuramente una canzone che io ho scritto facendo un pò i conti col mio passato e con certa gente, che ti cerca quando sei forte e ti evita quando sei debole, ma non è solo un pezzo che parla di opportunismo. Quando dico, ad un certo punto, “per farmi crescere più forte mi aiutavano a cadere”: ecco, io sono grato alle persone che mi hanno messo in difficoltà, perché in realtà mi hanno dato molto. Poi è ovvio che rimane sempre vero quello che diceva Flaiano, cioè che in Italia sono tutti pronti a soccorrere il vincitore. Però tutto questo meccanismo ha anche i suoi lati buoni, ovvero bisogna anche dimostrare di saper fare qualcosa di importante affinché la gente si appassioni a te, quindi in un certo senso è anche “giusto” che le persone ti si avvicinino quando ti va bene. Io comunque ho scritto quel pezzo affinché chi lo ascolta lo possa interpretare appunto nella sua duplice chiave di lettura, a seconda di come sta in quel momento. Oltre a fare il musicista, ti sei cimentato a n c h e nell’attività di produttore. Qual è l’aspetto più soddisfacente di questo lavoro? E come pensi

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sia cambiato questo ruolo nel corso degli anni? L’aspetto più soddisfacente riguarda soprattutto quello che imparo di me stesso. Il produttore internazionale per eccellenza che considero mio maestro è Brian Eno: credo che lui con tutti gli artisti con i quali ha lavorato - da artista anche lui, perché il produttore è sempre prima un artista – non abbia mai cercato di cambiare la persona che aveva davanti, ma di esaltare le qualità che già c’erano. E questo tento di fare io quando metto i panni del produttore: tiro fuori il massimo dall’artista che ho davanti senza cambiare una virgola di quello che lui è, a differenza di qualcun altro che magari si mette a produrre gente priva di qualsiasi talento per plasmarli a propria immagine e somiglianza. Io ho fatto la scelta di lavorare con artisti sconosciuti o semi-sconosciuti perché è questo che io ritengo interessante, non ho mai scelto di lavorare con qualcuno che sarebbe potuto essere di moda in quel determinato momento, e soprattutto io non ho mai “creato” nessuno: semplicemente scelgo bene, e scelgo chi la materia prima già ce l’ha. Prima il produttore era l’intermediario tra una grande casa discografica e l’artista, ed il suo fine era quello di far arrivare il prodotto al grande pubblico. Oggi è come se il produttore fosse una specie di fabbro, al quale tu dai le misure e lui subito realizza esattamente il prodotto che tu vuoi. Io non ho mai lavorato così. Hai vissuto a Roma per tanti anni, ma ora vivi in Maremma. Ti senti più ricco da quando hai lasciato questa città, che a volte sembra solo un palcoscenico di vite da recitare? Sì, perché nonostante abbia pochissimi soldi liquidi in tasca io faccio una vita da miliardario. A Roma mi sentivo povero anche quando avevo i soldi, qui mi sento ricco senza una lira. Semplicemente a Roma non mi divertivo più e non mi rilassavo più, e di sicuro Roma non mi ha ripagato mai abbastanza di quello che ho fatto in questi anni per lei e per i suoi artisti. Qui mi basta saltare in vespa, farmi un bagno al mare, mangiare una cosa buona con gli amici, tornare a casa e sentirmi un disco per stare davvero bene. È inutile guadagnare tanti soldi e vivere male, no? Questa per me è la “decrescita felice”. Stai lavorando a nuovi progetti. Vista la tua variegatissima esperienza e formazione, che alimentano il tuo bagaglio musicale ormai da vent’anni – dagli Elettrojoyce, ai lavori come produttore, alle numerose collaborazioni con

musicisti del calibro di Banco del Mutuo Soccorso, Bobo Rondelli, Marina Rei, Bruno Lauzi, Riccardo Sinigallia e moltissimi altri - ora cosa dobbiamo aspettarci dal poliedrico Filippo Gatti? Sono impegnatissimo in un progetto che si chiama Maremma Orchestra, un progetto grandioso in tutti i sensi, visto che sul palco ci sono ben sessanta elementi a suonare. Tutto è nato perché la fondazione “Grosseto cultura”, insieme ad una serie di persone con le quali collaboro da quando vivo qui, tempo fa mi proposero di mettere su una sorta di super gruppone per il tributo al centenario della nascita di Monicelli, e quindi io avrei dovuto suonare per il tributo alle colonne sonore, all’interno del Premio Monicelli, fra un anno. Così ho contattato i migliori musicisti che conosco della zona, ma quando abbiamo cominciato a provare mi sono reso conto che stava uscendo fuori una cosa talmente bella che sarebbe stato quasi un peccato tenere chiusa nel cassetto per un anno e farle vedere la luce solo in un’unica occasione. Poi tornato dall’esperienza di Sanremo con Riccardo Sinigallia, in poco più di quattro mesi, ho consolidato il progetto producendo questo album che abbiamo già presentato qui in Maremma. Abbiamo poi trovato un’etichetta, la Route61, ed è uscito fuori qualcosa di grande e di bello: io suono il basso elettrico e canto, c’è una fantastica orchestra di 25 elementi, c’è il gruppone di 8 elementi, e anche il coro popolare “Briganti di Maremma”. Facciamo pezzi strumentali, orchestrali, pezzi di Lucio Dalla, di Domenico Modugno, insomma ci divertiamo tantissimo. Sicuramente il picco più alto lo raggiungiamo quando suoniamo il tributo all’armata Brancaleone di Monicelli: sul palco siamo 120 persone, compresa la filarmonica con i bambini! Sono molto soddisfatto perché sento di aver creato qualcosa di prezioso con musicisti altrettanto preziosi e molto validi. Per quanto riguarda il prossimo disco solista sto producendo un disco insieme a Matteo D’Incà, che in realtà è praticamente pronto ma con alcune cose che voglio migliorare. Voglio che sia un disco molto difficile da sottovalutare; è diverso dal precedente naturalmente, anche nella tempistica: “Il pilota e la cameriera” l’ho fatto in 13 giorni, a questo sto dietro da due anni circa, e probabilmente vedrà la luce in autunno. Ma io non ho né fretta e né ansia, semmai ho la voglia di fare un disco “pericoloso” per tutti coloro che pensano che la musica italiana sia finita. [ ]

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PIERPAOLO CAPOVILLA di Davide Colangeli | ph Luca Carlino Non è la prima volta che parlo con

Pierpaolo Capovilla,

sicuramente è stata la prima volta che l’ho fatto da sobrio. Dopo il tour de force di domande che ha toccato anche Vanity Fair, lo incontro nel corso di un’affollata conferenza stampa tenutasi in occasione della presentazione del suo disco solista Obtorto Collo. Lui è vestito di nero corvino, finisce un pacchetto di sigarette in un’ora. E’ un mattatore: parla, salta da un argomento all’altro, risponde ma poi divaga. C’è una cosa che mi ha stupito molto: è più interessato alle domande e opinioni di noi giornalisti che a darci la sua Ascolta le domande con occhio curioso, aspirando l’ennesima sigaretta e rispondendo talvolta con altri quesiti.

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C

omincerei ricordando un video, un mini documentario di un po’ di anni fa, in cui mostravi casa tua e il tuo lavoro come cameriere… Non l’avessi mai fatto... [ride, ndr] Ecco, il punto è proprio questo. Cosa è cambiato da allora nella tua vita? Di intimità ce n’è molta ora nel tuo disco. Prima eri Pierpaolo, cantante, attore, ora sei Capovilla: diventato un esempio per molti e quasi oggetto, e soggetto, di meme e parodie. Dove finisce Pierpaolo sul palco? Mah, non sapevo di essere come una maschera... Da un lato però è anche un segno di unicità e riconoscibilità di atteggiamento. Essere un esempio è divertente, ma anche gravoso: è semplicemente capitato che io fossi un primus inter pares. Non sono meglio sicuramente di un operaio che sgobba per pagare l’università al figlio.

grassetto!) nei temi e nel suo totale estraniarsi appunto da un genere di musica classista e banale e totalmente depoliticizzata. L’unica differenza che c’è tra quello che mi ha fatto amare, per così dire, da un certo tipo di pubblico, e l’esigenza che finalmente ho potuto portare a compimento per questo disco è che finalmente ho potuto sperimentare il concetto di poesia non inquadrata in una griglia ritmica. Ogni parola può diventare verso, senza preoccuparsi di un 4/4 sparato sotto. Abbiamo lavorato molto per questo tipo di “straniamento” tra liriche sia scollate che integrate nel tessuto musicale.

Quanto c’è di tuo in questo disco? Nel disco c’è molto di mio, o meglio: tutto quello che scrivo sono io, sono parti di me, ma quando guardo dentro di me, vedo gli altri. Vedo le storie che voglio raccontare e che accadono e che risuonano dentro di me. Se vogliamo dirlo, Capovilla è Pierpaolo che si esprime artisticamente. E’ scioccante, è tracotante, ma, ragazzi, l’arte e la lotta si fanno così! Non puoi aspettarti le canzonette e i cantantucoli che durano un anno o due. Io come uomo e come artista tento di lasciare una traccia, tendo ad una laicissima eternità. Certamente spesso Pierpaolo e Capovilla coincidono, ma non c’è niente di narcisistico in tutto ciò: narciso è un mito bellissimo, certo, ma è l’innamorarsi della riproduzione di se stessi. Non si mangia, non si fa l’amore contemplando se stessi. Io, invece, sono concentrato sugli altri. Il tuo disco è stato oggetto di squisite recensioni, ma anche di critiche spietate. Come le vivi? Ti dirò una cosa: a me non frega più di tanto delle critiche di gente che non ha capito i riferimenti e che comunque non mi apprezzava neanche prima. Entro in rapporto dialettico volentieri con chiunque mi fa una critica, ma che sia ragionata. Sono molto amareggiato, e non lo nego, per tutta quella fascia di fan, anche del Teatro degli Orrori, che mi ha accusato di tradimento, o di aver rinnegato qualcosa. Non hanno capito una cosa fondamentale: il disco è ROCK (e lo dico tutto maiuscolo, sottolineato,

La musica è condivisione estrema: pensare di poterla commercializzare è da barbari. La musica è un bene del mercato, non è il mercato stesso. Uno dei motivi, per esempio, per cui spesso non piaccio, è la mia idea di dovermi concentrare più sull’interpretazione che sulla metrica e sull’intonazione. Io canto come un attore, ma non sono certamente meno musicista di un ballerino o di un regista.

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La tua è sempre stata una sfida contro il sistema appiattito della cultura italiana. Il disco è chiaramente una “bella botta”. La pensa così anche la Universal, evidentemente. Si può dire, tranquillamente, che la cultura è diventata anche intrattenimento e quindi mercato? E, ancora, cosa pensi della commistione Intrattenimento/ Cultura? Una major che produce il disco da solista di Capovilla non è coraggiosa, è giusta. E’ lungimirante. I dischi non si vendono più, e non si vendono più perché proliferano i talent show e l’oggettivazione sessuale dell’artista. Anche la gente comune ha capito

di essere un approfittatore e di sfruttare qualcosa per avere notorietà, quando invece sta cercando di far avere notorietà alle cose che dicono che stai sfruttando. Non è un gioco di parole. E’ come per Roberto Saviano, l’hanno accusato di sfruttare la Camorra. Ma cazzo, vi sta raccontando la Camorra! E voi andate a fargli i conti in tasca? Perché l’artista deve essere un poveraccio in balia delle elemosine? Nelle istituzioni ci sono ladri e farabutti che ti dicono che non esiste più la lotta di classe, come Grillo, o come Renzi che propone l’americanizzazione della nostra politica, loro sì che si stanno approfittando di un sistema per fare soldi. Il modo migliore che hanno molte persone di ostacolare la libertà e la circolazione delle idee, è quello di farti odiare dalla tua stessa gente convincendola che la stai prendendo in giro. Che ne pensi della figura del nuovo “autoreartista” italiano, spesso confezionatore di canzoni per post adolescenti e fuorisede depoliticizzati ad arte? La gente ha fame di cultura. E la cultura è un lavoro: il fatto è che qualsiasi lavoro tu faccia, lo devi fare con dignità. Quando ti accorgi che qualcosa non è fatto con l’intento ultimo di essere sincero, devi ritirarti. Per me, ogni disco nuovo è una sfida ed un “esordio”. Quando rileggi Pasolini, o suoni i grandi cantautori scopri hanno ancora qualcosa da dirci. Non facevano solo fotografie della loro piccola cerchia di società. Questa è cultura, il resto è finzione. Il pubblico occasionale rimarrà deluso e si dimenticherà di te. Quello attento, se sarai veramente adatto al ruolo di artista, ti ricorderà.

che non ci sono più le emozioni dentro ai dischi. Sono tutti uguali, suoni tutti uguali, parole tutte uguali. Bisogna far in modo di estirpare la concezione che con la cultura non puoi camparci, che se hai l’ardire di dire delle cose vere, di parlare di dolori sociali e politici in un’Opera d’Arte, allora stai sfruttando quel dolore per “farci soldi”. Non c’è niente di più fascista di tacciare qualcuno

Hai detto che questo è il migliore disco della canzone d’autore contemporanea. A parte la tracotanza e l’ironia, esiste ancora la canzone d’autore? O meglio, cosa fa di una canzone una canzone d’autore? Posso parlare per quel che mi riguarda. Ciò che mi spinge a fare musica è l’assenza di mezzi culturali adeguati e alla portata di tutti. L’unico modo che hai di fare questo mestiere e assicurarti lo stipendio è quello di essere un artista valido. La validità dell’opera non la decide solo il pubblico, per questo dico, un pò prendendomi in giro, che è “il miglior disco della canzone d’autore contemporanea degli ultimi trent’anni”, perché mi prendo sul serio, almeno come autore. Non è uno spettacolino, una gara di canto.

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Mi pare che De Andrè dicesse, in un’intervista sul motivo per cui non andava a Sanremo, che quella era una cosa più simile ad una gara ginnica che un festival. La musica si fa con il cuore, e con le emozioni non c’è gara che tenga: questo fa di una canzone LA canzone d’autore. La scelta dei temi esattamente quanto il coraggio di metterla in pratica con uno stile personale.Ma occhio a quando arriva Rocco Hunt a fare il cretino che dice che c’è la camorra…provo pena per lui. Come per il popolino che vuole partecipare a tutti i costi con il televoto che dà l’estrema sensazione di essere parte di qualcosa: ma non è vero! È la mancanza di coraggio di boicottare questi testi innocui e uscire dal proprio stato di finta quiete che la società garantista ci ha proposto. Combattiamo. Anche con la musica. Gaber diceva che le ragazze belle sono sempre dove si fa la rivoluzione, è vero. La lotta ci rende interessanti. Quando lottiamo, siamo vivi. Siamo vogliosi di cambiare le cose, presumibilmente in meglio. La gente che non lotta, che dice che è soddisfatta così, probabilmente ha qualcosa da nascondere. Il tuo pubblico è cresciuto con te. Io, ad esempio, ora sono pronto per ascoltare il tuo disco da solista, mentre sei anni fa non lo sarei mai stato. Il tuo pubblico, ovviamente attingerà dal Teatro degli Orrori, ma con un tour nei teatri, cosa cambierà? Spero con tutto il cuore che allora gente come te possa apprezzare il nuovo lavoro, ma anche che possa arrivare a nuove persone. Sicuramente una grande parte di pubblico verrà dall’esperienza del Teatro degli Orrori, ma qui c’è molta più poesia e tessuto narrativo. Ad esempio ci sono molte canzoni dedicate agli outsider della società, molte canzoni d’amore: sono una metafora fortissima e dei soggetti interessantissimi per lo sviluppo di una canzone e di una coscienza sociale. C’è l’intimità, ma a non tutti può piacere l’intimità. Questo è un disco forte, fortissimo. Il tipo di spettacolo che vogliamo rendere è maniacalmente simile al disco. Un lavoro di coesione e scontro che dal vivo uscirà fuori ancora di più.

e ora sei maturo. Ma sei più felice? Ovviamente sono gratificato e ancora, a quarantacinque anni, sto imparando molto da tutte le esperienze e dalle impressioni positive e negative sia mie che del pubblico. Non posso ritenermi però “soddisfatto” perché quello è il germe della borghesia: ogni disco che pubblico, o ogni concerto che faccio, per me deve essere come se fosse il primo. Una sfida vitale è per me. E’ bellissimo poter arrivare a casa stanco dopo aver fatto bene il tuo lavoro e sapere che lo hai fatto con quell’emozione. E’ ovvio anche poi esclamare: Dio! Che bello è essersi fatti il culo e arrivare a fine mese a pagare tutte le spese. Ma so che a livello propriamente artistico, non di successo intendo, ho ampi margini di miglioramento. Consigli per band emergenti? Ora che la figura del discografico si è spezzettata in tanti piccoli professionisti (booker, uffici stampa, edizioni, management), cosa consigli ad una band, in quale ambito investire? A parte suonare, suonare e suonare. Quando ho iniziato io non c’era ancora questa importanza che ora ha il web, si trovavano date in maniera carbonara. Ma c’erano i centri sociali che ti facevano suonare senza troppi preamboli. E la gente usciva e andava a scoprire gruppi che poi consigliava. E una band piccola come gli One Dimensional Man con cui ho iniziato potevano permettersi di fare centinaia di date. Ovviamente ci ripagavamo le spese. Se dovessi consigliare qualcosa ad una band, dove grattare per farcela, sono ancora i centri sociali. La politica. Parlate con la gente, aiutate le realtà meno “blasonate” e più attente alla novità. I ragazzi con una passione che vedono in voi la stessa passione, vi premieranno. C’è una domanda che in questo tour de force di interviste avresti voluto che qualcuno ti facesse? Sì, ma non te la dico. [ ]

Una domanda dalle larghe interpretazioni: c’è già chi ha detto che il disco è più pacato e meno rabbioso, che ciò possa essere sia un’evoluzione sia una parte di te, che sei partito “maledetto” JK | 24


DANNATO - FUTEISHA (Old Bicycle/ Brigadisco, 2014) Recensione a fumetti a cura di Gianpiero Chionna


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Brönsøn di Francesca Amodio |ph Luca Carlino

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Siamo allo YEAH!, locale ormai storico nel cuore del quartiere Pigneto a Roma che, proprio grazie a locali come questo, ha visto la sua rinascita. A due passi dal bar preferito di Pasolini, dopo il tramonto, soprattutto quando si incappa in un reading, in un dj-set o in un concerto acustico - che i gestori Vieri Baiocchi e Lucio Caio Savini sovente ospitano - tra luci soffuse e vecchi vinili che suonano immersi in un accurato e variopinto arredamento vintage, sembra di essere in un bistrò francese di Montmartre, o in un caffè portoghese dove soleva andare il Pereira di Tabucchi. Ed è qui che chiacchiero piacevolmente

Brönsøn

con i , i quali affermano che il rock non è solo un genere, ma è uno stato d’animo, un modus vivendi. Perché rock è quando Lara Martelli (voce) mi racconta che per vivere ha fatto anche l’assistente sociale, avendo così a che fare con veri casi umani. Rock è Giorgio Maria Condemi (chitarra) che, senza peli sulla lingua, mi dice che la solidarietà fra musicisti spesso è falsa e di facciata. Rock è Vieri Baiocchi (batteria) che la sera prima ha un concerto e la mattina dopo alza la serranda del suo locale nonostante la nottata in bianco. Rock è Pierfrancesco Aliotta (basso) che trascina i suoi colleghi nell’avventura del crowdfounding, non avendo la minima certezza riguardo l’uscita o meno di un disco. Ecco, tutto questo, e molto altro, è dannatamente rock ‘n’roll.

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V

ieri, so che questo progetto è una tua creatura. Scopro con sorpresa che lo è anche il nome, Brönsøn, io che pensavo che la dieresi e la “o” barrata fossero farina del sacco di radici italo-finlandesi di Lara, alle quali però naturalmente il nome rimanda. Innanzitutto qual è la pronuncia corretta e quale il significato? Vieri (V): Guarda, per la pronuncia direi che è meglio affidarsi a Lara… Lara (L): Bronsòn, con l’accento che cade sull’ultima o! V: Ecco. Comunque il nome nasce dalla volontà di trovarne uno “vecchia maniera”, un nome che, come si faceva una volta, racchiudesse tutta la band e non fosse solo quello della cantante o ancor peggio un nome lunghissimo e complicatissimo, di


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quelli che vanno di moda oggi. Brönsøn ci è piaciuto da subito perché è un nome corto, immediato, che ha un suono “rock”. Non ha una traduzione, rimanda più che altro ad un’idea, che sicuramente combacia con quella che si ha quando si pensa al celebre attore Charles, quello che in famosi film hollywoodiani interpretava sempre la parte del duro, violento e sporco, esattamente come le caratteristiche del nostro sound. I segni grafici poi, servono ad ammorbidire il suono e danno un tocco di eleganza europea. Lara, sono passati sette anni dal tuo ultimo album solista, Cerridwen, scritto in inglese. Il disco d’esordio dei Brönsøn sarà in italiano. Generalmente quando si pensa al rock ‘n’ roll così come al punk o all’indie rock, non si pensa al belpaese, ad eccezione di illustri rappresentati come C.S.I., Afterhours, Marlene Kuntz, Massimo Volume ecc.. Molti altri gruppi italiani invece si affidano solo all’inglese quasi come fosse una conditio sine qua non per fare del rock credibile.

Secondo la tua esperienza, scrivere in italiano è stato più complesso o al contrario è stata una liberazione? L: Per me tornare all’italiano ha significato tornare alle origini. Pertanto secondo me la conditio sine qua non adesso, per chi fa rock in Italia, è proprio farlo in italiano. Tant’è che nel disco che hai citato, Cerridwen, al quale ha lavorato anche Pierfrancesco, c’è una sperimentazione non rock ma elettronica, alla quale l’inglese effettivamente si prestava, e c’è molto della mia parte nordica. Con la scrittura di questo disco invece mi sono messa alla prova, non avendo assolutamente la certezza di esserne in grado, e invece sono state proprio le parole a venire da me. È stato bellissimo perché ho riscoperto delle sonorità che avevo dimenticato, ho “reimparato” a cantare questa lingua. Ho riscoperto un mondo. Giorgio Maria, qualche tempo fa hai affermato che non ascolti molta musica italiana. Hai all’attivo esperienze di musica straniera (Dog Byron, Poppy’s Portrait) che ti hanno portato più volte anche molto fuori dall’Italia (Spiritual Front). Ultimamente però sei coinvolto in progetti di musica italiana (Operaja Criminale, Bottega Glitzer). A suo tempo spiegasti cosa ti portò ad essere coinvolto in Operaja, oggi cosa ti appassiona del progetto Brönsøn? Giorgio Maria (G): Fin da subito, dalle prime prove, ho sentito un forte spirito di gruppo, unito a ciò che è uscito fuori musicalmente e che mi è piaciuto fin dall’inizio. È un progetto che musicalmente mi rispecchia moltissimo. C’è da dire poi che io non vivo di partiti presi, quindi ben vengano le occasioni in cui ci si riesce ad esprimere nella propria lingua madre; perciò credo che quando si riesce a fare del buon rock in italiano, allora vuol dire che hai trovato proprio la chiave di volta. Lara, quando si pensa a voci rock femminili, vengono in mente subito nomi stranieri: da Tori Amos a Pj Harvey, da Janis Joplin a Anna Calvi e St. Vincent. In Italia siamo in netta minoranza, visto che mi viene in mente solo Angela Baraldi, Ginevra di Marco, Nada e al massimo la Nannini, quindi siamo molto contenti del tuo ritorno. Sai che, digitando Lara Martelli su Youtube, alla dicitura “simili” si leggono: Joan As Policewoman e Cristina Donà. Ti fa piacere e

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confermi l’affinità? L: Assolutamente sì, mi fa molto piacere. Sono due donne che stimo e ammiro moltissimo, soprattutto Cristina Donà che ho avuto il piacere di incontrare ai miei inizi, quando io ancora facevo cover e lei già produceva i suoi album. La cosa che un po’ mi dispiace però è che purtroppo in questo Paese siamo un po’ portati a catalogare ed etichettare le persone e le loro carriere; quando si pensa a Lara Martelli si pensa solo ad una cosa: “underground”. Ecco, se per me a vent’anni era un vanto enorme, oggi talvolta è un peso e una limitazione, ora che di anni ne ho 37 e la mia carriera ha subito un certo tipo di evoluzione e di formazione musicale. Anche in questo disco, noi tutti abbiamo aperto una sorta di “grande canale cerebrale” attraverso il quale abbiamo attinto dai grandi, dai Black Sabbath, ai Queens Of The Stone Age, alla grande musica italiana degli anni sessanta e settanta, che rende alcuni nostri pezzi assolutamente “battistiani”. Tutto ciò per dire che continuare ad associarmi all’underground, soprattutto nella mia esperienza attuale con i Brönsøn, non ha moltissimo senso.

Music Italia, nella figura di Andrea Rapino, che ci ha dato e ci darà una mano per ciò che concerne la sponsorizzazione e il management. Di chi è stata l’idea di produrre il disco tramite il crowdfounding? E Il crowdfounding davvero seppellirà la discografia come alcuni dicono? Pierfrancesco (P): L’idea è stata mia e di Vieri, anche se ero io quello un po’ più informato sull’argomento. La discografia è già morta, se una volta per una casa discografica investire ventimila euro per un disco e cinquemila per un video era una cosa all’ordine del giorno, oggi non è assolutamente più così. Perciò sì, per forza di cose il crowdfounding sta avendo un certo successo, anche se come al solito anche in questo caso si mette sempre in mezzo qualcuno che non dovrebbe approfittare di determinate iniziative, come questa, sicuramente destinate ad altre categorie di artisti. Mi spiego: proprio recentemente leggevo di un attore americano famosissimo che per produrre un suo film ha utilizzato questo metodo, e ovviamente grazie alla

Sempre più spesso si dice che la musica sta bene ed è la discografia che è messa male. Il vostro disco è stato finanziato dai fan con una campagna di crowdfounding su Musicraiser, inoltre il video del vostro primo singolo estratto, Provincia, è attualmente in rotazione su Mtv. Nel vostro caso, che accezione assume la dicitura “gruppo indipendente”? Noi siamo indipendenti dalle idee degli altri e dai soldi degli altri. Oggi molto potere è detenuto dagli uffici stampa, o dalle etichette, indipendenti e non, ed è davvero molto difficile trovare persone di quei settori che accettino il tuo progetto senza mettere bocca su qualcuno o qualcosa. Noi abbiamo preso ogni singola decisione in maniera, per l’appunto, indipendente: nessuno all’infuori di noi ci ha detto quale sarebbe stato il primo singolo da far uscire, quanti minuti sarebbe durato, se il video doveva essere a colori o in bianco e nero. Nessuno ci ha detto come dovevamo intitolare i nostri brani. Abbiamo deciso tutto noi quattro in totale e splendida autonomia. Siamo fieri di essere su Mtv senza nessuna raccomandazione, semplicemente a qualcuno è piaciuto il nostro video e ha deciso di passarlo. L’unica collaborazione che abbiamo avuto è quella con Rbl JK | 30


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sua visibilità ha raccolto il milione di dollari in poco più di 48 ore. Ecco, questo non va bene, perché nel momento in cui un miliardario può permettersi di fare qualcosa, che sia un film o un album, magari potrebbe anche farlo di tasca sua, senza approfittare della propria notorietà per raggiungere degli obiettivi.

Qui nel baratro tutto bene è il primo figlio dei Brönsøn, ma ciascun genitore ha alle spalle un’esperienza quasi ventennale nel mondo della musica, tutti venite da una formazione musicale decisamente variegata e poliedrica. Quanto è stata prolifica questa contaminazione ai fini della definizione del sound del disco? G: È stata assolutamente fondamentale, e il fatto di non aver alcun punto di riferimento lo è stato ancora di più. Ci siamo trovati in sala e abbiamo cominciato a suonare, senza paletti, senza condizioni, molto liberamente. Io ho un chitarrismo molto disordinato, sonico. Pierfrancesco un bassismo più denso e solido, Vieri è un batterista fenomenale e la voce e i testi di

Lara sono meravigliosi, quindi da tutto ciò non poteva uscire altro se non una vera e propria bomba. L: Inoltre la nostra grande fortuna è quella di avere un enorme feeling tra di noi, musicalmente parlando, che poi non è altro che la trasposizione dell’amicizia vera che comunque ci lega nella vita. Quindi questo non fa che facilitare il nostro lavoro in sala prove, oltre a renderlo più piacevole e soddisfacente. Il disco ha raggiunto e addirittura superato l’obiettivo fissato su Musicraiser. Nonostante l’assenza fisica di un disco, nonostante la lontananza di Lara dalle luci del palcoscenico da diversi anni, vi è stata dimostrata fin da subito una gran fiducia da parte del pubblico, virtuale e non: tutte le vostre esibizioni fino ad ora si sono rivelate un successo. Sinceramente, ve l’aspettavate? V: Sì e no. Sì, nel senso che comunque come hai detto prima tu, ognuno di noi ha una carriera quasi ventennale alle spalle, quindi ci aspettavamo che il nostro pubblico più affezionato ci seguisse. No, nel senso che in realtà quello che ho appena detto non era poi così scontato, e di questo non possiamo che essere contenti e grati. Credo comunque che la nostra forza sia aver usato strumenti nuovi avendo però sulle spalle delle teste vecchie: i quasi vent’anni di esperienza musicale, che ognuno di noi quattro ha all’attivo, ci hanno lasciato un certo bagaglio culturale e una certa forma mentis che ora combiniamo con quello che sono le nuove tecnologie di marketing. P: Senza dubbio tra le nuove tecnologie di marketing c’è il social network, e credo che Facebook la faccia da padrone. Quindi oggi per una band è praticamente indispensabile avere il proprio profilo in cui poter diffondere la propria musica e tutto ciò che ad essa è relativo, ma è altresì vero che di band ce ne sono milioni, e lì sta il bello per un gruppo, quella è la vera scommessa: riuscire ad emergere dal mucchio, possibilmente facendo buona musica, e noi, modestamente, ci riteniamo davvero soddisfatti del lavoro che sta venendo fuori. Spesso la scena musicale indipendente è, per così dire, spietata. Mi spiego. Riuscire a fare musica con i mezzi di oggi ormai è abbastanza facile, il problema è venderla senza vendersi, per così dire. La voglia di emergere, soprattutto per le giovani leve, è tantissima, tutti ansimano per sgomitare ed ottenere il celebre quarto d’ora

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di gloria di cui parlava Warhol. Un tempo Mina duettava con Battisti, Paul McCartney con Stevie Wonder, ora non si vedono duetti particolarmente significativi. Se poteste scegliere, anche fra l’impossibile – ma possibilmente vivo- con chi vi piacerebbe cantare un vostro pezzo? Fatemi un nome straniero e uno italiano. L: Nick Cave e Verdena P: Massive Attack e Verdena G: Josh Homme e Nada V: Elbow e Giovanni Lindo Ferretti

Addirittura in alcuni casi persiste ancora una certa rivalità tra i locali in cui si suona, cosa davvero inconcepibile e ai limiti dell’assurdo negli anni duemila. Per quanto ci riguarda, seppur relegati in qualche giardino, possiamo però vantarci di una grande cosa: la libertà intellettuale e l’onestà con la quale svolgiamo il nostro mestiere di musicisti, e sicuramente non tutti possono dire lo stesso. O meglio, in realtà lo dicono, ma proprio perché siamo in questa “provincia”, sappiamo bene che non è così.

Carlo Conti vi vede su Mtv, si ipnotizza di fronte al video di Provincia e vi vuole sul palco con un pezzo per Sanremo: che gli rispondono i Brönsøn? L: Col cavolo! V:Dove devo firmare? P: e G: (risata difficilmente interpretabile, ndr). No, scherzi a parte, Sanremo è sempre stata ed è tuttora una grande opportunità, perché sputarci sopra a prescindere? Ovvio che di sicuro è un’arma a doppio taglio: in quei tre minuti ti giochi tutto, quindi può dirti bene e puoi fare un’esibizione grandiosa, come può dirti male ed essere vittima della troppa ansia e della troppa pressione. Certo è che Sanremo non è determinante per la carriera di un artista, come dimostrano casi celebri, ma se un domani capitasse perché no? Non bisogna fare gli snob per forza, per “fare figo”. Gli Afterhours nel loro ultimo disco affermano chiaramente che la Padania non è una regione ma uno stato d’animo. Voi nel vostro dite su Roma che questa non è una città, è una provincia. Così come per la Padania, anche la provincia è uno stato d’animo? La provincia è uno stato mentale, una gabbia mentale. E proprio il fatto che tutti e quattro viviamo in una città enorme come Roma e che la pensiamo comunque così, è molto indicativo. Roma è la più grande provincia del mondo: è una città fatta di tanti micro paesi, tante micro situazioni, di una miriade di giardini divisi da steccati altissimi, insormontabili, in cui non si fatica a sentirsi soli ed isolati. Ed è una situazione che inevitabilmente si riflette anche sulla scena musicale, perché Roma sotto quel punto di vista è più piccola di quanto si crede, quindi spesso assistiamo ad una finta solidarietà tra musicisti e un finto buonismo che alla lunga stancano. A volte sarebbe meglio un sincero sputo in faccia.

Ognuno di voi ha un differente bagaglio musicale e diverse influenze, ma non c’è dubbio che il vostro comun denominatore sia il rock ‘n’ roll. Quindi, a quando l’uscita, e soprattutto, che disco sarà Qui nel baratro tutto bene? E di che baratro raccontate? Tra l’altro fra gli ospiti presenti nel disco so che ci sono Andrea Ruggiero e Matteo Scannicchio degli Operaja Criminale. In un certo senso questo disco è un po’ la resa dei conti. È l’analisi delle sconfitte con cui ti ritrovi a fare i

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conti dopo i trent’anni, ma per fortuna non ci sono solo quelle, per questo si alternano pezzi violentemente rock insieme ad altri più “morbidi”. È un disco che parla di realtà concrete, parla di noi quattro, parla della gente, parla di cose semplici, senza alcuna pretesa. Si passa dalla rabbia violenta alla poesia dolce, ed in mezzo c’è davvero di tutto, tuttavia alla fine è uscito fuori comunque un disco omogeneo in cui non è avvenuta moltissima post produzione. Tranne in un brano di cosiddetta “denuncia sociale”, tutti gli altri raccontano fatti privati e personali, anche

meglio: noi fotografiamo la realtà che ci circonda, che non è una ma è molteplice, e ognuno può trovarci le risposte che vuole. Per quanto riguarda le collaborazioni, oltre ai nomi che hai citato, ospite nel disco sarà anche Folco Peroni. Avevamo pensato al coinvolgimento anche di altri nomi, ma sinceramente non c’è stata la risposta che ci aspettavamo, nel senso che alla base di una collaborazione deve esserci solo ed esclusivamente gioia pura e condivisa, finalizzata alla creazione di buona musica e a nient’altro, quindi abbiamo preferito avere pochi nomi nel disco ma assolutamente buoni. Per quanto riguarda l’uscita del disco, attualmente sono in stampa le copie per i raisers che lo hanno finanziato, mentre da novembre uscirà nei negozi. Nel frattempo stiamo lavorando ad un nuovo video, ma non possiamo anticipare nulla se non il fatto che sarà una vera bomba! [ ]

se poi in realtà nel baratro a cui fa riferimento il titolo attualmente in Italia ci stiamo tutti. Ed il problema è proprio che ci stiamo bene. Se ci stessimo un po’ peggio, forse faremmo qualcosa per cambiare la nostra condizione, ma, ahinoi, la storia ci insegna che la rivoluzione non c’appartiene e quindi spesso proviamo quasi piacere nel crogiolarci nei problemi. C’è da dire comunque che non ci arroghiamo certo la presunzione di dare risposte nelle nostre canzoni, o JK | 33


Editors, bologna 2014 | pic by Luca Carlino



ex-CSI e Angela Baraldi, | pic by Davide Visca

napoli

2014



[RECENSIONI A FUMETTI] MUSICOMIX

MUSICOMIX Recensioni a fumetti a cura di Gianpiero Chionna

in questo fumetto troverete:

Fennesz - Bècs (Editions Mego,2014)

Ninos du Brasil - Novos misterios (Hospital productions, 2014) The Antlers - Familiars (Trasgressive/Anti, 2014) Chicago Underground Duo - Locus (Northern spy records, 2014) Uochi Toki + Nadja - Cystema solari (Corpoc, 2014) JK | 38


[RECENSIONI A FUMETTI] MUSICOMIX

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[RECENSIONI A FUMETTI] MUSICOMIX

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[RECENSIONI A FUMETTI] MUSICOMIX

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[RECENSIONI A FUMETTI] MUSICOMIX

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[RECENSIONI A FUMETTI] MUSICOMIX

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[musica] indiepedia

indiepedia di Fabrizio Morando

Amphetamine Reptile Records 1986 -> 1996

Q

uando nel 1996 la Amphetamine Reptile, storica etichetta di un sound all’epoca rivoluzionario e di contro-tendenza, chiuse per motivi ancora adesso non chiari e di sicuro non attinenti a motivi economici, capii che la musica aveva terminato un ciclo. E nello stesso momento capii che la musica stessa non ne avrebbe iniziato uno simile né in quell’anno, né mai più. “Ho smesso di stare dietro ad AmRep come lavoro a tempo pieno nel 1998, perché era ovvio che l’intero mondo delle indie label stava per cambiare, e non per il meglio. Guardando a questi dieci anni, direi che è stata una buona scelta”. Chi parla è Tom Hazelmyer, leggendario fondatore ed unico tenutario dell’etichetta. Nelle sue parole nessun rimorso, nessun ripensamento, ma solo l’intenzione di abbandonare la scena un po’ prima che la stessa abbandonasse lui, per permettergli di essere ricordato per sempre come un game-changer. Tom colse in breve tempo l’opportunità di tirare dentro la sua macchina da guerra tutto ciò di meraviglioso ed emergente, aggressivo e depravato, fuori da ogni protocollo e al di là di ogni barriera del buon senso, fottuto e devastante rock&roll che ai tempi viaggiava sotto il moniker di noise-rock. Nel 1986 c’era un modo diverso di vivere la scena dell’indie rock: AmRep di fatto nasce nella Minneapolis ancora imbevuta del successo di Hüsker Dü e Replacements e cosi piena di potenzialità da far impallidire qualunque scena artistica nata dopo l’anno duemila. Eppure questa etica portava

in grembo idee tutt’altro che trascendentali: la normalità, l’informale, l’incomunicabilità sopra ogni altra; le copertine dei dischi, curate molto spesso di persona dallo stesso Hazelmyer, rappresentavano l’essenza del brutto, talmente incolte e dozzinali da diventare presto icona del noise-rock, nato proprio a rappresentanza di quella normalità più marcia e scarna del periodo. Nelle orecchie di un adolescente alienato, timido ed emarginato dentro un quartiere di periferia suonavano note da cuori forti, ma erogate da fior di performers come Pussy Galore, Butthole Surfers, Naked Raygun e Melvins. Mi sarei alienato volentieri anch’io con in cuffia un simile soundtrack, e realizzo come in quell’ecosistema possa essere nata l’Amphetamine Reptile. HALO OF FLIES Ascolto consigliato: Headburn, 1987 Tom Hazelmyer inaugura la sua etichetta con una delle operazioni più audaci e radicali di sempre: la musica di rottura degli Halo of Flies. Insieme a John Anglim e Tim Mac, Tom sviluppa un chitarrismo di matrice hendrixiana, portato all’estremo e contaminato con episodi in pieno stile ‘70s.Dello scomparso chitarrista di Seattle non si può certo dire abbia preso la tecnica, ma certamente la sua quintessenza. A ricucire queste lacerazioni noise ci pensa la sezione ritmica, con controtempi drum&bass di una lucidità impressionante visto il cataclisma nel quale sono costretti a trovare il loro spazio.

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[MUSICA] INDIEPedia

SURGERY Ascolto consigliato: Nationwide, 1990 I Surgery si formano a Syracuse (New York) nel 1987, incarnando sin dai primi lavori il loro spirito da puristi del rock’n’roll, in un momento dove il purismo era considerato quasi un tabù. I Surgery fanno uso di un boogie di matrice chiaramente sudista, e così facendo si sporcano mani e anima di rozza psichedelia texana e di un ealry-‘70s blues rock che fa il verso agli Stones e ai New York Dolls ma ammicca decisamente di più ai perversi baccanali funky dei primi ZZ Top. Da assaporare, almeno una volta nella vita. BOSS HOG Ascolto consigliato: Cold hands, 1990 Tipico del movimento “no-wave” di qualche anno prima, la musica dei Boss Hog sembra composta con lo stesso spirito con il quale una band di ubriaconi possa suonare tra pinte di birra e bicchieri di burbon dozzinale. Il risultato prende forma in garage-blues tracks di pochi minuti dove regna la sconclusionatezza ma trasuda un talento sopra le righe. La band nasce alla fine degli anni ‘80 per iniziativa di Cristina Martinez (voce) e Jon Spencer (chitarra e voce) dopo lo scioglimento dei Pussy Galore di cui entrambi facevano parte. Completano la line-up il bassista Jerry Teel degli Honeymoon Killers e il batterista Charlie Ondras che morì per una overdose di eroina nel ’92. Elettrizzanti.

(Chitarra) fonda la propria anima creativa sulle pazzie freak degli anni ’60, assorbendo a pieni polmoni il frastuono punk rock di MC5 e Stooges ma contaminandolo con riti grotteschi e frasi reazionarie di ordinaria alienazione. Tipico di quella provincia americana, riescono a creare una dirompente miscela noise-blues insudiciandola di volgarità maschiliste e reazionarie. Una delle esperienza musicali più assurde e segnanti fatte in vita mia. HAMMERHEAD Ascolto consigliato: Ethereal killer, 1993 Gli Hammerhead, power-trio per e c c e l l e n z a , rappresentano l’apice della dissonanza caotica che può arrivare a produrre una chitarra, della nevrosi compulsiva di una batteria, e dei boati distorti e sincopati di un basso elettrico. C’è chi dice che dopo essere stati sverginati dalla creatura di Paul Sanders (guitar vocals), Paul Erickson (bass) e Jeff Morridian (drums) non sia stato capace di ascoltare null’altro per mesi interi. Un’orgia sonora di ultra-hardrock suonato a testa bassa, condito da testi trucidi e narranti di omicidi e altre amenità prodotte da una psiche umana al limite dell’insano. Buon ascolto a tutti. [ ]

COWS Ascolto consigliato: Daddy has a tail, 1989 I Cows si formano a Minneapolis nel rigoglio prodotto dalla rivoluzione punk di Hüsker Dü e Replacements. A differenza di questi, il gruppo di Shannon Selberg (voce e fiati) e di Thor Eisenstrager JK | 45


[Musica] NOVECENTO

novecento di Gaia Caffio | Illustrazione di Viviana Boccardi

N

el 1974 Patti torna a New York, da un lungo e illuminante soggiorno parigino, per incidere insieme a Lenny Kaye un album tributo a Jimi Hendrix. Passa Poco tempo e la Arista Records la contatta per realizzare il suo primo lavoro: Horses. In un mondo povero di figure femminili come quello del rock degli anni 70, Patti Smith occupa un posto speciale. Figura di transizione sin dal suo debutto, è riuscita a fondere l’anima deviata ma priva di eccessi del rock newyorkese, memore dell’effetto Velvet Udergound (non a caso il suo primo album stata prodotto da John Cale) ed il rifiuto dell’utopia giovanile incarnato dalla nuova scena proto-punk (“Jesus died for somebody’s sins, but not mine”).

specchi da attraversare e crepe nelle nostre realtà comuni. Lei salta tra i significati delle parole come se attraversasse più dimensioni, deliberatamente vertiginosa: l’ascolto diventa un mare di possibilità. Apre Gloria, cover dei Them di Van Morrison. Una poesia inedita viene inserita nell’originale blues. La voce è bella e potente. Redondo beach mostra un testo malinconico (si narra il suicidio di una ragazza), su un ritmo reggae. I nove minuti di Birdland cambiano il registro, il testo viene improvvisato in studio sulla base di un racconto di Peter Reich. Free money è veloce boogie sul rapporto tra amore e denaro. Kimberly è una ballata tipicamente new wave con echi sparsi dei Velvet Underground.

1975, New York Horses - Arista Records 01 - Gloria 02 - Redondo Beach 03 - Birdland 04 - Free Money 05 - Kimberly 06 - Break It Up 07 - Land: Horses / Land Of A Thousand Dances / La Mer(De) 08 - Elegie - 2:41

Horses è abbagliante: poetico, sovversivo, allucinato e, soprattutto, ricco di parole scandite da una voce imperiosa e sovrastante le melodie. Nell’album le parole sono tutto, sempre udibili e ipnotiche. L’ardore poetico di Patti non retrocede mai e definisce una forma di arte visionaria dove suoni e parole non intrattengono ma raccontano in maniera sfacciata quello che in quel periodo di cambiamento nessuno prima di lei è stato in grado di narrare/ cantare. Nell’album i temi trattati sono molti, ben oltre la maggior parte dei dischi rock, ma provare a definire un filo conduttore nell’intera opera limiterebbe la suggestione dei singoli pezzi. Come i grandi poeti Patti offre visioni che abbracciano una molteplicità di significati, tutti capaci di toccare una corda emotiva. Le sue poesie illuminano mondi paralleli,

Elegie è un omaggio a Hendrix, suo idolo. Patti Smith appare da subito una personalità completa, una di quelle per le quali il confine fra vita e arte è molto labile, anche se con tutte sue eccentricità non oltrepassa mai la comprensione. La sua musica non è progressive sintetizzato. Le sue visioni sono concrete senza perdere il loro impatto immediato perché racconta le esperienze della vita quotidiana e anche perché, forse senza accorgersene, ha un’anima realmente punk. [ ]

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[Musica] NOVECENTO

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[Musica] WEBZINERS

stordisco.blogspot.it

Let’s spend the night togeter di Angela Giorgi

N

on sarò la ragazza che si pagherà una stanza d’albergo pur di passare una notte con uno dei tanti bambini invecchiati che gioca a fendere la via Emilia come se fosse la Route 66, ignaro del fatto che il 1972 è lontano; né con maggiore destrezza saprò lavorarmi gestori di locali, staff, tecnici persino uscieri pur di accedere al backstage, come narrano fieramente le esponenti delle quote rosa del music business negli aneddoti di un passato non troppo remoto. Quelle fanciulle allora stupefacenti come tramonti autunnali, a cui ora il tempo impietoso non ha concesso nemmeno l’eleganza garbata di mia nonna, sbandieravano la loro spregiudicata corsa alle prede più ambite senza comprendere di non essere altro che l’ultimo orpello della pantomima triste del machismo musicale, più trascurabili e superflue di una recensione su un periodico di provincia. Nella loro frenesia di cacciatrici braccate, non avevano coscienza dell’eredità pietosa che avrebbero lasciato alle loro figlie e nipoti: l’esercito di anonime comparse che affollano il backstage o le nuove frontiere del groupism, fotografe, blogger, promoter degli anni zero che abbandonano il campo appena conquistato il proprio obiettivo, un’avanguardia a oscurare le poche Don Chisciotte che si ostinano a peregrinare per concerti sul ronzino della loro solitudine esistenziale. Quello che mi ha reso una donna con cui un musicista sceglie di parlare, piuttosto che lasciare che la mia bocca faccia altro, è l’inedita dedizione che si intravede dai miei occhi, fiammeggianti di appassionato bagliore non per l’uomo ma per lo strumento che tortura percuote accarezza. Diligentemente dedita a stilare domande per le interviste o spinta da curiosità infantile a conversazioni che prolungano l’universo sonoro dal palco ai divani del backstage, quella notte in cui,

unica donna, mi ritrovai a parlare di Henry Rollins che picchia un fan e della reunion degli Slint con band, roadies, la crew tutta insomma, fu solo l’inizio. Ma non c’è nessuna appartenenza di genere da rivendicare: le parole che vergo indossano rossetto più come un travestito della Bowery che come una signorina perbene. Rosso scarlatto provato dall’amoreggiare con il bicchiere. Senza dimenticare la lezione impartita con noncuranza tossica e fascinoso aplomb da Nick Cave, quando nei camerini del Lollapalooza consigliò alle sgomente L7 di pettinarsi e indossare abiti più femminili, perché non è la sciatteria a sancire la credibilità. Inizi a fiutare il problema però, messa davanti al paradosso tutt’altro che filosofico: suoni in una band perché sei una ragazza e le tue gambe attirano subito l’attenzione in foto, ma sei una ragazza quindi non puoi suonare in una band perché il rock ‘n’ roll è un affare serio che con virile nerbo deve essere condotto, come una bestia selvatica che solo un gaucho può domare. Suonare il basso è concesso, lo insegna la veneranda Kim Gordon, ma la chitarra ha curve di donna e in quanto tale merita di essere penetrata preferibilmente con una certa violenza. Per pudore e riserbo ho perciò lasciato questo accoppiamento, evidentemente saffico secondo i più, all’isolamento della mia stanza. [ ]

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[Musica] WEBZINERS

breakfastjumpers.blogspot.it

How Do You Did? #2 di Davide Rolleri

I

n questo secondo appuntamento con la rubrica How Do You DIY? Ci spostiamo a Pisa, città d’adozione di Fabrizo Musu (http:// fabriziomusu.tumblr. com/): music junkie e fotografo appassionato. In quasi tutti i suoi scatti, rigorosamente su pellicola, Fabrizio ritrae la città attraverso minuti particolari che la rendono quasi irriconoscibile e da un anno a questa parte li raccoglie in una fanzine autoprodotta intitolata A Forest. Ci facciamo spiegare da lui stesso come nasce questo progetto e da cosa trae ispirazione. A Forest è un progetto che prende spunto da Infanzia Berlinese del filosofo tedesco Walter Benjamin e da Le città invisibili di Italo Calvino. In Infanzia Berlinese Benjamin paragona il vagabondare per la città senza una precisa meta allo smarrirsi completamente all’interno di una foresta, gli unici riferimenti diventano dei dettagli da tenere impressi in mente siano essi un bar, un vicolo o un tetto. Per questo motivo le foto di A Forest sono state scattate tutte in un’unica città mentale, della quale non deve interessare il nome ma unicamente quelli che sono i frammenti nella memoria di chi si è smarrito in essa. Si può dire che le foto hanno un mood in comune, che la desolazione è protagonista di queste raccolte? Disagio e desolazione ci sono ma diciamo che non sono il punto di partenza. Ci sono perché mi col-

piscono, ma non voglio con i miei scatti dire: “Guardate la città in che stato è ridotta”. Il fatto è che il degrado mi aggrada e mi son reso conto che le foto che magari faccio in campagna o al mare producono comunque le stesse sensazioni. Prediligo spazi vuoti e una presenza umana ridotta al limite forse semplicemente perché per fotografare cerco posti tranquilli con nessuno intorno. Nelle ultime due raccolte hai voluto abbinare musica ai tuoi scatti. Come si sceglie la colonna sonora di una foto? Mi piaceva l’idea che qualcuno sonorizzasse le mie foto, ho chiesto a Enrico Ruggeri (http://mhfs. bandcamp.com/) e Lomìno (http://lomino.bandcamp. com/) perché conosco bene quello che fanno e mi piaceva anche l’idea di coinvolgere qualcun altro nel progetto. Ho mandato loro una prima bozza della fanzine e gli ho chiesto di provare a comporre un accompagnamento alle foto, ho lasciato praticamente carta bianca, l’unico limite era la durata della composizione. Nel terzo volume ho curato meglio anche l’aspetto estetico, Francesco Scarponi ha acquerellato a mano ogni singolo cd con diverse illustrazioni ispirate alle foto, ogni pezzo è quindi unico. [ ]

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Oltre il festival di Nicholas David Altea

www.paperstreet.it

A

ffrontare l’esperienza del Primavera Sound Festival, a Barcellona, è sicuramente emozionante, ma al tempo stesso estenuante o, perlomeno, se la si cerca di vivere in tutte le sue sfaccettature, assume sicuramente i risvolti più simili ad una maratona a tappe, sparse per la città catalana. Perché un evento come questo, non rimane circoscritto ad una sola venue. Sì, il Parc del Forum, resta il fulcro portante di tutta questa enorme “giostra”, ma la “ciutat” viene letteralmente abbracciata e circuita dalle lunghe braccia dell’organizzazione, che si insedia in pianta stabile coinvolgendo tutta la popolazione. Così, già dai mesi antecedenti l’evento principale, crescono gli eventi minori, che con l’avvicinarsi della fatidica data, diventano dei live per nulla secondari, ma complementari al resto del festival. Alcuni di questi sono ad ingresso gratuito, altri, esclusivi per chi ha acquistato l’abbonamento. Può succedere di doversi trovare una sera, a scegliere tra Shellac e The Ex da una parte, e i Brian Jonestown Massacre dall’altra. Decisioni difficili, anzi difficilissime. In più, non essendo già abbastanza ardua la scelta, ci si mette anche la variabile sold-out, per nulla trascurabile, sempre in agguato e pronta colpire se si ritarda all’appuntamento. Oppure ci ritrova al concerto di Cloud Nothings, Ty Segall e Chromeo, a calare gli ultimi assi, quando ormai la tre giorni più intensa è già esaurita. Concerti serali pre-festival e post-festival, certo, ma anche quelli negli orari diurni, possono essere di una certa rilevanza: può capitare infatti, di dover sfrecciare alle quattro del pomeriggio verso la Sala Apolo per poter vedere i Volcano Choir dell’amato Justin Vernon aka Bon Iver. Questo, come le altre centinaia di eventi fuori dal Parc, permettono allo spettatore di non rinchiudersi in gabbia, di riuscire a vivere, anche se velocemente, la città. Acquisire maggiori punti di

vista di una manifestazione che ormai i confini non li ha nemmeno più. E la delocalizzazione di molti live, in questi casi, è fondamentale, per dare respiro a noi spettatori e fiato (economico) a chi non è dentro, creando una ricaduta virtuosa ancor più forte su tutte le attività commerciali. E in Italia? Siamo ancora fermi al palco singolo, come ai tempi dell’Heineken Jammin’ Festival? Grazie al cielo no. L’HJF tentò il doppio palco nell’edizione sfortunatissima del 2007 a Mestre – quella della tromba d’aria per intenderci – e poi non venne più riproposta. Altri, hanno avuto la capacità di espandersi su più fronti, proponendo un’offerta migliore e più ampia, indirizzando il pubblico in un’ottica di festival musicale europeo, che un po’ ci mancava. Italiani, appunto, come ad esempio l’Ypsigrock, il Vasto Siren Fest e il Radar, non hanno


[Musica] WEBZINERS

perso tempo e ci hanno provato: hanno capito come strutturare e dislocare più palcoscenici all’interno della stessa cittadina. Ad esempio, il Radar Festival di Padova, ha suddiviso i live al Parco delle Mura e al MAME. Stessa cosa – ma su un numero maggiore di location – è avvenuta per il neonato festival di Vasto che, addirittura, ha proposto i propri live in Piazza del Popolo, all’Arena delle Grazie, al Giardino e al Cortile d’Avalos, e per concludere, anche nella Chiesa di San Giuseppe, con il live mozzafiato di Anna Von Hausswolff. Musica e architettura si incontrano e ne escono rinvigorite. Non è diverso l’effetto positivo che l’Ypsi&Love stage, nel Chiostro della Chiesa San Francesco, ha trasmesso all’intero Ypsigrock Festival di Castelbuono. Questo palco, aggiunto solo negli ultimi due anni, ha acquisito man mano una certa importanza, forte anche della meravigliosa cornice che rende qualsiasi live un’esperienza indimenticabile. Quest’anno, il valore aggiunto è stato dato dalle band, ancor più che negli altri anni. Uzeda e Sun Kil Moon su tutti, hanno donato lustro, ad un appuntamento del tardo pomeriggio che ormai è diventato punto di riferimento della programmazione e che funziona un po’ come antipasto del live di Piazza Castello. Una vera e propria scommessa vinta dall’organizzazione. Questo discorso funziona, naturalmente, se c’è un lavoro di comunicazione atto a valorizzare tutte le virtù del luogo in questione. Solo così il fruitore potrà essere convinto.

L’Italia sta crescendo come offerta musicale e forse non ce ne accorgiamo nemmeno, ma i festival citati prima, come molti altri, stanno mettendo in pratica tutto il buono delle esperienze europee (e non solo) acquisite sino ad ora. Stanno provando a dare, oltre a programmazioni di livello qualitativo eccelso, anche nuovi spunti e ambientazioni mai pensate prima, che portino il cliente – perché poi in fin dei conti lo spettatore è anche quello – a vivere la musica dal vivo in maniera diversa. Molto probabilmente non arriveremo mai ad avere quello che c’è oggi a Barcellona, sia per grandezza, che per offerta, ma le basi per far bene, ci sono. Proviamoci. [ ]

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[ILLUSTRAZIONI] PUNTO FOCALE

punto focale

testo e illustrazione di Giulia Blasi

Luce Astratta Sembra lo spettro della luce Nella semi-oscurità, come soli di galassie Che si guardano dentro gocce d’acqua Immagino le forme--All’ombra di salici addormentati Struggenti, si muove in ordine sfilando Una geometrica coreografia Simmetria di centinaia di sfere bianche Dalla più piccola forma alla più grande, dal grande Al piccolo, all’infinitesimale Alla tessitura invisibile, al sotterraneo Ai disegni interni come analogie cosmiche E nella luce Nella sua capacità di frammentazione Velocità dinamica spaziale Queste forme cambiano, a contorni sempre più molli Si rilasciano e si contraggono assecondando Differenti direzioni, movimento Di curve concave e convesse Alternanza dei due poli.

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[ILLUSTRAZIONI] punto focale

Immagini dal cortometraggio micro cosmos’ experiment, 2014

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[ILLUSTRAZIONI] la dimensione eroica del microbo

la dimensione eroica del microbo testo e illustrazione di Maura Esposito

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[ILLUSTRAZIONI] la dimensione eroica del microbo

Difendere l’idea che sei diverso Noi camminiamo distanti Due linee parallele che spezzano il presente E il sipario aperto Sui giorni eterni degli ultimi, Dispiegati sotto L’impietosa luce d’estate -È difficile sopravvivere a noi stessi Niente mistero Né bellezza Solo il suo cuore vuoto al completo, E gli chiesi persino

di mostrarmene un poco

Un volo goffo, Una madonna nera, In guerra per due ali Domattina il mio cuore altro non sarà Che una fabbrica Di vento [ ] JK | 55


[IMMAGINARIO] SOMMACCO

sOMMACCO

è Luca Palladino, Giorgio Calabresi, Francesca Gatti Rodorigo Sommacco è immaginario adamantino. Sommacco è la necessità di buttare fuori le storie che popolano dentro noi. Sommacco è la necessità di mettere le mani in pasta per raffreddare i pensieri, perchè se no poi scoppiano. La nostra casa è il Mediterraneo.

Donatella di Luca Palladini

E

zio mi ha proposto di recensire una canzone di Lady Gaga che si chiama Donatella, canzone dedicata alla stilista Donatella Versace e presente nell’ultimo album della showgirl intitolato Artpop. Io ho accettato. Ho accettato perché ascoltando la canzone, non vedevo l’ora che arrivasse il momento in cui Lady Gaga urlasse Do-na-tel-la. Lì, in quel maremoto di scombussolamenti, i miei organi dondolavano nel parco giochi delle altalene, stavo benone. A mio avviso, in quel Do-na-tel-la, pronunciato come se fosse l’ultima cosa da fare prima di lasciare l’effimero mondo dei vivi, vi è una esplosione di sensata sicurezza, di libertà, di… “commise l’errore di mettersi il rossetto per andare al ballo”. In quel Do-na-tel-la tutte le più brutte della scuola vengono riscattate per sempre; poiché tutti sanno che Lady Gaga, a differenza di Laura Palmer, era la più brutta della scuola, quella senza arte né parte, quella discriminata e segregata all’ultimo banco. In quel Do-na-tel-la il carnevale riacquista tutto il suo senso, cioè quello di urlare al mondo, dietro una maschera, la propria versione inusitata ad libitum, la propria contrarietà alla legge, la propria irrequieta auJK | 56


[IMMAGINARIO] SOMMACCO

tarchia, la propria decente primordialità, alla facciazza dei potenti e dei loro caporioni e baciapile. Il carnevale con Lady Gaga ritorna a rivendicare non solo la libertà di scucire i discorsi, ma anche la libertà di stare al mondo senza seguire i canoni, senza patemi di appartenenza, senza l’assillo di comunicarsi. In questa società alternativa creata ad hoc, ci è il diritto di essere brutta come il peccato senza che nessuno per questo vada in collera o, ancor peggio, si offenda. Con questa canzone Lady Gaga, supplica al mondo intero il permesso per lei e Donatella Versacci di togliersi la maschera e poi rimettersela, di essere brutte e di essere altre. Perdio, di essere brutte e di essere altre! Lady Gaga è l’archetipo dei manichini e delle maschere; è il paradigma della pantomima, del trucco in eccesso, del tacco 12, della blusa leopardata e del belpaese; La signorina Germanotta è un portento e l’unico carnevale possibile. [ ]

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[IMMAGINARIO] TROPPO TARDI PER GLI ONESTI

troppo tardi per gli onesti di Daniele Aureli e Francesco Capocci | 2ue

Blu mare – Blues notte

Da una tromba impolverata Dedicato ad un uomo dalla barba lunga che mai conosceremo Musica consigliata: Joy Division – Atmosphere Bevanda abbinata: Ad libitum

D

o. Re bemolle. Do. Mi. È un quattro quarti. Lui è lì, seduto. Occhiali da vista. Orologio al polso destro. Un orologio d’oro. Oro finto. Sembrava proprio oro da una media distanza. Sguardo lontano, capelli non troppo lunghi. Non troppi capelli, pettinati all’indietro: al contrario. Con un suo stile, con un suo modo di essere. Camicia chiara poco abbottonata e un paio di pantaloni lunghi, neri, quasi eleganti. Non ha scarpe. Resta scalzo e immerge i piedi nella sabbia, a pochi passi dalla riva del mare. Notte. In mano tiene qualcosa di poeticamente sublime. Una tromba Martin Committee. La tiene posata sulle sue gambe, come se fosse qualcosa di unico, prezioso, vitale. Ogni notte viene in riva al mare. In riva al mare ad ascoltare. Ad ascoltare e vedere. A vedere e ascoltare… Ogni notte. La luna a poco a poco si colora, lentamente si riempie. Tre quarti di cielo, moderato lento. Lui rimane lì, immobile, in cerca di qualcosa. Vorrebbe ancora… Non trova più… Dove saranno… I suoi sogni. Ogni notte s’inchina davanti al mare, e suona. Il mare è uno spettatore infinito e rispettoso. Una musica da ascoltare a occhi chiusi, accompagnata dalle onde. Le onde creano il tempo e lui crea le note. È un duo: lui e il mare. È un duo con mani salate, suona la sua solitaria follia, arpeggi di ricordi malinconici. Eppure sorride, il suo volto sorride. È felice nei suoi pensieri. E poi… Silenzio. Lui smette di suonare, il mare no. Non può, non

vuole. Il mare lo asseconda. Il mare lo accompagna. Sottrae la valenza del tempo, addiziona il silenzio, moltiplica le stelle, divide gli amori. Il mare può. Lui no. Lui è lì, seduto. Poi non più. Inizia a disegnare qualcosa sulla sabbia. Usa la sua mano, le sue dita. Indice, medio e anulare, come se suonasse. Sembra un disegno confuso. Poi non più. Disegna la sua tromba in modo perfetto e poi, senza staccare il dito, cambia la direzione tre volte e la racchiude in un rettangolo. È la sua custodia. La sua custodia di sabbia. Prende il suo strumento e lo pone con cura su quel fazzoletto di terra di mare. Poi lo ricopre con milioni e milioni di granelli che sembrano infiniti. Lo ricopre e chiude così la sua custodia. Niente più musica, almeno per questa notte. Poi domani, chissà. Si alza in piedi. Si toglie orologio, vestiti e paure. Lentamente va verso il mare, percorre la sua strada, lascia le sue orme. Un passo e ancora uno, e ancora uno, e ancora uno. Poi non più. È lontano. L’acqua gli arriva fino alla vita. L’acqua bagna la sua vita. Chiude gli occhi e si lascia andare. Giù. La luna delimita il sopra, lui rafforza il sotto. In mezzo, il coperchio del mare. Immerso e avvolto dalla notte, nuota e non si chiede fino a quanto, fino a quando, fino a dove. Nuota e non si chiede. Poi qualcosa… In lontananza la musica sembra risvegliarsi. Il silenzio s’interrompe. Qualcuno ha aperto la custodia. Qualcuno ha in mano la Martin Committee. Forse le mani di una donna, forse lo sguardo di un

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[IMMAGINARIO] TROPPO TARDI PER GLI ONESTI

ragazzo, forse l’inganno di un bambino, forse qualcuno che non c’è più. Lui è ormai lontano… è dentro l’anima del mare e non vuole altro. Delinea una nuova strada, una nuova via. Svanisce lentamente, ricoperto dall’acqua e dalla notte.

Le orme sfumano, in dissolvenza. Lui non si volta indietro, non si fa più domande. Ascolta la musica e non vuole più sapere cosa succede. Cosa succede al di là. Al di là del mare. [ ]

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[STORIE] SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO

sbevacchiando pessimo vino di Paolo Battista | Illustrazione di Viviana Boccardi

La cosa si fece seria

A

lessandro era uno di quei gay che a vederli non sembrano gay. Era il mio primo anno d’università. Non ero mai stato a Roma prima di quel momento, e avevo bisogno di un posto dove vivere. L’annuncio era come tutti gli altri annunci degli altri affittacamere, e dopo aver visitato in sole quattr’ore altri diciotto appartamenti decisi che in un modo o nell’altro il prossimo sarebbe stato quello giusto. Chiamai e dissi che volevo vedere la casa. Scrissi l’indirizzo e presi la Metro fino a Giulio Agricola. Era una zona molto trafficata della Tuscolana, ma l’appartamento si trovava all’interno, all’ ultimo piano di una palazzina grigia e malandata. C’erano però un poetico viale alberato che in estate avrebbe fatto tanta ombra, un ottimo ristorante cinese che faceva sempre comodo e il tabacchi a due passi per comprare cartine e sigarette. Alessandro aveva venitisei anni e lavorava come programmatore in una piccola azienda ben avviata situata alla fine del viale; era a Roma da tre anni ed era fuggito dalla Sicilia dopo uno scandalo con uomo sposato che alla fine aveva ceduto e raccontato tutto. Ale era stato costretto a scappare; si era infilato nella sua Fiat Uno blu, con qualche vestito e qualche soldo che aveva messo da parte, ed aveva raggiunto un suo amico nella capitale. Dopo pochi mesi aveva trovato lavoro ( era un mago coi computer ), e aveva smesso di farsi le pere. Prendeva il metadone e non usciva troppo spesso. Si abbuffava di panini del Mac Donald e aveva preso l’abitudine di fare sesso per chat, ma questa è una cosa che avrei scoperto dopo. Trovai il portone senza difficoltà, presi l’ascensore e lui era sulla porta; capelli neri ma spettinati, occhi celesti e occhiali da hipster, faccia e pancia gonfia, camicia bianca, jeans e sorriso forzato. Erano le tre

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[STORIE] SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO

del pomeriggio. Gli dissi che ero in giro dalle otto di mattina del giorno prima e lui si offrì di prepararmi qualcosa da mangiare. Certo era strano e forse avrei dovuto capirlo, i segnali c’erano già tutti, ma ero troppo stanco per fare attenzione anche ai dettagli, e l‘unica cosa che volevo era un letto su cui poggiare le chiappe, magari farmi una doccia e perché no mangiare qualcosa; poi, a proposito di stranezze, nessuno si offriva di prepararti da mangiare se non c’è qualcosa sotto, e nella camera doppia, quella che avremmo dovuto condividere, appesa al muro c’era una cartina topografica con una serie di cuori rossi disegnati e un calendario di Johnny Deep in bella

vista; avrei scoperto in seguito che usava Johnny per masturbarsi e i cuori per segnare tutte le persone che si era scopato. Il resto della casa, e cioè cucinino, cesso con doccia e piccolo balconcino dove in seguito coltivammo marijuana, erano puliti, come se una donna ci avesse passato le mani, e pieni di oggetti coordinati. Ricordo che pensai: cazzo non può essere! Era tutto troppo pulito, ma poi mi dissi: deve averlo fatto per affittare, e mi convinsi che sicuramente poteva andare. Non avevo voglia di tornare in casa della mia donna, erano due settimane che bighellonavo e scopavo, scopavo e mangiavo, ma lei e le sue coinquiline iniziavano a dare di matto, ed anch’io che

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[STORIE] SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO

ormai avevo bisogno di un letto tutto mio; certo i soldi erano pochi, e più di una doppia non potevo permettermi; quindi dissi ad Ale che per me andava bene e gli chiesi se potevo restare. Lui tirò fuori un foglio pieno di nomi, lo stropicciò davanti ai miei occhi e mi strinse la mano: “ siamo d’accordo! “ Qualcosa lo aveva convinto; forse, pensai, il fatto che non avevo capito ancora un cazzo. Sapevo solo che stanco e sfatto com’ero, probabilmente, avrei lo stesso deciso di restare. Non mi andava di girare un altro giorno per la città in cerca di chimere; erano tutti sconosciuti per me, e una persona valeva l’altra. Mi apprestavo a fare le mie prime esperienze di convivenza, avevo ventanni, studiavo Lettere e volevo scrivere canzoni. Qualsiasi posto andava bene! Tutto cominciò una notte di marzo. Me lo ricordo perché avevo appena piantato un po’ di semi sul balcone, la luna era crescente ed io avevo preso sonno da poco dopo essermi fatto una sega nel cesso. Sentii qualcuno ansimare, sentii gemere, respirare forte, poi sentii il letto cigolare, non capivo se stavo sognando oppure ero sveglio, poi sentii come un urlo trattenuto ma percettibile, e in quel momento aprii gli occhi. La luce era spenta, guardai in alto e il soffitto era sempre al suo posto: lo intravedevo da quel poco di luce lunare che entrava dalla persiana abbassata; poi girai la testa e guardai il piccolo televisore spento, era anche lui al suo posto; poi guardai verso il letto di Alessandro. Non era solo; schiacciato a pecora con la testa nel cuscino c’era un altro uomo, piccolo e muscoloso, le chiappe rosee al vento, e Alessandro gli stava dietro, e gli spingeva nel culo il suo grosso cazzo ansimando come un toro forte e arrapato. Lo vedevo in un’altra luce, la sua vera essenza; per la prima volta, vedevo la sua vera natura, e la cosa mi eccitava di brutto! Feci finta di niente e mi rimisi a dormire. La mattina dopo mi ritrovai l’albanese in casa, Ale era andato a lavoro e io non potevo farci niente. Scoparono come conigli per una settimana intera; settimana che chiaramente non chiusi occhio. Poi così com’era comparso l’albanese svanì, e per qualche settimana non si fece più vedere. Al suo posto comparve Ricky, un collega di lavoro, un romano dai capelli rasati e il naso a patata, col culo di una donna e la pelle liscia. Ricky però era uno di quelli che non voleva far capire agli altri chi era veramente, neanche a me, che ormai iniziavo

Mi dicevo: anche due cani che scopano possono eccitarti, ma di certo poi non vuoi fotterti Rex! ”

a comprendere e accettare le abitudini di Ale. Ogni volta che dovevano scopare Ale mi chiedeva di farmi un giro e mangiare qualcosa: mi metteva in mano dei soldi e sorrideva compiaciuto. Non succedeva mai di notte con Ricky, ma solo nella mezzora della pausa pranzo; l’unica che avevano a disposizione, e dato che Ale abitava a pochi passi, e non potevano farlo in uffico, uscivano con la scusa di mangiare ma ci davano dentro come matti. Anch’io presi l’abitudine di portare le mie conquiste a casa. In fondo era quello l’unico posto che avevo, e a seconda della donna capivo se potevo farla restare anche di notte oppure dovevo accompagnarla a casa, e magari restare da lei. Non sempre era possibile chiaramente, ma devo dire che fare sesso sapendo che un’altra persona sta lì a fingere di dormire e ad eccitarsi era una cosa che dava un certo tocco stravagante alle mie relazioni, e questo mi piaceva! Divenne quasi un gioco; io portavo le mie donne e lui i suoi uomini e in qualche modo riuscivamo sempre ad incastrare gli orari. Non se ne parlava mai di quello che succedeva la notte, non ce n’era bisogno. Fino a quel momento non era mai neanche successo che uno dei due decidesse di fare qualche mossa avventata come per esempio intrufolasi nel letto dell’altro; poi una notte mentre una raver di nome Raffaella mi stava succhiando anche il midollo, Ale comparve alle sue spalle, ritto come un palo, con le mani a massaggiarsi il cazzo, con la pancia cadente e la pelle bianchissima ( cosa strana per un siciliano ma vera ). All’inizio Raffaella cercò di divincolarsi, ma poi vedendomi tranquillo, decise di lasciarsi andare e farsi inculare da Ale che ancora una volta mi stupì. Quella però fu l’unica volta che scopammo in tre. Il triangolo non era una delle mie canzoni preferite. Dopo quella sera decisi che non potevo lasciar decidere a lui, e soprattutto che non potevo rischiare di trovarmi un bastone su per il culo. Ero aperto a nuove esperienze, certo, ma mi piacevano le donne. Mi dicevo: anche due cani che scopano possono

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[STORIE] SBEVACCHIANDO PESSIMO VINO

eccitarti, ma di certo poi non vuoi fotterti Rex! Mi convinsi così che c’era qualcosa che non andava, ed infatti qualcosa c’era! Ale iniziò a cambiare. Gli mancavano queste situazioni un po’ ambigue, glielo leggevo in faccia, e faceva di tutto per far coincidere le cose. Poi una notte diede di matto col suo albanese; tornai a casa e la stanza era un cumulo di oggetti sparpagliati e frantumati; anche i miei oggetti! L’albanese, nella sua lingua, mi accusava di qualcosa che non capivo! Gli dicevo: ma che cazzo ti prende! Cosa cazzo vuoi! E lui giù a sbrodolare parole che non afferravo e a lanciarmi cocci di posacenere addosso! Venimmo quasi alle mani, lui cercò di colpirmi sfiorandomi le tempie con un pugno ed io risposi con un diretto sul naso che lo fece indietreggiare sanguinante. La cosa lo calmò! E solo quando fu calmo Ale mi spiegò tutto: per levarselo di torno gli aveva detto che io ero il suo ragazzo, e questa rivelazione lo aveva fatto ingelosire talmente da procurargli la reazione a cui avevo assistito! Dissi ad Ale che poteva scordarselo e che gli avrei detto la verità. Lui strinse tra le mani un cazzo di peluche con la testa mozzata e urlò: ma io ti amo, ti amo davvero! Sul momento ebbi voglia di scappare; poi dissi: cazzo dici? Dissi: sei matto! Dissi: io non sono come te, e cercai di farlo rinsavire. Intanto nell’altra stanza l’albanese aveva preso una delle mie piante di maria e l’aveva lanciata di sotto, dall’ottavo piano, centrando in pieno un’Alfa 156. La cosa iniziava a farsi seria! Decisi di lasciare Ale ai suoi casini, gli dissi che non volevo saperne, gli dissi che doveva risolvere la cosa prima di sera e infine urlai: brutte checche del cazzo lasciatemi in pace! Non volevo offendere nessuno, ero solo arrabbiato, e uscii di casa per tornare tre giorni dopo più distaccato e paziente. Dopo quella storia nessuno dei due disse più una parola. Niente era mai successo, ma capivo che qualcosa non andava e Ale stava dimagrendo a vista d’occhio. A quei tempi anch’io mi drogavo di brutto; soprattutto ketamina e marijuana, ma di eroina sapevo solo quello che sentivo dai racconti degli amici o dalla tivvù. Ale era stato tossico tutto la vita; aveva iniziato a quindici anni, dopo la morte dei suoi in un incidente automobilsitico. Era rimasto col fratello, di dieci anni più grande, responsabile di una fabbrichetta di carta, e una vecchia zia, grassa e tarata, fissata con la religione e le buone maniere. Ogni volta che Ale

sbagliava qualcosa veniva bacchettato sulle mani o sul culo; era cresciuto così, col fratello più grande che lavorava tutto il giorno e la zia cicciona che lo picchiava per qualsiasi cazzata. Scoprì di essere veramente gay nello stesso periodo; fu beccato nel bagno della scuola con un suo amico; il bidello disse che avevano entrambi i pantaloni abbassati ma non si pronunciò proprio su tutto: Alessandro succhiava il cazzo dell’amico con gusto e il bidello ne voleva una parte. Alla fine non gli fecero niente; una sgridata e una bacchettata sulle mani, ma Alessandro aveva trovato un altro amante, più grande e con un lavoro! La storia continuò per un altro paio di anni; poi la scuola finì e i due smisero di vedersi. Dopo la scuola Ale s’innamorò di un ragazzo della sua età che viveva per strada a Palermo; fu lui che gli fece il primo buco. Restarano insieme qualche mese, durante i quali Ale fece anche sesso per soldi. Sì, proprio come in un cazzo di film di merda! Fu così che incontrò il suo uomo sposato. Lui gli aveva affittato un piccolo monolocale e gli aveva comprato la Fiat Uno blu con cui poi sarebbe scappato. Voleva salvarlo, ma Ale non ne voleva sapere di essere salvato. Vissi con Alessandro per altri sei mesi, nei quali nessuno dei due fece più sesso con qualcuno, soprattutto quando in casa c’era anche l’altro. Lui aveva ricominciato a farsi ed io avevo bisogno di vivere per conto mio. Poi una mattina, mentre Alessandro era a lavoro, decisi di svanire nel caos della metropoli, a cercare un’altra sistemazione e altre esperienze da vivere. Lasciai sul tavolo dei soldi per l’affitto, raccolsi la mia roba e mi sistemai in via Tiburtina. Non c’è niente di meglio del cambiamento quando le cose si fanno pesanti! Ma questa è un’altra storia, e adesso non c’è spazio per raccontarvela. [ ]

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[STORIE] SUONATORE D'AUTOBUS

suonatore d'autobus di Carlo Martinelli

Capitolo 4

Non-pineta di pinetamare

L

’altro diceva sempre un sacco di stronzate. la storia dell’uomo senz’occhi però era vera, più o meno.

a metà strada dalla foresta bucata, venendo dal villaggio, c’era una stradina secondaria che disegnava una larga curva sotto la roccia e i rami tagliati, per alcune centinaia di metri. ad un lato della strada crescevano alcuni di quei corti fusti ricurvi, alcune dalle braccia ricolme di alcune bacche rosse e foglie alcune secche. in aria risuonava alcun continuo il gracidare dei grilli ed il verso stizzito degli uccelli alcuni. dunque, in questo scorcio una vecchia signora camminava con l’aria di non sapere bene. un ragazzino fuligginoso la seguiva. - ho sonno, ho sonno, ho sonno, quando arriviamo? - eh, non ce la faccio più a sentirti lamentare, ho le

gambe corte io.. - non me ne frega un cazzo! - che modo di parlare! poi ti faccio vedere tua madre.. - non me ne frega un cazzo! - eh sì, un cazzo.. che ne sai tu cos’è un cazzo? e per tutta risposta il giovane le corse davanti e si sbottonò i pantaloni, e con la mano che sporgeva dalla patta aperta mimò .. (un cazzo) la vecchia allora scoppiò con fatica in un grido, e si sporse per afferrarlo. - vecchia stupida! vecchia stronza! e così se ne andò lasciandola là sola soletta a farsi i cazzi suoi con la mano e a morire per quello che gli importava, e così si mise a saltellare allontanandosi sempre di più come una specie di puntino del cazzo all’orizzonte, e lei rimase in terra a lamentarsi e dopo aver visto crescere le rose se ne tornò a casa scivolando lungo la curva della stradina.

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[STORIE] SUONATORE D’AUTOBUS

ed il ragazzo arrampicandosi su per la curva della stradina corse tra gli ulivi e ridendo visse per alcuni anni, facendosi le sue cosette e cogliendo bacche rosse e cacciando corvi. e come me si fece sempre più vecchio e le spine gli bucavano sempre più le mani, e i suoi escrementi erano sempre più rossi per le bacche, e faceva sempre più fatica a scacciare i corvi. e si divertiva sempre di meno e sempre di meno, e alla fine vennero i camorristi e gli cavarono gli occhi, e tornò la vecchia zia e pisciò nelle orbite vuote del cadavere, e questo è quanto. - deh cos’è quello? chiese l’altro indicando il cielo. - il lenzuolo che ci copre. disse il signore - lo vedi allora che siam morti? - abbiamo solo sonno. - e cos’è quello chiese l’altro indicando il sole - la torcia del dottore - lo vedi allora? e il signore fece un grugnito, che non voleva dir nulla. - devo andare a casa. disse solo l’altro. e così il signore aveva camminato e camminato ancora per qualche chilometro dopo essersi separato dall’altro, era tardi e cominciava ad aver freddo. le piccole ville sfondate e i piccoli muretti di muratura merdosa erano sempre più radi mentre la pineta s’ingrandiva davanti ai suoi occhi come s’ingrandiva il buio sopra la sua testa. c’era un sentiero di terra battuta e il signor senzapelle lo seguiva con passo sicuro. c’erano migliaia e migliaia di buste e bottiglie di plastica che riflettevano la luce della luna e milioni di siringhe infette e cadaveri coperti dalle mosche, mentre l’aria era densa per gli aghi di pino che cadevano a centinaia dall’alto. - portaci l’eroina - dissero con una voce sola mentre andavano verso il basso senza tregua. - eccola, eccola! - gridò il giovane. - daccela, daccela - dissero a bassa voce - eccola, eccola! - gridò ancora e si infilò in bocca un piccolo sacchetto di cartone. gli aghi di pino volteggiarono a sciami verso di lui e quando lo raggiunsero presero a mangiare dalla sua bocca. e lui nel frattempo pensava: mi spiace tanto, questi bravi ragazzi, ho proprio bisogno di capirli.

poi quando l’eroina finì si voltarono e uscirono dalla sua bocca un po’ per volta, ondeggiando, e s’infilarono nelle buste di plastica o nelle bocche dei cadaveri facendosi sempre più piccoli fino a nascondersi completamente. echeggiò un grido, il giovane strizza storie si chiuse meglio nel cappotto e si guardò attorno spaventato. s’alzò una brezza gelida e dalle buste di plastica e dalle bocche dei cadaveri uscirono centinaia di topolini di campagna, uno ad uno entrarono nel naso del giovane pietrafocaia, arrivarono ai suoi polmoni. e lì rimasero a dormire fino ad oggi.[ ]

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e alla fine vennero i camorristi e gli cavarono gli occhi, e tornò la vecchia zia e pisciò nelle orbite vuote del cadavere, e questo è quanto.”


[STORIE] LE RICETTE DEL DOTTOR MILGRAM

GHIACCIO NOVE del Dottor Milgram

O

gni giorno, tornando a casa, a pochi metri dal portone stringo i denti e ti mando a fanculo.

La gente viene a visitare la nostra casa. Tocca i mobili, guarda schifata la polvere per terra, chiede quanto si paga di bollette in media, se c’è il terrazzo condominiale, se la zona è sicura di notte, i collegamenti. Mi chiedono se davvero me ne vado a fine settembre o si può fare prima, e io devo rispondere di no perché non finirò in tempo i lavori a casa, e devo rispondere con il sorriso stampato sulla faccia. Ultimamente apro la porta e me ne vado, dico all’agente immobiliare mandami un messaggio quando avete finito. Nessuno è bello come eravamo noi. Come eravamo quando siamo entrati qui per la prima volta, meravigliandoci del parquet e del balcone vista Villa Pamphili. Due bambini e la loro casa sull’albero. Ci dicevamo che tutto sommato avremmo potuto comprare noi i mobili, in fondo era un investimento che sarebbe rimasto in futuro. In futuro. Quel giorno ti ho sorriso e ti ho detto questa potrebbe essere la nostra casa, e tu mi hai risposto sono felice che hai detto così. “E quando lo facciamo?” “Cosa?” “Un figlio.” Guardavi il muro in quel momento. Mia madre mi accarezza i capelli e mi dice che vorrebbe essere lei a soffrire al posto mio. Mi rendo conto di pensare che vorrei fosse davvero così. Dammi egoismo. Dammi freddezza. Dammi ghiaccio nove. La gente viene a visitare la nostra casa e in testa non c’è niente. È tutto ovattato. È una sensazione truculenta tetra bastarda che ti si mangia da dentro e ovunque guardi non c’è speranza, c’è solo questo cazzo di senso di fine che s’ingoia tutto, che si mangia i mobili, gli angoli, i cuscini, l’8, il Simply, la pizza della domenica sera. Ogni giorno, tornando a casa, a pochi metri dal portone stringo i denti e ti mando a fanculo. Spero che mi senti. Spero che mi senti, amore mio. [ ] JK | 66


[STORIE] LE RICETTE DEL DOTTOR MILGRAM

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[libri] ruba questo libro

ruba questo libro di Marco Taddei

I

l nostro pianeta oramai è stato discoverto per intero, hanno fatto i peli pure al Mato Grosso e alle foreste della Malesia gli esploratori. Abbiamo dato i nomi ai crateri sulla Luna e Messner, se interrogato sull’argomento, già parla di alpinismo su Marte. E’ un pianeta chiaro e trasparente il nostro, perfino i fondali marini, una volta meta invalicabile, oramai non ci fanno più paura e la bollente riftvalley, dove l’acqua diventa rosa di acido solforico ed altri veleni, è perlustrata da piccoli sommergibili radiotelecomandati, occhi traslucidi di scienziati senza più limiti. Eppure in Gran Garabagna solo uno c’è stato, Henri Michaux, e da allora nessuno l’ha più avvistata questa terra grassa e piena zeppa di popoli. Abbiamo solo il resoconto di Henri, che poco

Conoscenza dagli abissi, una specie di Lettera di un Super Tossicomane di Burroughs ante litteram. Come direbbe un pontefice, in questo volume inter mirifica, tra meraviglie, si muove il Michaux, ci descrive una selva di tribù, usanze, villaggi, città, capitali, guerre, scaramucce, malattie che non sono mai esistite. Dà nome a paesi, montagne e pianure come un novello Adamo che ha scambiato l’Eden per una bettola di ubriaconi, reificandole in brevi colpi di frusta davanti ai nostri orpelli oculari con descrizioni ciniche e fantastiche assieme. Come al solito l’ortografia di Michaux è sublime, ci costringe veramente a seguirlo, strattonati a destra a manca per le sue concretissime fumigazioni, regalandoci pause eccitanti, frasi tronche, sottintesi che ci

Viaggio in Gran Garabagna di Henri Michaux (Quodlibet, 2010 – Prima Edizione) non è, dato il suo prodigioso curriculum vitae. Il Michaux nasce belga e borghese, non straricco ma abbastanza per sentirne il peso e la condanna sociale. A 21 anni dopo vari frizzi e lazzi s’imbarca per cambiare la sua pelle, le sue ossa, la sua mentalità da rappresentante della classe intermedia. In una sagace rotta di collisione con i suoi diritti ed i suoi doveri, piglia e scompare. E’ il 1920. Attraversa il globo in lungo ed in largo. E’ uno splendido marinaio che ha visto tutti i continenti. Si fa indigeno di ogni paese che visita ma dentro di lui le ossa europee stridono. E’ come la rockstar, l’esploratore, danza sul limite (geografico) dell’umano vivere. Vittima, o meglio spinto da questo bagliore carismatico, Henri Michaux torna e si mette a scrivere. Come una rockstar sperimenta ed attraversa oceani diversi da quelli topografici, fatti di droghe e sostanze allucinogene, tra l’altro mettendo per iscritto l’esperienza nel radicale

riempiono di visioni. Conosciamo così gli Emangloni, lassi e protervi, i Vibri, che fanno partorire le loro donne sulle barche, i Nan che vivono rincorsi da una malattia che li tramuta in purulenti fiori maestosi, gli Arpredi, noiosi amministratori, odiati da tutti e il cui genocidio è un’occasione di riconciliazione generale tra tutte le popolazioni – brividi, ben altri genocidi sarebbero giunti di lì a poco nella funesta Europa. E’ amico del mai-sereno Emile Cioran, e questo dovrebbe spiegare molte cose sul tono di questo itinerario in Gran Garabagna. Un umorismo nerissimo dove tra usanze cannibali o omicide, tribù travolte da riti insensati, estasi abbiette e torture monumentali, intravediamo l’Occidente che tanto aveva tramato il nostro scrittore di lasciarsi alle spalle e non riuscendoci, ha qui ha tentato geneticamente di esorcizzare. Ma alla fine ha vinto il sangue: “Le mie ossa, fregandosene di me, hanno seguito il mio destino, famigliare, razziale, europeo.” [ ]

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[STERILITA’ DEL BENPENSARE] PARODIA DELLA VOLONTA'

PARODIA DELLA VOLONTA’ di Edoardo Vitale @edoardovitale_ www.concimalatesta.it

Di quella volta che Lucio Dalla morì

A

nno del signore 2012, inverno di fitta neve. Sono sul treno per Bologna con un televisore a tubo catodico di 15 pollici in grembo, piuttosto pesante e piuttosto scomodo da trasportare, se si considerare che ho con me anche una valigia e la borsa con il computer. Il paese chiacchiera principalmente perché è arrivato Monti ad aggiustare tutto, perché in un incidente sono morte decine di persone su una nave da crociera. Nevica, fa freddo e se devo dirla tutta io non è che l’abbia vista tante volte la neve in vita mia e quindi ho lo sguardo incollato fuori dal finestrino del treno per Bologna. Quando sono sul treno non mi alzo mai dal sedile, qualunque sia la durata del viaggio non mi alzo mai dal mio posto, neanche per pisciare: perché mi fa paura. E allora ascolto dei dischi dalle cuffie. E allora sto ascoltando 1979 di Lucio Dalla. Il paese chiacchiera perché fra poco inizia il festival di Sanremo che in un modo o nell’altro fa sempre chiacchierare il paese, che si divide, all’ingrosso, in quattro fazioni: quelli che non lo guardano e non gli interessa, quelli che lo guardano e gli interessa, quelli che lo guardano e non gli interessa, quelli che lo guardano e gli interessa. Solo da poche edizioni sono passato dalla prima fazione alla quarta, perciò sono passato dal disinteresse totale per tutto quel che riguardava il festival a un certo divertimento nel seguire le vicende, nell’ascoltare e giudicare le canzoni in gara, difficilmente apprezzandone la

qualità, ma certamente interessandomi all’aspetto popolare di tutta la rassegna. Non so quale sia il motivo preciso di questo cambiamento, ma credo sia dovuto a una certa noia e antipatia nei confronti dei bacchettoni benpensanti integralisti della musica come si suol dire alternativa. Ma insomma chi se ne importa di questo. C’è questo freddo boia e così tanta neve per strada che mi rintano in casa a guardare il festival e tra i partecipanti in concorso c’è anche Lucio Dalla nelle vesti di autore e direttore d’orchestra per un pezzo intitolato Nanì, che parla, all’ingrosso, di una puttana e di uno che se ne innamora. Sarà che sono affezionato al Lucio Dalla, sta di fatto che il pezzo mi piace e mi emoziona e di sicuro una delle cose che vorrò fare non appena il freddo allenta la presa – mi dico – sarà andare a girare i luoghi di Bologna cantati dal Lucio Dalla e magari incontrarlo in qualche galleria d’arte, dicono che si faccia vedere spesso in giro per inaugurazioni. Mi fa morire dal ridere il Lucio che quando è il turno della sua canzone se ne sta lì a dirigere l’orchestra, a fare le seconde voci e insomma a fare un po’ quel che gli pare e io quando è il turno della sua canzone di sicuro alzo un po’ di più il volume e interrompo quel che sto facendo per ascoltare. Sta di fatto che poi devo tornare per un po’ a Roma e mentre sono sul treno seduto per tutto il viaggio, insomma leggo che il Lucio è morto, è proprio morto nella notte e quando ci saranno i funerali in Piazza Grande io non potrò essere a Bologna. Ora non c’è più spazio per raccontare tutti i risvolti di questa vicenda ma credetemi che è stato tutto molto significativo, triste e importante. Arrivederci, ciao. [ ]

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