Juggling Magazine #44 - september 2009

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Jug n 44:JUG new

18-09-2009

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Philippe Menard www.cienonnova.com foto di Jean-Luc Beaujault

Dopo aver assistito alla creazione P.P.P. in occasione della rassegna Des Auters des Cirque “Aux Limites” (Parigi, Parc la Villette - 9/27 giugno - www.villette.com) abbiamo rivolto a Philippe Menard due domande sul suo approccio all’estetica della giocoleria contemporanea. A cura di A.R.

Giocoleria, espressione artistica, stile, evoluzione. Ma sei ancora interessato a migliorare la tua tecnica? Per cominciare alcune parole per inquadrare l’analisi attuale sulla mia giocoleria. Giocolo da 18 anni, e mai avrei immaginato che questa storia potesse durare così a lungo. Formiamo ora una vecchia coppia la giocoleria ed io, con rapporti ciclici e passionali. Il mio percorso professionale è legato al mio incontro nel 1991 con il maestro Jérôme Thomas. La mia formazione con lui è stata tecnica ed artistica ma più di tutto ho conservato dei nostri dialoghi l’approccio profondamente filosofico. Insieme abbiamo fondato la giocoleria cubica e condividiamo la coscienza di un’arte popolare da approfondire. Nel 1998 ho poi fondato la Compagnie Non Nova (noi non inventiamo nulla, solo vediamo le cose differentemente) per sviluppare la mia ricerca. Dopo dieci creazioni e numerosi eventi ho ancora domande ricorrenti: come eludere l’attenzione del pubblico? Come rendere il virtuosismo umile? Come dare senso ad un’arte dell’illusione? La giocoleria è secondo me un’utopia destinata ad autodistruggersi così velocemente come è nata, ed è un assunto che devo accettare. L’utopia è un obbligo nel fare arte. Mi spiego.... Sono ormai due decenni che la giocoleria in Francia, sotto l’impulso dell’Institut de Jonglage con la pièce “Bingo” e di Jérôme Thomas con “Extraballe”, si è emancipata dal format dei numeri da 6/8 minuti. Queste performance fondatrici hanno creato numerose vocazioni fra cui la mia. La giocoleria contemporanea era nata e con essa una rivoluzione di massa: un’inondazione di giovani giocolieri e giocoliere non più

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provenienti solo dalle famiglie circensi ma da tutti gli ambienti sociali. Sempre più sono apparsi corsi di giocoleria: dai seminari per dilettanti d’un centro socioculturale al CNAC di Chalon. È difficile quantificare oggi il numero di giocolieri che tentino di farsi strada in una professione ancora in via di definizione. L’evidenza è là, la giocoleria è diventato un atto banalizzato, è forse questa una vittoria della sua democratizzazione? Una cosa è certa, questa banalizzazione implica anche un cambiamento della sua immagine e della sua relazione col pubblico. Sempre più teatri programmano uno spettacolo di giocoleria nella loro stagione e molti spettatori hanno già assistito ad un certo repertorio di pièce di giocoleria: “Hic hoc”, “4”, e lasciatemi dire una buona volta per tutte... «Rain-Bow» (ARMO/Cie Jérôme Thomas), “Visa pour l’amour” (Cie Vis à Vis), “Chant de Balles”, (Cie Vincent Delavénère), “Bal” (Cie Trio Maracassé), “Imper et passes” (Cie Les objets volant), “Convergence 1.0 (Cie Adrien M), per citarne alcuni. Questo pubblico si è poco a poco specializzato, appropriandosi di riferimenti che dobbiamo comprendere poiché influenzano i nostri percorsi creativi. È per questa ragione che fin dalle mie prime creazioni ho fatto la scelta di celebrare il funerale delle nostre forme scontate. Se il giocoliere è un artista, deve allora creare scambi con il pubblico che comportino reazioni. Il giocoliere deve sfuggire alla forma per la forma. Smettere di fare credere che la palla di silicone sia magica, o che la caduta sia volontaria e che occorre assolutamente fondere il movimento con la giocoleria, il tutto su una bella musica e con luci graziose che devono dare l’impressione di un’opera!

Capisco, lo trovate eccessivo, ma non possiamo essere sensibili e poi dimenticare che ci spetta fare di quest’arte non un semplice intrattenimento ma un’arte del gesto, un’arte della sfida alla condizione terrestre, capace di suscitare emozioni e stimolare in tutti il desiderio di controllare la gravità. Personalmente non credo che l’artista sia lì per cambiare il mondo, ma di certo può guidare lo sguardo dello spettatore su un dettaglio del mondo. È in questo senso che l’utopia mi è necessaria, invitare il pubblico a vivere e non soltanto assistere ad una sfida che è persa in anticipo. Tutti inconsciamente sappiamo che sono le sfide che interessano artisti e spettatori. Mi è piaciuto mettere il pubblico alla prova; “P.P.P.” è una forma di questa lotta persa in anticipo, con lo scioglimento inevitabile, con la fragilità della materia ed il contatto doloroso del freddo, qui tutto mette in discussione l’atto fondamentale del giocoliere: il suo virtuosismo. È in questa direzione che pratico ora una tecnicità, che definisco “l’ingiocolabilità” nel senso di contraddittorio all’atto della giocoleria. A causa delle proprietà del ghiaccio, questa mi costringe a sviluppare un approfondimento nella mia comprensione del gesto e del senso d’un atto effimero come la giocoleria.

Stravolgere i confini dell’estetica della giocoleria contemporanea. Definiresti “scioccanti” le tue creazioni? Il termine “ shocking” non è quello che rivendico. Le mie scelte estetiche sono legate alla ricerca del senso. Appartengo alla generazione dei monitor, che denominerei “caotica”, perché è cresciuta su una serie di grandi fragori (prevalenza del monitor tv/pc/gameboy, il timore nel-


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