Elio Croce fratello missionario comboniano (Filippo Ciantia)

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Filippo Ciantia

ELIO CROCE

fratello missionario comboniano

Coll ana

Telemaco

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ELIO CROCE

fratello missionario comboniano

Prefazione di Giulio Albanese

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Filippo Ciantia

Elio Croce fratello missionario comboniano www.itacaedizioni.it/elio-croce

Prima edizione: marzo 2024

© 2024 Itaca srl, Castel Bolognese

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-526-0774-5

In copertina

Elio Croce al volante, Gulu 2016 (foto Mauro Fermariello).

Con i bambini e le educatrici dell’orfanotrofio, Kitgum 1972 (foto Maria Croce). Mappa dell’Uganda di Sofia Crosta.

Stampato in Italia da Modulgrafica Forlivese, Forlì (FC)

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A Edo, poeta della fedeltà.

A Vito e Anna, che hanno offerto tutto in letizia. Amici che, misteriosamente e inaspettatamente, ci hanno preceduti nella casa del Padre

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Prefazione

La logica del divenire porta con sé il ricordo e forse mai come oggi è necessario riflettere sul passato per far fronte alle tante inquietudini che assillano il nostro tempo. Ecco che allora ci solleva l’antica saggezza secondo cui ciò che abbiamo vissuto, e dunque è ormai trascorso, si manifesta sempre e comunque nella memoria personale e collettiva, sotto le vestigia di volti, di persone che, nel corso della vita, la Provvidenza ha messo innanzi a noi come testimoni. Motivo per cui consiglio caldamente di leggere questo saggio dell’amico Filippo Ciantia che potrebbe essere definito una sorta di breviario missionario.

Le pagine che seguono, infatti, costituiscono il profilo e per certi versi il resoconto sui fatti e gli accadimenti che hanno scandito l’esistenza, per chi ebbe la grazia di conoscerlo, di fratel Elio Croce, un autentico “mito dell’evangelizzazione a tutto campo”. Chiede pertanto una deroga chi scrive questa prefazione, se anch’egli avverte il bisogno istintivo di ricordare questo grande missionario con alcuni brevi accenni.

Siamo di fronte ad un personaggio straordinario che ebbi modo d’incontrare casualmente all’inizio degli anni Ottanta nella procura dei missionari comboniani a Mbuya, parrocchia in quella che era, prima dunque che avvenisse la sua espansione, la periferia della capitale ugandese, Kampala. Ricordo come fosse oggi quel sabato pomeriggio. Ero appena rientrato da una battuta di pesca nel Lago Vittoria. In città scarseggiavano i rifornimenti d’ogni genere a seguito della guerra e quello era l’unico modo per garantire un sano alimento ai nostri seminaristi di teologia. Avevo il pick-up strapieno di persico del Nilo, tutto di grossa taglia, che in quelle acque si pescava

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in abbondanza. Allora fratel Elio lavorava come responsabile tecnico all’ospedale St. Joseph’s di Kitgum nell’East Acholi. Facemmo subito amicizia.

Mi raccontò che era giunto lì nel lontano 1971 e dunque aveva già alle spalle dodici anni di missione. Mi colpì non solo la sua nobiltà d’animo ma anche l’affezione indicibile nei confronti del popolo acholi che era stato chiamato a servire nel Nord Uganda. Durante la conversazione notai che con la coda dell’occhio continuava a fissare il pesce che avevo sul retro della macchina. «Una pesca miracolosa quella di oggi!» esclamò. Capii al volo che avrebbe desiderato tanto portarne un po’ in missione a Kitgum e non potei fare a meno di assecondare la sua richiesta. «Dio ti benedica» mi disse, precisando comunque che avrebbe ripagato il pesce recitando un santo rosario per me e la mia comunità. A dire il vero la pesca miracolosa fu la sua e posso garantire che si è procrastinata nel tempo fino al giorno in cui fratel Elio è tornato alla casa del Padre, l’11 novembre 2020.

Molti l’hanno giustamente definito un “Buon Samaritano” capace di soccorrere chiunque fosse nel bisogno: poveri derelitti, senzatetto, orfani, gente ferita, malnutrita, mutilata, malata… Non vi fu, in tutto l’arco della sua esistenza, un solo istante in cui egli fosse latitante nell’esercizio evangelico della carità. Chi scrive lo può testimoniare, ad esempio, avendolo visto arrestare repentinamente la sua vecchia Toyota Land Cruiser, parcheggiandola sul ciglio di una strada polverosa, per seppellire, a costo di mettere a repentaglio la propria incolumità, i cadaveri dei tanti civili uccisi dalle feroci soldataglie che allora, complessivamente per oltre un ventennio, infestavano il Nord Uganda.

Non dimenticherò mai il giorno in cui, il 29 agosto del 2002, venne a recuperare alla caserma di Gulu, con il suo solito fuoristrada, il sottoscritto e altri due confratelli (i padri Tarcisio Pazzaglia e Carlos Rodriguez Soto) dopo una brutta avventura con i ribelli, culminata poi con il sequestro da parte dei governativi. Eravamo distrutti dalla fatica e peraltro uno

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di noi, Carlos, aveva una brutta ustione sul braccio. Ci accompagnò subito all’ospedale di Lacor per i controlli medici e poi ci fece rifocillare, offrendoci un pasto caldo e ospitalità per la notte.

Fratel Elio era un uomo di preghiera, ma anche d’azione e dunque non rimaneva mai con le mani in mano: è stato un prodigioso tuttofare. Ha realizzato scuole, cappelle, orfanotrofi, impianti d’irrigazione, mulini, per non parlare della sua specialità: la costruzione e manutenzione dei reparti ospedalieri. In mezzo secolo di indefesso servizio missionario è stato prima responsabile tecnico dell’ospedale St. Joseph’s di Kitgum, dove peraltro ebbe modo di incontrare alcuni giovani medici di Comunione e Liberazione; poi dal 1985 egli si trasferì a Gulu, presso l’ospedale di Lacor, dove ha praticamente vissuto fino alla morte.

Una delle ultime volte che visitai l’Uganda mi capitò tra le mani un giornale locale nel quale si parlava di lui. Il giornalista, per descrivere fratel Elio con il quale aveva trascorso diversi giorni, forse un’intera settimana, utilizzò la metafora della Land Cruiser di cui sopra. Aveva colto nel segno, infatti si era accorto che quel veicolo veniva utilizzato come carro funebre, come autoambulanza, per trasportare materiali d’ogni genere, ma addirittura come scuola bus per gli orfani della St. Jude Children’s Home di Gulu. Quel veicolo portava impressi i tanti segni delle molteplici attività svolte quotidianamente da un uomo dal cuore grande e generoso.

Maurizio Vitali, che per clonline.org ha pubblicato un pezzo in sua memoria, ha scritto a questo proposito: «Il suo detto preferito era: “Chi non vive per servire non serve per vivere”. Considerava ogni impresa e ogni opera non come propria, ma della Provvidenza. Con un metodo di verifica semplicissimo: se l’opera è della Provvidenza andrà avanti; altrimenti, finirà».

Una cosa è certa: in tanti anni di missione, fratel Elio ne ha viste di tutti i colori: dalla sciagura della guerra civile alla piaga di Ebola, oltre al Covid-19 che all’età di settantaquattro anni ha posto fine alla sua esistenza terrena. A guardarlo in fo-

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tografia (ce ne sono tante in giro sul Web), a parte i dettagli –cappellino da fatica in testa e rosario nel taschino – sembrava il fratello gemello di Sean Connery.

Ma andando al di là di queste considerazioni personali, tornando all’autore di questo saggio, Filippo Ciantia, è bene rammentare che, tutto quello che egli ha meticolosamente raccolto in queste pagine, è in gran parte frutto del forte legame intercorso con fratel Elio in terra africana. Si tratta, pertanto, di una narrazione dalla forte valenza esperienziale dalla quale si evince, per dissolvenza, la spiritualità – intesa come vita secondo lo Spirito – del protagonista.

Ciantia ha il merito di aver debitamente espresso il carisma comboniano del protagonista, quella versatile duttilità dell’anima di cui tutti, in questo frangente della Storia, profondamente segnato dalle diseguaglianze, abbiamo grande bisogno. Cioè comprendere, secondo l’insegnamento di Gesù di Nazareth, che nella vita «c’è più gioia nel dare che nel ricevere» (Atti 20,35).

Buon viaggio, dunque, a questo libro del riconoscimento e della condivisione.

Padre Giulio Albanese mccj

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Nel 1906 una spedizione italiana, guidata dal Duca degli Abruzzi, Luigi Amedeo di Savoia, raggiunse il centro dell’Africa per esplorare e scalare il massiccio del Ruwenzori, ovvero le montagne della neve, nella lingua lukonzo, parlata dal popolo di queste zone nel cuore dell’Africa, al confine occidentale dell’Uganda con l’odierna Repubblica Democratica del Congo.

Il comboniano fratel Elio Croce, nato a Moena, la fata delle Dolomiti, missionario in Uganda dal 1971, non seppe resistere alla passione per i picchi e le nevi. Nel febbraio del 1975 con un gruppo di medici e religiosi scalò la cima Margherita*, la più alta vetta del massiccio, così chiamata dal Duca d’Abruzzi in onore dell’amata e popolare Regina d’Italia, celebrata anche da grandi poeti per la grazia, la maestà, la religiosità e il sorriso. La lunga preparazione alla scalata, con varie ascensioni “di allenamento” delle montagne di Lagoro e Lotuturo a nord della missione di Kitgum, cementò l’amicizia di Elio con i medici Giorgio Salandini ed Enrico Frontini, due dei suoi compagni di viaggio nell’avventurosa scalata. Erano anni difficili, soprattutto per la feroce dittatura di Amin. Eppure, in questi primi anni d’Africa, fratel Elio poté godere anche delle ultime spedizioni di caccia grossa nel paese dove nasce il Nilo e che – per le sue bellezze naturali, il fertile suolo e le sue genti brillanti e capaci – è conosciuto come la Perla dell’Africa.

* La Cima Margherita del Monte Stanley raggiunge i 5.109 metri di quota. Le vette del massiccio del Ruwenzori affascinarono esploratori e storici sin dall’antichità: Tolomeo chiamò queste montagne sempre innevate, le Montagne della luna Ben sei gruppi montuosi offrono un panorama ed un habitat unico e stupefacente.

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Era l’inizio di una vita avventurosa e affascinante, per certi aspetti epica, che, per essere seguita e apprezzata, ha richiesto l’inserimento di una mappa, disegnata abilmente dalla giovane artista Sofia Crosta.

La sorella Maria mi raccontò che all’inizio del 2019 – pochi mesi prima della morte inaspettata e tragica del fratello a causa di una polmonite da Covid-19 – Elio le aveva confidato il desiderio di scrivere la storia della sua vocazione. La prematura scomparsa gli aveva impedito di compiere il suo desiderio! Ne fui provocato e colpito. Incapace di resistere al fascino della vita di questo grande missionario, mi sono quindi cimentato nel racconto del suo cammino umano e cristiano e della sua originale ed esemplare risposta alla chiamata che sin da giovanissimo lo conquistò.

Scrivere questo libro ha rappresentato per me un’ardua scalata. Come in un’ascensione ho sperimentato la fatica: ho raccolto numerose testimonianze, letto moltissimi articoli e consultato vari libri, due dei quali frutto dei suoi diari, tra l’epidemia di Ebola e le guerre civili d’Uganda. In YouTube sono disponibili numerosi video di sue testimonianze. Lo avevo conosciuto bene in vita, prima lavorando insieme nell’ospedale St. Joseph’s di Kitgum, poi frequentandoci regolarmente per lavoro, amicizia e comune fede. La crescente comprensione della sua figura, man mano che approfondivo le ricerche, assumeva sempre di più dimensioni veramente imponenti di una ripida e ambiziosa ascesa.

Come in una impegnativa arrampicata, però, ci sono momenti in cui lo stupore e la meraviglia per paesaggi inattesi fanno passare in secondo piano ogni fatica e difficoltà. Così, anche “scrivendo di Elio”, la fatica è diventata un peso molto leggero, lasciando spazio alla lieta gratitudine per aver conosciuto un vero uomo di Dio.

La narrazione della sua vocazione è stata possibile grazie alla sua famiglia d’origine, in particolare alla sorella Maria, al fratello Nino e ai nipoti, e a moltissimi suoi compaesani. Li troverete protagonisti degli incontri che gremiscono lo svol-

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gersi della sua bella vita. Ringrazio in modo particolare i comboniani e le comboniane che hanno aderito con gioia ed entusiasmo a questa opera. La vita di Elio è stata ricca di amicizia: tra i più cari i coniugi Piero e Lucille Corti e il dottor Matthew Lukwiya, che ha raggiunto in cielo per ricomporre il quartetto che ha guidato l’ospedale Lacor in anni drammatici e gloriosi.

Ho voluto mantenere nel testo la spontaneità dei racconti e della narrazione dei tanti testimoni che si succedono nel cammino di Elio. Non sono riuscito a citare tutti, ma è stato quasi inevitabile. Tra le prime interviste ricordo il dialogo con Maresa Perenchio, tra i protagonisti della storia dell’orfanotrofio St. Jude, quando, dalla sua bella casa sulla serra morenica presso Ivrea, mi mostrava la cima del Monviso, narrando di Elio con emozione, gratitudine e saggia ironia. Poi i tanti messaggi ricevuti da Giovanna Rondoni, con le memorie di Kitgum nei primi anni Ottanta e i viaggi avventurosi verso il Karamoja e il parco del Kidepo. Non dimenticherò la commossa confidenza del dottor Bruno Corrado, uno dei pilastri dello sviluppo dell’ospedale Lacor, che aveva saputo dalla moglie, poco prima della sua scomparsa, che fratel Elio digiunava una volta alla settimana per la sua persona e la sua conversione! Alla fine, forse l’ultima intervista, la lunga chiacchierata con Maurizio Surian mi ha permesso di chiarire molti dettagli della vita quotidiana e della spiritualità di Elio.

A Maria Teresa Battilana che, per “grazia”, ha iniziato nel 1999 a scrivere icone, devo il “grazioso dono” della sapiente descrizione della chiesa di San Daniele Comboni, l’ultima vera grande opera di Elio.

Non tutto quello che è emerso è stato riportato, sia per la ricchezza di fatti, avvenimenti e notizie, sia per la necessità di verifiche più attente. Molti testimoni, per esempio, hanno riportato la partecipazione di Elio nel 1979 alla distruzione del ponte sul fiume Aswa da parte dei partigiani oppositori di Amin. Vari testimoni hanno confermato che lo stesso Elio si vantava di aver partecipato e addirittura progettato l’azione dei partigiani che impedì – dopo la caduta di Kampala – che le

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truppe del dittatore in fuga verso il Nord, superassero il fiume Aswa e raggiungessero Kitgum, evitando ulteriori sofferenze all’innocente popolazione civile. Lo immagino, guardingo ed allo stesso tempo indaffarato, orgogliosamente guidare un commando di suoi operai e di partigiani nella rimozione dei blocchi di cemento in modo sistematico e astuto per rendere inutilizzabile il ponte ai mezzi pesanti, camion, carri armati e autoblindo.

Protagonisti del libro sono i tantissimi medici e operatori sociosanitari sia ugandesi sia italiani che hanno lavorato nel Nord Uganda, negli ospedali, nelle missioni, nell’orfanotrofio St. Jude, di cui ringrazio tutto il personale e gli ospiti.

C’è un ultimo aspetto che va ricordato e sottolineato. Non solo Elio era stimato, amato e ammirato dai confratelli e dai religiosi con cui ha vissuto, ma di tutti loro egli aveva una devozione profonda, soprattutto per i sacerdoti diocesani.

La sua stanza è rimasta tale e quale sin dal giorno in cui fu trasferito all’ospedale nazionale di Mulago a Kampala dove si concluse il suo cammino terreno. In un apparente disordine, i cui segreti erano solo da lui conosciuti, tra pezzi di ricambio, computer funzionanti o obsoleti, tra scatoloni di apparecchiature, fili, circuiti elettronici e attrezzi, spiccano le mensole colme di libri. Non si trovano solo cataloghi di attrezzature e ricettari industriali. Le letture che hanno nutrito le sue notti e i suoi silenzi e alimentato la sua mente e il suo cuore sono stranamente ben ordinate e catalogate. In alto, un intero ripiano è dedicato alla Bibbia, ai Vangeli e ai Lezionari per la liturgia. Scendendo verso il basso si trovano “Spiritualità”, “Santi e martiri”, “Romanzi e Classici”, “Preghiere, educazione, esercizi spirituali”. Oltre ai grandi papi degli ultimi decenni, spiccano i testi di Messori e Giussani. Poi sulla mensola più bassa sopra una cartelletta marrone, su un foglio scritto a mano. Si legge: «P. Ambrogio. La mia vita…». Si tratta di un breve resoconto di una lunga vita missionaria di padre Ambrogio da Lusernetta, un paesino della Val Pellice, diocesi di Pinerolo, provincia di Torino: cin-

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quant’anni di Uganda! Dopo tanto servizio alla Chiesa e ai poveri, padre Ambrogio è stato ospitato nella comunità comboniana nell’ospedale di Lacor, nella casa dei fratelli Elio e Carlo. Qui sono stati accolti e curati molti sacerdoti – tra cui anche il caro Pietro Tiboni – che hanno “goduto” della carità e della devozione dei fratelli laici, più giovani, ma consapevoli di appartenere definitivamente alla grande storia della Chiesa in Uganda, Perla dell’Africa, ma anche, e soprattutto, terra di martiri e testimoni della benedizione di Dio per queste genti. Infine, un grazie speciale a Dominique Corti, al suo sposo Contardo Vergani e alla Fondazione Corti per tanti spunti, contatti, suggerimenti e, soprattutto, molte foto.

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Indice 191 Indice Prefazione Giulio Albanese 7 I. La prova 13 II. Le radici 18 III. Fratello 30 IV. L’ultimo re di Scozia 39 V. L’illuminazione 47 VI. Quelli dell’82 53 VII. Amici d’oltre mare 57 VIII. L’olio che fa risplendere il volto dell’uomo 64 IX. La profezia 71 X. I cavalli dell’Apocalisse 74 XI. I quattro moschettieri 77 XII. La guerriglia 93 XIII. Il grande segreto 104 XIV. Gli Acholi 126 XV. Cristo si è fermato a Ebola 132 XVI. La casa della gioia 146 XVII. La pietra angolare 167 XVIII. Ciao zio 180 Ringraziamenti 185

Cominciamo, fratelli, a servire il Signore Iddio, perché finora abbiamo fatto poco o nessun profitto!

San Francesco

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«Fratello missionario comboniano»:

così era solito definirsi Elio Croce che ha vissuto per cinquant’anni nel

Nord Uganda a servizio del popolo Acholi.

Fratel Elio Croce è stato un autentico

“mito dell’evangelizzazione a tutto campo”, un “Buon Samaritano” capace di soccorrere chiunque fosse nel bisogno: poveri derelitti, senzatetto, orfani, gente ferita, malnutrita, mutilata, malata...

Era un uomo di preghiera, ma anche d’azione. Ha realizzato scuole, cappelle, orfanotrofi, impianti d’irrigazione, mulini, per non parlare della sua specialità: la costruzione e manutenzione dei reparti ospedalieri.

Maurizio Vitali ha scritto a questo proposito:

«Il suo detto preferito era: “Chi non vive per servire non serve per vivere”. Considerava ogni impresa e ogni opera non come propria, ma della Provvidenza. Con un metodo di verifica semplicissimo: se l’opera è della Provvidenza andrà avanti; altrimenti, finirà».

Padre Giulio Albanese mccj

Filippo Ciantia ha vissuto per trent’anni in Uganda con la moglie e i suoi otto figli lavorando prima come medico per conto di Ong come Cuamm e Avsi, poi come direttore del Dr. Ambrosoli Memorial Hospital. Ha scritto La montagna del vento. Lettere dall’Uganda, Il divino nascosto. Storie di eroico quotidiano e Padre Tiboni «uno tra i più santi uomini che abbiamo».

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