Interni 647 - December 2014

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THe MaGazInE OF INTeRIors AND coNTeMPoraRY DesIGN

N° 12 DIcemBre december 2014

Mensile/monthly italia/italy € 10 At € 19,50 - BE € 18,50 - CA $can 30 - CH fr. 22 DE € 23 - ES € 17 - FR € 18 - GB £ 14,50 MC € 18 - PT € 17 - SE kr 170 - US $ 30

Poste Italiane SpA - Sped. in A.P.D.L. 353/03 art.1, comma1, DCB Verona

DeeP SurFiciaL

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AuToBan, FranK O.GeHrY, Monzini-RaBoni PaoLa Navone, ParisoTTo-FormenTon PHILIPPe STarck

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Nuovi cLassici SKin carPeT PaTricia UrquioLa: Luce, maTeria e superFicie

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DesiGn Da coLLezione

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DiGitaL zen

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Piccoli spazi del sĂŠ

wITH comPLeTe english TexTs

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INdice/contents dicembre/december 2014

INterNIews 15

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produzione production luce in evoluzione/light in evolution design in scala/scale design vetro al femminile/feminine glass un successo luminoso/luminous success cuore d’acciaio/heart of steel crescere nel design/growing up on design brevi/short takes showroom

MILANO, the kitchen maniacs MILANO, nel segno dell’acqua/under the sign of water PARIS, made in italy LONDON, Innovative LanDscaPe TaLKs 38 In copertina: rimanda alle sensazioni del cemento e a memorie lontane impresse sulla materia la collezione Déchirer realizzata da Mutina su progetto di Patricia Urquiola. Grazie all’innovativa tecnologia Continua, è prodotta in gres porcellanato non smaltato in lastre di grande formato dello spessore di 12 mm, le cui decorazioni sono ottenute con la sola distribuzione di impasti di qualità. La collezione si esprime in una tavolozza di cinque colori – bianco, nero, grigio, ecrù e piombo – nelle texture decor (nella foto) e neutral. On the cover: the Déchirer collection, produced by Mutina and designed by Patricia Urquiola, evokes the sensation of cement and distant memories imprinted in the material. Thanks to innovative Continua technology, it is made of unglazed porcelain stoneware in large sheets with a thickness of 12 mm, decorated simply by the arrangement of high-quality mixes. The collection comes in a range of five colors – white, black, gray, ecru and lead – with decor textures (in the photo) or in a neutral version.

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project

un giapponese a milano/Japanese in Milan UNCONVENTIONAL DESIGN issey miyake e/and tokujin yoshioka a londra/in london Quello che ho sempre voluto/just what I always wanted land rover a londra e a parigi/in London and Paris case di alberi/treehouses brevi/short takes sostenibile sustainable L’architettura? (eco)democratica (eco)democratic architecture soluzioni solutions magic green box fiere fairs la nuova età della pietra/the new Stone Age

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INdice/CONTENTS II 62

paesaggio landscapes

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fotografia photography

sugimoto al/at castello di ama

steve mccurry a torino/in Turin e/and monza 68

fragrance design

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sapore di sale, sapore di culti/taste of salt, taste of Culti domotica domotics sotto controllo/under control INservice

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traduzioni translations indirizzi firms directorY 2

INtopics 1

editoriale editorial di/by gilda bojardi

INteriors&architecture

vocazione sperimentale

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experimental leanings a cura di/edited by antonella boisi

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paris,fondation louis vuitton progetto di/design by gehry partners foto di/photos by iwan baan, marc domage, todd eberle testo di/text by matteo vercelloni

10

milano, abitare sopra le chiome degli alberi

milan, living above the treetops progetto di/design by studio monzini-raboni foto di/photos by mario ciampi testo di/text by matteo vercelloni 16

londra, una penthouse-lanterna sulla città

london, a penthouse-lantern over the city progetto di/design by parisotto+formenton architetti foto di/photos by paolo utimpergher testo di/text by antonella boisi

22 22

londra, haute hôtellerie progetto d’interni di/interior design by tom dixon foto di/photos by the mondrian london at sea containers testo di/text by valentina mariani

INsight INtoday 28

bologna, david lynch “gira” al mast

Bologna, David Lynch “shoots” at the MAST progetto di/design by labics - maria claudia clemente, francesco isidoro foto di/photos by christian richters e/and rocco casalucci testo di/text by laura ragazzola e/and olivia cremascoli

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INdice/CONTENTS III

INsight INtoday 34

toyo ito, lectio magistralis foto di/photos courtesy by toyo ito & associates testo di/text by antonella boisi INarts

38 28

un finto designer/Fake DesIGner: ugo la pietra di/by germano Celant

46

INscape

44

le grand malade di/by Andrea Branzi

INdesign INcenter

54

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quieto vivere/Peace and quiet di/by nadia lionello foto di/photos by miro zagnoli

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skin carpets di/by Elisa musso foto di/photos by simone barberis

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le affinità elettive/Elective affinities di/by Maddalena Padovani INproject

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counting the rice di/by Maddalena Padovani INtoday

70

la chimica del successo/the chemistry of success di/by Antonella Galli

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vintage e riedizioni/vintage and reissues di/by Valentina Croci INview

66

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78

digital zen

di/by Stefano Caggiano INproduction

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piccoli spazi del sé/Little spaces of one’s own di/by katrin cosseta

INservice 90 103

traduzioni translations indirizzi firms directorY di/by adalisa uboldi

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EDiToriaLe

F

rank O. Gehry con la Fondation Louis Vuitton a Parigi, Toyo Ito a Taiwan con il National Taichung Theater, due penthouse a Milano e a Londra, il progetto di Tom Dixon per l’hotel Mondrian a Londra: le architetture del numero di dicembre stimolano, nel loro pluralismo linguistico, una riflessione sulla ricerca architettonica nel XXI secolo, che interpreta lo spirito del tempo e lo traduce in nuove espressioni della cultura dell’abitare. Quanto il progetto domestico sia legato all’evoluzione del costume e della società più in generale è raccontato nel volume allegato a questo numero: una pubblicazione speciale che Interni dedica ai suoi lettori in occasione del suo 60mo anniversario e che, attraverso i servizi pubblicati in sei decenni, racconta 60 anni di storia e storie del design. Per focalizzarci invece sull’oggi, questo mese abbiamo analizzato un fenomeno sempre più evidente sia nella produzione industriale dell’arredo che nel mondo del collezionismo internazionale: quello delle riedizioni e dei pezzi unici di modernariato. Ma il design non smette di guardare avanti. A testimoniarlo, due storie di successo e d’innovazione tutte italiane: da una parte Mapei, leader mondiale dei prodotti chimici per l’edilizia; dall’altra Mutina, marchio che ha saputo rivoluzionare l’identità della ceramica. A seguire, una rassegna di prodotti novità che raccontano le ultime tendenze dell’abitare: dagli oggetti ‘digital zen’, frutto di un’estetica che media tra l’astrazione del mondo digitale e la sensorialità della casa tradizionale, al ‘quieto vivere’ di arredi che reinterpretano una sobrietà d’ispirazione borghese; dai giochi optical di tappeti ultragrafici al sapore intimista di scrittoi e piccoli mobili, pensati per le esigenze del vivere domestico ma anche per regalare piacevoli momenti per la cura del sé. Gilda Bojardi Il curioso ascensore dell’hotel londinese Mondrian, progetto di interni di Tom Dixon.

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The BIG Folie progetto di Gehry Partners

foto di Iwan Baan, Marc Domage, Todd Eberle (courtesy by Louis Vuitton), Matteo Vercelloni testo di Matteo Vercelloni

A Parigi, nello storico parco del Bois de Boulogne, la Fondation Louis Vuitton si pone come una nuova cattedrale della cultura consacrata alla creatività contemporanea e in particolare al mondo dell’arte. Un’opera iconica ed espressiva che rilegge tradizione e temi del giardino romantico e delle serre ottocentesche

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Vista della Fondation Louis Vuitton tra le alberature del Bois de Boulogne. L’architettura iconica e dal forte andamento dinamico è composta da due layer di riferimento sovrapposti: il sistema degli iceberg rivestiti da pannelli in curva di Ductal che formano il sistema delle undici gallerie e le dodici grandi vele di vetro fissate ai volumi con una complessa struttura mista di acciaio e legno lamellare. (foto Todd Eberle) Nella pagina a fianco, uno schizzo di Frank Gehry.

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Nei disegni: viste assonometriche dei layer di riferimento progettuale. Nella pagina a fianco, vista della Fondation Louis Vuitton dalla cascata prospiciente. (foto Todd Eberle)

“u

n sogno divenuto realtà”, secondo Bernard Arnault, Presidente della Fondazione Louis Vuitton e artefice dell’idea di questo nuovo centro delle arti affidato dal punto di vista architettonico alla gestualità di Frank Gehry che, ripercorrendo temi propri alla sua ricerca progettuale, dall’alto dei suoi 86 anni, ancora non rinuncia alla passione dell’inventare in piena libertà. La Fondation Louis Vuitton è stata descritta come un veliero calato tra le chiome degli alti alberi del parco storico, ma è forse alla tradizione delle folies architettoniche che un tempo popolavano con acuto senso teatrale il palcoscenico del giardino paesaggistico che occorre ricondursi per capire l’effetto sorpresa e l’inserimento nel contesto con cui si rapporta l’intera costruzione.

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A cominciare dal limitrofo Jardin d’Acclimatation, creato nel 1860 dall’Imperatore Napoleone III e dall’Imperatrice Eugenia, primo giardino pubblico d’agrèment et de loisirs in Francia con sviluppi legati all’esibizione di fauna e flora, e il costituirsi poi di una vera e propria menagérie, cui in parte l’edificio della nuova Fondation LV si riconduce nel ricordare anche una grande voliera, ma in questo caso aperta verso il cielo, e nel custodire al suo interno – nel ristorante Le Frank del piano terreno – come in un acquario en plein air, dei grandi pesci volanti disegnati appositamente da Frank Gehry. La Fondation è isolata nel parco e dal verde emerge con decisione, superando le chiome degli alberi e proponendosi come passeggiata sospesa sulle terrazze a vari livelli organizzate

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Qui accanto, in molti punti l’accostarsi delle vele di vetro incornicia brani e viste del paesaggio urbano dell’intorno. Nella pagina a fianco, in senso orario: vista della Tour Eiffel da una delle terrazze in copertura; il sistema di ancoraggio delle vele vetrate alla struttura portante; particolare di una scala interna. (foto Matteo Vercelloni)

sopra i volumi degli “Iceberg”, elementi plastici che restituiscono nel paesaggio volumetrico organizzato sotto le vele vetrate il dinamismo delle coperture delle undici gallerie sottostanti. Composti da ben 19.000 pannelli di Ductal (fibra di cemento ultra ad alta prestazione) gli “Iceberg”, insieme alle grandi vele composte da più di 3.500 pannelli di vetro con rete metallica microforata interposta, formano i due layer sovrapposti della sintesi architettonica complessiva. Ritroviamo qui il sapiente procedimento dadaista del collage, che supera almeno nell’immediato ogni semplice riferimento funzionale; rintracciamo la ‘visione sferica’ dell’edificio dove tutte le superfici sono in comune perché a contare, più che un fronte e un retro, sono le relazioni e le interpolazioni tra gli elementi e quanto si trasmette e si intromette tra loro. Ancora, leggiamo l’idea dell’edificio-città capace di proporsi come percorso-scoperta e in questo caso di organizzare il racconto delle sale espositive, di accogliere opere site-specific come “Inside the orizon” di Olafur Eliasson che nel piano interrato affianca su un lato lo specchio d’acqua su cui poggia virtualmente l’intero edificio, rispecchiandosi e specchiando il suo intorno nella sequenza spezzata e ritmica dei pilastri allineati. O i colori delle tele di Ellsworth Kelly chiamate a caratterizzare l’auditorium affacciato sulla cascata, ulteriore omaggio alla tradizione del giardino ottocentesco disegnato da Alphand e da Barillet-Deschamps.

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Descritta da Frank Gehry come un desiderio di “disegnare un magnifico vascello per Parigi in grado di simbolizzare la profonda tradizione culturale francese”, la Fondation LV – passibile di felici contaminazioni artistiche nelle intenzioni del suo creatore e basata sull’idea di progettare edifici non come creazioni statiche, ma dinamiche e mai finite – si sviluppa per una superficie di 11.000 mq. di cui 7.000 accessibili al pubblico. Al suo interno, nell’epifania delle undici sale-gallerie, accoglie una collezione permanente di arte moderna e contemporanea, cui si affiancano esposizioni temporanee e l’apertura a concerti ed eventi musicali, che occuperanno molti momenti dell’auditorium. Particolare attenzione è stata rivolta anche ai temi della sostenibilità ottenendo il grado HQE (Haute

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Qualité Environnementale) nell’ottimizzazione delle performance energetiche dell’opera, nel recupero delle acque piovane, conservate e impiegate per il lavaggio delle dodici vele di vetro e per l’irrigazione delle zone a verde sulle terrazze da cui osservare, come dalla Tour Eiffel, il profilo della città. Costruita in questa specifica zona del Bois de Boulogne, di cui Louis Vuitton detiene la concessione del Jardin d’Acclimatation sin dagli anni ’50, quando Marcel Boussac se ne riservò i diritti grazie ad un accordo tra pubblico e privato, la Fondation che si erge su terreno pubblico tornerà tra 55 anni nelle piene facoltà dell’Amministrazione cittadina che avrà così un nuovo museo per la città e una ormai sedimentata icona della Parigi del XXI secolo.

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Sopra, Inside the orizon di Olafur Eliasson, opera site-specific realizzata al piano interrato nel percorso che costeggia l’auditorium. (foto Iwan Baan) Uno scorcio dell’auditorium principale a doppia altezza con l’intervento di Ellsworth Kelly; è dotato di 340 sedute su disegno di Frank Gehry prodotte da Poltrona Frau Contract. (foto Marc Domage) Nei disegni: planimetrie del piano terra, della galleria al quinto livello e del livello terrazzato. Nella pagina a fianco, i grandi pesci disegnati da Frank Gehry fluttuano nello spazio all’interno del ristorante Le Frank al piano terreno, gestito dallo chef Jean-Louis Nomicos. (foto Matteo Vercelloni)

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Sopra le Chiome degli Alberi

A Milano, nel sottotetto di un palazzo di recente ristrutturazione, un’abitazione sospesa sui tetti della città , con un terrazzo sovrapposto pensato come una serie di stanze en plain air, legate tra loro dal disegno del verde che si unisce a quello degli alberi sottostanti progetto di Studio Monzini-Raboni progetto del verde di Emanuele Bertolotti foto di di Mario Ciampi - testo di Matteo Vercelloni

Vista del soggiorno; a sinistra mobile basso di George Nakashima per 1stdibs; divano rosso Victoria&Albert di Ron Arad per Moroso; divano grigio collezione Project di Antonio Citterio per B&B Italia; tavolo basso centrale di Luigi Caccia Dominioni per Azucena. Dietro poltrona Superelastica di Vittorio Bonacina, design Marco Zanuso jr, Giuseppe Raboni. Una vista delle chiome degli alberi del Foro Bonaparte dalla terrazza.

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La veranda di arrivo alla terrazza collegata all’abitazione sottostante; intorno al tavolo, sedia Superleggera, Gio Ponti, produzione Cassina. Nella pagina a fianco, la scala metallica su disegno che affianca la libreria e collega alla veranda di accesso alla terrazza. Pavimento in mosaico di Fantini Mosaici.

L

a pratica del riuso del manufatto urbano, della trasformazione e della reinvenzione di strutture esistenti, negli ultimi decenni si è estesa con risultati non sempre eccelsi, al tema del recupero dei sottotetti che ha permesso di creare livelli aggiuntivi a palazzi preesistenti o di trasformare vecchi e polverosi solai in nuovi ambiti spazi residenziali, lavorando sul costruito. Così se un tempo, a cavallo tra ‘800 e ‘900, abitare ‘in alto’, nelle mansarde illuminate da piccoli abbaini, era riservato al ‘personale di servizio’, ma anche ad artisti e bohemienne, poeti e musicisti alle prime armi, oggi il sottotetto trasformato è diventato

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uno dei prodotti immobiliari tra i più ricercati. Uno spazio sospeso, lontano dal rumore del traffico e con stanze piene di luce e a volte, come nel progetto che presentiamo in queste pagine, corredato da ampie terrazze. Nel centro di Milano, affacciato sull’esedra del Foro Bonaparte, la ristrutturazione di un palazzo residenziale ha permesso di ricavare nel piano sottotetto un nuovo ampio appartamento con doppio affaccio e copertura piana trattata a terrazza. La filosofia d’insieme si basa sull’idea di costruzione di uno spazio contemporaneo in cui accogliere, quali presenze compositive, un’accurata selezione di arredi e di opere d’arte in grado di definire un racconto attentamente calibrato in cui coesistono figure provenienti da diversi Paesi, differenti periodi storici, e con poetiche distinte. L’ingresso all’abitazione, ubicato in corrispondenza della scala

condominiale nell’angolo destro, ha suggerito la creazione di un corridoio posto in diagonale proiettato verso lo spazio centrale del soggiorno, pensato come vera e propria cerniera e cuore dell’intera abitazione, su cui si aprono due grandi finestre. Qui si sviluppano in modo simmetrico lungo la facciata due stanze laterali; a sinistra l’angolo del camino, a destra la zona pranzo al cui intorno si dispongono cucina, guardaroba e locali di servizio. Le due piccole stanze, entrambe indipendenti e compiute, sono allo stesso tempo parte dello spazio centrale grazie alla soluzione di continuità, priva di porta o di parete divisoria, che le trasforma in una sua naturale estensione. L’unica camera da letto, con bagno dedicato, è disposta lungo il fronte interno, a fianco di un’ampia cabina armadio, di un bagno di servizio e di uno studio accessibile dal corridoio d’ingresso.

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Vista della sala camino; poltrona con pouf Lounge Chair di Charles & Ray Eames, produzione Vitra, divano grigio Arne di Antonio Citterio per B&B Italia. La camera da letto verso il terrazzo-giardino con mobile contenitore di Alik Cavaliere per Zanotta. Pianta dell’appartamento. Nella pagina a fianco, la sala da pranzo, tavolo su disegno di Marco Zanuso Jr, realizzato da Marzorati Ronchetti, sedia Superleggera di Gio Ponti, produzione Cassina.

Una piccola terrazza passante, separa la camera da letto dalla sala del camino, creando un lussureggiante piccolo giardino, offerto nel soggiorno dalla grande apertura vetrata, che vuole annunciare nell’abitazione il paesaggio verde sospeso, ricavato sulla terrazza che la sovrasta. Questa è collegata allo spazio sottostante tramite una leggera scala brunita con gradini di rete metallica a ‘nastro continuo’ che ben si rapporta alla maglia strutturale della copertura dello stesso materiale e colore, rimasta volutamente in luce a disegnare la geometria della falda spiovente della zona giorno. La scala rettilinea si sviluppa lungo la libreria su disegno che segna la spina divisoria attrezzata tra studio/ zona notte e soggiorno, per poi sfociare al livello della terrazza in un padiglione vetrato circondato dal verde. Ultimo spazio domestico, sottolineato dalla stessa pavimentazione a

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mosaico grigio impiegata nella zona giorno sottostante, filtro abitativo prima di accedere al giardino disegnato da Emanuele Bertolotti che accoglie ulteriori spazi di relax, ombreggiati e in pieno sole, da cui osservare il profilo dei tetti della città.

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city lights

A Londra, una panoramica penthouse sul tetto di un palazzo vittoriano di Chelsea: uno spazio-loft che si anima grazie alle luce filtrata dalle aperture e si accende di vibrazioni luminose al tramonto. Da abitare in compagnia di selezionati pezzi di arte e di design contemporanei, scelti con la passione del collezionista

progetto di Parisotto + Formenton Architetti local architect studio Gregori Chiarotti foto di Paolo Utimpergher - testo di Antonella Boisi

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Vista d’insieme del living, un’open space unitario di grande respiro, come sottolinea anche l’uniforme pavimentazione in rovere naturale. Tutti i suoi ambienti, in sequenza due salotti (uno per conversare, l’altro intorno al camino) e la zona pranzo, fino alla cucina su disegno allocata nella parte terminale vivono delle molteplici relazioni visive che instaurano con l’esterno tramite la parete vetrata.

U

na buona architettura può creare atmosfera anche senza mobili, disegnare un vuoto che è densità e pienezza? Si, assolutamente, quando si rapporta all’efficacia con cui Aldo Parisotto e Massimo Formenton prefigurano spazi e li plasmano con la luce. Diciamolo subito. Per chi volesse approfondire, il rimando va ad Atmosfere Domestiche, la seconda monografia che Electa Architettura dedica al lavoro, nella specificità residenziale, dello studio padovano per celebrare 10 anni di apertura della sede milanese e 25 (nel 2015) di attività, sulla scena nazionale e internazionale, che spazia dalle architetture

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Nella pagina accanto, la grande terrazza dell’appartamento che regala una vista a 360° su Londra e la facciata di vetro schermata con un sistema di brise soleil che modulano e mitigano il passaggio della luce nelle zone living. Integrate nell’architettura, luci di Zumtobel.

residenziali agli allestimenti museali, dallo yacht design al concept delle boutique Nespresso nel mondo (Toronto ha vinto il 43rd Store Design Award 2014 nella categoria Bar, Coffee and Tea Shops), un core business di progetti per il retail della moda e del lusso nel Far East, in Sud America, Cina, Giappone, Russia. Nel nostro piccolo, testimonianza di questa efficacia narrativa, priva di gesti clamorosi ed enfasi, è il racconto del loro recente intervento per una penthouse sui tetti di Londra: un volume di vetro appoggiato con una leggera struttura in acciaio sulla copertura di un palazzo vittoriano nella zona di Chelsea. Un autentico elogio della

luce e del potere evocativo di riflessi e velature. “Orchestrarla non è mai un esercizio stilistico fine a se stesso, ma funzionale a rivelare tutte le presenze – superfici, materiali, oggetti – che, definendone il carattere, creano gli spazi” spiegano i progettisti. Non è poco riuscire a dare un’anima all’architettura, manipolando la luce, cangiante materia del progetto architettonico, per riportarla nei confini di una scrittura rigorosa espressa con pochi segni forti e linee pure, piani ortogonali e tagli netti sullo skyline: occorrono estremo controllo compositivo, attenzione al contesto ambientale di riferimento, coerenza di linguaggio.

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E in questo Parisotto e Formenton, con una sensibilità che rimanda alla grande scuola italiana, sono maestri. La location, un loft di 260 mq circa, una planimetria a L, quattro pilastri nell’open space dell’area giorno, era frutto di un ampliamento-sopralzo già realizzato. “L’abbiamo trovata così, insieme alla vetrata continua, oltre 20 metri di trasparenza, che la caratterizza. Perfetta per imbastire un nuovo racconto, mantenendo il layout originale” riconoscono.“Nel suo affaccio verso sud-est, questa presenza arretrata rispetto al filo di facciata, coronata da un ampio terrazzo, offre infatti uno spettacolo straordinario sul panorama londinese, mette in contatto visivo la città con l’interno, e di notte si trasforma in una suggestiva lanterna, un luminoso landmark della metropoli”. Occhio scenografico e per i due progettisti veneti di lungo corso è stato quasi un gioco da ragazzi: studiata la riconfigurazione

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distributiva e spaziale, la continuità dei percorsi e la circolazione fluida tra gli ambienti, hanno agito sulla schermatura dell’apertura privilegiata, realizzando un sistema di brise soleil che mitigano la luce affinché il sole entri con passaggi graduali negli ambienti del generoso living a cui è dedicata. È diventato un modo per valorizzare il respiro spaziale dei due salotti (uno per conversare, l’altro organizzato intorno al camino) e della zona pranzo che articolano uno spazio unitario ed ininterrotto, senza soluzione di continuità fino alla cucina allocata nella parte terminale insieme alla dispensa. E altresì, un escamotage per aprire, con modulate intensità luminose, la casa alle numerose esigenze di ricevimento del proprietario, quando la stagione lo consente, fino alla terrazza belvedere, che integra il sistema di frangisole esterno e un parapetto vetrato acidato nella parte inferiore per ragioni di privacy. Queste ricercate sensazioni

Arredi vintage e di product-design italiano contemporaneo affiancano pezzi africani tribali, scelti con la passione del collezionista, nel living. Divano Charles di Antonio Citterio per B&B Italia. Tavolino in legno di Christian Liaigre. Nella zona-pranzo sul fondo, fa capolino il lampadario Artichoke di Poul Henningsen per Louis Poulsen. Libreria Eracle by Antonio Citterio per Maxalto.

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spaziali di riflessi e penombre vibranti coinvolgono anche la prima stanza che un visitatore incontra quando arriva, orientata sempre a sud-est, che funge da centro snodocerniera tra la parte living e quella notte. Definirla hall d’ingresso sarebbe riduttivo – anche se vi si attestano su lati opposti, sia la scala che l’ascensore privato, e un piccolo guardaroba – perché in questo spazio si sintetizza in modo eloquente tutto il mood del palcoscenico domestico: diversi gradi di luminosità, appassionato accostamento tra arredi-icona di design del Novecento (pezzi vintage ed elementi di produzione italiana di primissima qualità) e opere d’arte, materiche, monocrome, grafiche, qui affidate a selezionati pezzi di Herbert Hamak in resina che riflettono la luce e il mix di tonalità arancio-verde-rosso delle sedute e del tappeto, e, per contrasto, nel living a pezzi africani tribali.

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Pezzi iconici di design anche per lo spazio dell’ingresso: le poltrone Utrecht di Cassina (design Gerrit Thomas Rietveld) e il pouf Henry large di Antonio Citterio per B&B Italia dialogano con una lampada vintage di Gio Ponti e, sul piano cromatico, con l’opera d’arte contemporanea di Herbert Hamak in resina riflettente appesa alla parete bianca. Nel disegno: l’impianto planimetrico a L dell’appartamento.

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Guardando dalla master room, testata conclusiva del percorso, si nota la profondità del cannocchiale visivo che, filtrato dall’apertura vetrata, integra il paesaggio all’interno della casa.

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Nella scoperta progressiva degli spazi, dalla zona d’ingresso, si dispiega poi il cannocchiale che indirizza lo sguardo verso il corridoio – concepito come una galleria fotografica, con scatti in bianco e nero di autori italiani degli anni Cinquanta e pervaso di luce zenitale che si effonde dal lucernaio originale integrato nella costruzione spaziale. Distribuisce sui lati, in modo speculare, due camere gemelle per gli ospiti con servizi dedicati e sul fondo, come testata conclusiva del percorso, la master room con il bagno a destra e la cabinaarmadio a sinistra, che gode del privilegio di un doppio affaccio su due terrazzi d’angolo in mattoni dal sapore molto british. Grazie ad aperture e lucernai gli spazi si animano di luce filtrata anche in questi ambienti-notte; fino al dettaglio dei due oblò preesistenti sulla lunga parete di pertinenza della camera da letto padronale che sono stati riportati in una cornice quadrata integrata da una veneziana, ritagliando una nicchia nel cartongesso.“Una precisa richiesta di mimetizzazione del committente” spiegano i

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La master room, pareti bianche e parquet in rovere naturale, è un guscio nitido e neutrale, reso luminoso dal lucernaio preesistente, come i due oblò riportati in nicchia e integrati con una veneziana. Letto e poltrona della collezione Febo di Maxalto (design Antonio Citterio), comodini Fat Fat di Patricia Urquiola per B&B Italia. Sotto, nel bagno dedicato rivestito in limestone, lavabi Gobi e rubinetteria Liquid di Boffi; radiatore Vola.

progettisti che hanno disegnato appositamente tutti gli armadi così come gli arredi fissi, la cucina e i bagni, con pulizia di forme e volumi netti; e, in quanto alle scelte materiche, adottato un’omogenea pietra limestone per i rivestimenti che armonizza con le pareti dipinte di bianco e con il legno di rovere chiaro dei pavimenti, in listoni di grande formato. Pochi materiali naturali, caldi e tattili, dosati proprio per non interferire con la percezione di un guscio nitido, neutrale, luminoso, dall’atmosfera dilatata e rarefatta di una galleria d’arte. Pronta ad accogliere altre opere dimmerate dalle luci di Zumtobel , ma senza dimenticare che il quadro più bello resta il landscape introiettato tra le pareti domestiche.

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HauTe hôtellerie progetto architettonico di Archlane progetto d’interni di Tom Dixon foto courtesy of The Mondrian London at Sea Containers testo di Valentina Mariani

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Gli interni dell’ascensore dell’Hotel Mondrian: una gigantografia sulla parete vede Tom Dixon vestire i panni di un astronauta accanto al giovane Pearly King. Nella pagina a fianco, l’area della lobby, dove un’ancora marittima oversize ispirata alle sculture Pop-Art anni Sessanta realizzata in schiuma di poliuretano accoglie gli ospiti.

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A sud del Tamigi, Tom Dixon firma gli interni del primo Mondrian hotel europeo, ispirato, nelle forme, nei materiali e nelle atmosfere ricercate, alle dimensioni oniriche dell’epopea d’oro dei transatlantici. nel segno di un nuovo incontro tra cultura anglo-americana

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o scafo, interamente rivestito in rame e che si sviluppa attorno alla lobby. I materiali metallici e ottonati negli spazi comuni e nelle camere. Gli oblò, nei bagni. Questi elementi non lasciano alcun dubbio: siamo all’interno di un transatlantico (virtuale) attraccato sulle rive del Tamigi. Indirizzo preciso, al numero 20 di Upper Ground. È questo lo stile scelto per il primo Hotel Mondrian in Europa, nell’interpretazione della mente creativa di Tom Dixon, british designer ultra premiato che non ha bisogno di presentazioni. Il Mondrian nasce a South Bank, all’interno di Sea Containers House, una costruzione degli anni Settanta pensata per ospitare un hotel extra lusso, ma destinata solo ad uffici, fino alla nascita di questo progetto di haute hôtellerie due anni fa.

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In questa pagina, in senso orario: il modellino di un transatlantico sospeso accoglie gli ospiti all’interno dell’American Bar del ristorante Sea Containters. Gli specchi, luminosi, dei bagni comuni al piano terra, che nello stile ricordano gli oblò di una lussuosa nave da crociera. Nella pagina a fianco, gli interni di Den, area lounge tra il ristorante Sea Containers e il Bar Dandelyan, con poltrone in pelle e in ferro battuto, librerie e tavoli da caffè, tutto rigorosamente by Tom Dixon.

“La struttura originale progettata da Warren Platner nel 1978, architetto americano specializzato in navi da crociera, certamente si presta allo stile di Mondrian” racconta Dixon, e aggiunge: “20.810 metri quadrati di superficie ristrutturati da Archlane nel 2012, hanno fatto spazio al nostro progetto: un hotel in cui sembra di stare in un sogno”. Il piano di ristrutturazione ha previsto non soltanto la riqualificazione degli interni e degli esterni dell’edificio, ma anche la rivitalizzazione delle aree aperte ai passanti, come la passeggiata lungo il fiume. Ad accogliere gli ospiti un’enorme ancora marittima blu brillante, realizzata in schiuma di poliuretano, che si ispira alle sculture Anni Sessanta della Pop Art. Poco distante dalla hall c’è il ristorante Sea Containers, in cui lo chef Seamus Mullen porta a Londra la sua cucina newyorkese a chilometro zero, e ne crea l’incontro con quella British, utilizzando

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ingredienti healthy (dal produttore al consumatore) in un “laboratorio” a vista, con forno a legna. Per il dopo cena c’è Dandelyan, elegante bar dall’eccentrico bancone in marmo verde (come le pareti), divani in pelle rosa, elementi metallici e dorati, superfici a specchio e raffinati cocktail di stagione. Nello spazio tra il ristorante ed il bar si trova Den, un’area lounge pensata per favorire la socializzazione degli ospiti, tra uno snack, un english afternoon tea e una partita a backgammon. “Abbiamo voluto esplorare il tema della relazione anglo-americana e creare un incontro fra il meglio delle due culture”, racconta Dixon. E America e Inghilterra si incontrano anche dentro gli ascensori. Cabine ultramoderne in cui gigantografie di Tom Dixon vestito da Astronauta e Pearly King, la Regina Elisabetta e un cantante rock, un british man e una starlette di Hollywood accompagnano i clienti tra un piano e l’altro.

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In questa pagina: gli interni del Dandelyan Bar, con mobili vintage, elementi metallici, superfici a specchio e pareti verde smeraldo. Nel bar vengono serviti agli ospiti i cocktail di Ryan Chetiyawardana; una stanza standard con vista; gli arredi sono su misura, il letto è queen size. Nella pagina a fianco, un’enorme goccia dorata diventa protagonista degli spazi interni dell’area relax di Agua Bathhouse and Spa. Siamo nell’interrato dell’Hotel Mondrian.

Il viaggio esplorativo continua nei piani superiori, dove si trovano le 359 camere che formano la proposta ricettiva. Vanno da quelle Standard ai lussuosi River View Apartments e qui l’atmosfera è a metà tra l’eleganza europea Anni Venti e il glamour hollywoodiano. Così, entrare in un mondo a sé stante risulta davvero semplice. Mobili rigorosamente su misura, colori più tenui rispetto alle aree comuni e abbondante utilizzo di metallo e ottone sono tutti elementi che ricordano agli ospiti di essere all’interno di un transatlantico, nel caso se ne fossero scordati. Come tutti i Luxury Hotel che si rispettino, non manca una palestra aperta 24h su 24, la zona relax sotterranea firmata Agua Bathhouse & Spa e rivestita con piastrelle optical e un’elegante sala cinema Blu China con 56 posti a sedere gestita da Curzon. Per gli amanti dei panorami da favola c’è anche un rooftop bar aperto da pochissimo. Luogo perfetto per suggestivi “party in the sky” con vista “above the river”.

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DAvid Lynch “GIra” aL Mast progetto di labics - Maria Claudia Clemente, Francesco Isidori foto di Christian Richters e Rocco Casalucci testi di Laura Ragazzola e Olivia Cremascoli

È solo l’ultima iniziativa in ordine di tempo della Fondazione no profit nata a Bologna nel 2013, che dedica al visionario regista un’ampia rassegna fotografica sul tema della fabbrica. Nelle sale espositive del MAST, l’eclettica personalità dell’artista americano trova ‘casa’, sposandone in pieno la vocazione per la ricerca e la sperimentazione

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L’opera dell’artista Mark di Suvero – si intitola ‘l’Old Grey Beam’ – domina il parco, progettato dall’architetto-paesaggista Paolo Pejrone: in queste pagine due immagini nelle versioni giorno e notte. Il patrimonio artistico del MAST (all’interno si avvicendano altre opere d’arte contemporanea, come per esempio la ’Sfera’ di Arnaldo Pomodoro) sono fruibili non solo dalla comunità aziendale del Gruppo Coesia, ma anche dalla cittadinanza. L’obiettivo è infatti innescare un rapporto virtuoso e creativo fra pubblico e privato, un proficuo processo di osmosi fra impresa e città.

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rte, fotografia, cinema, sperimentazione (si contano più di una ‘gallery’ e uno spettacolare auditorium per 410 persone). Ma anche gastronomia (a un ristorante si affianca una caffetteria), salute e innovazione sociale (ci sono un centro wellness e un nido d’infanzia pieno d’allegria). Sono queste le eclettiche vocazioni del MAST (acronimo di Manifattura di Arte, Sperimentazione e Tecnologia), 25 mila metri quadrati multitasking che hanno trasformato un’area industriale dismessa alla periferia di Bologna in un edificio-ponte fra impresa e collettività. MAST nasce, infatti, dall’iniziativa filantropica (e visionaria) di Isabella Seragnoli, presidente di Coesia, azienda leader a livello mondiale nel settore della macchine automatiche avanzate e della meccanica di precisione. La novità del progetto, che porta la firma di Claudia Clemente e Francesco Isidori, giovani animatori dello studio romano Labics, è quello di creare (e ‘regalare’) servizi avanzati che, oltre a essere funzionali all’azienda, la Coesia appunto,

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Nella pagina a fianco in alto, il nido d’infanzia aperto alla collettività: una superficie policroma a bacchette ne individua il volume rispetto al corpo dell’edificio vetrato, che invece caratterizza il ristorante aziendale (sotto). Nel programma espositivo del MAST ampio spazio è dedicato alla fotografia (in alto), come testimonia la rassegna di foto del regista americano David Lynch (nelle pagine successive).

vengono condivisi con il tessuto urbano (tutte le attività sono, infatti, totalmente aperte alla cittadinanza ad eccezione del ristorante, che è aziendale). Il risultato è un edificio complesso, fatto di volumi sovrapposti e sospesi, dove si mescolano spazi destinati a usi molto diversi. Si parte dal ristorante aziendale del piano terreno, a cui si affiancano una sala espositiva, vari ambienti di servizio, una palestra e un nido d’infanzia, che può contare su un proprio giardino. Al piano superiore, invece, si trovano due sale espositive e una caffetteria, mentre all’ultimo livello prende forma lo scenografico foyer con auditorium. Sotto quota zero, infine, si trovano tre piani di parcheggi. La complessità funzionale e volumetrica dell’edificio si contrappone alla trasparenza e morbidezza della pelle ‘cristallina’ che avvolge tutta la struttura: lastre vitree, opalescenti, a doppio spessore, finemente serigrafate con stilizzati tendaggi. L’effetto è davvero sorprendente: la schermatura stempera e quasi annulla i contorni dell’architettura, che sembra confondersi nelle

sfumature del cielo diurno per accendersi come una lanterna in quello notturno. Solo l’ala dedicata al nido d’infanzia sceglie il colore con un rivestimento ceramico ‘a bacchette’ policrome, quasi un omaggio alla vitalità e spensieratezza dell’infanzia. Ma il cuore del Mast è soprattutto la sperimentazione: cercare, cioé, di offrire alla collettività momenti coinvolgenti di cultura e di didattica, d’intrattenimento e di spettacolo (ma anche di gioco per i più piccoli) per migliorare la qualità di vita e di lavoro sul territorio urbano e periferico (tutte le attività su www.mast.org). L’ultima iniziativa in ordine di tempo? Il ‘taglio’ fotografico (inedito ai più) di un grande registra, David Lynch, a cui dedichiamo un approfondimento nelle pagine successive.

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Diretta da Urs Stahel, la Photo Gallery (apertura: da martedì a domenica, dalle 10 alle 19) della fondazione Mast di Bologna con la mostra David Lynch. The Factory Photographs.

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trafascinoso giovanotto settantenne dal ciuffo rockabilly, David K. Lynch continua a tenere sulla corda i suoi milioni di fan grazie alle sue attività artistiche dalle plurime sfaccettature, di cui al proposito dice: “Sono un essere umano che si diverte a catturare idee e poi a tradurle in un medium o in un altro”. Perciò, dall’attuale lancio del cofanetto di culto, nuovo fiammante, I segreti di Twin Peaks (1990), la serie

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completa in dieci Blu-ray disk, ognuno introdotto dall’ultra-terrena Signora Ceppo (Catherine Coulson), al recentissimo annuncio che assicura David Lynch e Mark Frost pronti a girare, nel 2015, una nuova serie di nove episodi di Twin Peaks, con il vecchio cast magari al completo, compreso l’angelico agente speciale Dale Cooper (Kyle MacLachlan), godibile telesivamente nel 2016 (“Il misterioso mondo di Twin Peaks ci sta strattonando all’indietro. Ne siamo eccitati. Possa la foresta essere con voi”, Mark Frost & David Lynch); né mancano le sue mostre di fotografia, che vengono soprattutto

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Da The Factory Photographs, esposizione realizzata da The Photographers’ Gallery di Londra (17 gennaio - 30 marzo 2014) e in mostra, fino al 31 dicembre, alla Mast Photo Gallery di Bologna:

organizzate a Parigi, sua seconda patria (da Paris Photo con la Galerie Item alla Maison Européenne de la Photographie, alla Fondation Cartier pour l’art contemporain), ma, più di recente, anche in Italia. Ne è un esempio David Lynch: The Factory Photographs (a cura di Petra Giloy-Hirtz), fino al 31 dicembre presso la Photo Gallery del Mast, Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologia di Bologna (www.mast.org), cioè 111 opere fotografiche (di cui 14 inedite) in bianco e nero, realizzate in due diversi formati (28 x 35,6 cm e 100 x 150 cm) – che hanno per soggetti

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archeologie industriali di Berlino e di Lodz (Polonia), del Regno Unito e del New Jersey, di New York e di Los Angeles – scattate nell’arco di un trentennio (1980 – 2000) da Lynch, che ha dichiarato: “Amo l’industria. I tubi. Amo liquame e fuliggine. Amo le cose sintetiche. Mi piace vedere gente che lavora sodo, e mi piace vedere melma, spurghi e rifiuti artificiali”. Fanno parte della mostra un’installazione sonora dell’artista e una selezione dei suoi primi ‘corti’ meno conosciuti – Industrial Soundscape, Bug Crawls, Intervalometer: Steps – che vengono proiettati a ciclo continuo.

1. David Lynch, Untitled (Lodz), 2000, Archival gelatin-silver print 11 x 14 inches. All photographs in an edition of 11. © Collection of the artist 2000. 2. Mark Berry, Portrait of David Lynch (courtesy of the artist). 3. David Lynch, Untitled (England), late 1980s/early 1990s, Untitled, 2000, archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches. © Collection of the artist.

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Come ti ‘rivesto’ la vita foto courttesy Toyo Ito & Associates testo di Antonella Boisi

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A Cersaie 2014, la Lectio magistralis di Toyo Ito introdotta dal professore Francesco Dal Co, come momento di riflessione sul significato di una ricerca architettonica che, nel segno della sperimentazione e dell’ immaterialità, vuole riappropriarsi del rapporto uomo-natura

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Disegno di progetto. Si evince il processo strutturale a catena con truss unit alla base della composizione. Pavimenti, pareti e facciate sono create dalle aperture plug-in che, variando in altezza, definiscono connessioni spaziali differenti. Nelle immagini: fasi costruttive del National Taichung Theater, commissionato dal Taichung City Government, Republic of China (Taiwan). La realizzazione della pelle architettonica segue una tecnica step by step che permette alle curvature delle superfici di acquisire una tridimensionalità ogni volta differente. Infatti, sfalsando e distanziando due piani di membrana elastica, in orizzontale e verticale, si definiscono delle cavità vuote irregolari, nei punti di contatto rinforzate da gettate in calcestruzzo.

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osa rende l’architettura di Toyo un appuntamento di interesse e stimolo per Costruire, Abitare, Pensare nel XXI secolo? “La sua capacità di rivestire la vita, che non insegna ma aiuta a vivere” ha messo a fuoco il professor Francesco Dal Co, introducendo la Lectio Magistralis del progettista giapponese, Pritzker Prize 2013, nell’ambito del programma culturale di Cersaie 2014 a Bologna.“Nel ricercare il rapporto con le occasioni che la vita ci offre” ha continuato “noi diamo espressione a ciò che la vita è (e che, senza la nostra capacità di interpretazione, sarebbe soltanto un trascorrere). Gli architetti trasformano la vita in tempo e danno forma alle cose, traducendone le diversità. Toyo Ito lo fa, senza mai essere volgare, seguire mode o sentimenti effimeri. Nelle sue architetture c’è l’eleganza che le cose assumono quando sono espressione della forma dei tempi”. Già, è sempre una questione di modi e di tempi.

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La composizione architettonica dell’Opera House raccontata attraverso evocativi schizzi di Toyo Ito che, tra l’esploso assonometrico longitudinale e la visualizzazione delle aree verdi che circondano l’edificio, riportano al centro della riflessione la ricerca del dialogo uomo-natura.

Il concept del plug-in che ha ispirato il progetto: due superfici plastiche distanziate l’una dall’altra, che, nei punti di contatto, creano degli interstizi vuoti, ad effetto scultoreo, ma anche a funzione di sostegno della struttura. Accanto, la composizione integrata dei tre teatri. Da sinistra, rendering (by Kuramochi + Oguma) della Play House (800 posti), del Grand Theatre (2000 posti), del Black Box (200 posti), il teatro più piccolo prossimo all’inaugurazione.

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E la ricerca di composizioni volumetrico-spaziali “non materiali”, in cui l’ossessione della lievità e della trasparenza mixa il mondo fisico con quello virtuale, è una cifra che caratterizza tutto il percorso di Ito. Dal 1971 quando firma la prima casa in alluminio e vetro. Fino alle opere più note quali la Mediateca di Sendai (Giappone, 1998/2000), il palazzo Omotesando di TOD’S (Tokyo, 2004), la biblioteca della Tama Art University (Tokyo, 2007), l’allestimento della personale alla Basilica Palladiana di Vicenza nel 2008. “L’aspetto più originale della sua carriera” ha proseguito Dal Co “è di sottrarsi ogni volta alla definizione tipologica e ai vincoli che essa rappresenta. A questo si lega la straordinaria capacità di sperimentare metodi costruttivi e materiali innovativi, cercando nella leggerezza e nella chiarezza delle strutture una chiave espressiva mai scontata”. Un esempio per tutti: il National Taichung Theater a Taichung City, Taiwan, una realizzazione in fieri (deadline prevista, novembre 2015, dopo

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dieci anni dal concorso vinto nel 2005), dove la ricerca dell’espressione intrinseca dei materiali è particolarmente evidente nella modellazione della membrana elastica, che si rapporta alla grande capacità di interpretazione della specificità del luogo d’intervento. In estrema sintesi, il concept progettuale si declina con due superfici plastiche distanziate l’una dall’altra che, nei punti di contatto, creano degli interstizi vuoti, ad effetto scultoreo, ma anche a funzione di sostegno della struttura.“Questo principio ha creato” ha concluso Dal Co “un edificio poroso, dove la tonicità non è il risultato di un esercizio formale, ma di un’intuizione statica legata al modo di utilizzare il materiale”. Una genesi complessa quella dell’Opera House, contenitore che integra tre teatri, rispettivamente da 2000, 800 e 200 posti, insieme ad una serie di spazi di ristorazione e di sosta, anche culturale, nel contesto di un lussureggiante parco a ridosso di un quartiere residenziale di Taichung City. “Mi sono ispirato alle cavità del volto umano, tra bocca, naso, orecchie, che ci mettono in relazione con l’esterno” ha raccontato Toyo Ito. “Il trasferimento metaforico di questo concept in architettura, mi ha portato a sviluppare una

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struttura spaziale organica, con la tecnica del muro a capriata: una ‘grotta’ del suono, di forma longitudinale, che apre ‘una finestra’ sulla città del futuro, grazie alla sua ‘pelle’. In pratica, sfalsando e distanziando due piani di membrana elastica, in orizzontale e verticale, si sono create delle cavità vuote irregolari, nei punti di contatto rinforzate da gettate in calcestruzzo. Prima che quest’ultimo fosse completamente indurito, abbiamo rimosso la griglia dei reticolati metallici, dentro i quali aveva preso forma. Può sembrare una tecnica molto primitiva, ma era necessario costruire una morfologia step by step che permettesse alle curvature delle superfici di acquisire una tridimensionalità ogni volta differente. Così è diventata un’operazione particolarmente lunga e faticosa”. Sulle pareti è stata poi data una mano di calce e ancora di vernice a suggerire una continuità fluida; in copertura, il calcestruzzo è stato invece reso idrorepellente e ‘piegato’ alla definizione di un verde roof garden. In questo involucro, che si adatta con flessibilità ai diversi programmi funzionali dell’edificio, nella convinzione che le arti teatrali siano arti spaziali e connubio di corpo, musica e performance, la parte più alta è stata destinata allo spazio del

ristorante, mentre il foyer al piano terra si è configurato come un giardino virtuale punteggiato di opere naturalistiche realizzate da una rosa di artisti di Taiwan. Il teatro più piccolo, il primo che vedrà compiutamente la luce, a breve, avrà poi un anfiteatro concepito come un prosieguo in esterno del palcoscenico interno.“Perché la mia mission in questo come in altri lavori” ha spiegato Toyo Ito “è quella di riappropriarmi di un dialogo più diretto con le cose che ci circondano, e di ricostruire la relazione tra essere umano e natura, partendo proprio dai materiali capaci di svelarla. Cemento, legno, ceramica, alluminio…il tipo poco importa; l’importante è non restare omologati e perseguire paradigmi di leggerezza e trasparenza nel modo di utilizzarli. Un grande tema dell’architettura del futuro sarà anche per me la comprensione di come le persone possono vivere meglio le une con le altre”. E di questo parla in modo emblematico la ricerca sociale Home for All, portata avanti da Ito con altri illustri colleghi, in Giappone, dopo lo tsunami del 2011: un progetto per i centri di soccorso e accoglienza, concepito ascoltando i futuri abitanti di quei luoghi e quelle case, con le loro necessità, bisogni e desideri.

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Ugo La Pietra, dal Sistema Disequilibrante, le Immersioni diagramma immersione Audiovisiva, penna su carta, 1969.

Un finto designer: Ugo La Pietra

intervista di Germano Celant

Dal 26 novembre al 15 febbraio, il Triennale Design Museum presenta Progetto disequilibrante, la prima grande mostra monografica sul lavoro di Ugo La Pietra dal 1960 a oggi, mettendo in luce l’aspetto umanistico di questo spirito eclettico: Architetto, artista, cineasta, editor, musicista, fumettista, docente, osservatore critico della realtà ...

Ugo La Pietra, dal Sistema Disequilibrante, le Immersioni, diagramma immersione Colpo di vento (una boccata d’ossigeno), penna su carta, 1970.

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Ugo La Pietra, dalla Sinestesia tra le arti Gruppo del Cenobio, olio su tela, 1963.

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ella lettura delle vicende che segnano la storia dell’architettura quanto del design, manca uno studio del percorso fondante dell’artista che trasforma la sua libera creatività in produzione funzionale. Se pensiamo il transito linguistico che segna il lavoro da Le Corbusier a Sottsass, da Enzo Mari a Hans Hollein, da Zaha Hadid a Steven Holl, è dato notare che questo mutamento interno è importante per spingere la ricerca verso una dimensione inedita nei diversi territori del progettare e del costruire. Anche il tuo viaggio nei diversi paesaggi del pensiero concreto è segnato da questa osmosi continua tra essere artista e architetto-designer. Hai iniziato come artista informale, quindi come

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propugnatore di ‘non forme’, per approdare ad un lavoro di definizione di forme... “Io, come altri artisti – ad esempio Enzo Mari – avevamo già qualche particolare matrice che ci ha portato verso questo percorso un po’ anomalo; è pur vero che mi sono laureato in Architettura e mi sono quindi aperto a una formazione più ampia. Lo stesso Sottsass era una persona molto aperta: un artista che ha attraversato la Bauhaus immaginista e molte altre esperienze artistiche; però era in qualche modo architetto, tipicamente italiano. Gli stessi architetti, da Magistretti a Ponti, erano persone

che hanno aperto l’orizzonte della loro disciplina: sono andati molto oltre: Ponti, ad esempio, dipingeva affreschi. Avendo curato e pubblicato un libro su Ponti, ho approfondito molto la sua figura e ho potuto constatare (da alcune testimonianze di Agnoldomenico Pica) che alla fine della sua vita lamentava di non essere stato un pittore: voleva fare l’artista e ne ha sempre sofferto, come Sottsass soffriva di non avere potuto fare l’architetto”. Di fatto, la matrice è un muoversi quasi schizofrenico in cui la solitudine dell’arte con i suoi singoli artefatti si traduce in design di prodotti che

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Ugo La Pietra, da La mia territorialità, La città scorre ai miei piedi, penna e matita su carta, 2010.

Ugo La Pietra, Il giardino delle delizie, penna su carta, 1990.

informano il consumo e la comunicazione di massa. “Questo fenomeno di apertura verso altre discipline porta, molto spesso, a un sentimento di sofferenza per il fatto di non essere abbastanza riconosciuti, di non avere molto successo. Una sofferenza che ho sentito meno di altri perché per me, fin dall’inizio, è stata come una dichiarazione di intenti. Di fatto, non sono né artista, né architetto, né designer perché ho sempre fatto ricerca nelle arti visive: è questo che vorrei riuscire a fare capire alle persone che visiteranno Progetto disequilibrante, la mia mostra in Triennale. La risposta è la stessa che dò alla gente che si trova tra le mani le mie monografie, e mi chiede: “Ma tu dove stai andando, cosa stai cercando?” È semplice: fare ricerca vuol dire non porsi mai degli obiettivi, ma rimanere aperti e disponibili all’esplorazione. Tante sono le

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ricerche che ho sviluppato e ogni volta che affrontavo un argomento o venivo sollecitato da un soggetto – urbano o ambientale – rispondevo con gli strumenti che sentivo più adatti: facevo cinema o performance in completa e totale libertà, e questo è successo anche perché non sono mai stato legato al mercato. Vorrei ricordare che mi

sono laureato nel 1964 con la tesi Sinestesia tra le arti per il superamento dell’integration des arts, e a distanza mi sembra che il mio esercizio creativo quotidiano mi abbia condizionato a tal punto da diventare uno strumento sinestetico, attraversando le varie discipline con continui travasi dall’una all’altra”. Lavorare sulle componenti linguistiche collaterali può permettere allargamenti inediti, perché la lateralità permette variabilità e pensieri sorprendenti. È un non procedere per blocchi, ma per aperture, senza alcuna previsione... “È un fenomeno italiano quello di essere ‘a-disciplinari’, capaci di superare la dimensione stretta della disciplina. Nel mio caso, il discorso è accentuato perché ho fatto e faccio cose che vanno oltre lo specifico. Ho diretto nove riviste, ho scritto e ho teorizzato parecchio, ho insegnato per

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Ugo La Pietra, dall’Effetto Randomico, le Strutturazioni tissurali. strutturazione tissurale, metacrilato lavorato a freddo, 50x50 cm, 1967.

Ugo La Pietra, dal Sistema Disequilibrante, il Commutatore, 1970.

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Ugo La Pietra, dal Sistema Disequilibrante, le Immersioni. Immersione Caschi sonori, installazione alla Triennale di Milano (con Paolo Rizzatto), 1968.

Ugo La Pietra, dal Sistema Disequilibrante, le Immersioni negozio Altrecose di Milano (con Paolo Rizzatto e Aldo Jacober), 1969.

Ugo La Pietra, dal Sistema Disequilibrante, libreria Uno sull’altro, 1968. Ugo La Pietra, Il Monumentalismo, 1972.

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Ugo La Pietra, da Abitare è essere ovunque a casa propria, interno/esterno performance a Linz (Austria), 1979.

Ugo La Pietra, da Il Neoeclettismo, Credenza neoeclettica, realizzata da Legend (Tezze sul Brenta, VI), 1988.

Ugo La Pietra, da Memoria tridimensionale, memoria bidimensionale. Cronografie. La memoria nei diari, film La ricerca della mia identità, mostra allestita durante la Mostra internazionale d’ architettura, Venezia, 1980.

Ugo La Pietra, da Il Neoeclettismo, Casa palcoscenico, mostra realizzata ad Abitare il Tempo di Verona, 1989.

Ugo La Pietra, da La mia territorialità, Amore Mediterraneo, ceramica realizzata a mano da Giovanni D’Angelo (Polizzi Generosa, Palermo), 2000.

Ugo La Pietra, da La mia territorialità, Libro aperto: Territori, terracotta ingobbiata e incisa, realizzato nel laboratorio-studio Ernan Design, Albissola, 2004.

Ugo La Pietra, Da Naturale/Virtuale, Casa Virtuale, mostra alla Triennale di Milano, 1993.

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un finto designer / 43

Ugo La Pietra, da Abitare è essere ovunque a casa propria, interno/esterno, Casa aperta, Cersaie di Bologna, 1988.

Ugo La Pietra, da La mia territorialità. Pianificazione urbana, acrilico su tela, 100 x100 cm, 2010.

cinquant’anni. Ho fatto molto cinema. Mi sono mosso veramente in diverse aree, e con una certa disinvoltura, ed è forse questa la mia caratteristica, che spesso è stata letta come negativa perché non ha permesso di riconoscere facilmente il mio ‘segno’, cioè quello che molti chiamano ‘stile’. Questa disinvoltura mi ha anche portato ad aprirmi verso il mondo dell’artigianato, grazie alla scoperta – all’inizio degli anni Ottanta – che un’enorme fetta (circa il 70%) della produzione era di oggetti legati alla tradizione (stili e modelli). Oggetti che erano depositari di tutta la cultura del fare, che però il disegno industriale italiano ignorava e, anzi, disprezzava! Il mio atteggiamento – radicale – è diventato una missione nel cercare di ridare valore, con il progetto contemporaneo, a tutta questa grande area culturale e produttiva sommersa. L’ho fatto teorizzando e praticando il Neo-eclettismo, che non era il recupero di alcuni stilemi del passato (come accadeva nel Postmoderno), ma il recupero di tutto ciò che rappresentava, nel passato, valori formali, materiali, di lavorazione. E, così, negli anni Ottanta/Novanta, mentre il design italiano si entusiasmava per le esperienze dei gruppi Alchimia e Memphis, io percorrevo le strade del nostro artigianato artistico sommerso”. Tuttavia, come ricercatore di soluzioni inedite relative al momento storico e alla situazione progettuale,

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ti sei posto delle coordinate operative molto precise: le puoi evidenziare? “I punti di riferimento essenziali sono almeno quattro: il primo è ‘la sinestesia tra le arti’ che è il tema della mia tesi di laurea: fin da allora ero convinto che fosse finito il tempo dell’integration des artes e che occorresse lavorare in termini di ‘travasi’ tra una disciplina e l’altra; il secondo è ‘il sistema disequilibrante’: una teoria che non prevedeva, a metà degli anni Sessanta, né l’auto-castrazione (il rifiuto di lavorare per la società dell’epoca), né l’idea di lavorare per una società utopica, ma piuttosto la volontà di lavorare creando elementi di disturbo nei confronti del sistema, per svelarne le contraddizioni; il terzo punto riguarda la comunicazione. Alla mostra Italy: The New Domestic Landscape, nel 1972 al MoMA di New York, anticipavo – anche se il progetto è stato totalmente incompreso – l’avvento di Internet: l’informazione dalla casa alla città e viceversa, dove la comunicazione transitava tra mezzi auto-gestiti e non subiti. Non c’era ancora l’utilizzo della parola ‘telematica’, ma c’era il monitor che consentiva d’immaginare questo, che poi ho sviluppato nel 1983 con il progetto della Casa telematica alla Fiera di Milano; il quarto punto riguarda il ‘recupero e reinvenzione’: la cosa più bella che ho fatto a Milano è stata la ricerca sulla cultura materiale degli orti urbani nelle periferie.

Ne ho fatto delle opere di carattere concettuale con foto, disegni e un film che s’intitolava La riappropriazione della città, dove mettevo in evidenza la gente che lavora, recupera i materiali, disfa e modifica il territorio… un’anticipazione del recupero della manualità”. Una voce che grida nel deserto contro la dimensione dominante dell’interdisciplinarietà? “Ho sempre creduto al tema della sinestesia come scambio perché “ciò che è aguzzo al tatto, è acuto all’udito”: queste due sensazioni sono sinestetiche, ognuna rimane autonoma, tra di loro avviene solo un travaso, non c’è integrazione nel senso proposto dall’interdisciplinarietà che andava di moda allora. È la ragione per cui mi sono sempre mosso nelle varie discipline separatamente. Certamente ho fatto anche il designer, nel senso stretto del termine, anche se i miei duemila pezzi non sono mai stati messi in produzione. Sono un finto designer: mentre Magistretti ha progettato venti pezzi, prodotti in centinaia migliaia di copie, io ne ho progettati mille realizzati in una copia sola, tutti prototipi realizzati con gli artigiani”.

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Hieronymus Bosch, Adorazione dei Magi (dettaglio), 1540 c.a, olio su tavola (113 x 82 cm), Aquisgrana, Suermondt-Ludwig Museum.

La modernità non guarisce le piaghe dei Grands malades – che poi siamo noi – e rifiuta di definire il confine tra sanità e follia, insegnandoci a convivere con la nostra ‘nevrosi’ quale unica energia vitale

Le GranD MaLaDe di Andrea Branzi

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e Grand malade non definisce una tipologia di pazienti, ma piuttosto la figura dell’intellettuale e dell’artista: soggetti che non guardano direttamente il mondo, ma, tenendo gli occhi rovesciati verso il loro interno, guardano dentro se stessi e percepiscono lo spazio interno, buio, informale, astratto e infinito. Queste modalità conoscitive si diffondono nel momento in cui il ‘mondo reale’ sta perdendo di senso e un altro mondo comincia a manifestarsi. Contro la violenza, la corruzione, le epidemie, le guerre, la volgarità, le droghe, le

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crisi economiche e sociali, l’intellettuale e l’artista esibiscono le proprie piaghe, i propri sogni e lamenti, come testimonianza di un’auto-flagellazione che non risolve i problemi ma li rende evidenti. Tutto ciò, dunque, non significa indifferenza verso le tragedie dell’anima, ma sublimazione e capacità di attrarre su di sé a campi magnetici negativi per scaricarli. Le Grand malade tutela dunque la nostra salute, testimoniando che esiste uno spazio neutro, dentro il quale tutto si può annullare, e ci insegna che per essere contemporanei occorre

essere critici verso la contemporaneità stessa. Il Rinascimento, a differenza di ciò che comunamente si crede, si trovò incastrato in un tempo dove le certezze della fede stavano andando in pezzi, schiacciate tra il Cristianesimo monoteista e il politeismo pagano. Leon Battista Alberti, apparentemente campione delle certezze della cultura classica, in realtà fu uno dei primi Grand malade dell’epoca moderna, e scriveva: “Niuna cosa si truova più faticosa che l’vivere…” e l’uomo “sopra tutti gli animali in terra… debolissimo… quasi umbra d’un sogno”.

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Hieronymus Bosch, Cristo portacroce, 1510-1535, olio su tavola (76,7x83,5 cm), Gend, Museum voor Schone Kunsten.

Questa crisi esistenziale e storica viene descritta spietatamente da Nicolò Machiavelli nel Il Principe, dove alla politica viene sostituita definitivamente dalla questione del potere; e all’amico Guicciardini confessò così il proprio disorientamento: “Io non dico mai quello che io credo, né credo mai quello che io dico, et se pure e’ mi vien detto qualche volta il vero, io lo nascondo tra tante bugie, che è difficile a ritrovarlo”. Ma i pittori fiamminghi rifiutano di simulare ulteriormente la consolazione della fede e Hieronymus Bosch rappresentò nella

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natività de L’adorazione dei magi un Gesù bambino rachitico, circondato da ladri e pervertiti, nato in ritardo, quando il disastro sociale e morale si è già compiuto, e salirà al Calvario, non circondato dalle pie donne, ma da usurai e lenoni sghignazzanti. Questo turbamento non cesserà più e diventerà angoscia e nevrosi inconfessabile fino ai nostri giorni.Gli occhi dei santi del Pontormo, Grand malade per eccellenza, sembrano polle di lacrime, specchio del conflitto insanabile tra fede e ateismo, che guardano lo spledore del Paradiso e, insieme, il vuoto che li

attende dopo la morte: non sanno e non possono scegliere. Ridotte a figure piatte, prive di ombre, dove scorrono colori acidi, dissociati, come li può vedere un daltonico. Il nostro Evo ha inizio da questa dislessia: per sette secoli da allora, verità e menzogna conviveranno, producendo i capolavori di una modernità dove convivono speranza e disperazione, fede e ateismo. Una modernità che non guarisce dunque le piaghe dei Grands malades – che siamo noi – ma rifiuterà di definire il confine tra salute e follia, insegnandoci a convivere con le nostre nevrosi come unica energia vitale.

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Quando il design sfiora l’audacia della metamorfosi e diventa interprete del vivere Sobriamente ideando arredi dall’aspetto rassicurantE, qui in compagnia delle più recenti riedizioni

quieto vivere di Nadia Lionello - foto di Miro Zagnoli

Lipp, divano monoblocco con schienale e braccioli in multistrati di pioppo, telaio sedile in tubolare d’acciaio con molleggio a nastri elastici. Imbottitura in poliuretano espanso e cuscini seduta in piuma d’oca con inserto in poliuretano. Rivestimento in pelle o tessuto, interamente sfoderabile; poggiareni con lavorazione “capitonné” sia in pelle che in tessuto non sfoderabile. Disegn di Piero Lissoni per Living divani. Shar Pei, lampade alogene a sospensione in cristallo trasparente al 24% al piombo. Design di Luca Martorano e Mattia Albicini per Terzani. Pavimento in Imperial White, piastrella in gres porcellanato Fiandre con finitura levigata della collezione Maximum Extralite, disponibile in sei diversi grandi formati, prodotta da Fiandre Architectural Surfaces.

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Lehnstuhl, poltroncina con schienale e seduta in paglia di Vienna a trama larga e struttura in legno di faggio curvato lavorato a vapore e laccata nera. Design di Nigel Coates per Gebrßder Thonet Vienna. Fontana, lampada da tavolo a tripla accensione disegnata da Max Ingrand nel 1954 e proposta da FontanaArte nella nuova versione total black, con montatura in metallo verniciato, paralume e base in vetro soffiato nero lucido. Pavimento in Marmocrea gres porcellanato effetto marmo realizzato da Ceramica Sant’Agostino in Digital Technology in cinque colori (bronzo amani nella foto) con superficie opaca o lucida, in nove formati quadrati e rettangolari anche per rivestimento.

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Sabrina, divanetto due posti della Collezione Fendi casa prodotta da Luxury Living Group con struttura in legno e metallo imbottito e rivestito in tessuto o pelle. Albero, libreria terra-soffitto rotante a 360°con struttura portante in legno massello di noce Canaletto con speciale incastro a cremagliera e mensole in fibra di legno impiallacciato in essenza, puntali, a soffitto e a terra, in ferro verniciato. Ăˆ possibile montare fino a 12 mensole. Disegnata negli anni Cinquanta da Gianfranco Frattini e prodotta da Poltrona Frau. Pavimento patchwork in Granitoker, nuova linea di piastrelle in gres porcellanato smaltato colorato in massa, prodotta da Casalgrande Padana in 20 tipologie litiche realizzate con tecnologia digitale, con superficie naturale o lappata, in due grandi formati oppure tagliate su misura.

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Piuma, madia bassa in piuma di mogano, con ante a battente, ripiani interni in vetro e piedi in alluminio. Design di Antonio Citterio per Flexform. 548, lampada da tavolo a luce led con faretto orientabile in alluminio laccato bianco, base in ottone lucido o brunito con diffusore in metacrilato disegnata da Gino Sarfatti nel 1951 per Flos. Taj, tappeto in lana, viscosa e cotone annodato a mano, disponibile in sei varianti colore e in due misure rettangolari. Ideato e prodotto da I+I.

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Treillage, sistema libreria e inter-parete a reticolo, realizzato con liste in massello di rovere naturale, tinto o laccato a poro aperto e sottili ripiani a tutta larghezza fissati ad incastro. Design di Ferruccio Laviani per Emmemobili. Keaton Fit, divanetto con struttura in legno, imbottiture cuscini seduta e schienale in poliuretano espanso e fibre poliestere rivestito in tessuto o pelle. Design di Andrea Parisio per Meridiani. Pavimento in Marmocrea gres porcellanato effetto marmo realizzato da Ceramica Sant’Agostino in Digital Technology in cinque colori (bronzo amani nella foto) con superficie opaca o lucida, in nove formati quadrati e rettangolari anche per rivestimento.

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Schermo, madia su basamento con anta spiovente obliqua con disegno geometrico intarsiato con olmo, rovere e acacia e inserti in ottone, bronzo e acciaio inox; interno rivestito in acero. Disegnata da Alessandro Mendini fa parte di una piccola serie di arredi preziosi di Porro. Zanuso 275, lampada da tavolo con diffusore in PMMA opale rotante sulla base con supporto curvato in metallo verniciato. Disegnata nel 1963 da Marco Zanuso per OLuce. Twist, rivestimento murale ignifugo della collezione Rafia & Metallo realizzato in tessuto lavorato jacquard accoppiato a TNT (tessuto non tessuto) disponibile nell’altezza di cm 130 in sei colori. Ăˆ prodotto da Dedar. Velvet, tappeto in pura lana pettinata, disponibile in 14 varianti colore e su misura. Design Gunilla Lagerhem Ullberg per Kasthall.

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Sushi kart, carrello su ruote con struttura in massello di faggio, piano e vassoi girevoli in massello di faggio o mdf laccato, vetro laccato o rovere naturale con dettagli in metallo dorato. Design Lorenza Bozzoli per Colè. Glover, poltrona con struttura in metallo, cinghie elastiche e imbottitura in poliuretano; seduta e schienale imbottiti in piuma d’oca e poliuretano, rivestimento in tessuto o pelle sfoderabili e borchie decorative in ottone verniciate peltro. Design Rodolfo Dordoni per Minotti. Nabucco, rivestimento murale in seta e lurex su base TNT (tessuto non tessuto), della collezione Exclusive Wallcoverings Collection di Armani Casa realizzata in collaborazione con Jannelli&Volpi. Disponibile al metro lineare nella larghezza di cm 87. Qui e nella pagina a fianco, pavimento EvolutionMarble, piastrelle in gres fine porcellanato colorato in massa riproducente marmo nero Marquina o marmo Calacatta, adatto anche per rivestimento. Viene prodotta da Marazzi in tre grandi formati, con superficie naturale o lucida.

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Opera, tavolo con struttura in legno massello di acero naturale o tinto grigio, rovere naturale, teak o multistrato di betulla laccato opaco in diversi colori con piano in vetro trasparente. Ăˆ disponibile in diverse misure ovale cm 290 x 180 e cm 250 x 155 oppure tondo nel diametro di cm 160. Design di Mario Bellini per Meritalia. Botolo, sedia con seduta in metallo e legno con imbottitura schiumato a freddo e rivestimento in tessuto, pelle o pelliccia; gambe in tubolare di metallo, con ruote, verniciato nei vari colori Ral. Disegnata nel 1973 da Cini Boeri per Arflex.

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skin carpets di Elisa Musso - foto di Simone Barberis bodypainter: Ginevra Daniele, Chiara Grassi e Tigrazza

Come in una performance artistica, corpi dipinti giocano a nascondino con i nuovi tappeti ultra grafici. Un surreale e suggestivo intreccio di illusioni ottiche per reali ispirazioni d’interni

Upsidedown n°.1, tappeto realizzato a mano in Nepal in lana e seta. Proposto in due versioni, è disegnato da Ron Gilad e prodotto in edizione limitata da Nodus. Carol, poltrona rivestita in pregiata pelle o in tessuto in un’ampia gamma di colori. È caratterizzata dallo schienale alto con poggiatesta removibile e dai piedini in acciaio. Design Giuseppe Bavuso per Alivar.

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Blue China, tappeto rotondo in lana vergine di ispirazione cinese. Esiste anche con disegno blu su sfondo giallo. Design Mapi Millet per Gan by Gandia Blasco. Rock Table, tavolo scultoreo con basamento in cemento UHPFRC naturale o antracite con top in fibra di legno verniciato bianco o grafite o in cristallo temperato fumè. Design Jean Marie Massaud per MDF Italia.

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T1405NVS, tappeto realizzato accostando i modelli Nuvola T, Silk e Vicky della collezione Prestige. È lavorato a mano ed è disegnato da Roberto Besana per Besana Moquette. Basket chair, poltroncina in plastica colorata. Può essere accessoriata con una cover imbottita. Design Alessandro Busana per Gaber. Hoop, lampada da tavolo a led con struttura in abs bianca e nera. È dotata di tasto di accensione touch sulla parte superiore del riflettore. Design Adolini + Simonini Associati per Martinelli Luce.

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Blue Ikat, tappeto in lana e viscosa ispirato alla Turchia. È disegnato dall’artista Angelo Bucarelli ed è prodotto in edizione limitata da Stepevi. Bongo, tavoli bassi dalla forma arrotondata realizzati in poliuretano rigido strutturale. Sono disponibili in più misure e colori. Design Andrea Parisio di Meridiani.

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Hex Hex, kilim geometrico tessuto a mano in lana, seta e altri materiali naturali. Design Bertjan Pot per Ligne Roset. Hill, tavolino rotondo laccato rosso con top lucido e base opaca. Ăˆ disponibile anche con piano quadrato, in due altezze differenti. Design Mauro Lipparini per MisuraEmme. X Big, poltrona con struttura in acciaio verniciato o in frassino con quattro razze in alluminio e rivestimento in tessuto in diversi colori. Design Mario Mazzer per Alma Design.

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Lake, tappeto ispirato al lavoro sulla percezione ottica dell’artista israeliano Yaacov Agam che cambia aspetto in base al punto di vista. E’ una rilettura dei modelli persiani firmata dai Raw Edges per Golran. Net, tavolini di due dimensioni, realizzati interamente in acciaio espanso verniciato. Design Benjamin Hubert per Moroso. Null Vector, lampada con struttura multisfaccettata di alluminio forato verniciato in sei colori differenti. Design Carlotta de Bevilacqua e Laura Pessoni per Artemide.

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Heisenberg, tappeto geometrico con effetto optical balck&white. Ăˆ realizzato in lana e seta naturale ed è prodotto da Illulian. Gask, lampada a sospensione con diffusore in vetro soffiato bianco o nero con bulloni a vista in ottone di Diesel with Foscarini. 194 9, tavolini rotondi in diverse altezze con base e piano in marmo Carrara bianco o MarquiĂąa nero su supporto in alluminio verniciato opaco grigio antracite. Design Piero Lissoni per Cassina.

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Marocco, tappeto in cotone, ciniglia acrilica e poliestere. Richiama i mosaici di ceramica degli hammam marocchini. Design Matteo Cibic per Calligaris. LadyB, poltrona ampia e avvolgente caratterizzata dalla texture dello schienale in sofisticata rete di cuoio. Ha seduta in velluto ed è disegnata da Franco Poli per Gruppo Industriale Busnelli. Dabliu, tavolini con struttura in tondino metallico e piano sinuoso in legno di castagno. Design Shinobu e Setsu Ito per DÊsirÊe.

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Le affinitĂ elettive Sette firme internazionali del design raccontano se stessi e il loro rapporto con Mutina. Per spiegare un progetto aziendale di successo, che dalle relazioni umane trae i presupposti e le energie per fare innovazione

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di Maddalena Padovani

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ilton Glaser diceva: lavora solo con le persone che ti piacciono (You can only work with the people you like, ndr). Abbiamo deciso di fare nostro questo motto che riassume il nostro approccio al progetto, dove le persone, i rapporti umani, le affinità di animo e di pensiero vengono prima di qualsiasi altra cosa”. Ha le idee molto chiare Massimo Orsini quando parla di Mutina, il marchio su cui nel 2005 ha deciso di riversare l’esperienza maturata fino a quel momento nell’azienda di famiglia, scommettendo su una visione della ceramica ‘altra’ che non trovava spazio all’interno di un tradizionale modello imprenditoriale. Tutto all’interno del suo headquarter parla di questa assoluta chiarezza di vedute, che prima ancora di declinarsi in una collezione di prodotti di grande successo si esprime in una sensibilità e un modo di essere fortemente percepibile. Si parte dal luogo: Fiorano Modenese, il cuore del distretto ceramico italiano, un addensato di capannoni industriali che parla di operosità e voglia di fare. Già in lontananza la sede Mutina mostra la sua diversità rispetto agli anonimi fabbricati che la circondano: non con i toni gridati dell’architettura più alla moda, ma con quelli sobri e intellettuali dei sistemi costruttivi messi a punto da Angelo Mangiarotti e qui applicati, agli inizi degli anni Settanta, da un allievo di Carlo Scarpa. “Ho visto questo edificio” racconta Orsini “e subito mi è piaciuto; mi ha ‘parlato’ e ancora non sapevo nulla della sua nobile storia”. È proprio qui che nel 2005 l’attuale presidente del marchio getta le basi della sua avventura, coinvolgendo tre ex colleghi che prima di essere compagni di lavoro sono soprattutto amici: Giuliana, Emanuele, Michel. Con loro Massimo condivide un sogno ambizioso: fare della ceramica non un materiale di rivestimento decorativo ma un elemento integrante dell’architettura, una superficie vibrante dello spazio, una vera e propria materia di progetto capace di attribuire inedite qualità percettive agli ambienti in cui si colloca. Da qui la scelta di eliminare il colore e i tradizionali codici estetici delle piastrelle. I riferimenti sono innanzitutto nel mondo dell’arte, di cui Orsini è appassionato cultore e collezionista da sempre: il minimalismo di Carl Andre, il color field painting di Mark Rothko, la poetica astrazione cromatica di Agnès Martin.

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Massimo Orsini, presidente di Mutina, con i designer che negli ultimi anni hanno contribuito all’ascesa dell’azienda. Dall’alto: Patricia Urquiola, la prima a entrare nel gruppo; Rodolfo Dordoni; Inga Sempé; Ronan e Erwan Bouroullec; Jay Osgerby e Edward Barber; Tokujin Yoshioka; Yael Mer & Shay Alkalay dello studio Raw Edges. Nella pagina accanto: la frase di Milton Glaser che Mutina ha scelto come motto aziendale. Faceva da scenografia luminosa all’evento Path Dinner organizzato a settembre 2013 nella sede di Fiorano Modenese, con set up di Patricia Urquiola e food di Massimo Bottura.

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Le collezioni best seller di Mutina. Dall’alto: Phenomenon di Tokujin Yoshioka; Pico di R+E Bouroullec; Déchirer di Patricia Urquiola. Nella pagina accanto: alcuni fotogrammi dei video che Mutina ha realizzato per raccontare la sua storia. Dall’alto in senso orario: Jay Osgerby; Erwan Bouroullec; Shay Alkalay di Raw Edges; Tokujin Yoshioka; Ronan Bouroullec; Inga Sempé; Yael Mer di Raw Edges; Rodolfo Dordoni; Edward Barber; Patricia Urquiola.

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Ma anche il design di matrice modernista, rappresentato dall’imperativo “less is more” di Mies van der Rohe, dal decalogo del buon progetto di Dieter Rams e dalla poliedricità espressiva di Bruno Munari. “Abbiamo deciso di partire dalla materia pura e dalle possibilità che la tecnologia più moderna e le lavorazioni artigianali ci offrivano per sperimentare le sue potenzialità espressive come nessuno prima aveva fatto”, precisa il presidente di Mutina. “Ma per fare questo avevamo bisogno dell’occhio visionario di designer che sentivamo vicini per il tipo di ricerca sviluppata nel loro percorso professionale. Sapevamo perfettamente chi erano questi progettisti. Non avevano mai lavorato nel mondo della ceramica – e questo per noi era importante – ma li ammiravamo da sempre per la coerenza di idee e di visioni su cui fondavano i loro progetti. Siamo andati da loro, gli abbiamo parlato dei nostri sogni, gli abbiamo spiegato che della ceramica era possibile fare un vero e proprio progetto di design. Non siamo mai partiti da un obiettivo specifico o da un disegno predefinito, ma da un processo di reciproca conoscenza. Le idee sono nate poi in seguito, in modo molto naturale”. Questi designer si chiamano Patricia Urquiola, Tokujin Yoshioka, Rodolfo Dordoni, Ronan & Erwan Bouroullec, Edward Barber & Jay Osgerby, Raw Edges, Inga Sempé. Nomi di spicco internazionale che, a partire dal 2008, hanno ideato per e con Mutina una serie di collezioni fortemente connotate sia sul piano segnico che concettuale, rivoluzionando di fatto l’identità del materiale ceramico e il suo uso nell’architettura d’interni. A questi protagonisti, che hanno contribuito a fare di Mutina un marchio di successo e una case history della nuova generazione del design italiano, Massimo Orsini e i suoi soci dedicano sette video che non parlano di prodotti ma raccontano sette storie di incontri, scambi umani, empatie e affinità elettive. I video non presentano una trama o un tema particolare. Nascono da una serie di domande non istituzionali sul rapporto che lega ciascun designer con l’azienda, ma la presenza delle sole risposte, il loro montaggio fresco, spontaneo, quasi casuale, dipinge più un pensiero corale che non tanti ritratti personali. “Mi ricordo” conclude Orsini “la prima apparizione di Mutina al Salone del mobile di Milano. Era il 2012 e avevamo non poche paure. Per esorcizzarle, abbiamo chiesto a questi grandi professionisti di venirci a trovare allo stand nello stesso momento. Nessuno ha mancato l’appuntamento, sono venuti tutti. È stato un momento magico, si è creata un’atmosfera meravigliosa che esprimeva un lavoro fatto soprattutto di condivisioni e relazioni umane. È quello che voglio raccontare di Mutina ed è quello che Mutina, spero, continuerà a rappresentare”.

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Counting the rice di Maddalena Padovani

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Un esemplare della serie limitata Counting the Rice table disegnata da Daniel Libeskind e realizzata da Moroso in cemento performante con la collaborazione di Kenius-Gesteco. Il progetto, sviluppato a favore del MAI, la fondazione di Marina Abramovic, verrà presentato ad Art Basel di Miami dal 4 al 7 dicembre.

Dalla collaborazione tra Moroso e Marina ABRAMOVIC, inaugurata lo scorso aprile a Milano, nasce una serie numerata di sedute scultoree in cemento firmata da Daniel Libeskind. Un progetto che applica la visione dell’arte al processo di design

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er Marina Abramovic, l’esercizio di separare e contare il riso per un minimo di sei ore rappresenta una sorta di ‘riscaldamento’ psico-fisico utile per acquisire concentrazione e per predisporre corpo e mente alla performance art. Si tratta di una delle tecniche più semplici e basilari del ‘Metodo Abramovic’ che l’artista ha sperimentato su se stessa in anni di dedizione e ferreo autocontrollo; oggi costituisce l’ossatura di una didattica che raccoglie studenti e appassionati da tutto il mondo e ha come riferimento il Marina Abramovic Institute (MAI), una sorta di istituto immateriale che ospita eventi e performances all’interno di diversi spazi in giro per il mondo. Da anni Abramovic impegna gran parte del suo tempo alla divulgazione e promozione di questo metodo a cui spera di dedicare una vera e propria scuola nello stato di New York, trasformando allo scopo un vecchio edificio di oltre 3000 metri quadri da lei acquistato nella città di Hudson. Un progetto ambizioso, che non solo rende necessaria un’ingente raccolta di risorse economiche ma mette anche in pista un diverso genere di energie creative, come quelle del design e dell’architettura.

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Non poteva quindi esserci cornice migliore dell’Università Statale di Milano e della mostra-evento Feeding new ideas for the city organizzata da Interni per presentare il suo workshop “Counting the Rice” in occasione della settimana del design dello scorso aprile. Complici, due protagonisti del progetto contemporaneo che hanno messo a disposizione il loro genio creativo e il loro know-how in un’installazione che nel nome dell’arte sviluppa un percorso di ricerca segnica, materica e produttiva riconducibile a tutti gli effetti al processo del design. Da una parte Daniel Libeskind, architetto di fama mondiale e approccio concettuale, amico di lunga data di Marina Abramovic; dall’altra Moroso, azienda leader del design italiano che da anni vanta un forte legame con il mondo dell’arte contemporanea. “L’incontro con questa straordinaria artista, che avevo sempre seguito e ammirato”, spiega Patrizia Moroso, art director dell’azienda, “era avvenuto anni fa grazie al comune amico Carlo Bach, direttore artistico di Illy. Non mi sarei mai aspettata che una persona, capace di mettere nel suo lavoro tanta forza e tanto coraggio, fosse in realtà capace di una fantastica leggerezza e di un grande trasporto affettivo. Da allora siamo rimaste sempre in contatto, con il proposito di trovare il modo di fare qualcosa assieme”.

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Accanto e sotto: dopo il debutto milanese, il sistema di sedute sviluppato da Moroso con Daniel Libeskind per accogliere la performance Counting the Rice è stato presentato a maggio al Centre d’Art Contemporaine di Ginevra, in un’installazione site specific in grado di ospitare molti partecipanti.

Sopra: Marina Abramovic (a sinistra) assieme a Patrizia Moroso e Daniel Libeskind all’Università Statale di Milano dove, in occasione della mostra Feeding new ideas fot the city organizzata da Interni lo scorso aprile, l’artista ha presentato al pubblico l’esercizio ‘Counting the Rice’.

L’occasione si presenta per l’appunto all’inizio di quest’anno, quando Marina Abramovic chiede a Daniel Libeskind di disegnare un banco appositamente pensato per l’esercizio di contare il riso e a Moroso di realizzarlo. “La particolarità della funzione” prosegue Patrizia “richiedeva un oggetto speciale, una forma non scontata. Libeskind ha saputo perfettamente interpretare la sfida, ideando una sorta di banco sacro che nel suo segno elementare riassume l’aspetto ascetico e nello stesso tempo didattico della performance. Non solo. Il progetto presentava un principio sistemico molto interessante, che faceva della seduta-banco un elemento in grado di crescere in modo organico e di adattarsi a diverse situazioni”. Realizzato in un’unica versione in legno per l’appuntamento alla Statale di Milano, il Counting the Rice table si è successivamente sviluppato in nuove configurazioni materiche e morfologiche che hanno ampliato il significato del progetto. Per il Centre d’Art Contemporain di Ginevra è diventato una vera e propria installazione site specific, capace di accogliere un maggior numero di partecipanti e di relazionarsi a uno spazio articolato e connotato sul piano architettonico. Poi l’idea di farne una serie limitata, non più realizzata in legno industriale – quello normalmente utilizzato per gli imballaggi delle opere d’arte – bensì in cemento. “Da oggetto funzionale” prosegue Patrizia Moroso “abbiamo deciso di farne un simbolo scultoreo, un’opera dedicata ai collezionisti d’arte. L’obiettivo è raccogliere fondi per implementare le attività del MAI. Per la

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Accanto: una fase del processo di realizzazione del Counting the Rice table nella nuova versione in edizione limitata in cemento, destinata ai collezionisti d’arte. Il primo esemplare è stato battuto all’asta a settembre dalla Fondation Beyeler di Basilea.

Sopra: due studenti del MAI seduti sul Counting the Rice table in cemento, intenti nell’esercizio di contare il riso.

realizzazione di questa serie di trenta esemplari abbiamo scelto il calcestruzzo performante, materiale d’elezione di Libeskind. Con la collaborazione dell’azienda friulana KeniusGesteco, che sperimenta e sviluppa i materiali di ricerca di Italcementi nel mondo del design, abbiamo messo a punto un prodotto innovativo, che si colloca a metà strada tra arte e design. Ben 200 ore sono state necessarie per costruire il cassero della limited edition e altre 112 sono state spese per dare vita al primo esemplare del peso di 450 chili, che è stato presentato lo scorso settembre a Basilea dalla Fondazione Beyeler ed è stato battuto all’asta per 100mila franchi svizzeri”. La collaborazione tra Moroso e Marina Abramovic proseguirà in occasione di Art Basel a Miami dal 4 al 7 dicembre. Durante la manifestazione verranno presentati sia il prototipo che il secondo esemplare della serie limitata Counting the Rice table. Non solo. Verrà tenuto a battesimo il secondo progetto di Moroso per il MAI, firmato questa volta da Patricia Urquiola che per gli studenti della celebre artista ha pensato a una seduta dove riposarsi dopo gli impegnativi esercizi di performance art. Particolari materiali, finiture e colori faranno di questo arredo un oggetto decisamente speciale dedicato a Marina Abramovic, ma non è detto che un giorno possa approdare al mondo della produzione industriale ed entrare nel catalogo del marchio di Udine in una versione che risponde ai principi democratici del design ma conserva la portata visionaria dell’arte.

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Diciotto centri di ricerca. Sfide sempre più ambiziose nei più imponenti cantieri del mondo. L’etica del lavoro. I numeri e i segreti di un successo tutto italiano, che ha fatto di Mapei il leader mondiale dei prodotti chimici per l’edilizia

La chimica del successo di Antonella Galli

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In questa pagina: nella realizzazione del residence Le Magnolie a Lodi (in alto) sono stati impiegati gli adesivi della gamma Ultralite di Mapei per la posa di ceramica in facciata; la stuccatura delle fughe è stata eseguita con Keracolor GG e l’impermeabilizzazione dei balconi con Mapelastic Aquadefense. Nella pagina precedente, il cantiere per il raddoppio del Canale di Panama, per cui Mapei ha fornito additivi di ultima generazione per 5.500.000 m3 di calcestruzzo studiati appositamente per il cantiere, tra cui Dynamon XP2 Evolution 1.

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numeri parlano, nel caso del Gruppo Mapei, più di ogni definizione. Il maggior produttore mondiale di adesivi e prodotti per la posa di pavimenti e rivestimenti, e specialista a tutto campo in prodotti chimici per l’edilizia, nel 2013 ha chiuso con un fatturato totale di 2,3 miliardi di euro, con oltre 7500 dipendenti, distribuiti in 68 aziende consociate, con 64 stabilimenti produttivi in 31 Paesi nei cinque continenti. Questi i risultati consolidati a 76 anni di distanza dalla fondazione dell’impresa a Milano, nel 1937, da parte di Rodolfo Squinzi. Oggi, in azienda, con Giorgio Squinzi operano anche i figli Marco e Veronica.

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Alcune recenti opere per la cui realizzazione sono stati impiegati i prodotti Mapei (in colonna da sinistra): i tunnel del Klang Valley Mass Rapid Transit, sistema metropolitano di Kuala Lumpur (Malesia); lo stadio di Fortaleza (Brasile); la pavimentazione di piazza del Duomo a Milano; il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci a Milano.

Abbiamo provato a individuare con Adriana Spazzoli, direttore di comunicazione e marketing del gruppo Mapei, le radici di un successo tanto imponente, tutto italiano; e abbiamo scoperto che è alimentato da elementi valoriali che, in un circolo virtuoso, si sostengono a vicenda: il confronto con gli utenti e i mercati, la ricerca, le sfide (accettate e vinte) dei grandi progetti, l’etica del lavoro. Dottoressa Spazzoli, quali sono le strategie del Gruppo Mapei per affrontare i mercati? Abbiamo sviluppato un’attenzione ai mercati nel senso geografico, ma prima ancora ai mercati intesi come tipologie di prodotti. I nostri prodotti sono sempre funzionali a un progetto, all’applicazione di altri materiali, a strutture costruttive diverse, e perché no? anche ai differenti progettisti. Questa flessibilità ci è consentita dal lavoro di ricerca e sviluppo, che per noi è sempre il punto fondamentale. La

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nostra presenza allo scorso Cersaie ne è un esempio: abbiamo voluto rispondere all’esigenza più attuale del mercato delle piastrelle di avere fughe che si armonizzassero con la tendenza legno, per cui abbiamo presentato una palette di 14 tinte naturali (la Grout Selection). Altre richieste forti del mercato sono, ad esempio, il contenimento dei prezzi e la certezza della performance dei prodotti (basata anche sulla trasparenza dell’informazione); ma c’è anche l’attenzione alla salute, con la riduzione delle polveri, lo snellimento dei processi costruttivi. Abbiamo cercato di riportare queste esigenze ai nostri prodotti; gli adesivi di nuova generazione, come i prodotti della linea Ultralite, riducono le polveri e pesano meno (un sacco da 15 chili rende come uno di 25 di materiale tradizionale), sono più facili e veloci da applicare. La stessa cosa è avvenuta per Mapelastic Turbo, sulla base dell’esperienza trentennale di

Mapelastic, che è una malta cementizia elastica per l’impermeabilizzazione; anche in questo caso l’evoluzione ha risposto sia alle esigenze del posatore che a quelle del committente: il prodotto permette di eseguire le impermeabilizzazioni più rapidamente, anche nei periodi freddi e umidi, e allunga la possibilità di lavoro di un’impresa, che prima in inverno doveva fermarsi. Come riesce il Gruppo Mapei a garantire la continua evoluzione dei prodotti? Mapei investe ogni anno circa il 5% del proprio fatturato e destina il 12% dei propri dipendenti alla ricerca. I centri di ricerca Mapei sono 18 in totale, sparsi in tutto il mondo: il centro principale è a Milano, con duecento dipendenti, e coordina tutte le linee. Altri sono specializzati: il laboratorio di Sagstua, in Norvegia, negli additivi da impiegare sott’acqua o in underground, mentre quello di Laval, in Canada, nel settore dei resilienti.

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Come è organizzata la comunicazione del Gruppo Mapei? Quali i canali privilegiati? Il Gruppo nel suo complesso riceve le linee-guida di comunicazione che partono dall’headquarter, e che vengono adeguate ai differenti Paesi e mercati; abbiamo scelto di privilegiare la trasparenza, la correttezza e la scientificità della comunicazione relativa ai prodotti, e gli aspetti che riguardano la ricerca. Un ruolo di primo piano nella comunicazione Mapei è rivestito dalla figura umana che opera nel cantiere, a cui i prodotti sono rivolti; anche la grafica, firmata dall’illustratore Carlo Stanga, è un elemento identitario e coordinante. Ci sono poi le fiere, a cui Mapei partecipa in tutto il mondo, che sono strumenti privilegiati per conoscere e ascoltare gli utenti di settori specifici, dalle opere in sotterraneo agli impianti sportivi, agli ambienti per le lavorazioni alimentari. Il dialogo con i settori specializzati convive con la comunicazione ad ampio raggio: il Gruppo sostiene diverse realtà dello sport e della cultura, due ambiti in cui Mapei è particolarmente attivo con la realizzazione di strutture dedicate in tutto il mondo, dai teatri agli stadi. Abbiamo investito nella squadra del Sassuolo Calcio, in Italia, all’estero sosteniamo vari sport, come motocross, basket, cricket; nell’ambito della cultura posso citare la Scala di Milano, della cui Fondazione siamo fondatori privati permanenti, e il Guggenheim di Venezia, che sosteniamo con Intrapresae Collezione Guggenheim, progetto di corporate membership. Essere competitivi significa accettare le sfide, che per Mapei nascono anche dal coinvolgimento in grandi progetti internazionali. Può farci qualche esempio? La partecipazione a grandi progetti genera un processo virtuoso: nelle grandi opere a Mapei viene chiesto di risolvere problematiche estreme, e da queste traiamo spunto per realizzare prodotti per l’edilizia ordinaria. Le problematiche che hanno origine dai cantieri vengono risolte dai nostri tecnici nel confronto con progettisti e architetti, poi trasferite sul mercato. Nell’espansione del Canale di Panama, ad esempio, siamo stati gli unici a studiare un additivo apposito per realizzare un getto in continuo, senza setti, che garantisse una determinata resistenza. Similmente, nel progetto di ristrutturazione della parte superficiale esterna del museo Guggenheim di New York siamo stati in grado di fornire una soluzione senza giunti, per ripristinare il calcestruzzo deteriorato. E non bisogna dimenticare, tra le opere più imponenti al mondo, la diga Millennium in Etiopia sul Nilo Azzurro: un progetto in fase di realizzazione che vede protagonisti i sistemi e le soluzioni Mapei per la realizzazione dei vari elementi che costituiscono l’intera opera, come lo sbarramento, i canali, i tunnel idraulici.

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Il complesso residenziale Living Art (Krost Towers) a Mosca, progettato da Dante Benini e dipinto da Mario Arlati. La realizzazione si deve dell’azienda russa Krost di Aleksej Dobashin. Il complesso prevede quattro grattacieli di 45 piani e uno di 33 piani. Il team di Arlati sta dipingendo le torri con cinque colori diversi. Il risultato sarà un enorme quadro per il quale sono impiegati oltre 45000 mq di colore studiato e fornito da Mapei.

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Sopra, l’allestimento della galleria Ulrike Fiedler a Design Miami\ Basel 2014, specializzata in pezzi unici del modernismo europeo.

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Nella pagina accanto, da sinistra, una serie di pezzi unici: la sedia di Rietveld del 1924 (galleria Ulrike Fiedler); uno specchio autoportante di Joseph-AndrÊ Motte della collezione Charron, 1959 (Galerie Pascal Cusinier); la poltrona Mod. 820 di Gio Ponti (1953), realizzata per l’Hotel Royal di Napoli e poi prodotta da Cassina (entrambi di Galleria O. Roma); due consolle di GioPonti del 1951/52 realizzate da Giordano Chiesa (galleria Nilufar).

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Vintage e riedizioni

Un fenomeno evidente nella produzione contemporanea dell’arredo ma anche nel mercato del collezionismo internazionale. Il design riscopre le sue origini, con pezzi unici e progetti inediti che condividono il rassicurante valore della storia. Le opinioni di industriali e galleristi a confronto di Valentina Croci

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ggetti storici fuori catalogo o prototipi che mai hanno avuto una produzione in serie vengono rieditati dalle aziende del design, in collaborazione con le fondazioni o gli eredi del progettista, nel rispetto del diritto d’autore e al fine di mantenere e valorizzare le opere dello stesso. In Italia il primo a industrializzare pezzi storici è stato Dino Gavina nel 1961 con gli arredi del Bauhaus e, in seguito, Cesare Cassina con gli arredi di Le Corbusier e Charlotte Perriand, acquisendone nel 1965 la licenza per la produzione. Dall’altro lato, manifestazioni destinate al mercato del design da collezione come Design Miami, oggi giunto alla decima edizione, confermano la crescita del collezionismo di pezzi unici del XX secolo. E ci chiediamo il perché. Probabilmente, in quest’epoca di mutazioni instabili, esemplari vintage dal conclamato valore storico sono espressioni linguistiche in cui i più ritrovano un’appartenenza culturale. In un’era di percezione ‘sincretica’ e

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globale della vita e del passaggio storico, questi oggetti rappresentano l’incarnazione di utopie, di momenti di straordinaria ricerca intellettuale – il modernismo europeo e la sua volontà di inventare un mondo nuovo; la nascita del furniture design nel boom industriale italiano; il radical design e la riscoperta delle arti. E, come tali, questi oggetti vengono a simbolizzare una stabilità rassicurante rispetto all’instabile contingenza del nostro tempo. Per tentare di spiegare il fenomeno, raccogliamo tre diversi punti di vista sul valore e il mercato di riedizioni e pezzi unici di modernariato. Francesca Molteni, curatrice della collezione Gio Ponti per Molteni&C. e della mostra itinerante Vivere alla Ponti, ci racconta che rieditare è perpetrare un’eredità culturale. La serie di arredi è nata dall’osservazione di una libreria dell’architetto milanese, attuale nel disegno e mai industrializzata, chiedendosi se tale pezzo potesse essere prodotto in modo industriale e a prezzi accessibili. “La sfida è stata restituire i prodotti nella versione originale per quanto riguarda le proporzioni e i materiali, ma facilitandone le tecniche produttive e aggiornandoli agli standard odierni.

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‘Salotto è il nome dell’allestimento della galleria Nilufar a Design Miami/Basel 2014. Sopra il grande tappeto disegnato da Martino Gamper, una selezione di pezzi unici e storici di Carlo Scarpa, Gio Ponti, Max Ingrand, Ico Parisi e Angelo Lelli.

Non vogliamo realizzare edizioni limitate perché lontane dalla visione di Ponti, né a prezzi proibitivi perché lui non ha mai inteso il design come qualcosa di esclusivo. Sono pezzi attuali per la genialità del designer, il senso delle proporzioni, l’attenzione ai dettagli e perché sono ‘facili’, ovvero in grado di convivere con gli arredi contemporanei. Sono iconici ma vicini al mondo del vivere odierno”. È stata un’operazione lunga e coraggiosa per l’azienda, che dal 2009 al 2012 ha presentato i primi pezzi a catalogo. L’idea è proseguire e rieditare anche qualche pezzo del passato di Molteni&C. senza però buttarsi nel mercato delle riedizioni. “La collezione” aggiunge Giulia Molteni, Marketing and communication director Molteni&C Dada “si rivolge agli estimatori del ‘good design’ che apprezzano i grandi maestri e conoscono la cultura di personaggi come Gio Ponti, ma non sono i collezionisti di modernariato che possono spendere cifre esorbitanti per un singolo pezzo. Abbiamo evitato, infine, la ‘limited edition’ perché contraria ai principi dell’industrial design che vedeva proprio nella produzione in serie una democratizzazione della società”. Dalla parte del collezionista, invece, la

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In basso nella pagina accanto, da sinistra: tavolo n. 512 di Jean Prouvé, 1953 (Galerie Patrick Seguin); tavolo di Marcel Breuer, 1923 (Ulrike Fiedler); poltrona di Janine Abraham & Dirk Jan Rol, 1959-60, edita da Sièges Témoins (Galerie Pascal Cusinier); libreria Antony di Jean Prouvé, 1955 (Galerie Patrick Seguin); specchio di Max Ingrand per FontanaArte, 1957 c.a (Galleria O. Roma); poltrona mod. 593 di Gio Ponti, 1950, realizzata da Cassina (Nilufar); scrivania Stadera di Franco Albini e Franca Helg, 1950 (Galleria Colombari); cassettiera Evelyne di Joseph-André Motte, 1959 (Pascal Cusinier); carrello per il tè di Marcel Breuer, 1932 (Ulrike Fiedler).

gallerista Nina Yashar di Nilufar e Rodman Primack, direttore di Design Miami. “Credo” spiega Nina Yashar “che il valore aggiunto dei pezzi unici di design del XX secolo, sempre più richiesti dai collezionisti, sia dato da alcuni pezzi che fanno la storia. Sono una certezza, una sicurezza a cui si torna sempre, in un mondo dove tutto viene consumato velocemente e passa di moda. Questi oggetti mantengono intatta nel tempo la bellezza, la funzionalità e il valore estetico. Design Miami è da sempre contraddistinto dalla presenza di pezzi vintage, che in quest’ultimo anno sono stati prevalenti sul design contemporaneo. Il mercato dei collezionisti di oggetti del XX secolo si sta allargando perché meno rischioso: i pezzi sono già storicizzati e più comprensibili rispetto all’art design contemporaneo. Mi auguro che il vintage sia il punto di inizio per spostarsi verso il XXI secolo con progetti più stimolanti e sperimentali. Il mercato del design collezionabile è molto più piccolo di quello dell’arte contemporanea: una proporzione di 1:20. È sicuramente in crescita e non presenta ancora la stessa manipolazione di prezzi o speculazione che ha il mercato dell’arte. Un’altra differenza sta nel fatto che il design da

collezione è comprato anche per la funzione: molti clienti usano quotidianamente i pezzi unici nonostante la loro preziosità. Raramente sono beni messi in cassaforte. Si acquista il vintage per la storia che porta con sé e per la bellezza che si trasforma con l’utilizzo”. Sulla differenza tra l’oggetto d’arte e il design collezionabile Nina Yashar precisa: “Credo che un pezzo di design industriale possa essere collezionato e apprezzato nella sua vera essenza, estetica e funzionale, senza per questo essere categorizzato come oggetto d’arte. Condivido il pensiero di Gillo Dorfles quando dice che il design è ‘parzialmente’ arte, una forma di progettazione con un quoziente artistico assieme a un quoziente di marketing. L’oggetto di design non deve essere fatto con lo scopo di diventare un oggetto d’arte: deve corrispondere alla sua funzione, non soddisfare lo sfizio di essere solamente ‘artistico’”. Sulla differenza tra riedizione e oggetto di modernariato Primack conclude: “Alcuni dei pezzi vintage erano prodotti in quantità limitate, il designer è spesso stato coinvolto nel processo produttivo e rispecchia tecnologie e modi di produrre di un preciso momento storico. A questi

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Una serie di arredi inediti di Ettore Sottsass del 1954-56, realizzati da Abet Laminati Plastici in occasione della Formica-Domus Competition del 1954, vincendo il secondo posto (Erastudio Apartment-Gallery).

fattori si aggiunge la rarità, percepita come valore aggiunto perché sentita come testimonianza e segno di ‘originalità’. Non ho niente contro la produzione continuativa in quanto molti oggetti sono stati pensati proprio per questo; ma per me c’è differenza tra ciò che fu realizzato durante l’esistenza del designer, ovvero a sua cura, e ciò che viene rieditato oggi. Forse, se egli fosse ancora in vita, lo realizzerebbe con altre tecnologie. Le riedizioni e il vintage non hanno necessariamente mercati diversi: chi richiede il pezzo unico può comprare anche riedizioni. C’è però differenza tra il collezionista in senso stretto e ‘l’amateur’ che compra gli oggetti per decorazione d’interni”.

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Digital Zen

Con arredi dal sapore sintetico ma accogliente, il design risolve la contraddizione tra l’algida astrazione del mondo digitale e la calda sensorialità della tradizione domestica di Stefano Caggiano

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Nella pagina accanto: la serie Sasso di Nao Tamura per Discipline valorizza materiali come il marmo, il legno Niangon e la quercia Bay, traendo ispirazione dalla forma delle pietre scolpite dagli elementi naturali.

Il sistema di sedute a isola con tavolini Refill, disegnata da Filippo Protasoni per Clique, è dotato di accessori di supporto per dispositivi digitali, tra cui un caricabatteria wireless. Foto: Silvia Rivoltella. Sotto: sono i contrasti ad ispirare la danese Stine Gam e l’italiano Enrico Fratesi, in arte GamFratesi, nella definizione della seduta con portaoggetti Fraga per Ligne Roset, modellata da linee morbide rivestite con un tessuto elastico senza cuciture.

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l design è per definizione un “ossimoro”, figura retorica consistente nell’unire due termini di significato opposto in una sola espressione. Fuor di metafora, se per fare oggetti che funzionino bene occorrono bravi tecnici e per comunicare la bellezza occorre la sensibilità degli artisti, quando si tratta di fondere l’anima della forma con il corpo della funzione sono i designer a scendere in campo. Ecco perché le formule riduzioniste, che cercano di inquadrare il progetto all’interno di una definizione univoca, risultano sempre monche, incapaci di catturare

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il senso profondo dell’agire progettuale. Per contro è proprio la capacità di mediazione virtuosa tra opposti a permettere al design di giocare un ruolo chiave nell’integrazione della nuova sostanza digitale con la tradizionale antropologia materiale. Progetti come le sedute con portaoggetti Fraga di Gamfratesi per Ligne Roset, o come Refill di Filippo Protasoni per Clique (dotata di caricabatteria wireless), si propongono in questo senso come soluzioni di riassorbimento dell’algida astrazione digitale in corpi oggettuali ‘caldi’, rispondendo al bisogno di dotare le nuove estetiche di sintesi di una conferma materiale che parli non solo alla punta delle dita ma accolga il corpo e i suoi sensi. Si

tratta di un lavoro quanto mai urgente a cui è chiamato il progetto. La fusione a freddo tra reale e digitale sta infatti portando alla progressiva delega delle azioni quotidiane all’automatismo fantasmatico dei dispositivi computerizzati. Dal fiorire di app che prendono in appalto le più disparate operazioni mentali alle auto che si guidano da sole, oggi è in atto un massiccio trasloco di attività umane pratiche e cognitive all’ecosistema digitale, che le gestisce in remoto occultandone i nessi causali. Ciò ha certamente effetti positivi sulla performance dell’apparato oggettuale, perché lo rende più elastico e reattivo (si pensi alle integrazioni ‘social’ di prodotti e servizi).

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Sopra: il divano Plank, disegnato da Knudsen Berg Hindenes + Myhr per DK3, è sollevato da terra in modo da trasmettere un senso di leggerezza. Accanto: disegnato da Note Design per Fogia, il divano Rise esprime la propria identità scandinava tramite la base in legno. Foto: Mathias Nero.

Ma quando lo scollamento tra la superficie di rapporto con gli oggetti e il loro funzionamento interno si allarga al punto da coincidere con l’intero ambiente culturale – e il sistema degli oggetti diventa ecosistema degli oggetti – ecco che si manifesta il lato oscuro di questo epocale ‘esonero’ tecnologico, ovvero, come molte ricerche mediche dimostrano, aumentano gli stati d’ansia. L’ansia deriva infatti dalla sensazione di una minaccia indefinita e non localizzabile a cui ci sente esposti. Si tratta in altre parole del timore derivante da ciò su cui non si ha una verifica cognitiva, come avviene con il funzionamento degli oggetti a controllo digitale, di cui ci sono familiari le interfacce ma

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non i gangli funzionali. È qui che interviene il genio mediatore del design: bilanciando la perdita di controllo sulla struttura articolatoria del quotidiano con complementi d’arredo portatori di una rassicurante fisicità, che se da un lato non volta le spalle al senso estetico del digitale, dall’altro lo ospita portandolo a una temperatura più mite e vicina a quella del corpo. Le finiture, i tessuti, i materiali e smussature di sofà come Rise di Note Design per Fogia o come Plank disegnato da Knudsen Berg Hindenes + Myhr e prodotto da DK3 impastano le nuove farine digitali in volumi di calma allo stato solido, capaci di aspettare la lentezza del corpo con spirito zen. Anche le lampade Mika 350 di

André Simón e Jachin di Giorgio Biscaro per Bosa si fanno portatrici di questo tepore sintetico, accogliente come il passato ma orientato al senso fresco del futuro. Oggetti come i tavolini SAM disegnati da Note Design con Stefan Borselius e Andreas Engesvik per Fogia, i taglieri Sasso di Nao Tamora per Discipline, o ancora il set di portacandele e specchi Piled Stones di Sebastian Jansson – di evidente sapore nordico come molti di questi progetti – sono allora altrettante ‘metafore funzionali’ dell’accoglimento del digitale in un tempo solidificato nella materia gentile del progetto. Sintetico ma anche terso e sereno come una pietra zen.

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Da sinistra: la lampada a sospensione Mika 350 è progettata da André Simón di A/Studio in granito e legno per richiamarsi alla tradizione architettonica della Galizia. Jachin di Giorgio Biscaro per Bosa è una lampada a sospensione in ceramica bianca o colorata, ispirata a una torcia.

Sopra: Sam, tavolo da pranzo disegnato per Fogia degli svedesi Note e Stefan Borselius e dal designer norvegese Andreas Engesvik. Le gambe filettate in massello sono tenute in posizione da elementi di fissaggio industriali nascosti dietro piccoli dettagli in legno curvato. Foto: Jonas Lindström. Accanto: i candelabri e specchi della serie Piled Stones (letteralmente, “pietre accatastate”) di Sebastian Jansson sono realizzati da morbidi solidi geometrici scolpiti in legno di betulla.

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piccoli spazi del sé

L’interpretazione in chiave contemporanea di scrittoi e mobili toeletta evidenzia la ricerca di nuovi spazi di intimità in casa. Individuali, minimi, ma superaccessoriati. Per la scrittura, l’home working, la cura di sé di Katrin Cosseta

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Segreto, di Ron Gilad per Molteni&C, è un prisma triangolare a parete che cela uno scrittoio-contenitore che integra connessioni multimediali. Grazie a un sofisticato sistema di tiranti, la parte inferiore diventa un piano d’appoggio. Disponibile in due tipi di finitura in essenza eucalipto o noce canaletto.

Pagina accanto: lo scrittoio T90 di Osvaldo Borsani per Tecno ha il valore di un archetipo. Disegnato nel 1954 e rieditato di recente, è composto da un piano sagomato e curvato, finitura noce canaletto, sostenuto da una sottile struttura portante in tubolari di acciaio (verniciata a polvere in colore grigio piombo opaco), con piedini di regolazione. Dispone di tre cassetti sottopiano realizzati in legno massello di noce canaletto.

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1. Scribe, di Daniel Libeskind per Fiam Italia. Scrivania composta da due basi in vetro trasparente curvato da 12 mm e piano in vetro da 12 mm, trasparente o con porzioni satinate. 2. Diapositive, di Ronan&Erwan Bouroullec per Glas Italia, scrittoio (disponibile alto o basso, in versione monocroma o policroma) in cristallo extralight stratificato e termosaldato, con elementi in massello di frassino naturale fissati alle estremitĂ delle spalle portanti. 3. Olympia Vanity, di Nika Zupanc per SĂŠ Collection, mobile toeletta con piano in ceramica smaltata in vari colori e struttura in acciaio verniciato o acidato. 4. Fontayn, di Steuart Padwick per Made.com, toeletta con struttura in rovere e cassetti laccati in vari colori.

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Scrivania Pecs di Marcel Breuer per Cassina Simon Collezione. Progettata nel 1951 e messa in produzione da Dino Gavina nel 1963, è oggi editata in frassino tinto nero e bianco.

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Dal Bristol system di Jean-Marie Massaud per Poliform, scrittoio retrodivano nelle finiture rovere spessart, rovere cenere oppure laccato colorato lucido o opaco.

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1.

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3.

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5.

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1. Scripta, di Luca Scacchetti per Contempo, scrittoio con struttura in alluminio interamente rivestito in cuoio, incollato e cucito a mano. 2. Hardy, di Andrea Parisio per Meridiani, scrittoio con base in metallo e due ripiani in varie finiture (rovere tinto, cuoio e lacche opache e lucide). 3. Secrétaire S 1200 di Thonet Design Team/ Randolf Schott per Thonet GmbH, con telaio in tubolare cromato o verniciato, e accessori opzionali in lamiera d’acciaio. 4. Pegasus Home Desk di Ippolito Fleitz Group/ Tilla Goldberg per Classicon. Il piano è composto da una spessa copertura in pelle che, srotolandosi, rivela alloggiamenti per pc, stazione di ricarica, portaccessori e piano scrittura. Base in acciaio cromato o verniciato, o rivestito in pelle. 5. Novelist, di Christophe Pillet per Lema, scrittoio con basamento in metallo cromato lucido e piano in noce canaletto. Completo di due cassettini laterali, scomparto portamatite e sottomano in cuoio. 6. Matheo, di Marc Berthier per Ligne Roset, scrivania domestica con basamento in alluminio e doppio piano in rovere liscio naturale o tinto nero con vani e cassetti in alluminio laccati opzionali. Passacavi integrato.

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1. Grace, di Carlo Colombo per Gallotti&Radice, scrittoio-vanity in frassino tinto tabacco o naturale, completo di specchio reclinabile e cassetto con frontale in legno, disponibile anche rivestito in cristallo retroverniciato. 2. Isa, di Studio Irvine per Marsotto, toeletta con specchio amovibile, in marmo Bianco di Carrara, finitura levigata. 3. Maestrale, di Ludovica e Roberto Palomba per Maserati by Zanotta Capsule collection. Scrittoio composto da un piano in noce canaletto dal forte spessore, che poggia su una struttura in tondino d’acciaio cromato o nichelato lucido nero. Nel top, realizzato in legno multistrato impiallacciato noce o, in una versione in cuoio pigmentato, è ricavato un ampio cassetto.

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Recipio, di Antonio Citterio per Maxalto, scrittoio su struttura in legno massello verniciato a effetto gomma lacca. Il piano parzialmente a vassoio, con cassetto sottostante, è realizzato in schiuma di poliuretano espanso strutturale Baydur verniciato effetto gomma lacca (nero, rosso o soia) o in lamiera d'acciaio rivestita in pelle in diversi colori.

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EnGLIsH TexT

INtopics

INteriors&architecture

editorial pag. 1

THe BIG FoLIe pag. 2

Frank O. Gehry with Fondation Louis Vuitton in Paris, Toyo Ito in Taiwan with the National Taichung Theater, two penthouses in Milan and London, the project by Tom Dixon for the Mondrian Hotel in London: the works of architecture examined in our December issue stimulate reflection, with their linguistic pluralism, on architectural research in the 21st century that interprets the spirit of the times and translates it into new expressions of the culture of habitation. The range of the connection between residential design and the evolution of lifestyles and societies in general is narrated in the publication packaged with this issue: a special volume Interni dedicates to its readers for the moment of the magazine’s 60th anniversary, gathering articles published over six decades to narrate 60 years of history, and stories of design. To get back to the present, this month we have analyzed an increasingly clear phenomenon in industrial furniture manufacturing and international collecting: that of reissues and modern vintage. But design never stops looking forward, as illustrated by two very Italian stories of success and innovation: namely those of Mapei, a worldwide leader in the field of chemical products for construction, and of Mutina, a brand that has revolutionized the identity of ceramic materials. Readers will also find a review of new products narrating the latest trends in living: from ‘digital Zen’ objects based on an aesthetic that mediates between the abstraction of the digital world and the sensorial impact of the traditional home, to the ‘peace and quiet’ of furnishings that reinterpret a sober bourgeois image; from the optical games of ultragraphic carpets to the intimate tones of small cabinets and desks, conceived for the needs of the home but also to grant enjoyable moments of personal care. Gilda Bojardi The curious life in the Mondrian Hotel in London, with interior design by Tom Dixon.

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project GEHRY PARTNERS

photos Iwan Baan, Marc Domage, Todd Eberle (courtesy Louis Vuitton), Matteo Vercelloni text Matteo Vercelloni

In PARIS, in the historic park of BOIS DE BOULOGNE, FONDATION LOUIS VUITTON is like a new cathedral of culture, for contemporary creativity and, in particular, the world of art. An iconic and expressive work that reinterprets the tradition and themes of the romantic garden and 19th-century glass buildings “A dream come true,” says Bernard Arnault, President of Fondation Louis Vuitton and the man behind this new center for the arts entrusted to the gestural architectural approach of Frank Gehry, who retraces the themes of his career of design research, from the lofty perch of the age of 86, still driven by a passion for totally free invention. Fondation Louis Vuitton has been described as a sailboat set down amidst the foliage of the tall trees of this historic park, but perhaps we should look to the tradition of architectonic folies and their theatrical impact to better grasp the surprising effect and the insertion in the context of this entire construction. Starting with the neighboring Jardin d’Acclimatation created in 1860 by Napoleon III and the Empress Eugènie, the first public garden d’agrément et de loisirs in France, with parts set aside for the display of fauna and flora, and then the formation of a true ménagerie, to which the new Fondation LV makes reference in its image as a large aviary – but in this case open to the sky – and its way of evoking, in the Le Frank restaurant on the ground floor, a sort of aquarium en plein air, with big flying fish designed for the occasion by Frank Gehry. The Fondation is isolated in the park and emerges decisively from the vegetation, rising over the treetops like a promenade suspended on terraces at different levels organized above the volumes of the ‘iceberg,’ sculptural features that convey, in the volumetric landscape, the dynamism of the roofs of the eleven galleries below. Composed of as many as 19,000 panels of Ductal (highperformance fiber cement), the ‘iceberg’ and the large sails made of over 3500 glass panels with microperforated metal screen, form the two layers of the overall architecture. Here we can observe the Dada procedure of the collage, which goes beyond any mere functional references; we can see the ‘spherical view’ of the building, where all the surfaces are shared, because what counts is not so

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Interni dicembre 2014 much having a front and a back, as the relations and interactions between the elements, and what is transmitted and inserted between them. We could also glimpse the idea of a building-city, an itinerary of discovery, organizing a narrative in exhibition spaces, welcoming site-specific works like “Inside the horizon” by Olafur Eliasson, which in the basement is joined on one side by a pool on which the entire building is virtually set, reflecting itself and its surroundings in the rhythmical sequence of aligned pillars. The colors of the canvases of Ellsworth Kelly add character to the auditorium facing the waterfall, another tribute to the tradition of the 19th-century garden, as designed by Alphand and BarilletDeschamps. Described by Frank Gehry in terms of the desire to “design a magnificent vessel for Paris capable of symbolizing the profound French cultural tradition,” the Fondation LV – ready for successful artistic contaminations, in the intentions of its creator, and based on the idea of designing buildings not as static creations, but as dynamic, never finished works – has an overall area of 11,000 m2, of which 7000 are open to the public. Inside, in the epiphany of the eleven gallery spaces, the facility contains a permanent collection of modern and contemporary art, joined by temporary exhibitions and open to concerts and performances, thanks to the auditorium. Particular attention has also gone into questions of sustainability, obtaining HQE (Haute Qualité Environnementale) certification, recycling rainwater to wash the glass roofing and to irrigate the green areas on the terraces from which to observe the profile of the city. Built in

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this specific zone of the Bois de Boulogne, where Louis Vuitton has held the concession of the Jardin d’Acclimatation since the 1950s, when Marcel Boussac took over the rights thanks to a public-private pact, the Fondation located on public land will return, after 55 years, to full municipal control, thus donating a new museum to the city, and offering a new icon for 21st-century Paris. - pag. 3 View of Fondation Louis Vuitton amidst the trees of the Bois de Boulogne. The iconic, dynamic work of architecture is composed of two layers of reference: the system of the icebergs clad in Ductal panels to form the eleven galleries, and the twelve large glass sails attached to the volumes by a complex mixed structure of steel and lamellar wood (photo Todd Eberle). On the facing page, a sketch by Frank Gehry. - pag. 4 In the drawings: axonometric views of the layers of the design. On the facing page, view of Fondation Louis Vuitton from the nearby waterfall (photo Todd Eberle). - pag. 7 To the side: at many points the juxtaposition of the glass sails frames views of the landscape and the city. On the facing page, clockwise: view of the Tour Eiffel from one of the roof terraces; the system of attachment of the sails to the load-bearing structure; detail of an internal staircase (photos Matteo Vercelloni). - pag. 9 Above, Inside the horizon by Olafur Eliasson, a site-specific work in the basement, along the route beside the auditorium (photo Iwan Baan). View of the main two-story auditorium with the work by Ellsworth Kelly; the hall has 340 seats designed by Frank Gehry and produced by Poltrona Frau Contract (photo Marc Domage). In the drawings: plans of the ground floor, the fifth-level gallery and the terrace level. On the facing page: the large fish designed by Frank Gehry float in the space inside the Le Frank restaurant on the ground floor, managed by the chef Jean-Louis Nomicos (photo Matteo Vercelloni).

Above the treetops pag. 10 project STUDIO MONZINI-RABONI

greenery design Emanuele Bertolotti photos Mario Ciampi text Matteo Vercelloni

In Milan, in the attic of a recently renovated building, a home overlooking the rooftops of the city, with a terrace conceived as a series of outdoor rooms, connected by the design of the greenery that unites them with the trees below The practice of reuse of urban artifacts, of transformation and reinvention of existing structures, has spread in recent years – though not always with good results – to the theme of the recycling of attics, adding new levels to existing buildings and transforming old, dusty nooks into residential spaces. While from the late 1800s to the early 1900s living ‘high’ in attics lit by small dormers was the prerogative of servants, the romantic hardship of unsung artists and poets, today the top floor has become a real estate plum. An elevated space, far from the noise of the street, with rooms full of light, at times also with a large terrace, as in the project shown here. In the center of Milan, facing the exedra of Foro Bonaparte, the renovation of a residential building has made it possible to create a new level under the roof, a large apartment with double exposure and a flat roof used as a terrace. The overall philosophy is based on the idea of construction of a contemporary space in which to insert, as compositional presences, a careful selection of furnishings and artworks capable of generating a perfectly gauged narrative, featuring figures from different countries, different historical periods, different poetics. The entrance, located at the building’s staircase in the corner to the right, suggested the creation of a corridor placed diagonally towards the central space of the living room, the true hinge and heart of the entire flat, featuring two large windows. Two lateral rooms extend symmetrically along the facade; to the left, the fireplace corner, and to the right the dining area with the kitchen, closet and services. The two smaller rooms, independent and separate, are at the same time part of the central space thanks to the lack of doors or partitions, making them seem like its natural extension. The one bedroom, with its own bath, is placed on the internal facade, near a large closet, an auxiliary bath and a studio accessed from the entrance corridor. A small walk-through terrace separates the bedroom from the fireplace, creating a small garden visible from the living area thanks to the large glazing, announcing the green landscape above on the terrace. The terrace is connected to the space below by a light burnished staircase with metal steps, which blends into the structural grid of the roof in the same material and color, left exposed to form the sloping pitch of the living area. The straight staircase extends along the custom bookcase that forms the divider spine between the studio/bedroom and the living area, reaching the terrace in a glass pavilion surrounded by greenery. This last do-

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mestic space, with the same gray mosaic flooring used in the living area below, is a filter prior to entry in the garden designed by Emanuele Bertolotti that offers other spaces for relaxation, in the shade or the sunshine, from which to observe the rooftops of the city. - pag. 10 View of the living area; to the left, a low cabinet by George Nakashima for 1stdibs; the red Victoria&Albert sofa by Ron Arad for Moroso; the gray sofa from the Project collection by Antonio Citterio for B&B Italia; low central table by Luigi Caccia Dominioni for Azucena. At the back, Superelastica armchair by Vittorio Bonacina, designed by Marco Zanuso Jr, Giuseppe Raboni. View of the foliage of the trees of Foro Bonaparte from the terrace. - pag. 12 The landing leading to the terrace, connected to the apartment below; around the table, the Superleggera chair by Gio Ponti, produced by Cassina. On the facing page, the custom metal staircase beside the bookcase, leading to the access veranda of the terrace. Mosaic flooring by Fantini Mosaici. - pag. 15 View of the fireplace zone; Lounge Chair with hassock by Charles & Ray Eames, produced by Vitra, gray Arne sofa by Antonio Citterio for B&B Italia. The bedroom towards the terracegarden, with storage unit by Alik Cavaliere for Zanotta. Plan of the apartment. Facing page: the dining room with table designed by Marco Zanuso Jr, made by Marzorati Ronchetti, Superleggera chair by Gio Ponti, produced by Cassina.

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CITY LIGHTs pag. 16

project PARISOTTO + FORMENTON ARCHITETTI local architect studio Gregori Chiarotti photos Paolo Utimpergher - text Antonella Boisi

In LONDON, a PANORAMIC PENTHOUSE on the roof of a Victorian building in Chelsea: a loft space that comes alive thanks to light entering through openings, igniting luminous vibrations at sundown. To inhabit in the company of pieces of contemporary art and design selected with the passion of the collector Can good architecture create atmosphere even without furnishings, creating a space that is density and fullness? Of course, if it is based on the efficacy with which Aldo Parisotto and Massimo Formenton configure spaces and shape them with light. Those who want to know more about this approach should consult Atmosfere Domestiche, the second monograph on their work published by Electa Architettura, focusing on the residential efforts of the Padua-based studio, to celebrate 10 years of work in the Milan office, and 25 years (in 2015) of activity in general, on the national and international scene, ranging from residential works to museums, yacht design to the concept of the Nespresso boutiques around the world (Toronto won the 43rd Store Design Award 2014 in the category Bar, Coffee and Tea Shops), with a core business of projects for fashion and luxury retailing in the Far East, South America, China, Japan and Russia. The studio’s narrative force, free of ostentatious gestures and emphasis, can be seen in the recent design of a penthouse on the rooftops of London: a glass volume resting on a light steel structure, on the roof of a Victorian building in Chelsea. An authentic ode to light, and to the evocative power of reflections and veils. “The orchestration of light is never a stylistic exercise as an end in itself; it has a functional purpose, to reveal all the presences – surfaces, materials, objects – that define character and create spaces,” the designers say. It is no small thing to be able to give architecture a soul by manipulating light, channeling it into a rigorous inscription composed of a few strong signs and pure lines, orthogonal planes and clear profiles: it requires extreme compositional control, a focus on the specific environmental context, and a coherent language. Parisotto & Formenton, with a sensibility that evokes the great Italian tradition, are masters of all this. The location, a loft of about 260 m2, with an L-shaped plan, four pillars in the open living area, was the result of an already built vertical addition. “We found it like that, together with the continuous glazing, over 20 meters of transparency. The perfect place to insert a new story, conserving the original layout. The unit faces southeast, and this presence recessed from the facade, topped by a large terrace, offers a spectacular view of London. At night it is like a lantern, a bright metropolitan landmark.” For the two Venetian designers this was almost child’s play: having revised the layout and the spatial arrangement, working on the continuity of paths, the fluid circulation inside the zones, they focused on screening the main opening, creating a system of sunscreens to control the sunlight in gradual passages inside the large living area. A way to bring out the spatial breadth of the two zones (one for conversation, the other organized around a fireplace) and the dining area, which all form a single uninterrupted environment, seamlessly leading to the kitchen, placed at the end of the layout, together with the pantry. This was also a way of opening up the house, with modulation of luminous scenarios, to the owner’s need to entertain many guests, including forays in the warmer season onto a belvedere terrace, thanks to the sunscreen system and an etched glass parapet in the lower part, for reasons of privacy. The refined spatial sensations of vibrant reflections and shadows are also seen in the first room visitors encounter when they arrive, again facing southeast, which functions as a junction between the living area and the bedroom zone. It is more than just an entrance hall – though it does offer access to the staircase, the private lift and a small closet – because this space eloquently sums up the entire mood of the domestic setting: different degrees of brightness, apt combinations of 20th-century design icons (vintage pieces and Italian products of very high

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quality) and materic, monochromatic and graphic art works, like the selected pieces by Herbert Hamak, in resin, that reflect light and the mixture of orangegreen-red tones of the seating and the carpet, establishing a contrast with the African pieces in the living area. Gradually discovering the spaces, from the entrance zone the gaze is drawn down a corridor – organized as a photography gallery, with black+white shots by Italian photographers of the 1950s, in a space filled with zenithal light entering through an original skylight built into the spatial construction. To the sides of the corridor there are two twin guestrooms with baths, after which, at the end, one finds the master bedroom with its bath to the right and its closet to the left. The main bedroom has double exposure on two corner terraces in brick, with a very British look. Thanks to openings and skylights the spaces receive filtered light, even in these nocturnal zones; all the way the detail of the two existing portholes on the long wall of the master bedroom, now contained in a square frame fitted with Venetian blinds, forming a plasterboard niche. “A precise request for camouflage on the part of the client,” the designers explain, who have created all the closets and fixed furnishings, the kitchen and bathrooms, with clean forms and clear volumes. The materic choices include homogeneous limestone for the facings, blending with the white painted walls and the pale oak of the floors, made with large planks. Just a few warm, tactile materials, deployed precisely to avoid interfering with the perception of a clear, neutral, luminous shell, with the dilated, rarified atmosphere of an art gallery. Ready to welcome other works, with Zumtobel lights and dimmers, but without forgetting that the most beautiful image of all is the landscape visible from inside the house. - pag. 17 Overall view of the living area, an open space whose continuity is underlined by the natural oak flooring. All the zones, including two living rooms (one for conversation, the other around a fireplace) and the dining area, all the way to the kitchen at the end, thrive on the multiple visual relationships established with the outside, thanks to the glass wall. On the facing page, the large terrace of the apartment, offering a 360° view of London, and the glass facade with a sunscreen system to control the passage of light in the living area. The Zumtobel lighting fixtures are built into the architecture. - pag. 18 Vintage furnishings and contemporary Italian design products join African art pieces chosen with the passion of the collector in the living area. Charles divan by Antonio Citterio for B&B Italia. Wooden table by Christian Liaigre. In the dining area, the Artichoke chandelier by Poul Henningsen for Louis Poulsen. Eracle bookcase by Antonio Citterio for Maxalto. - pag. 19 Iconic design pieces in the entrance zone: Utrecht armchairs by Cassina (design Gerrit Thomas Rietveld) and the Henry Large hassock by Antonio Citterio for B&B Italia in a dialogue with a vintage lamp by Gio Ponti and the contemporary artwork by Herbert Hamak in reflecting resin, hung on the white wall. In the drawing: the L-shaped layout. - pag. 21 The master bedroom with white walls and natural oak flooring is a neutral shell lit by an existing skylight; the two existing portholes have been concealed in a niche, with a Venetian blind. Bed and armchair from the Febo collection by Maxalto (design Antonio Citterio), Fat Fat bedside units by Patricia Urquiola for B&B Italia. Below, in the bathroom clad in limestone, Gobi washstands and Liquid faucets by Boffi; radiator by Vola. On the facing page, the view from the master bedroom, at the end of the corridor, showing the depth of the perspective, bringing the external landscape into the house.

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HauTe HÔTeLLerIe pag. 22

architectural design ARCHLANE interior design TOM DIXON

photos courtesy of The Mondrian London at Sea Containers text Valentina Mariani

South of the Thames, Tom Dixon creates the interiors of the first European MONDRIAN HOTEL, with forms, materials and atmospheres inspired by the dreamy dimension of the golden age of ocean liners. A new Anglo-American cultural encounter The hull entirely clad in copper that wraps the lobby. The metallic and brassy materials in the common zones and the rooms. Portholes in the bathrooms. These features leave little room for doubt: we’re inside a (virtual) ocean liner moored on the Thames. The exact address: 20 Upper Ground. This is the style chosen for the first Mondrian Hotel in Europe, thanks to the creative verve of Tom Dixon, the award-winning British designer who needs no introduction. The Mondrian is at South Bank, in the Sea Containers House, a construction from the 1970s designed

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to contain an extra-luxurious hotel but then used only for offices, until this haute hôtellerie project came along two years ago. “The original structure designed by Warren Platner in 1978, an American architect specialized in cruise ships, certainly lends itself to the Mondrian style,” says Dixon, adding: “20,810 square meters restructured by Archlane in 2012 made room for our project: a hotel in which you feel like you are in a dream.” The renovation plan called not only for the renewal of the interiors and exteriors of the building, but also for the revitalization of areas open to the public, including the promenade along the river. Guests are welcomed by an enormous bright blue anchor, made in polyurethane foam, inspired by 1960s Pop Art. Near the hall they find the Sea Containers restaurant where chef Seamus Mullen brings his zero-km New York cuisine to London, creating an encounter with British food by using healthy ingredients (direct from the producer to the consumer) in an open “laboratory” with a wood-burning oven. After dinner, you can drop in at Dandelyan, the elegant with an eccentric green marble counter (like the walls), leather sofas in pink, metal and gilded features, mirrors and refined seasonal cocktails. Between the restaurant and the bar lies the Den, a lounge area designed to encourage socializing, between a snack, an English afternoon tea or a game of backgammon. “We wanted to explore the idea of Anglo-American relations, to create an encounter between the best of the two cultures,” Dixon explains. America and England also meet up in the lifts (or elevators). Ultramodern cabins where big photographs of Tom Dixon dressed as an astronaut, Queen Elizabeth and a rock singer, a British man and a Hollywood starlet accompany clients from one floor to another. The exploration continues on the upper levels, containing 359 rooms, ranging from standard units to the luxurious River View Apartments. Here the atmosphere is halfway between European 1920s elegance and Hollywood glamour. A simple way to enter a world apart. The furnishings are custom made, in paler colors than in the common areas, again with abundant use of metal and brass to evoke the seagoing theme. Like all luxury hotels worth their salt, this one has a 24-hour fitness area, an underground relaxation zone done by Agua Bathhouse & Spa and faced with optical tiles, and an elegant Blu China cinema with 56 seats, managed by Curzon. For lovers of amazing views there is also a rooftop bar, very recently opened. A perfect place for a suggestive “party in the sky” with a view “over the river.” - pag. 23 Interiors of the elevators of the Mondrian Hotel: a large photograph on the wall shows Tom Dixon dressed up as an astronaut next to a young Pearly King. On the facing page, the lobby area where a giant Pop Art anchor in polyurethane foam welcomes guests. - pag. 25 On this page, clockwise: the model of an ocean liner welcomes visitors to the American bar of the Sea Containers restaurant. The luminous mirrors in the restrooms on the ground floor are reminders of the portholes on luxurious cruise ships. On the facing page, interiors of the Den, the lounge area between the Sea Containers restaurant and the Dandelyan bar, with armchairs in leather and wrought iron, bookcases and coffee tables, all designed by Tom Dixon. - pag. 26 On this page: interiors of the Dandelyan Bar, with vintage furnishings, metal features, mirror surfaces and emerald green walls. The bar serves up the cocktails of Ryan Chetiyawardana; a standard room with view; the furnishings are custom-made, the bed queen size. On the facing page, an enormous gilded drop becomes the protagonist of the internal spaces of the relaxation area of the Agua Bathhouse and Spa, in the basement of the Mondrian Hotel.

INsight/ INtoday

DAvID LYncH “SHOOTS” at the MAST pag. 28

project LABICS - Maria Claudia Clemente, Francesco Isidori photos Christian Richters and Rocco Casalucci text Laura Ragazzola and Olivia Cremascoli

Just the latest initiative, over time, of the non-profit foundation created in Bologna in 2013: a large exhibition of photographs by the visionary filmmaker on the theme of the factory. In the spaces of the MAST, the eclectic personality of the American artist finds a ‘home’ in a context of research and experimentation Art, photography, cinema, experimentation (more than one ‘gallery’ and a spectacular auditorium with 410 seats). But also food (a restaurant and a cafe), health

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and social innovation (a wellness center and a daycare center). These are the eclectic vocations of MAST (an acronym for Manifattura di Arte, Sperimentazione e Tecnologia), 25,000 multitasking square meters that have transformed an abandoned industrial area on the outskirts of Bologna into a building that forms a bridge between business and the community. MAST is the result of the philanthropic (and visionary) initiative of Isabella Seragnoli, president of Coesia, a world leader in the sector of advanced automatic machinery and precision mechanics. The new thrust of the project designed by Claudia Clemente and Francesco Isidori, the young partners of the Roman studio Labics, is to create (and ‘donate’) advanced services that besides being useful for the Coesia company can also be shared with the urban context (all the activities are totally open to the public, with the exception of the restaurant, which is a corporate facility). The result is a complex building composed of stacked and overlaid volumes, mixing spaces organized for many different activities. One starts at the company restaurant on the ground floor, flanked by an exhibition space, service zones, a gymnasium and a daycare center with its own garden. The upper level contains two exhibition rooms and a cafe, while the top floor has a dramatic foyer leading to the auditorium. Below ground there are three parking levels. The functional and volumetric complexity of the building is countered by the transparency and softness of the ‘crystal’ skin that wraps the whole structure: sheets of opalescent glass, of double thickness, screen printed with stylized drapes. The effect is truly surprising: the screening attenuates and almost erases the architectural contours, seeming to blend into the shaded colors of the daytime sky, and standing out like a lantern in the night. Only the wing for the daycare center features color, with a ceramic facing of polychrome ‘sticks,’ like a tribute to the vitality and carefree spirit of childhood. But the heart of the MAST is above all experimentation: the attempt, that is, to offer the community engaging moments of culture, entertainment and education (as well as play), to improve the quality of life and work in the urban and suburban territory (all the activities are posted at www.mast.org). The latest initiative? A show of photographs (some never shown before) by the great filmmaker David Lynch (see report on the following pages). A charming youth in his seventies with a rockabilly haircut, David K. Lynch continues to keep millions of fans on the edge of their seats thanks to his multifaceted artistic activities: “I am a human being who enjoys capturing ideas and then translating them from one medium to another.” So from the current launch of the new cult packaging of Twin Peaks (1990), the complete series on ten Blu-ray disks, each introduced by the enigmatic Log Lady (Catherine Coulson), to the very recent announcement that David Lynch and

How I will ‘re-dress’ your life pag. 34

photos courtesy of Toyo Ito & Associates text Antonella Boisi

Cersaie 2014, the lecture by Toyo Ito introduced by Francesco Dal Co, a moment of reflection on the meaning of architectural research that attempts to restore the man-nature relationship through experimentation and a sense of the immaterial What makes Toyo Ito’s architecture an appointment of interest, stimulating for the construction, habitation and thought of the 21st century? “Its capacity to dress life, not teaching but helping to live,” says Francesco Dal Co, introducing the master class conducted by the Japanese architect, winner of the Pritzker Prize 2013, part of the cultural program of Cersaie 2014 in Bologna. “Seeking a relationship with the opportunities life offers to us,” he went on, “we grant expression to what life is (and what, without our ability to interpret, would simply be a flow). Architects transform life into time and give form to things, translating their diversities. Toyo Ito does this without ever being vulgar, without following fashions or passing fancies. In his works of architecture we find the elegance things take on when they are the expression of the form of the times.” Indeed, it is always a question of modes and times. And the pursuit of “non-material” volumetric-spatial compositions, in which the obsession with lightness and transparency mixes the physical and the virtual worlds, is a sort of signature that can be seen throughout Ito’s career. Since 1971, when he designed the first house in aluminium and glass. All the way to more famous works like the Sendai Mediatheque (Japan, 1998/2000), the Tod’s Omotesando building (Tokyo, 2004), the library of the Tama Art University (Tokyo, 2007), the installation of the solo show at the Basilica Palladiana in Vicenza in 2008. “The most original aspect of

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dicembre 2014 Interni Mark Frost are ready to shoot a new series of nine episodes in 2015, hopefully with the entire original cast, including the angelic special agent Dale Cooper (Kyle MacLachlan), to be broadcast on TV in 2016 (“The mysterious and special world of Twin Peaks is pulling us back. We’re very excited. May the forest be with you,” Mark Frost & David Lynch), to his photography exhibitions, organized above all in Paris, his second home (from Paris Photo with Galerie Item to the Maison Européenne de la Photographie and Fondation Cartier pour l’art contemporain), and more recently also in Italy. One example is “David Lynch: The Factory Photographs” (curated by Petra Giloy-Hirtz), until 31 December at the Photo Gallery of MAST (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) in Bologna (www. mast.org), featuring 111 photographic works (including 14 never shown elsewhere) in black and white, in two different formats (28 x 35.6 and 100 x 150 cm), on the subject of industrial archaeology, with images from Berlin and Lodz (Poland), the UK and New Jersey, New York and Los Angeles, shot during the course of three decades (since the 1980s). As Lynch explains: “I love industry. The pipes. The liquids and the soot. Synthetic things. I like to see people working hard, and I like to see muck, waste, artificial refuse.” The installation also includes a soundtrack by the artist and a selection of his first short films – Industrial Soundscape, Bug Crawls, Intervalometer: Steps – shown in a continuous cycle. - pag. 29 The work by the artist Mark di Suvero – entitled Old Grey Beam – stands out in the park designed by the landscape architect Paolo Pejrone: on these pages, two images, day and night. The artistic legacy of MAST (inside there are other contemporary works, like the Sphere by Arnaldo Pomodoro) can be enjoyed not only by the corporate community of Gruppo Coesia, but also by citizens and visitors. The goal is to trigger positive publicprivate interaction, a fertile process of osmosis between the company and the city. - pag. 31 On the facing page, top, the daycare center, open to the community: a multicolored surface identifies the facility with respect to the glass enclosure of the corporate restaurant (below). The exhibition program of MAST devotes ample space to photography (above), including a show of pictures by the American director David Lynch (on the following pages). - pag. 32 Directed by Urs Stahel, the Photo Gallery (Tuesday to Sunday, 10.00-19.00) of the MAST foundation in Bologna, with the exhibition David Lynch. The Factory Photographs. - pag. 33 From The Factory Photographs, an exhibition produced by The Photographers’ Gallery of London (17 January – 30 March 2014), then shown until 31 December at the MAST Photo Gallery in Bologna: 1. David Lynch, Untitled (Lodz), 2000, archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches. All photographs in an edition of 11. © Collection of the artist 2000. 2. Mark Berry, Portrait of David Lynch (courtesy of the artist). 3. David Lynch, Untitled (England), late 1980s/early 1990s, Untitled, 2000, archival gelatin-silver print, 11 x 14 inches. © Collection of the artist.

his career,” Dal Co continued, “is the way he always gets away from the typological definition and the constraints it represents. This is joined by an extraordinary ability to experiment with innovative construction methods and materials, applying lightness and clarity of structures in an expressive way that is never predictable.” One example will suffice: the National Taichung Theater in Taichung City, Taiwan, a worksite in progress (deadline November 2015, a full decade after the competition won in 2005), where the pursuit of the intrinsic expressive impact of materials is particularly evident in the shaping of the elastic membrane, in relation to the great capacity of interpretation of the specificities of the site. In short, the design concept takes the form of two sculptural surfaces separated from each other, which in their points of contact create empty interspaces, with a sculptural effect, that also function to support the structure. “This principle has created a porous building,” Dal Co concludes, “where the strength tonicity is not the result of a formal exercise, but of a structural intuition connected with the way of using the material.” The genesis of the Opera House, a container that combines three theaters, respectively for 2000, 800 and 200 seats, is complex, in relation to a series of refreshment spaces and lounges, in the context of a flourishing park near the residential zone of Taichung City. “I was looking at the cavities of the human face, the mouth, the nose, the ears, that put us into a relationship with the outside,” Toyo Ito says. “The metaphorical transfer of this concept into ar-

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Interni dicembre 2014 chitecture led me to develop an organic spatial structure, with the technique of the truss wall: a ‘cave’ of sound, with a longitudinal form, that opens ‘a window’ to the city of the future, thanks to its skin. In practice, staggering and separating two planes of elastic membrane, horizontally and vertically, irregular gaps are created, reinforced at the points of contact by pours of concrete. Before the pour had completely set, we removed the grille of reticular metal in which it took form. This might seem like a very primitive technique, but it was necessary to create a shape step by step that would permit curving of the surfaces, to take on a three-dimensional form that was different every time. So it became a particularly long and laborious operation.” A coat of lime was then applied to the walls, followed by paint, to suggest fluid continuity; on the roof, the concrete has been waterproofed and ‘bent’ to define a green roof garden. In this wrapper that flexibly adapts to the various functional purposes of the building, in the conviction that the theater arts are spatial, combining body, music and performance, the upper part is set aside for the restaurant, while the ground floor foyer is organized like a virtual garden, with naturalistic works made by a selected group of artists from Taiwan. The smaller theater, slated to be the first completed part, will have an amphitheater conceived as an outdoor continuation of the internal stage. “Because my mission, in this and in other works,” Toyo Ito explains, “is to reclaim a more direct dialogue with the things around us, and to reconstruct the relationship between human beings and nature, starting precisely with the materials that are capable of reawakening that relationship. Concrete, wood, ceramics, aluminium… the type is not important; what is important is not to remain

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Fake DesIGner: UGo La PIeTra pag. 38 Interview by Germano Celant

From 26 November to 15 February, the TRIENNALE DESIGN MUSEUM presents “PROGETTO DISEQUILIBRANTE,” the first major retrospective on the work of Ugo La Pietra from 1960 to the present, shedding light on the humanistic side of this eclectic spirit: architect, artist, filmmaker, editor, musician, comics artist, teacher, critical observer of reality... In the interpretation of the stories found in the history of architecture and design, what is lacking is a founding path of the artist who transforms his free creativity into functional production. If we think about the linguistic shift that marks the work from Le Corbusier to Sottsass, Enzo Mari to Hans Hollein, Zaha Hadid to Steven Holl, we can see that this internal change is important to push research towards an original dimension in the various territories of design and construction. Your voyage in the various landscapes of concrete thought is also marked by this ongoing osmosis between being an artist and being an architectdesigner. You began as an Informal artist, then as a proponent of ‘non-forms,’ and then moved towards an effort of definition of forms... “Like other artists – Enzo Mari, for example – I already had a particular matrix that took me towards this rather anomalous path; it is true that I took a degree in Architecture, and so I was open to a wider kind of formation. Sottsass too was a very open person: an artists who had crossed the imaginist Bauhaus and many other artistic experiences; but he was somehow an architect, typically Italian. The architects themselves, from Magistretti to Ponti, were people who had opened up the horizons of their discipline: they went beyond. Ponti, for example, painted frescoes. Having edited and published a book on Ponti, I studied his figure in depth and noticed (from certain recollections of Agnoldomenico Pica) that at the end of his life he regretted not having been a painter: he wanted to be an artist and that always made him suffer, just as Sottsass

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standardized, to pursue paradigms of lightness and transparency in the way the materials are used. A major theme for the architecture of the future, for me, will be to understand how people can live together in a better way.” This issue is emblematically addressed by the social research project Home for All, conducted by Ito with illustrious colleagues in Japan after the tsunami of 2011: a project for first aid centers and shelters, developed by listening to the future inhabitants of places and houses, to understand their needs and desires. - pag. 35 Project drawing showing the sequenced structural process, with truss units as the basis of the composition. The floors, walls and facades are created by plug-in openings that vary in height to determine different spatial connections. In the images: construction phases of the National Taichung Theater, commissioned by the Taichung City Government, Republic of China (Taiwan). The construction of the architectural skin follows a step-by-step technique that permits curving of the surfaces, taking on an always different three-dimensional shape. By staggering and separating the two planes of the elastic membrane, horizontally and vertically, irregular cavities take form, reinforced at the points of contact by concrete pours. - pag. 36 The architectural composition of the Opera House narrated through evocative sketches by Toyo Ito, which from the longitudinal exploded axonometric to the depiction of the green areas around the building, put the accent on the pursuit of dialogue between human beings and nature. The plug-in concept on which the design is based: two sculptural surfaces, separated from each other, which at the points of contact create gaps for a sculptural effect, but also to function as structural supports. To the side, the overall composition of the three theaters. From left, a rendering (by Kuramochi + Oguma) of the Playhouse (800 seats), the Grand Theatre (2000 seats), and the Black Box (200 seats), the smallest theater, soon to be opened.

suffered because he was not able to be an architect.” In practice, the matrix is an almost schizophrenic movement, in which the solitude of art with its individual creations translates into the design of products that address mass consumption and communication. “This phenomenon of openness to other disciplines often leads to a feeling of regret, due to a lack of recognition or of great success. A regret I have felt less than others, because for me, from the start, it was like a declaration of intent. To be honest, I am not an artist, nor an architect, nor a designer, because I have always done research in the visual arts: this is what I would like to convey to the people who will visit ‘Progetto Disequilibrante,’ my exhibition at the Triennale. The answer is the same one I give to people who see my monographs, and ask me: ‘But where are you going, what do you seek?’ It’s simple: doing research doesn’t mean setting goals, it means staying open, ready to explore. I have done so many research projects, and each time I approached a subject or was prompted by one – urban or environmental – I responded with the tools I thought were the most suitable: I did cinema or performance, in complete and total freedom, and this also happened because I was never attached to the market. I would like to point out that I took a degree in 1964 with a thesis on synesthesia between the arts, to get beyond the ‘integration des arts,’ and from a distance it seems to me that my everyday creative exercise has conditioned me so much that it has become a synesthetic instrument, crossing the various disciplines, which continuously overlap with each other.” Working on collateral linguistic components can make original expansions possible, because the lateral approach permits variability, and surprising thoughts. It is not a way of proceeding by blocks, but by openings, without any forecasting... “Being ‘a-disciplinary’ is an Italian phenomenon, managing to get beyond the narrow dimension of the discipline. In my case, the situation is accentuated because I have done and still do things that go beyond the specific. I have been the editor of nine magazines, I have written and theorized a lot, I have been a teacher for fifty years. I have made many films. I have really operated in a range of areas, with a certain nonchalance, and perhaps this is my true characteristic, which is often seen in a negative light because it has not helped people to easily recognize my ‘sign,’ or what many people call ‘style.’ This nonchalance has also led me to open to the world of crafts, thanks to the discovery – at the start of the 1980s – that an enormous portion (about 70%) of production was still linked to the tradition (styles and models). Objects that

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stored up all the culture of making, overlooked by Italian industrial design, even scorned by it! My attitude, which was radical, became a mission, trying to restore value, with contemporary design, to this whole vast cultural and productive area that was submerged. I did this by theorizing and practicing Neo-Eclecticism, which was not the recovery of stylemes from the past (as in the Postmodern), but the recovery of everything that represented, in the past, values of form, materials and workmanship. So in the 1980s and 1990s, while Italian design was getting excited about the experiences of the Alchimia and Memphis groups, I was following the paths of our submerged arts and crafts.” Nevertheless, in pursuit of original solutions related to the historical moment and the design situation, you set yourself some very precise operative coordinates: what were they? “There were at least four essential reference points: the first is the ‘synesthesia among the arts’ that was the theme of my degree thesis: until then I was convinced that the time of ‘integration des arts’ was over, that it was time to work in terms of ‘overflows’ from one discipline to another; the second was the ‘unbalancing system’: a theory that did not call – in the mid-1960s – for either self-castration (the refusal to work for the society of the time) or the idea of working for a utopian society, but instead the desire to work by creating elements of disturbance with respect to the system, to reveal its contradictions; the third point had to do with communication. At the exhibition ‘Italy: The New Domestic Landscape’ in 1972 at MoMA New York I foresaw – though the project was totally misunderstood – the advent of the Internet: information from the home to the city and vice versa, where communication traveled by self-managed means, no longer imposed ones. People still didn’t use the term ‘telematic’ but there was already the monitor that made it possible to imagine all this, which I then developed in 1983 with the project of the ‘Casa Telematica’ at the Milan Fair. The fourth point had to do with ‘recovery and reinvention’: the best thing I did in Milan was the research on the material culture of the urban vegetable gardens of the suburbs. I made works of a conceptual character with photographs, drawings, and a film entitled ‘The Reappropriation of the City’ where I showed people working, recycling materials, taking apart and modifying the territory… a forerunner of the recovery of manual making.” A voice crying in the wilderness against the dominant interdisciplinary dimension? “I have always believed in the theme of synesthesia as exchange because ‘what is

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by Andrea Branzi

Modernity cannot heal the sores of the GRANDS MALADES – namely us – and refuses to define the borderline between sanity and madness, teaching us to live together with our ‘neurosis’ as the only form of vital energy Le Grand Malade is not a type of patient, but the figure of the intellectual, the artist: subjects who do not look directly at the world, but keep their gaze turned inward, looking inside themselves and perceiving a dark, informal, abstract, infinite internal space. These cognitive modes spread when the ‘real world’ is losing its meaning and another world starts to manifest itself. Against violence, corruption, epidemics, wars, vulgarity, drugs, economic and social crises, the intellectual and the artist display their sores, their dreams and lamentations, to bear witness to a self-scourging that solves no problems, but does make them clearly visible. All this, then, does not mean indifference to the tragedies of the soul, but sublimation and capacity to draw negative magnetic fields to the self, discharging them. So Le Grand Malade looks after our health, revealing that a neutral space does exist inside which everything can be erased, and teaching us that to be contemporary we have to be critical of the contemporary world itself. The Renaissance, unlike what most people think, found itself snared in a time where the certainties of faith were crumbling, crushed between monotheist Christianity and pagan polytheism. Leon Battista Alberti, apparently the champion of the certainties of classical culture, was actually one of the first Grands Malades of the

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dicembre 2014 Interni sharp to the touch is high-pitched to the ear’: these two sensations are synesthetic, each remaining independent, and there is simply an overflow between them, not an integration in the sense proposed by the interdisciplinary approach that was in fashion at the time. This is why I have always operated separately in the various disciplines. Of course I have also been a designer, in the narrower sense of the term, though my 2000 pieces have never been put into production. I am a fake designer: while Magistretti designed twenty pieces, each produced in hundreds of thousands of copies, I designed a thousand, each existing as one item only: all prototypes made with craftsmen.” - pag. 38 Ugo La Pietra, from Sistema Disequilibrante, the Immersioni, Audiovisiva immersion diagram, pen on paper, 1969. Ugo La Pietra, from Sistema Disequilibrante, the Immersioni, Colpo di vento (una boccata d’ossigeno) immersion diagram, pen on paper, 1970. - pag. 39 Ugo La Pietra, from Sinestesia tra le arti, Gruppo del Cenobio, oil on canvas, 1963. - pag. 40 Ugo La Pietra, Il giardino delle delizie, pen on paper, 1990. Ugo La Pietra, from La mia territorialità, La città scorre ai miei piedi, pen and pencil on paper, 2010. - pag. 41 Ugo La Pietra, from Effetto Randomico, the Strutturazioni Tissurali, cold-worked methacrylate, 50x50 cm, 1967. Ugo La Pietra, from Sistema Disequilibrante, the Immersioni. Caschi sonori immersion, installation at the Milan Triennale (with Paolo Rizzatto), 1968. Ugo La Pietra, from Sistema Disequilibrante, the Commutatore, 1970. Ugo La Pietra, from Sistema Disequilibrante, the Immersioni, Altrecose store in Milan (with Paolo Rizzatto and Aldo Jacober), 1969. Ugo La Pietra, from Sistema Disequilibrante, Uno sull’altro bookcase, 1968. Ugo La Pietra, Il Monumentalismo, 1972. - pag. 42 Ugo La Pietra, from Abitare è essere ovunque a casa propria, interno/esterno, performance in Linz (Austria), 1979. Ugo La Pietra, from Memoria tridimensionale, memoria bidimensionale. Cronografie. La memoria nei diari, film La ricerca della mia identità, exhibition installed during the International Architecture Exhibition, Venice, 1980. Ugo La Pietra, from Il Neoeclettismo, Credenza neoeclettica, made by Legend (Tezze sul Brenta, VI), 1988. Ugo La Pietra, from Il Neoeclettismo, Casa palcoscenico, exhibition at Abitare il Tempo in Verona, 1989. Ugo La Pietra, from La mia territorialità, Amore Mediterraneo, pottery made by hand by Giovanni D’Angelo (Polizzi Generosa, Palermo), 2000. Ugo La Pietra, from La mia territorialità, Libro aperto: Territori, slip-finished and engraved terracotta, made in the Ernan Design studio, Albissola, 2004. Ugo La Pietra, from Naturale/Virtuale, Casa Virtuale, exhibition at the Milan Triennale, 1993.- pag. 43 Ugo La Pietra, from La mia territorialità. Pianificazione urbana, acrylic on canvas, 100 x100 cm, 2010. Ugo La Pietra, from Abitare è essere ovunque a casa propria, interno/esterno, Casa aperta, Cersaie, Bologna, 1988.

modern age, and wrote: “Nothing is more tiring than living,” saying that man “above all other animals on Earth… is very weak… almost the shadow of a dream.” This existential and historical crisis is mercilessly described by Nicolò Machiavelli in The Prince, where politics is definitively replaced by the question of power; and to his friend Guicciardini, he confessed his own disorientation, as follows: “For some time I never say what I believe and I never believe what I say; and if it sometimes occurs to me that I say the truth, I conceal it among so many lies that it is hard to find it out.” But the Flemish painters refused to further simulate the consolation of the faith, and Hieronymus Bosch represented, in the nativity scene of the Adoration of the Magi, a rickety Christ child, surrounded by thieves and scoundrels, born too late, when the social and moral disaster had already happened… and he would climb to Calvary not surrounded by pious women, but by money-lenders and sneering procurers. This turmoil would never again cease, becoming unspeakable anguish and anxiety, all the way to our time. The eyes of the saints of Pontormo, the Grand Malade par excellence, seem like pools of tears, mirrors of an incurable conflict between faith and atheism, gazing at the splendor of Paradise and, at the same time, at the void that awaits them after death: they do not know and they cannot choose. Reduced to flat figures, without shadows, where acid, separated colors flow, as might be seen by a color-blind viewer. Our Age starts with this dyslexia: for seven centuries, since then, truth and falsehood coexist, producing the masterpieces of a modernity where hope and despair, faith and disbelief go hand in hand. A modernity that cannot, then, heal the sores of the Grands Malades – meaning us – but refuses to set the boundary between sanity and madness, teaching us to live with our neurosis as the only vital energy. - pag. 44 Hieronymus Bosch, Adoration of the Magi (detail), 1540 ca, oil on panel (113 x 82 cm), Aachen, Suermondt-Ludwig Museum. - pag. 45 Hieronymus Bosch, Christ Carrying the Cross, 1510-1535, oil on panel (76.7 x 83.5 cm), Ghent, Museum voor Schone Kunsten.

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INdesign/INcenter

Peace and quiet pag. 46 by Nadia Lionello - photos Miro Zagnoli

When design dares to try metamorphosis and interprets sober living, reassuring furniture, seen here in the company of recent reissues - pag. 46 Lipp monoblock sofa with back and armrests in poplar plywood, seat frame in steel tubing with elastic belting. Expanded polyurethane filler, goosedown cushions with polyurethane insert. Covered in leather or fabric, entirely removable; lower back support with capitonné workmanship, in leather or in fabric, not removable. Design by Piero Lissoni for Living Divani. Shar Pei halogen suspension lamps in transparent 24% leaded glass. Design Luca Martorano and Mattia Albicini for Terzani. Floor in Imperial White porcelain stoneware tile by Fiandre, with polished finish, from the Maximum Extralite collection, available in six different large sizes, produced by Fiandre Architectural Surfaces. - pag. 47 Lehnstuhl chair with back in seat in wide-weave Vienna straw, structure in steam-curved beech painted black. Design Nigel Coates for Gebrueder Thonet Vienna. Fontana triple-light table lamp designed by Max Ingrand in 1954 and offered by FontanaArte in the new total black version, with attachment in painted metal, shade and base in shiny black blown glass. Floor in Marmocrea marble-effect porcelain stoneware made by Ceramica Sant’Agostino in Digital Technology, with five colors (in the photo, Amani bronze), matte or glossy surface, in nine square and rectangular sizes, also for walls. - pag. 48 Sabrina two-seat divanette from the Fendi Casa collection, produced by Luxury Living Group with structure in wood and metal, padded and covered in fabric or leather. Albero floor-ceiling bookcase, rotating 360 degrees, support structure in solid Canaletto walnut with special rack interlock, shelves in veneered wood fiber, tips at floor and ceiling in painted iron. It is possible to insert up to 12 shelves. Designed in the 1950s by Gianfranco Frattini and produced by Poltrona Frau. Patchwork floor in Granitoker, the new line of batch-colored glazed porcelain stoneware tiles produced by Casalgrande Padana in 20 stone types, made with digital technology, with natural or lapped finish, in two large sizes or cut to order. - pag. 49 Piuma, low cupboard in mahogany with hinged door, internal glass shelves, aluminium feet. Design Antonio Citterio for Flexform. 548 LED table lamp with adjustable spotlight in white painted aluminium, base in shiny or burnished brass, diffuser in methacrylate, designed by Gino Sarfatti in 1951 for Flos. Taj carpet in wool, viscose and cotton, knotted by hand, available in six color variations and two rectangular sizes. Designed and produced by I+I. - pag. 50 Treillage bookcase and inter-wall reticular system made with strips of solid oak with natural, stained or open-pore lacquer finish, with interlocking slender full-width shelves. Design Ferruccio Laviani for Emmemobili. Keaton Fit small divan with wooden structure, seat and back cushions padded with expanded polyurethane and polyester fiber, covered in fabric or

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by Elisa Musso - photos Simone Barberis bodypainting Ginevra Daniele, Chiara Grassi and Tigrazza

As in an art performance, painted bodies play hide and seek with new ultra-graphic carpets. A surreal and evocative plot of optical illusions for real interior inspirations - pag. 54 Upsidedown no. 1, a carpet made by hand in Nepal, in wool and silk. Offered in two versions, designed by Ron Gilad, produced as a limited edition by Nodus. Carol armchair covered in fine leather or fabric, in a wide range of colors. The high back has a removable headrest, while the feet are in steel. Design Giuseppe Bavuso for Alivar. - pag. 55 Blue China round rug in virgin wool, inspired by China. Also with blue design against a yellow background. Design Mapi Millet for Gan by Gandia Blasco. Rock Table, a sculptural piece with base in natural-tone or anthracite UHPFRC concrete, top in wood fiber painted white or graphite, or in smoked tempered glass. Design Jean-Marie Massaud for MDF Italia. - pag. 56 T1405NVS carpet made by combining the Nuvola T, Silk and Vicky models of the Prestige collection. Made by hand, designed by Roberto Besana for Besana Moquette. Basket Chair in colored plastic, with optional padded cover. Design Alessandro Busana for Gaber. Hoop LED table lamp with structure in white and black ABS. Equipped with touch control on the upper part of the reflector. Design Adolini + Simonini Associati for Martinelli Luce. - pag. 57 Blue Ikat wool-viscose carpet, inspired by Turkey. Designed by the

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INservice TRAnslations / 97 leather. Design Andrea Parisio for Meridiani. Floor in Marmocrea marbleeffect porcelain stoneware made by Ceramica Sant’Agostino with Digital Technology, in five colors (Amani bronze, in the photo), with matte or glossy surface, in nine square and rectangular sizes, also for walls. - pag. 51 Schermo cupboard on base, oblique door with geometric design inlaid in elm, oak and acacia, inserts in brass, bronze and stainless steel; maple-clad interior. Designed by Alessandro Mendini, part of a small series of precious furnishings by Porro. Zanuso 275 table lamp with diffuser in opal PMMA, rotating on a base with curved support in painted metal. Designed in 1963 by Marco Zanuso for OLuce. Twist fireproof wall facing from the Rafia & Metallo collection, in Jacquard fabric bonded with TNT (non-woven fabric), available in the height 130 cm in six colors. Produced by Dedar. Velvet carpet in pure wool, available in 14 colors and made to measure. Design Gunilla Lagerhem Ullberg for Kasthall. - pag. 52 Sushi Kart on wheels with structure in solid beech, top and swivel trays in beech or painted MDF, painted glass or natural oak, with details in gilded metal. Design Lorenza Bozzoli for Colé. Glover armchair with metal structure, elastic belting, polyurethane filler; seat and back padded with goosedown and polyurethane, covered in removable fabric or leather, with decorative studs in pewter-painted brass. Design Rodolfo Dordoni for Minotti. Nabucco, natural wallcovering in silk and Lurex on TNT base (non-woven fabric) from the Exclusive Wallcoverings Collection of Armani Casa produced in collaboration with Jannelli&Volpi. Available by the linear meter, width 87 cm. Here and on the facing page, EvolutionMarble floor, tiles of batch-colored fine porcelain stoneware, reproducing the image of black Marquina or Calacatta marble, also for facings. Produced by Marazzi in three large sizes, with natural or shiny surface. - pag. 53 Opera, table with structure in solid maple, natural or gray stained, natural oak, teak or birch plywood painted matte in a range of colors, with transparent glass top. Available in different oval sizes, 290 x 180 and 250 x 155 cm, or round with a diameter of 160 cm. Design Mario Bellini for Meritalia. Botolo chair with seat in metal and wood, padded with cold-process foam, covered in fabric, leather or fur; legs in metal tubing with wheels, painted in a range of RAL colors. Designed in 1973 by Cini Boeri for Arflex.

artist Angelo Bucarelli and produced as a limited edition by Stepevi. Bongo low tables with rounded form, in rigid structural polyurethane. Available in various sizes and colors. Design Andrea Parisio of Meridiani. - pag. 58 Hex Hex geometric kilim woven by hand in wool, silk and other natural materials. Design Bertjan Pot for Ligne Roset. Hill round table, painted red, with glossy top and matte base. Also available with square top, in two different heights. Design Mauro Lipparini for MisuraEmme. X Big armchair with structure in painted steel or ash, four aluminium spokes, fabric cover in a range of colors. Design Mario Mazzer for Alma Design. - pag. 59 Lake carpet inspired by the work on optical perception of the Israeli artist Yaacov Agam, to change appearance depending on the vantage point. A reinterpretation of Persian models created by Raw Edges for Golran. Net tables in two sizes, made entirely in painted expanded steel. Design Benjamin Hubert for Moroso. Null Vector lamp with multifaceted structure in perforated aluminium, painted in six different colors. Design Carlotta de Bevilacqua and Laura Pessoni for Artemide. - pag. 60 Heisenberg geometric carpet with black & white optical effect. Produced in natural silk and wool by Illulian. Gask suspension lamp with shade in white or black blown glass, with exposed brass bolts, by Diesel with Foscarini. 194 9 round tables in different heights, base and top in white Carrara or black Marquiña marble on matte anthracite gray painted aluminium support. Design Piero Lissoni for Cassina. - pag. 61 Marocco carpet in cotton, acrylic chenille and polyester. A reminder of the ceramic mosaics of Moroccan steam baths. Design Matteo Cibic for Calligaris. LadyB large armchair, characterized by the texture of the back, made with a sophisticated cowhide mesh. With velvet seat, designed by Franco Poli for Gruppo Industriale Busnelli. Dabliu tables with structure in metal rod, sinuous top in chestnut wood. Design Shinobu & Setsu Ito for Désirée.

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Elective affinities pag. 62 by Maddalena Padovani

Seven international designers talk about themselves and their relationship with MUTINA. To explain a successful corporate project, that gets its premises and energies for innovation from human relations “Milton Glaser said: You can only work with the people you like. We have decided to make this our motto, summing up our approach to design, where people, human relations, affinities of mood and thought, come before anything else.” Massimo Orsini is very clear on the subject of Mutina, the brand in which he decided, in 2005, to invest the experience gained up until that point in his family business, wagering on a different vision of ceramics that didn’t fit into the traditional entrepreneurial model. Everything inside the headquarters speaks of this absolute clarity of viewpoints, which even prior to taking the form of a very successful collection of products is expressed in a sensibility, a way of being lucidly perceptible. Let’s start with the place: Fiorano Modenese, the heart of the Italian ceramics district, a concentrate of industrial sheds that emanates an industrious desire to get things done. Already, from a distance, the Mutina headquarters stands out from the rest of the anonymous buildings: not with the shouted tones of fashionable architecture, but with the sober, intellectual rigor of its constructive systems developed by Angelo Mangiarotti and applied here, at the start of the 1970s, by a student of Carlo Scarpa. “I saw this building,” Orsini says, “and I immediately liked it; it ‘spoke to me’ even before I knew anything about its noble history.” It was precisely here that in 2005 today’s president of the company laid the groundwork for its adventure, involving three former colleagues who were also good friends: Giuliana, Emanuele, Michel. With them Massimo, shares an ambitious dream: to make ceramic not a decorative facing material, but an integral part of architecture, a vibrant surface in space, a true design material capable of bringing unusual perceptive qualities to the environment in which it is used. Hence the choice of eliminating color and the traditional aesthetic codes of tiles. The reference points come above all from the world of art, since Orsini has always been an avid art collec-

tor: the minimalism of Carl Andre, the color field painting of Mark Rothko, the poetic chromatic abstraction of Agnes Martin. But also modernist design, represented by the “less is more” dictum of Mies van der Rohe, the good design commandments of Dieter Rams, the expressive versatility of Bruno Munari. “We decided to start with the pure material and the possibilities offered by the most modern technologies and crafts techniques to experiment with its expressive potential, as had never been done before,” says the president of Mutina. “But to do this we needed the vision of a designer we felt was close to us in the type of research conducted in his or her career. We knew who those designers were. They had never worked in the world of ceramics – that was an important factor – but we had always admired their coherent ideas and visions. We turned to them, told them about our dreams, explained that it was possible to make a true design project with ceramics. We never set out with a specific goal or a preset plan, but from a process of mutual knowledge. Then the ideas came in a very natural way.” The designers were Patricia Urquiola, Tokujin Yoshioka, Rodolfo Dordoni, Ronan & Erwan Bouroullec, Edward Barber & Jay Osgerby, Raw Edges, Inga Sempé. Outstanding international names, who starting in 2008 have created – for and with Mutina – a series of collections with a forceful conceptual approach, revolutionizing the identity of the material and its use in interior design. These protagonists who have contributed to make Mutina a success and a case history of the new generation of Italian design, are featured in seven videos that do not talk about products, but narrate seven stories of exchanges, human relationships, elective affinities. The videos do not have a particular plot or theme. The come from a series of non-institutional questions on the relationship between the designer and the company. The presence of answers only, the fresh approach to the spontaneous, almost casual editing, results in a choral way of thinking, not a list of personal portraits. “I remember,” Orsini concludes, “the first appearance of Mutina at the Salone del Mobile in Milan. It was 2012, and we had a lot of fears about doing it. To banish them, we asked these great professionals to come visit us at the stand, in the same moment. Everyone came. It was a magic moment, an amazing atmosphere, reflecting the work done, but above all the human relationships that had developed. This is what I want to say about Mutina, and what I hope Mutina will continue to represent.” - pag. 62 Massimo Orsini, president of Mutina, with the designers who in recent years have contributed to make the company a success. From the top: Patricia Urquiola, the first to enter the group; Rodolfo Dordoni; Inga Sempé; Ronan and Erwan Bouroullec; Jay Osgerby and Edward Barber; Tokujin Yoshioka; Yael Mer & Shay Alkalay of the studio Raw Edges. On the facing page: the phrase of Milton Glaser chosen by Mutina as the company motto became a luminous set for the event Path Dinner organized in September 2013 at the headquarters in Fiorano Modenese, with set-up by Patricia Urquiola and food by Massimo Bottura. - pag. 64 The bestselling collections of Mutina. From the top: Phenomenon by Tokujin Yoshioka; Pico by R+E Bouroullec; Déchirer by Patricia Urquiola.On the facing page: stills from the videos made by Mutina to narrate its history. Clockwise from top: Jay Osgerby; Erwan Bouroullec; Shay Alkalay of Raw Edges; Tokujin Yoshioka; Ronan Bouroullec; Inga Sempé; Yael Mer of Raw Edges; Rodolfo Dordoni; Edward Barber; Patricia Urquiola.

INdesign/INproject

CounTInG THe rIce pag. 66

by Maddalena Padovani

From the collaboration between MOROSO and MARINA ABRAMOVIC, launched in April in Milan, a numbered series of sculptural seats in cement designed by DANIEL LIBESKIND. A project that applies the vision of art to the process of design For Marina Abramovic the exercise of separating and counting rice for a minimum of six hours represents a sort of psycho-physical ‘warm-up’ to gain concentration and to prepare the body and mind for performance art. This is one of the most simple and basic techniques of the ‘Abramovic Method’ the artist has tested on herself across years of dedicated work and self-control; today the method forms the framework of a teaching approach that attracts students and enthusiasts from all over the world and has its point of reference in the Marina Abramovic Institute (MAI), a sort of immaterial institute that hosts events and performances inside different spaces around the globe. For years Abramovic has spent much of her time on the explanation and promotion of this method, for which she hopes to open a real school in the state of New York, transform-

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Interni dicembre 2014 ing an old building of over 3000 square meters she has purchased in the city of Hudson. An ambitious project that not only requires remarkable economic resources, but also calls into play a different type of creative energy, namely that of design and architecture. So there could be no better setting than the State University of Milan and the exhibition-event Feeding New Ideas for the City, organized by Interni, to present her workshop “Counting the Rice” during Design Week in April. Two protagonists of contemporary design were also involved, who lent their creative verve and know-how to make an installation that in the name of art developed a path of research on signs, materials and production, fully coinciding with the process of design. On the one hand Daniel Libeskind, the world-renowned architect with a conceptual approach and a long-time friend of Marina Abramovic; on the other Moroso, a leading Italian design company that has had strong ties with contemporary art for many years. “The encounter with this extraordinary artist, who I had always watched and admired,” says Patrizia Moroso, art director of the company, “happened years ago thanks to our mutual friend Carlo Bach, artistic director of Illy. I would never have imagined that a person capable of putting such force and courage into her work would actually have such fantastic lightness, such strong emotional transport. Since then we have always stayed in touch, with the idea of finding a way of doing something together.” The opportunity arrived at the start of this year, when Marina Abramovic asked Daniel Libeskind to design a desk for counting rice, and asked Moroso to make it. “The particular function,” Patrizia continues, “called for a special object, not a predictable form. Libeskind understood the challenge perfectly, and created a sort of pew whose basic shape sums up the ascetic and didactic aspects of the performance. The project also had a very interesting systemic principle, that made the seat-desk an element capable of growing in an organic way and adapting to different situations.” Made in a single version in wood for the event at the State University in Milan, the Counting the Rice table has later been developed in new materic and morphological configurations that expand the meaning of the project. For the Centre d’Art Contemporain of Geneva it has become a true site-specific installation, capable of welcoming a larger number of participants and of relating to a space with strong connotations on an architectural plane. Then came the idea of making a limited edition, no longer done with industrial wood – the kind normally used for the crates for shipping artworks – but in cement. “From a functional object,” Patrizia Moroso continues, “we decided to

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make a sculptural symbol, a work for art collectors. The goal is to raise funds for the activities of MAI. To make this series of thirty pieces we have chosen high-performance cement, a favorite material of Libeskind. With the collaboration of the Friuli-based company Kenius-Gesteco, which has been experimenting on and developing materials from Italcementi research in the world of design, we have developed an innovative product, positioned halfway between art and design. As many as 200 hours have gone into the construction of the formwork of the limited edition, and another 112 hours were needed to make the first piece, with a weight of 450 kilos, which was presented in September in Basel at the Beyeler Foundation and was auctioned for 100,000 Swiss francs.” The collaboration between Moroso and Marina Abramovic will continue during Art Basel in Miami, from 4 to 7 December, where the prototype and the second specimen of the limited edition will be shown. Visitors can also see the second project by Moroso for MAI, this time designed by Patricia Urquiola, who for the students of the famous artist has created a seat for resting after the arduous performance art exercises. Particular materials, finishes and colors make this piece of furniture a decidedly special one, dedicated to Marina Abramovic, though perhaps one day the design can also go into industrial production and be part of the catalogue of the Udine-based brand, in a version that conforms with the democratic principles of design, while conserving the visionary impact of art. - pag. 67 One piece from the limited edition of the Counting the Rice table designed by Daniel Libeskind and produced by Moroso in high-performance cement, with the collaboration of Kenius-Gesteco. The project, developed to benefit MAI, the foundation of Marina Abramovic, will be presented at Art Basel in Miami, from 4 to 7 December. - pag. 68 Above: Marina Abramovic (left) together with Patrizia Moroso and Daniel Libeskind at the State University in Milan, where during the exhibition Feeding New Ideas for the City organized by Interni in April, the artist presented the exercise “Counting the Rice.” To the side and below: after the debut in Milan, the seating system developed by Moroso with Daniel Libeskind to be used in the performance Counting the Rice was presented in May at the Centre d’Art Contemporain of Geneva, in a site-specific installation capable of hosting many participants. - pag. 69 To the side: a phase of the production process of the Counting the Rice table in the new limited-edition version in cement, made for art collectors. The first piece was auctioned off in September at the Beyeler Foundation in Basel.Above: two students of the MAI seated at the Counting the Rice table in cement, concentrating on the rice counting exercise.

INdesign/INtoday

The chemistry of success pag. 70 by Antonella Galli

Eighteen research centers. Increasingly ambitious challenges on the world’s major construction sites. The work ethic. The numbers and secrets behind an utterly Italian success story that has made MAPEI the worldwide leader in chemical products for construction The numbers tell the story, in the case of Gruppo Mapei, more than any definitions. The biggest producer of adhesives and products for the installation of floors and facings, specializing in chemical products for construction, closed out 2013 with total income of 2.3 billion euros, over 7500 employees, organized in 68 companies with 64 production plants in 31 countries on five continents. These are the consolidated results, 76 years after the founding of the company in Milan, in 1937, by Rodolfo Squinzi. Today the company is run by Giorgio Squinzi, also with his children Marco and Veronica. With Adriana Spazzoli, director of communication and marketing of Mapei, we tried to track down the roots of such an impressive Italian success story; and we discovered that it is driven by interconnected values: dialogue with users and markets, research, the challenges (met and solved) of major projects, and a strong work ethic. Ms. Spazzoli, what are the strategies of Gruppo Mapei to approach markets? We have developed a focus on markets in geographical terms, but also and first of all in terms of product typologies. Our products are always designed for a project, for application to other materials, to different structures and different designers. This flexibility is possible due to our work of research and development, always a fundamental factor for us. Our participation at the latest Cersaie is a good example: we wanted to respond to the most current needs of the market, for tiles with

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seams that blend with the latest trend towards wood, so we presented a range of 14 natural tones (the Grout Selection). Other forceful demands of the market, for example, are limitation of prices and the certainty of product performance (also based on transparent information); but there is also a focus on health, through the reduction of dusts, and the streamlining of production processes. We have tried to channel these needs into our products; the adhesives of the latest generation, like the products of the Ultralite line, reduce dusts and weigh less (one 15 kilo sack performs like 25 kilos of traditional material), and they are easier and quicker to apply. The same thing has happened with Mapelastic Turbo, based on thirty years of experience of Mapelastic, an elastic cement mortar for waterproofing; again in this case, the evolution has responded to the needs of installers and to those of clients: the product makes it possible to do waterproofing more quickly, also in cold and rainy seasons, extending the possibility of work for contractors, who previously had to stop working in the winter. How is Mapei able to guarantee continuous product evolution? Every year Mapei invests about 5% of sales in research, involving about 12% of the staff. There are 18 Mapei research centers, scattered around the world: the main center is in Milan, with two hundred employees, and it coordinates all the lines. Other centers are specialized: the laboratory at Sagstua, in Norway, focuses on additives for use under water or under the ground, while the center in Laval, Canada, specializes in resilient materials. How is the communication of Gruppo Mapei organized? What are the preferred channels? As a whole, the group receives communication guidelines from the headquarters, which are then adapted to different countries and markets; we have decided to favor transparency, precision and scientific validity of communication on products and the various aspects of research. A leading role in Mapei’s communication is played by the human beings operating on worksites, for whom the products are made; the graphics, by the illustrator Carlo Stanga, also function as an element of coordinated identity. Then there are the trade fairs, where Mapei takes part around the world, an ideal channel to meet and listen to users in specific sectors, from underground works to sports facilities, to spaces for food processing. The dialogue with specialized sectors coexists with wider ranging communication: the group supports various initiatives of sports and culture, two areas in which Mapei is particularly active, with the construction of facilities all over the world, from theaters to stadiums. We have invested in the team Sassuolo Calcio,

in Italy, while in other countries we sponsor different sports, like motocross, basketball, cricket. In the area of culture, I can mention Teatro alla Scala in Milan, where we are among the permanent private founders, and the Guggenheim in Venice, which we support with Intrapresae Collezione Guggenheim, a corporate membership project. Being competitive means meeting challenges, which for Mapei also come from involvement in major international projects. Can you give us some examples? The participation in major projects generates a virtuous cycle: in big works, Mapei is asked to solve extremely problematic situations, and this provides stimuli for the development of standard products as well. Problems on the worksite are solved by our technicians in collaboration with the designers and architects, and the results then find their way onto the market. In the expansion of the Panama Canal, for example, we were the only company able to develop a special additive for continuous pours, without partitions, that would guarantee a suitable level of strength. Likewise, in the project for the restructuring of the outer surface of the Guggenheim Museum in New York, we were able to provide a solution without joints, to repair the concrete. Other important projects include the Millennium Dam in Ethiopia, on the Blue Nile: a project now under construction, featuring Mapei systems and solutions for the construction of the various parts, such as the barrage, the canals, the hydraulic tunnels. - pag. 71 On this page: in the construction of the Le Magnolie residences in Lodi (above) adhesives from the Ultralite range were used for the installation of the ceramic facades; the seams are filled with Keracolor GG, while the waterproofing of the balconies uses Mapelastic Aquadefense. On the previous page, the worksite for the doubling of the Panama Canal, for which Mapei has supplied additives of the latest generation for 5,500,000 cubic meters of concrete. The products developed for this project include Dynamon XP2 Evolution 1. - pag. 72 Recent works involving the use of Mapei products (from left): the tunnels of Klang Valley Mass Rapid Transit, the transport system of Kuala Lumpur (Malaysia); the stadium of Fortaleza (Brazil); pavement of Piazza del Duomo in Milan; the “Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci” in Milan. - pag. 73 The Living Art (Krost Towers) residential complex in Moscow, designed by Dante Benini and painted by Mario Arlati. The project has been done by the Russian company Krost, of Aleksej Dobashin. The complex includes four 45-story towers and one with 33 levels. Arlati’s team is painting the towers in five different colors. The result will be an enormous painting, using over 45,000 square meters of color developed and supplied by Mapei.

VInTaGe and reissues pag. 74 by Valentina Croci

A clear phenomenon in contemporary furniture production, but also on the international market for collectors. DESIGN rediscovers its roots with one-of-a-kind pieces and original projects that share a reassuring sense of history. The opinions of industrialists and dealers compared Historic objects that have gone out of production, or prototypes that never made it to the catalogues, now reissued by design manufacturers in collaboration with the foundations or heirs of designers, maintaining copyrights and bringing new glory to the works themselves. In Italy the first player to industrialize historic pieces was Dino Gavina in 1961, with Bauhaus furnishings, followed by Cesare Cassina, with the furnishings designed by Le Corbusier and Charlotte Perriand, thanks to acquisition of production rights in 1965. On the other hand, design market events like Design Miami, aimed at collectors, now in its tenth edition, confirm the trend of collection of unique works from the 20th century. Why this vogue for the past? Probably, in a time of unstable mutations, vintage pieces of clear historical value can represent linguistic expressions in which most people can get a sense of cultural belonging. In an era of ‘syncretic’ and global perception of life and historical passage, these objects embody utopias, moments of extraordinary intellectual research – European modernism and its desire to invent a new world; the birth of furniture design during the Italian industrial boom; Radical Design and the rediscovery of the arts. And, as such, these objects symbolize a reassuring stability with respect to the unpredictable changes of our time. To try to explain this phenomenon, we sought out three different viewpoints on the value and the market for reissues and unique modern pieces. Francesca Molteni, curator of the Gio Ponti collection for Molteni&C. and of the traveling exhibition Vivere alla Ponti, says that reissuing means prolonging a cultural heritage. The series of furnishings

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Interni dicembre 2014 was the result of observation of a bookcase by the architect from Milan, with a very timely design, but never industrialized. The question was whether the piece could be put into production today, using industrial techniques, at a reasonable price. “The challenge was to make the products in the original version, as far as the proportions and materials area concerned, but updating the production techniques to today’s standards. We did not want to make limited editions, since that would have clashed with Ponti’s vision, nor did we want to offer the items at high prices, because he never saw design as something exclusive. They are very timely pieces, due to the genius of their designer, the sense of proportions, the attention to detail, and because they are ‘easy,’ ready to coexist with contemporary furnishings. They are iconic, but close to today’s way of living.” This has been a long, courageous operation for the company, which from 2009 to 2012 presented the first pieces in the catalogue. The idea is to continue, to also reissue some pieces from the past of Molteni&C., though without attempting to take on the whole reissue market. “The collection,” Giulia Molteni, Marketing and Communication Director of Molteni&C Dada adds, “is aimed at people who love ‘good design’ and appreciate the great masters, people who know something about the culture of personalities like Gio Ponti, but are not necessarily collectors of modern vintage who can spend enormous sums for every single piece. We have avoided the formula of the ‘limited edition’ because it goes against the principles of industrial design, which saw mass production as a way to make design more democratic.”From the side of the collector, we spoke with the dealer Nina Yashar of Nilufar, and with Rodman Primack, director of Design Miami. “I believe the added value of unique design pieces of the 20th century,” says Nina Yashar, “increasingly coveted by collectors, is conveyed by certain pieces that have made history. They are sure bets, to which people will always return, in a world where everything is rapidly consumed and quickly goes out of style. These objects conserve their beauty over time, their functional and aesthetic qualities. Design Miami has always stood out for the presence of vintage pieces, and this last year they prevailed over contemporary design. The market of collectors of 20th-century objects is expanding, because it is less risky: the pieces are documented by history, and they are easier to understand than contemporary art design. I hope vintage can be the starting point to shift towards the 21st century, towards more stimulating, experimental projects. The collectible design market is much smaller than that of contemporary art: the ratio is about 1:20. It is undoubtedly growing, and is still not subject to the kind of price manipulation and speculation one finds on the art market. Another difference lies in the fact that collectible design is also purchased for its function: many clients use one-offs on an everyday basis, in spite of their precious quality. The pieces rarely wind up in a safe. People buy vintage for the history it carries, for the

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beauty that is transformed with use.” On the difference between collectible objects of art and design, Nina Yashar specifies: “I believe an industrial design piece can be collected and appreciated in its true, aesthetic and functional essence, without having to be categorized as an art object. I agree with Gillo Dorfles when he says that design is ‘partially’ art, a way of making projects with an artistic quotient together with a marketing quotient. The design object does not have to be made with the goal of becoming an art object: it should correspond to its function, not just satisfy the whim of having something that is purely ‘artistic.’” Regarding the difference between reissues and modern vintage, Primack concludes: “Certain vintage pieces were produced in limited quantities. The designer was often involved in the production process, and these pieces reflect the technologies and ways of producing of a precise historical moment. These factors are joined by that of rarity, perceived as an added value because it brings a sense of bearing witness, as a sign of ‘originality.’ I have nothing against continued production, since many objects were invented precisely for that; but for me there is a difference between what was made during a designer’s lifetime, under his or her supervision, and what is reissued today. Were the designers still alive today, they might make the things with other technologies. Reissues and vintage do not necessarily have different markets: those who want unique pieces can also buy reissues. But there is a difference between the true collector and the ‘amateur’ who buys objects for interior decorating.” - pag. 74 Above, the display of the Ulrike Fiedler gallery at Design Miami\Basel 2014. The gallery specializes in one-of-a-kind pieces of European modernism. On the facing page, from left, a series of one-of-a-kind pieces: the chair by Rietveld from 1924 (Ulrike Fiedler gallery); a self-supporting mirror by Joseph-André Motte from the Charron collection, 1959 (Galerie Pascal Cusinier); the Mod. 820 armchair by Gio Ponti (1953), made for the Hotel Royal of Naples and later produced by Cassina (both from Galleria O. Roma); two consoles by Gio Ponti from 1951/52, made by Giordano Chiesa (Galleria Nilufar). - pag. 76 Salotto is the name of the installation of Galleria Nilufar at Design Miami/Basel 2014. Above, the large carpet designed by Martino Gamper, a selection of unique and historic pieces by Carlo Scarpa, Gio Ponti, Max Ingrand, Ico Parisi and Angelo Lelli. Below, on the facing page, from left: n. 512 table by Jean Prouvé, 1953 (Galerie Patrick Seguin); table by Marcel Breuer, 1923 (Ulrike Fiedler); armchair by Janine Abraham & Dirk Jan Rol, 1959-60, edition by Sièges Témoins (Galerie Pascal Cusinier); Antony bookcase by Jean Prouvé, 1955 (Galerie Patrick Seguin); mirror by Max Ingrand for FontanaArte, 1957 ca. (Galleria O. Roma); mod. 593 chair by Gio Ponti, 1950, made by Cassina (Nilufar); Stadera desk by Franco Albini and Franca Helg, 1950 (Galleria Colombari); Evelyne chest of drawers by Joseph-André Motte, 1959 (Pascal Cusinier); tea trolley by Marcel Breuer, 1932 (Ulrike Fiedler). - pag. 77 A series of original furnishings by Ettore Sottsass from 1954-56, produced by Abet Laminati Plastici for the Formica-Domus Competition in 1954, where they took second place (Erastudio Apartment-Gallery).

INdesign/INview

DIGITaL Zen pag. 78 by Stefano Caggiano

With furnishings that have a synthetic but comfortable tone, design resolves the contradiction between the chilly abstraction of the digital world and the warm sensory atmosphere of the domestic tradition Design, by definition, is an ‘oxymoron’ or a figure of speech that combines two terms of opposite meaning in a single expression. Off metaphor, is to make objects that function nicely one needs good technicians, and to communicate beauty one needs the sensitivity of the artist, when the time comes to blend the soul of form with the body of function designers are the ones called into play. This is why reductionist formulae that try to fit design into a single definition always seem to come up short, unable to capture the deeper meaning of design action. On the other hand, it is precisely the ability to mediate between opposites that allows design to play a key role in the integration of new digital substance with traditional material anthropology. Projects like the Fraga seats with object caddies by Gamfratesi for Ligne Roset, or like Refill by Filippo Protasoni for Clique (with a wireless battery charger), present themselves as solutions to absorb chilly digital abstraction in ‘warm’ object bodies, responding to the need to bring new synthetic aesthetics a sort of material confirmation that speaks not only to the fingertips but also to the body and all its senses. This is an urgent task for design today. The cold fusion between real and digital is leading to a progressive assignment of everyday actions to the phantasmatic automatism of computer-

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ized devices. From the abundance of apps that take over the widest range of mental operations, to cars that drive themselves, today a massive shift can be seen of practical and cognitive human activities into the digital ecosystem, which manages them from a distance, concealing causal connections. This has undoubtedly had positive effects on the performance of the object as apparatus, making it more elastic and reactive (just consider the ‘social’ integrations of products and services). But when the disconnect between the surface of relation with objects and their internal functioning widens to the point of coinciding with the entire cultural sphere – and the system of objects becomes the ecosystem of objects – the dark side of this epochal technological ‘dismissal’ emerges, and as medical research has shown, there is an increase in states of anxiety. The anxiety comes from the sensation of an indefinite threat that cannot be located yet seems to be imminent. A fear caused by things for which we have no cognitive verification, as in the case of the functioning of digitally controlled objects, whose interfaces are familiar to us, but not their inner workings. This is where the mediating genius of design comes into play: balancing loss of control over the articulatory structure of everyday life with furnishing complements that bring a reassuring physical character, not turning their backs on the aesthetic sense of the digital, but hosting it, bringing it to a more acceptable temperature, closer to that of the body. Finishes, fabrics, materials, the soft edge of sofas like the Rise by Note Design for Fogia or the Plank designed by Knudsen Berg Hindenes + Myhr and produced by DK3 knead new digital flours into calm solid-state volumes, capable of waiting for the slowness of the body with a Zen spirit. Lamps like the Mika 350 by André Simón and the Jachin by Giorgio Biscaro for Bosa convey this synthetic warmth, comforting as in the past but oriented towards a fresh sense of

the future. Objects like the SAM tables designed by Note Design with Stefan Borselius and Andreas Engesvik for Fogia, the Sasso cutting boards by Nao Tamora for Discipline, or the set of candle holders and mirrors Piled Stones, by Sebastian Jansson – with an evident Nordic look, like many of these projects – are thus so many ‘functional metaphors’ of the gathering of the digital into a time solidified in the gentle matter of design. Synthetic, but also clear and serene, like a Zen stone.

INdesign/INproduction

The contemporary interpretation of desks and dressing tables underlines the pursuit of new spaces of intimacy in the home. INDIVIDUAL, minimum, but super-accessorized. For writing, working at home and personal grooming

Little spaces of one’s own pag. 82 by Katrin Cosseta

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- pag. 79 Facing page: the Sasso series by Nao Tamura for Discipline makes use of materials like marble, Niangon wood and Bay oak, taking inspiration from the form of stones sculptured by the natural elements. The Refill island seating system with tables, designed by Filippo Protasoni for Clique, is equipped with accessories for digital devices, including a wireless battery charger. Photo: Silvia Rivoltella. Below: contrasts inspire the Danish designer Stine Gam and the Italian Enrico Fratesi, known as GamFratesi, to create the Fraga seat with object caddie for Ligne Roset, featuring soft lines covered with seamless elastic fabric. - pag. 80 Above: the Plank divan designed by Knudsen Berg Hindenes + Myhr for DK3 is raised off the ground to transmit a sense of lightness. To the side: by Note Design for Fogia, the Rise sofa expresses its Scandinavian identity through a wooden base. Photo: Mathias Nero. - pag. 81 From left: the Mika 350 suspension lamp designed by André Simón of A/Studio, in granite and wood, links back to the architectural tradition of Galicia. Jachin by Giorgio Biscaro for Bosa is a hanging lamp in white or colored ceramic, based on the image of a flashlight. Above: Sam dining table designed for Fogia by the Swedish studio Note and Stefan Borselius, with Norwegian designer Andreas Engesvik. The solid screw-on legs are held in place by industrial fasteners hidden inside small curved wood details. Photo: Jonas Lindström. To the side: the candle holders and mirrors of the Piled Stones series by Sebastian Jansson are made with soft geometric solids sculpted in birch wood.

- pag. 83 On the facing page: the T90 desk by Osvaldo Borsani for Tecno has the value of an archetype. Designed in 1954 and recently reissued, it is composed of a shaped, curved top with a Canaletto walnut finish, supported by a slender structure in steel tubing (powder-coated in matte lead gray), with adjustable feet. The three drawers are in solid Canaletto walnut. Segreto by Ron Gilad for Molteni&C is a triangular wall-mounted cabinet that conceals a desk with multimedia connections. Thanks to a sophisticated system of ties, the lower part becomes a useful surface. Available with two types of finishes, in eucalyptus or Canaletto walnut. - pag. 84 1. Scribe by Daniel Libeskind for Fiam Italia. A desk composed of two curved transparent glass bases and a glass top, all with thickness of 12 mm, transparent or with frosted portions. 2. Diapositive by Ronan&Erwan Bouroullec for Glas Italia, desk (high or low, in monochrome or multicolored versions) in extralight layered and heat-bonded glass, featuring parts in natural solid ash attached to the ends of the load-bearing sides. 3. Olympia Vanity by Nika Zupanc for Sé Collection, dressing table with top in ceramic, glazed in a range of colors, structure in painted or etched steel. 4. Fontayn by Steuart Padwick for Made.com, dressing table with oak structure, drawers painted in different colors. - pag. 85 Pecs desk by Marcel Breuer for Cassina Simon Collection. Designed in 1951 and put into production by Dino Gavina in 1963, today reissued in black or white stained ash. - pag. 86 From the Bristol System by Jean-Marie Massaud for Poliform, behind-sofa desk in Spessart oak, ash oak or glossy or matte lacquer finish. - pag. 87 1. Scripta by Luca Scacchetti for Contempo, desk with aluminium structure, entirely covered in cowhide, glued and stitched by hand. 2. Hardy by Andrea Parisio for Meridiani, desk with metal base and two shelves in a range of finishes (stained oak, cowhide, matte or glossy lacquer). 3. Secrétaire S 1200 by Thonet Design Team/Randolf Schott for Thonet GmbH, with chromiumplated or painted tubular frame, optional accessories in steel sheet. 4. Pegasus Home Desk by Ippolito Fleitz Group/Tilla Goldberg for Classicon. The top is composed of a thick leather cover that unrolls to reveal positions for computers, recharging stations, accessories and a desktop. Base in chromium-plated or painted steel, or covered in leather. 5. Novelist by Christophe Pillet for Lema, desk with base in shiny chromium-plated metal, top in Canaletto walnut. Complete with two lateral drawers, a pencil compartment and a cowhide blotter. 6. Matheo by Marc Berthier for Ligne Roset, home desk with aluminium base, double top in natural or black stained smooth oak, with optional compartments and drawers in painted aluminium. Built-in wiring channel. - pag. 88 1. Grace by Carlo Colombo for Gallotti&Radice, desk/dressing table in tobacco-stained or natural ash, complete with angled mirror and drawer with wooden front, also available in back-painted glass. 2. Isa by Studio Irvine for Marsotto, dressing table with removable mirror, in white Carrara marble with polished finish. 3. Maestrale by Ludovica & Roberto Palomba for Maserati by Zanotta Capsule Collection. Desk composed of a top in thick Canaletto walnut, resting on a structure in chromium-plated or black shiny nickel-plated steel rod. The top in walnut-veneered plywood or in a pigmented cowhide version comes with a large drawer. - pag. 89 Recipio by Antonio Citterio for Maxalto, desk on structure in solid wood, varnished with shellac effect. The top, with a tray portion and lower drawer, is made with Baydur structural expanded polyurethane painted with shellac effect (black, red or soy), or in steel sheet covered in leather in a range of colors.

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N. 647 dicembre 2014 December 2014 rivista fondata nel 1954 review founded in 1954

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direttore responsabile/editor GILDA BOJARDI bojardi@mondadori.it art director CHRISTOPH RADL caporedattore centrale central editor-in-chief SIMONETTA FIORIO simonetta.fiorio@mondadori.it consulenti editoriali/editorial consultants ANDREA BRANZI ANTONIO CITTERIO MICHELE DE LUCCHI MATTEO VERCELLONI

Nell’immagine: Rotterdam Markthal, nei Paesi Bassi, progetto di MVRDV, che riunisce in un unico tunnel urbano mercato coperto, supermarket ipogeo e residenze. In the image: Rotterdam Markthal, in the Netherlands, a project by MVRDV, combining a sheltered urban market, an underground supermarket and residences in a single tunnel. (foto di/photo by Ossip van Duivenbode)

Nel prossimo numero 648 in the next issue

Interiors&architecture nuove tipologie abitative new residential types

INtoday le sfide globali del design the global challenges of design

INcenter legno a 360 gradi 360-degree wood pelli e pellicce skin and fur

INview new aesthetic of density

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redazione/editorial staff MADDALENA PADOVANI mpadovan@mondadori.it (vice caporedattore/vice-editor-in-chief) OLIVIA CREMASCOLI cremasc@mondadori.it (caposervizio/senior editor) LAURA RAGAZZOLA laura.ragazzola@mondadori.it (caposervizio/senior editor ad personam) DANILO SIGNORELLO signorel@mondadori.it (caposervizio/senior editor ad personam) ANTONELLA BOISI boisi@mondadori.it (vice caposervizio architetture/ architectural vice-editor) KATRIN COSSETA internik@mondadori.it produzione e news/production and news NADIA LIONELLO internin@mondadori.it produzione e sala posa production and photo studio rubriche/features VIRGINIO BRIATORE giovani designer/young designers GERMANO CELANT arte/art CRISTINA MOROZZI fashion ANDREA PIRRUCCIO produzione e/production and news DANILO PREMOLI hi-tech e/and contract MATTEO VERCELLONI in libreria/in bookstores TRANSITING@MAC.COM traduzioni/translations grafica/layout MAURA SOLIMAN soliman@mondadori.it SIMONE CASTAGNINI simonec@mondadori.it STEFANIA MONTECCHI stefania.montecchi@consulenti.mondadori.it CECILIA PAZIENZA segreteria di redazione editorial secretariat ALESSANDRA FOSSATI alessandra.fossati@mondadori.it responsabile/head ADALISA UBOLDI adalisa.uboldi@mondadori.it assistente del direttore assistant to the editor MIRKA PULGA internir@mondadori.it contributi di/contributors STEFANO CAGGIANO VALENTINA CROCI ANTONELLA GALLI VALENTINA MARIANI ALESSANDRO ROCCA elena mariani (grafica/layout) fotografi/photographs IWAN BAAN SIMONE BARBERIS ROCCO CASALUCCI MARIO CIAMPI SOPHIE DELAPORTE MARC DOMAGE TODD EBERLE ELIZABETH FELICELLA MASAYA YOSHIMURA BAPTISTE LANNE HIROYUKI OKI CHRISTIAN RICHTERS PAOLO ROSSELLI PAOLO UTIMPERGHER VEGA MG MIRO ZAGNOLI progetti speciali ed eventi special projects and events CRISTINA BONINI MICHELANGELO GIOMBINI

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