InArte marzo 2008

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artifex. Se il martello divino vorrà, allora, completarsi, dovrà raggiungere il cielo lasciando sprovvisto l’artista. Il sonetto si configura quindi come parabola dell’arte: il martello è guidato dall’artista e da Dio; poiché l’opera è più vera quanto più si eleva a Dio, il martello sfugge, finendo in cielo e lasciando l’opera “non finita”. Solo Dio la completerà, ma nell’officina celeste. Si configura così la logica del “non finito” di Michelangelo. Esso è, come autorevolmente sostenne

Michelangelo, Pietà Rondanini (post. 1552), Castello Sforzesco di Milano.

Guidoni nel suo Il Mosé di Michelangelo, “simbolo di questo lavoro in atto”. La volontà anche più forte non riesce a imporre completamento al lavoro perché “vuole troppo”, perché insegue la perfezione. Ma quest’ultima la si raggiunge solo in cielo, e il martello sfugge alla volontà. Per Michelangelo, l’attività artistica si basa sulla necessità di intelligere un concetto, ovvero visualizzare l’Idea. Significa passare da un infinito di possibilità ad una attuazione unica. Scegliere è atto drammatico del trionfo del libero arbitrio. Nella realtà egli scorge un infinito potenziale contraddittorio. Come rappresentare la perfezione? Bisogna contenere l’immaginazione e limitarsi ad una forma unica, oppure giocare sulle infinite possibilità della mente e perdere l’unicità? Michelangelo accetta la sfida del molteplice, ma evita le insidie della scelta. L’opera e il martello sfuggono. Nel “non finito” la forma è imprigionata nella materia con cui è un tutt’uno e contro la quale intraprende una lotta terribile e furente. Non finire è la formula risolutoria per conservare la potenza terribile dell’Idea, per non conseguire alcun risultato completo – ma limitativo. L’Idea resta inattuata: Dio non è riprodotto, solo intuito. Il volto del San Matteo non finito è mille e mille volti ancora; è immagine dell’infinito, Idea non ridotta ad un’unica soluzione. L’arte è pura intuizione. L’avvio, il momento di partenza è l’unico riproducibile: quando l’intelletto vede il “concetto circoscritto nel superchio” del marmo, e la mano – il martello – inizia a sbozzare. Ma non si va lontano: per terminare il lavoro la materia deve vedere Dio, innalzandosi al cielo. Se lo fa, però, non può più ritornare. Anche i suoi sonetti non giungono mai ad una espressione unica e definitiva, rimanendo sospesi tra il “se” (simbolo di apertura al molteplice) e il “ma” (simulacro del dubbio della molteplicità). Non c’è possibilità di scelta: il più profondo senso della creatività può anche portare all’assenza dell’opera e quindi al “non finito”. La Rappresentazione della Perfezione è dunque il “non finito”. Esso è il vertice della creazione, in cui “il fare si identifica col non fare, l’arte con la morte” (Guidoni); dove il passaggio dal potenziale all’attuale può essere solo brevemente intuito e mai pienamente compreso.

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