Bugiardino numero 5

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Numero 5 Maggio 201 4

SISM Roma Sant'Andrea

Speciale Terra dei Fuochi: una testimonianza dalla Campania Armadietti sotto sfratto Un camice bianco stirato. Immagine di pulizia mista a professionalità. Già da studenti si dovrebbe imparare. Il punto è che nel trasporto da casa al reparto all’aula studio, il camice non rimane immacolato come dovrebbe ma assume un colore giallognolo e quell’aspetto sgualcito simile a uno straccio per la polvere. E’ per questo che 1 991 . da anni al Sant’Andrea Non sarà mai dimenticata questa data. esistono gli armadietti, una Probabilmente è una data indicativa, presa comodità per gli studenti come riferimento. che ce l’hanno, un sogno Probabilmente tutto ebbe inizio addirittura per quelli a cui manca. qualche anno prima, con qualche viaggio di L’armadietto è divenuto “prova”. nel tempo una sorta di custodia, una cabina porta Ma è del 1 991 che per sempre avremo un oggetti, un mini appar- ricordo indelebile. tamento, dove riporre Nella mente. camice, fonendoscopio, Nel cuore. libretto, green, cioc- Nei polmoni. colatini, specchi e varie; Nel sangue e nel cervello. stando attenti a non Qualche anno prima la Campania fu colpita esagerare visto che non da un violentissimo sisma, con epicentro sono mancati furti, nella provincia di Avellino. Il sisma causò danni per miliardi di lire purtroppo. Ma come si fa a venire in (allora conio di Stato), lasciando migliaia di possesso di un armadietto? cittadini senza un tetto sotto il quale vivere, (continua a pag. 5)

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di Carlos Di Giovan Paolo a pag. 6

di Livia Tognaccini a pag. 6

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senza più una fabbrica dove andare a svolgere il proprio lavoro, senza una strada da poter percorrere per raggiungere la propria amata. Era il 23 Novembre 1 980, ore 1 9:00. Dopo quel sisma, cosi come le architetture e la geografia del territorio, nulla sarebbe più tornato al suo posto. Lo Stato latitò, lavandosi la faccia con i soliti proclami che appartengono alla storia di sempre di questo paese. Ma pur qualcosa si iniziò a fare, per rimettere in piedi ciò che il sisma aveva fatto crollare. “Tocca ricostruire! Presto! Senza badare all’architettura! Senza badare troppo alla burocrazia italiana, troppo cavillosa e dispersiva.. Occorre mattone! Buono! Che resista bene, nel tempo!” La Campania è piena di tufo, la morfologia del territorio è generosa di tale elemento naturale, perfetto per la fabbricazione di mattoni, blocchi di varie forme, utili per la costruzione di edifici di vario tipo. Soprattutto abitativi. “Bene! E tufo sia! A volontà!” Sì ma dove? Giugliano in Campania, Melito di Napoli, Acerra, Marcianise, Gricignano d’Aversa,

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Aversa, Parete... La Campania Felix, insomma. “Scaviamo!” Da quel punto, per dare un tetto ai terremotati dimenticati dallo Stato, si scavarono cave in ogni dove, per estrarre il tufo, per i mattoni. Quelle cave, sarebbero diventate tombe. Enormi tombe. Erano gli anni ’80. I maledetti anni ’80! In quegli anni l’egemonia della malavita organizzata campana era nelle mani dei clan dell’area Nord di Napoli e nelle mani dei clan dell’area vesuviana. Ma una cittadina stava per conquistare di diritto il primato nella tristissima classifica delle gerarchie del potere camorristico. Si legge: “La Strage di Torre Annunziata o Strage del Circolo dei pescatori o anche Strage di Sant'Alessandro fu un tragico fatto di sangue avvenuto a Torre Annunziata nel 1 984. La strage nacque dopo la carcerazione di Raffaele Cutolo e la scomparsa del cartello criminale che si era scontrato con il boss della NCO, la Nuova Famiglia.I clan di Antonio Bardellino, Gionta e Nuvoletta, un tempo alleati si divisero. Il 1 8 agosto 1 984 nei pressi di Scalea venne rubato un autobus, il quale venne usato, pochi giorni dopo, per compiere la strage. Difatti in data 26 agosto 1 984, verso mezzogiorno, l'autobus giunse davanti il circolo dei pescatori di Torre Annunziata, dove spesso si riunivano gli uomini legati ai Gionta. Il mezzo esponeva un cartello recante scritto


"Gita turistica". Scese un commando di 1 4 killer professionisti che aprì il fuoco, morirono 8 persone e altre 7 furono ferite. Il giornalista Giancarlo Siani si occupò della vicenda; in un articolo sosteneva che l'arresto del boss Valentino Gionta, avvenuto nel 1 985 nel territorio dei Nuvoletta, fu il "prezzo" pagato da quest'ultimi per giungere alla pace con Bardellino.” Da quel giorno,1 8 agosto 1 984, Bardellino, reggente del clan dei casalesi, avrebbe avuto carta bianca per operare a suo piacimento nell’area che va da Napoli Nord fino al Basso Lazio. Si sa, un reggente di un clan è si un efferato criminale, ma è anche uno spietato affarista. (continua a pag 10)

Progetto raccolta differenziata al Sant'andrea

Tarsitani: stiamo migliorando ma dobbiamo dare l'esempio, gli studenti potranno aiutarci

Qual è la dimensione degli attuali sistemi di riciclaggio nel nostro ospedale?

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Diciamo che il vantaggio è limitato. Perché i maggiori costi dell'ospedale sono sui rifiuti speciali, ad esempio quelli a rischio infettivo, ma questi materiali non sono adatti al riciclaggio. Invece mi sembra importante il fatto educativo, cioè che una facoltà di medicina con i suoi studenti si ponga come obiettivo l’ingresso nel processo a livello nazionale, in cui, si sa, è in gioco la sopravvivenza del pianeta. E' forse una frase drammatica ma vera perché sarà difficile resistere alla produzione di milioni di tonnellate di rifiuti ogni giorno. Sarà difficile se non si va verso l’operazione delle quattro "R": riduzione (ossia prevenzione della formazione dei rifiuti), poi recupero, riciclo e riutilizzo. Penso alle opere straordinarie dell’antichità, le Piramidi, la Grande Muraglia, gli Acquedotti romani; noi lasceremo montagne di rifiuti. Questa è l’impronta della nostra società.

atmosferico: anche se bruciamo metano produciamo CO2. E questo comporta aumento delle temperature, cambiamento climatico, catastrofe. Lo stiamo vedendo, il nostro sviluppo non è compatibile con questa produzione di energia. Il risparmio energetico è la più grande lotta per la sopravvivenza. Questo c'è dietro la raccolta differenziata e questa nasce per definizione dal conferimento che fa il cittadino. Per una buona raccolta è importante l'empowerment del cittadino. Per questo bisogna educare i medici, gli infermieri, tutti i santitari, poiché hanno un ruolo significativo nella società e sono un esempio per quanto riguarda i temi della salute.

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Parlando della riduzione dei volumi c'è sia la raccolta differenziata sia il ricorso ai termovalorizzatori, i quali riducono del 1 0% le scorie. Il riutilizzo delle materie prime è risparmio energetico, cioè di combustibili e di conseguenza riduzione dell'inquinamento

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Che senso ha una raccolta differenziata nel nostro ospedale?

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Secondo lei è possibile in tutti i settori dell’ ospedale fare una differenziata? Dagli ambulatori, al bar, alla sala operatoria, ai reparti?

Si, lo stiamo facendo con successi diversi, cioè faccio riferimento alla qualità del rifiuto. Tra l’altro dobbiamo fare attenzione: se il rifiuto non è di buona qualità te lo ridanno indietro per cui non è servito fare la differenziazione. Secondo la mia impressione, se non c’è un responsabile dei rifiuti, un ufficio, magari un luogo controllato in cui tutto questo avviene, il rifiuto viene conferito in modo misto, disordinato; c’è un po’ di disattenzione, non solo da parte del pubblico, ma anche da parte di noi personale Pag. 3


sanitario. Per questo facciamo audit sul conferimento dei rifiuti in tutti i reparti. Però ogni reparto ha nella sua medicheria, in luoghi particolari, i suoi contenitori per una raccolta differenziata. Per cui abbiamo capito dove funziona meglio, dove c’è un controllo, e quindi anche migliorato molto. Siamo partiti da una situazione in cui venivano confusi, per esempio i rifiuti ad uso urbano e i rifiuti speciali, in particolare quelli a rischio infettivo. Questo non succede più ma continuiamo a camminare in questa direzione! Solo così si cresce, questa è formazione sul campo. Però non ci limitiamo a parlare con chi trasporta i rifiuti, con gli ausiliari o con la ditta responsabileQ coinvolgiamo i referenti medici, i caposala, gli infermieri, perché solo in questo modo aumentiamo la percezione del problema.

Vi riferite ad un’ azienda trasporti?

Si, abbiamo una ditta appaltatrice che porta via tutti i rifiuti, su questo guadagnamo uno sconto perché è la ditta stessa a ricavarne un utile. Contemporaneamente l’ azienda municipalizzata del comune AMA ci offre lo stesso servizio ma con maggiore vantaggio perché è totalmente gratuito; da questo doppio canale stiamo cercando di spostarci il più possibile sull’ AMA. Logicamente ci sono efficienze diverse, ci sono cose tecniche per le quali in questo momento preferiamo mantenere il doppio canale, perché è importante che alla fine i rifiuti vadano via! Non possiamo tollerare accumuli nell’ ospedale, già abbiamo un luogo di raccolta e conferimento, abbastanza delicato e critico.

C’è il rischio che i rifiuti differenziati vengano accumulati insieme al termine della filiera? Avete un controllo su questo?

Beh non sappiamo dove li porta l’ AMA francamente.

Neanche la ditta privata?

La ditta privata figuriamoci se ha interesse a perdere un valore! No sulla ditta privata sono sicurissimo. Sull’ AMAa volte i cittadini hanno espresso dei dubbi, credo che in alcune situazioni possa succedere che facciano conferimenti impropri. Ne sento parlare ma non ho dati su questo. Sarà successo in situazioni particolari, scioperi, mancanza di mezzi, non posso immaginare che sia l’ uso Pag. 4

abituale, sarebbe proprio una follia!

Secondo la sua opinione dentro l’ ospedale c’è sensibilità su questo argomento?

Secondo me sì. C’è abbastanza sensibilità. Come sempre in questi casi la sensazione è del tipo ‘basta che non mi coinvolgete troppo’ . Invece vedo molto distratto il pubblico. Sappiamo benissimo che o riduciamo la quantità dei rifiuti o è un problema enorme. Sappiamo anche che nel Lazio siamo a livelli spaventosamente bassi di differenziata. Siamo sotto il 20% con obiettivi superiori al 60-80% raggiunti in alcune regioni del Nord per cui siamo vergognosamente indietro. E’ chiaro che questa è una situazione che può esplodere, mi pare che proprio recentemente si dica che il Lazio stia migliorando. Abbiamo anche testimonianze di diversi Municipi che hanno messo in piedi sistemi virtuosi. Io penso che come al solito la partecipazione dei cittadini e la consapevolezza possa aiutare tutto ciò. Ecco il perché della nostra iniziativa.

Come e quando parte il progetto?

Il progetto riguarda la facoltà e riguarda il fatto che in ogni aula affiderò agli studenti tre contenitori: indifferenziata, plastica e carta. C’è da fare un minimo di attività: prendere i sacchi, gestire, fare un po’ di educazione, magari anche degli incontri. Volendo diventare ancora più virtuosi potremmo raccogliere i tappi delle bottigliette di plastica, che è molto pregiata; poi dipende anche dalla risposta degli studenti. L’obiettivo è giocare sulla quantità: già raccogliamo una marea di carta tra gli uffici e gli ambulatori. Ma ripeto a me sembra più importante coinvolgere medici nel fare informazione su un tema ambientale. Penso che sia una grande risorsa il medico messaggero dei temi della salute nella popolazione. Non solo un ruolo tecnicodiagnostico-curativo, ma anche di referente sui temi dell’ ambiente sia fisico che sociale, nei quali la comunità è immersa. A cura di Adelaide Aprovitola e Giulia Muzi Intervista del dicembre 2013


Armadietti sotto sfratto

In realtà fin dalle origini di questa facoltà il diritto ad ereditarne uno si basava, per così dire, sul principio di empatia. Se un tuo amico aveva l’armadietto e si liberava un posto, venivi invitato a diventare un suo “coinquilino”, bastava duplicare la chiave ed il gioco era fatto. Situazione poco sistematizzata, stile casereccio. Eppure alla fine risultavano accontentati tutti o quasi. Altri tempi! quelli in cui al Sant’Andrea si era in pochi. Col tempo gli studenti si moltiplicarono e il numero di armadietti rimase sempre lo stesso. Rimediarne uno diventava sempre più difficile ed i metodi per farlo sempre più originali. Potevi incontrare paradossalmente persone che in 5° o 6° anno ancora non ne avevano uno proprio e persone che già in 2° ne facevano uso non si sa per cosa. Per questi motivi nel 2012 i nostri responsabili della didattica hanno deciso di regolarizzarne l’accesso mediante l’inventario di ogni singolo armadietto, numerandoli e registrando nome e anno di corso degli studenti usufruttuari. Ma non è stato facile. Molti ragazzi hanno risposto in ritardo, molti non hanno mai dato segni di vita. Ne è emerso che vari studenti, nel tempo diventati specializzandi, si erano tenuti l’armadietto per sé. E quindi l’assenza di turn over li rendeva indisponibili per i nuovi. Perché non costringerli a cederli? La linea di pensiero è obbligare d’ora in poi i neolaureati a restituirli, ma non toccare i vecchi che ancora li custodiscono gelosamente. Questo anche perché, sebbene spesso si tratti di avarizia o sbadataggine, altre volte gli stessi specializzandi non sono autorizzati ad avere un proprio spazio nel reparto in cui lavorano per conservare camice e suppellettili varie, e quindi non hanno scelta se non quella di

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utilizzare l’armadietto degli studenti! Cosa che fa pensare… Ma gli armadietti sono pochi? Con le riassegnazioni si potrebbe risolvere il problema? Probabilmente sì, disponiamo di 381 armadietti, altri 70 sono stati ordinati dall’Azienda Ospedaliera nel giugno 2013. Il problema sembrava prendere la via della risoluzione, ma come un fulmine a ciel sereno arriva durante l’estate una ispezione della ASL che giudica irregolare la disposizione degli armadietti nei vari piani. Così piuttosto che eliminarli si è deciso di spostarli in aula E alle tensostrutture fino a data da destinarsi. Anche questa è una storia triste, fatta di armadietti che prima vivevano felici a piano terra, poi spostati senza neanche troppo preavviso a meno 3 e adesso esiliati completamente fuori dalla struttura. Il motivo di questa irregolarità sarebbe sia igienico che di sicurezza. I corridoi sono vie di fuga e vanno mantenuti liberi. Stesso discorso vale per le trombe delle scale, un tempo gremite di armadietti. Ci sono porte con maniglioni antipanico e ascensori, e anche questi devono essere facilmente raggiungibili. Inoltre l’ospedale è fatto di vari percorsi, su cui viaggiano diversi articoli come ad esempio materiale infetto, cibo diretto ai pazienti dei reparti, farmaci. La presenza di ostacoli su questi percorsi è stata ritenuta irregolare. E fino ad oggi come facevano gli armadietti a coesistere con questi passaggi? Non lo sappiamo, probabilmente venivano usate “strade alternative” all’interno dell’Ospedale, ma ora la commissione che ha fatto l’ispezione ha detto basta. Ora la situazione la conosciamo, gli armadietti superstiti sono circa un centinaio e sono a meno 3, alla fine del corridoio est dopo la mensa e dopo psichiatria, in uno spazio delimitato da un muro costruito da pochi mesi apposta per fare da separè. Gli altri sono alle tensostrutture, lontani da qui, forse si fa prima a raggiungerli venendo dal Raccordo, e tutti si stanno chiedendo quanto durerà. Perché avere un armadietto fuori dall’edificio ospedaliero equivale a non averne nessuno, troppo lontano per essere usato con rapidità tra una lezione ed un servizio clinico; e poi per arrivarci c’è un lungo percorso all’aria aperta, fatto di parcheggi, cantieri in costruzione, spazi verdi. Potrebbe essere problematico durante Pag. 5


la stagione invernale se non si vuole arrivare in reparto bagnati o congelati dal freddo. Il futuro è ancora una volta un punto interrogativo. Potrebbe arrivare un’altra ispezione che ritenga irregolari anche i pochi armadietti rimasti a meno 3, ed a quel punto sarebbe la fine; o forse un’alternativa c’è? magari si potrebbero studiare altre soluzioni. Il problema è sempre lo stesso da anni, ce lo abbiamo chiaro in testa: al Sant’Andrea non c’è più spazio. Del resto non è solo un problema di armadietti, ma di aule, biblioteche, parcheggi. Il prof Familiari sta valutando l’ipotesi di poter utilizzare un’ala del piano meno 4, ma ci sono una serie di problemi da risolvere, soprattutto considerata la non facile agibilità di quel piano, in alcuni punti l’altezza sarebbe insufficiente, per questo partiranno dei lavori di ristrutturazione. Siamo in troppi rispetto alla capienza di questo posto, non dipende dalla nostra Facoltà, trovare qualcuno che possa risolvere questi problemi è arduo. E’, come al solito, un gatto che si morde la coda. Per adesso il nostro camice da studenti rimane accartocciato dentro uno zaino, più simile ad uno straccio bagnato che alla sacra divisa del medico. Alessandro D'Andrea Articolo del novembre 2013

Oltre le frontiere

L’ospedale di Tivaouane si trova a circa 80 km a nord di Dakar, prende il nome dal più grande capo spirituale, Abdoul Aziz SY, Marabut della confraternita mussulmana dei Tidjania. Personaggio molto importante nella storia di questo paese, leader spirituale e portavoce di un messaggio di pace e fratellanza tra le varie religioni. Il Senegal, famoso per la Teranga “ospitalità”, la sua musica, i suoi balli e tradizioni, purtroppo vanta ancora oggi gravi situazioni di malnutrizione e malaria nei bambini tra i 05 anni, mentre nell’età adulta l’epatite, la tubercolosi e l’ipertensione sono le sfide più grandi per il Sistema Sanitario Nazionale. Dal 2011 nell’ospedale di Tivaouane lavorano Pag. 6

Tirana, Albania, questa è la nuova frontiera per chi, nonostante il sistema, vuole fare medicina. E vi chiederete perchè in questo piccolo terzo mondo apparentemente senza una storia, senza un passato che per noi valga la pena ricordare? Qui la gente per certi versi pare sia rimasta ferma nei confronti di una società che insegue il cambiamento. Somiglia ad un’ Italia degli anni Ottanta, con palazzi in costruzione ad ogni angolo, macchine quasi dell’ anteguerra e carri di animali che girano per la città come appena tirati fuori da un vecchio film western; trasportano vivande e talvolta persone che, per risparmiare, usano mezzi alternativi.


più di 1 00 persone tra medici e infermieri, che si battono giorno e notte per rispondere alle esigenze di salute di una popolazione che negli anni 90 ha avuto un grande incremento e ad oggi vanta più di 60.000 abitanti, compresa la parte rurale. L’ospedale risponde con fatica ad un flusso di circa 40.000 persone annue, tra visite, ricoveri e consultazioni che sono andate a crescere di anno in anno di pari passo con la popolazione. Le esigenze sono tante ed è chiaro che le risorse messe a disposizione dal governo non sono sufficienti a far fronte al bisogno attuale che presenta l’ospedale. Con difficoltà si contano i dispositivi di protezione e i presidi come guanti, bende, disinfettanti e mascherine.

Grazie al grande lavoro della Autorità Sanitarie e del sindaco Ass Malick Diop, l’Ospedale dispone ad oggi dei reparti più importanti ( Maternità, Pediatria, Chirurgia Generale, Urologia, Blocco Operatorio, Radiologia, Oftalmologia e Medicina Interna). Proprio in quest’ultimo mi trovo a lavorare come stagista, insieme ad un medico e ad un numero di infermieri che oscillano in base

Questo è uno scorcio dell’Albania di oggi, un paese che solo un decennio fa viveva sotto una dittatura schiacciante e che, pian piano, sta cercando di riemergere per stare al passo con un Europa che purtroppo sembra ancora lontana. Questo è il paesaggio che fa da contorno all’Università Nostra Signora del Buon Consiglio, un vero e proprio distaccamento dell’Università di Roma Tor Vergata, creata e voluta dalla stessa Madre Teresa di Calcutta per dare possibilità accademiche agli albanesi meritevoli che avrebbero poi fatto parte della nuova classe dirigente del paese. Da qualche anno ormai questa realtà è aperta anche agli italiani, rimasti esclusi dal test selettivo e che, previo superamento di un test a quiz meno arduo, vogliono intraprendere percorsi in ambito medico sanitario. L’Unizkm, come oggi si fa chiamare la sede, è diventata la scelta di molti studenti di Medicina e Odontoiatria, che hanno l’ opportunità di seguire le lezioni in lingua italiana. Certo, che dire, non è la Francia o l’Inghilterra, non è quello che si desidera per un figlio, ma forse proprio in questo risiede la sua forza: è una valida alternativa che non ti aspetti! L’Università oggi è un’ istituzione in crescita, dispone infatti di una serie di strutture ospedaliere a Tirana e a Durazzo per permettere a giovani studenti di toccare con mano già dal terzo anno cosa vuol dire fare medicina. I ragazzi qui vengono abituati a vedere, a vivere quell’ ambiente ospedaliero che dovrà poi essere il loro futuro e a Pag. 7


alle esigenze del reparto stesso. Arrivato qui la prima differenza che ho notato è che non c’è una collocazione dei pazienti nei reparti di competenza, in base alla patologia, ma a medicina interna si possono trovare patologie di diversa natura, dall’Aids all’ ictus, dall’epatite alla febbre tifoide. Più una parte del reparto dedicata completamente alla Pediatria, dove un bambino su due viene ricoverato per malaria mentre negli adulti ipertensione e l’ epatite sono le cause di ricovero più frequenti.

In Senegal le cure ospedaliere erogate dal Servizio Sanitario Nazionale sono completamente a carico del paziente e dei suoi familiari, anche negli ospedali pubblici come i nostri, si paga dall’ ago-cannula al posto letto, con un costo di circa 2€ al giorno. E’ chiaro che in famiglie dove a malapena si ha la possibilità di mangiare, la piramide delle priorità è completamente diversa da quella nel mondo occidentale. Così all’insorgenza dei primi sintomi, come un mal di testa, o un forte dolore al petto, sintomo di un problema cardiovascolare, si tende a sottovalutare e tirare avanti. Questo purtroppo provoca a sua volta due conseguenze particolarmente difficili da gestire. La prima è che il paziente a volte giunge in condizioni troppo critiche per poter intervenire in maniera opportuna; la seconda è che più i trattamenti sono importanti, più i costi a carico del malato aumentano. E’ chiaro che gli interventi di sensibilizzazione sulle malattie più comuni da parte delle organizzazioni locali, trovano grandi difficoltà ad essere recepite dalla popolazione a causa Pag. 8

scontrarsi con realtà tutt’altro che facili, in cui risiede ancora grande disagio, ma che sono d’altro canto molto educative per chi è desideroso di apprendere. Una grande comunità di italiani si è ormai insediata in città permanentemente con nuovi iscritti ogni anno; e pensare che nei lontani anni Novanta erano gli albanesi ad emigrare nel nostro paese! Sembra che i ruoli si siano invertiti: è proprio vero che nella storia non si può mai dire! Un paese in sviluppo, da scoprireQ si può scorgere in lontananza dal lungomare di Bari. Una realtà che nasconde tante contraddizioni, ma con un grande desiderio di rivincita sociale e che ci guarda ancora oggi con ammirazione cercando di eguagliare i nostri standard (ahimè forse è rimasto l’unico ormai!). Ma proprio per questo, paradossalmente, ha qualcosa che noi abbiamo perso da tempo: la genuinità, l’energia e l’attivismo di un popolo che, nella consapevolezza della propria arretratezza, si muove, conosce, cresce e così va avanti. Un popolo fatto da singolarità, da persone, che agiscono insieme per raggiungere un obiettivo: riscattare la loro condizione sociale verso se stessi e verso un mondo che si culla ancora oggi nel pregiudizio. Gente che lotta con umiltà e crede nel miglioramento con sacrificio, così mi sento di definire questa comunità. Qualcosa sta cambiando; che l’Albania sia la nuova Terra Promessa? Sicuramente è presto per dirlo ma con questi presupposti nasce un confronto quasi obbligato: noi come siamo diventati? Un paese che a stento vede luce e non sa da dove ripartire. Che fosse questa la nostra risorsa? Una cosa è certa: avremmo tanto da imparare da questo modus vivendi; da quella umiltà che spinge all’ azione e infine alla riuscita. Dovremmo ripartire proprio da questo come società: reimparare ad apprezzare le cose semplici e lavorare per ottenerne di migliori; riacquistare umiltà per utilizzarla al meglio, in modo da avere le armi per chiedere di più ad un sistema che troppo spesso sembra adagiarsi su standard


delle impellenze presenti a livello sociale ben più gravi. I futuri progetti da parte di questo piccolo ospedale senegalese è di ampliare il reparto di Pediatria, in maniera tale da rispondere al reale bisogno dei bambini. L’altro è di poter garantire un cardiologo presente 7 giorni su 7, ma oltre a questo c’è anche tanto bisogno del materiale base, come letti, barelle, dispositivi di protezione individuale, cardioline ed ecocardio. Poi, a seguire, l’obiettivo è di inaugurare il reparto di Ortopedia per ora costretto ad essere ancora un piccolo ambulatorio. In questi due anni di strada se n’è fatta tanta, anche grazie ai piccoli aiuti internazionali che sono arrivati, ma altrettanta se ne dovrà fare per raggiungere ancora i tanti obbiettivi prefissatiQ “Ndanka ndanka mooy jaapa golo si nahi” “Piano piano è l’ unico modo per riuscire a prendere una scimmia nella selva” Carlos Di Giovan Paolo Articolo del settembre 2013

mediocri. L’Albania è un paese più simile al nostro di quanto non si creda! E proprio tramite lo scambio di culture, la nostra esperienza e la loro grinta, penso si possano trovare gli ingredienti per fare, da un lato, ripartire un paese come il nostro, ormai invorticato in un tunnel; e dall’altro il loro, che lotta per emergere. Potrebbe essere un buono stimolo per l’Italia, per rimettersi in gioco ed investire su un progetto volto a rendere l’Albania una terra di nuove opportunità non solo per gli italiani, ma anche per gli albanesi intenzionati a crearsi un futuro in questo paese. La realtà dell’Università è tutto questo, ed è destinata a crescere tanto da dare possibilità di percorsi di formazione specialistica e di tirocini post laurea a coloro i quali vogliano un’esperienza fuori dal comune e che vada oltre l’apparenza. Spero di aver destato curiosità in queste poche righe verso una realtà che in fondo ci appartiene molto più di quanto siamo disposti a credere e che vivrà finché investirà e crederà nella cultura dei giovani come strumento di crescita di una nazione. Forse solo per questo la domanda sorge spontanea: non potremmo essere considerati noi il Terzo Mondo? In conclusione abbandonate ogni pregiudizio se mai vi addentrerete in questa avventura perché le cose non sono mai come sembranoQ Faleminderit dhe shihemi së shpejti ( grazie e a presto)! Livia Tognaccini Articolo del novembre 2013

La redazione vuole ricordare in questo numero il prof. Marcello Casini, indimenticabile docente di Anatomia della nostra Facoltà di Medicina, che con la sua esperienza, il suo amore per gli studenti, la sua ironia, si è dedicato fino all'ultimo all'Università. Vogliamo ricordarlo con una frase in particolare, presa dagli appunti del primo anno: "...se per qualche motivo vi dovesse saltare in mente di abbandonare medicina, almeno prima contattatemi, vi lascio la mia mail..."

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E nel 1 984, oltre la droga, il cemento, le armi e il controllo delle attività commerciali della zona, l’affare d’oro era la ricostruzione. Il mattone. Quindi il tufo. Quindi le cave. Siamo negli anni ’90. Tutto quello che poteva essere costruito e’ stato costruito. Per poterlo fare, i clan hanno stretto accordi e amicizie con i politici locali e nazionali, che hanno sistematicamente favorito le ditte direttamente riconducibili ai clan, per concedere loro gli appalti. Cosi strade, palazzi, piazze, fabbriche furono ricostruiti o costruiti ex-novo, per la maggior parte, dalla camorra. Finito il boom dell’affare d’oro della ricostruzione, restava un’oscena ricchezza messa in saccoccia, accordi ed amicizie con i colletti bianchi locali e nazionali e poco altro. Anzi no. Qualcos’altro era rimasto. Le cave. Le tombe. Ovunque. A qualcuno viene in mente un’idea. “Facciamoci dei soldi con queste cave..” Come? Beh, innanzitutto non chiamiamole più cave: chiamiamole tombe. Era il 1 991 . Si legge: “..a Villaricca presso un noto ristorantealbergo si riunirono alcuni soggetti in rappresentanza di diversi ambienti; tutti accomunati da un business comune; il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti tossici. La letteratura giudiziaria ricorda questa come la 'riunione di Villaricca' che, unita all’affaire Tamburrino, rappresenta il cardine storico della più ampia questione legata al traffico dei rifiuti provenienti dal Nord Italia. Ma chi erano quelle persone riunite nel noto ristorante di Villaricca? Scrive Alessandro Iacuelli nel suo libro-inchiesta 'Le vie infinite dei rifiuti - Il sistema campano’: "...ci sono i camorristi di Pag. 1 0

Pianura e dell’area flegrea, tra cui Perrella. C’è Ferdinando Cannavale, nel ruolo di massone amico dei politici locali e nazionali. Ci sono i proprietari delle discariche (Q). C’è Gaetano Cerci, il titolare dell’azienda 'Ecologia '89', che trasporta e smaltisce rifiuti, ma è anche nipote di Francesco Bidognetti, braccio destro di Francesco Schiavone 'Sandokan' egemone del clan dei Casalesi, dopo Bardellino. Cerci è inoltre il tramite tra il clan dei casalesi e Licio Gelli". Quella del capo della Loggia Massonica 'P2',

Licio Gelli, era una figura fondamentale nella questione 'rifiuti'; il capo dei massoni infatti era l’unico in contatto con quegli imprenditori del nord che avevano un 'problema da risolvere' per il quale erano disposti a pagare bene, pur di sbarazzarsi dei loro carichi di veleni. Ma era anche quello che aveva le 'chiavi' giuste per aprire le porte dei palazzi romani del potere. "Delle 25 lire che gli industriali pagavano in media per liberarsi di ogni chilo di rifiuti affidati alla malavita, 1 5 lire andavano alla camorra e 1 0 lire alla politica". Era l’inizio degli anni novanta, nell’albergo-ristorante di Villaricca, venne stipulato il patto scellerato per eccellenza che accomunava, e ancora oggi unisce, politica, camorra, mafia, P2, industriali senza scrupoli e apparati di sicurezza deviati. Una lobby affaristica criminale che negli ultimi 20 anni e più ha sotterrato in Campania milioni di tonnellate di rifiuti industriali, tossici e nocivi, compresi quelli dell'ACNA di Cengio, la famigerata azienda produttrice di componenti per armi chimiche, come l'Agent Orange, usato dalle truppe americane nella guerra del Vietnam.” Era il 1 991 .


Venne cosi deciso come utilizzare le tombe. Sarebbero state riempite di veleni, che avrebbero cosi generato denaro. Una quantità incalcolabile di denaro. Da allora un’autostrada perversa collega il Nord con il Sud. Un’autostrada trafficata da autotreni datati stracarichi di veleni, di scarti chimici derivati da lavorazioni industriali. Una strategia di mercato criminale permette alle aziende del centro-nord Italia di poter gonfiare il loro fatturato, abbattendo i costi dello smaltimento legale, preferendo lo smaltimento illegale proposto dai clan tramite scaltri mediatori. Già, mediatori. Mercanti di tombe. Portatori di morte. Sono passati più di 1 0 anni, oramai, e della Campania Felix resta poco o niente. Essenzialmente solo il ricordo è quello di sempre, ma la realtà è tutt’altra. Lì dove crescevano rigogliose vegetazioni di pescheti, meleti, prugneti, ora giacciono,

silenziose e mastodontiche, le discariche dei clan, sorte sopra le cave e in terreni comprati ad hoc per l’intombamento dei veleni. Niente vasche di captazione del percolato, niente sistemi di raccolta/sfruttamento del biogas, nessun piano di gestione legale dei rifiuti, assoluta mancanza di manutenzione, totale abbandono. Enormi cimiteri con una sola tomba al loro interno. Sono passati anni, oramai, ed ora è tardi anche per sperare di far sopravvivere la speranza. Per la maggior parte di questi terreni non c’è

più storia, non c’è, più futuro. Ci saranno solo enormi colline artificiali colorate di nero e di erba di colore biancoverdastro. Siamo negli anni 2000,tutto tace. Oltre il mattone non resta molto altro. A qualcuno, ai piani alti, molto alti, viene in mente un’altra idea. Un’idea brillante! “facciamoci ancora soldi con la monnezza, quotiamola come fosse un titolo bancario!” Come? Innanzitutto, non chiamiamole più tombe, chiamiamole giacimenti. Dove? Taverna del Re. Le istituzioni comunali, guidate da quelle regionali, dirette da quelle nazionali, confiscarono ettari su ettari di terreno nella località che dà il nome alla discarica più imponente della nazione. Alcune ditte furono incaricate di procedere alla costruzione di enormi piazzole di cemento, che sarebbero state l’alloggio di 4 milioni di ecoballe. Sono passati anni da allora. Le eco-balle sono 8 milioni, le piazzole sulle quali giacciono le milioni di ecoballe sono di qualità scadente, prodotte dai cementifici degli stessi clan che hanno riempito la Campania di veleni, rendendo inutilizzabili e fuorilegge le decine di discariche sorte sulle cave di loro proprietà, causano ripetute crisi dei rifiuti pilotate, con le quali si e’ arrivati a costruire Taverna del Re. Cosa? Ha dell’assurdo tutto ciò? E’ assurdo. Ma il denaro conta più di ogni altra cosa. Cosa volete che sia quest’assurdità se c’è da farci miliardi di euro? Le eco-balle sarebbero servite ad alimentare l’inceneritore di Acerra (sorto nella città di Bassolino...). Ma dopo tutto questo tempo, sono ancora lì. Tutto giace eterno e fermo. Pag. 11


Nero e bianco-verdastro. Silenzioso. La giacenza di questo ecomostro sul territorio Campano assicura la futura costruzione di impianti per il loro trattamento. Il trattamento è un processo industriale. Guadagno. Soldi. Molti soldi. Come trattare queste 8milioni di eco-bombe? Con un inceneritore, che non sia quello di Acerra. Dove? Perché non a Giugliano? Dalle dichiarazioni di camorristi pentiti si legge: ”..mischiammo i rifiuti tossici provenienti dal centro-nord Italia al tal quale utilizzato per confezionare le balle destinate a Taverna del Re..” Le eco-balle non sono eco, quindi, per legge e per coscienza, non possono essere bruciate in alcun modo. Meglio che stiano lì, inermi e oramai innocue, dato che il loro contenuto velenoso, il percolato, è già scivolato come uno spettro beffardo nelle viscere della terra sottostante, negli anni, dato che le vasche di captazione dei liquami di scolo non furono costruite.. Che stiano lì, è il male minore!

La vignetta...

Anno 201 3. Sono passati oramai 22 anni da quella maledetta cena in quel noto ristorante a Villaricca. Lo stato costruirà un inceneritore per le balle di Taverna del Re. Dove? Perché non a Giugliano? I comitati, i politici emergenti, i politicanti del passato, i fantasmi del presente, lo Stato assente, le istituzioni corrotte, la cittadinanza che fa finta di non sapere, chi dice di sapere e invece non sa nulla, la nazione che non esiste, le lacrime, il dolore, il tumore. Perché non a Giugliano? Scrive uno scrittore tedesco, J.W. Goethe: ”..sarebbe meglio che me ne andassi..” Addio maledetti. Addio. Nappo Saverio Giugliano 12/11/2013

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Medici senza camice, pazienti senza pigiama

di G. Abbracciavento, C. Alicino, E. Cennamo, V. Forte, C. Gueli, S. Minguzzi, A. Rinaldi, D. Rossi, C. Tumiati, N. Valentino, S. Zecca “Io non faccio parte della mia storia universitaria. A meno che la mia storia universitaria non si riduca a me seduta in un’aula buia 6-7 ore ad ascoltare in silenzio il docente di turno che legge le slide. O me seduta alle scrivanie di casa, curva a studiare, imbrigliata nella logica che mi riduce a un esame e un voto. Durante gli anni dell’università mi sono completamente anestetizzata, ci sono stati dei momenti in cui sceglievo di non ascoltare la musica per non provare emozioni. E’ deprimente! Penso di aver vissuto una vita studentesca molto passiva! Pensata così per me, per noi studenti, da chi gestisce la formazioneQ”. Questo libro grida il proprio malessere di fronte ad un sistema, l’istituzione medica, sempre più lontano dai principi che dovrebbero ispirare chi indossa un camice; è uno sfogo, di chi pensava la propria formazione come un processo attivo e di confronto e invece si è visto tarpare le ali; ma è anche la condivisione di narrazioni, riflessioni, spunti di un gruppo Pag. 1 4

Angolo libri di medici alle prime armi come noi, che vive una quotidianità simile alla nostra, all’interno di un Cantiere di socioanalisi narrativa. Il gruppo si è aperto anche ad alcuni operatori impegnati nell’ambito sanitario con altri ruoli professionali, insegnanti, educatori, formatori. Ma soprattutto studenti, approdati alla Facoltà di Medicina con un proprio immaginario, aspettative, ideali; un’energia da subito mortificata, l’università ha arrestato questi slanci, ha ucciso ogni entusiasmo. Le cause di questa trasformazione sono una formazione basata eccessivamente sui libri, la distanza creata dall’istituzione medica, la concorrenza a volte spietata, le prove di sottomissione, le piccole e grandi umiliazioni subite ed accettate per poter superare gli esami, storie di cui non si parla per una sorta di loro naturalizzazione nella vita universitaria. Anche il tirocinante, un “osservatore non strutturato”, al confine tra medico e studente, vive un conflitto dissociativo, una solitudine piena di dilemmi, adattamenti, silenzi, che hanno il risultato di plasmarlo ad immagine di un sistema precostituito. Anche nel rapporto con i pazienti lo studente è costretto ad adeguarsi ad un modus operandi. Esiste un doppio curriculum: quello esplicito composto dagli apprendimenti che strutturano il

piano di studi ufficiale ma anche il sistema di regole interne, comprese quelle disciplinanti la comunicazione medico-paziente e la Deontologia; e poi c’è un curriculum nascosto, fatto di pratiche e regole non dichiarate, un codice non scritto, spesso in contraddizione con il curriculum esplicito, quello che viene chiamato “didattica ombra”. Questi ultimi insegnamenti servono a trasmettere e far accettare la netta distinzione dei ruoli e le gerarchie tra medico e malato: si viene a creare un senso di appartenenza, un Noi della classe medica, ben distinto dal piano dei pazienti, che vengono così “inferiorizzati”, perché spesso “non capiscono nulla”. Un ordine simbolico viene trasmesso come ordine naturale. Il giro visite è un esempio di questa contraddizione, si entra nella stanza del malato in 1 5, si leggono i parametri, si imposta la terapia, si mostrano agli studenti i reperti clinici, “guardate che stupendo caso di artrite reumatoide”; il tutto come se su quel letto non ci sia nessuno, del resto la presenza del paziente è superflua, gli attori principali, i medici, sono tutti presenti. Il soggetto perde le vesti di “individuo”, di “persona”, ed acquisisce la rilevanza simbolica di un organismo, un corpo inerte, a cui viene


associata unicamente la malattia: “quando scende in sala la colecisti?”, i pazienti sono gli organi e le malattie di cui sono affetti. Quali effetti può avere tutto questo sui pazienti? A cosa porta la spersonalizzazione, la creazione di un confine relazionale, il parlare medichese? Il rapporto medico paziente è una relazione preformata, già istituita in modo squilibrato, in cui il soggetto che abbia bisogno di cure viene relegato come figura passiva e subalterna, viene costruito come “paziente”. Ma vanno considerati due aspetti: il primo, che questo dispositivo relazionale possa da solo generare un malessere aggiuntivo, ulteriore, paradossale, con possibili ripercussioni sulla compliance e la risposta alla terapia; il secondo, che se da un lato esiste la competenza del medico sulla malattia, esiste anche e soprattutto la competenza dell’ammalato sul proprio corpo; la disattenzione verso ciò che la malattia genera sull’individuo porta all’identificare la persona con la malattia e così “la diagnosi assume una veste totalizzante e totalitaria e la malattia può ridurre alla sua misura tutta la percezione che la persona ha di se stessa, facendola sentire diversa; viviamo quella che Ivan Illich definisce “iatrogenesi culturale”, se alcuni parametri sono leggermente diversi dalla presunta normalità, siamo completamente malati; e i promotori principali di questo sistema sono le case farmaceutiche. Del resto il modello di medicina dominante al giorno d’oggi è quello “biomedico”, che si può riassumere così: la malattia è diversa dal malato ed è uguale in ogni malato. Anche la comunicazione della prognosi infausta spesso è gestita dal medico in modo sbrigativo, freddo, con informazioni non dettagliate o date in ritardo, si formulano scadenze di sopravvivenza, percentuali di risposta, l’ ”inumano numerico”. Tanto che sorge la domanda: forse abbiamo paura anche noi? Forse la risposta inconscia alla sofferenza dei malati è un’anestesia delle emozioni, una reazione adattativa che dia l’illusione di non provare dolore, che però è in grado solo di narcotizzare, è solo una terapia sintomatica. Negli anni dell’università e neppure dopo è prevista una formazione teorica o pratica sulla comunicazione con il

paziente, su come affrontare conversazioni delicate, su come e quando vadano informati i malati e i parenti. “Nonostante tutte le innovazioni, la vita continua ad avere una mortalità del 1 00% (...). La morte non è una malattia, questo approccio ci obbliga come medici a cambiare modello culturale, paradigma Q” Il Cantiere nella sua spinta propone come soluzioni ipotesi o modelli provenienti da altre realtà. Ad esempio il concetto di “medicina narrativa”, che immagina una modalità diversa di cura basata sulla reciprocità fra i soggetti implicati, ponendo l’accento sulla differenza tra malattia clinica e malattia vissuta, che da una parte aiuti il paziente ad accettare il cambiamento di vita che la malattia genera, dall’altra costituisca per il medico uno strumento indispensabile per istituire un’alleanza terapeutica. E poi c’è l’azione sociale di ciascuno, nella sua quotidianità, perché anche l’atto medico è il riflesso della società nella quale si struttura, ognuno di noi è in grado se lo vuole di non obbedire a questa visione della realtà e di andare verso una medicina che abbatta le barriere. Un conto infatti è parlare al malato, un conto è parlare con il malatoQ Ma ancora più a monte, cose’è il medico e cos’è il malato?

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Qesto numero in via eccezionale è stato redatto dalla Sede Locale Roma Sant'Andrea del SISM, senza la quale non sarebbe stato possibile pubblicarlo. Per questo un ringraziamento particolare va a loro per il preziosissimo contributo nell'impaginazione e nella gestione del giornale.

La re d a zi on e Alessandro D'Andrea Adelaide Aprovitola Giulia Muzi Hanno collaborato alla stesura di questo numero: Saverio Nappo, Carlos Di Giovan Paolo, Livia Tognaccini e il nostro infaticabile vignettista "Mauro" Il Bugiardino è il giornale degli studenti del Sant'Andrea, perciò date libero sfogo alle vostre idee per articoli o suggerimenti! Per far parte della redazione, scrivere articoli, ricevere informazioni o manifestare critiche contattateci a: giornalino@romasantandrea.sism.org oppure visitate e commentate la nostra pagina Facebook Il Bugiardino: http://www.facebook.com/ilbugiardino.sism


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