Solaris #04 – L’insegnamento del solare

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Solaris #04 Serie di pubblicazioni di Hochparterre sull’architettura solare Agosto 2020

4 professoresse parlano di progettazione e clima pagina 3 10 progetti di studenti pagina 14 1 artista che salva il mondo: Olafur Eliasson pagina 32

ÂŤ Occorre una nuova tendenza dominante Âť

Annette Gigon, pagina 3



Solare sì, ma che non si veda: il professor Miroslav Šik e i suoi studenti nel 2017 al Politecnico federale di Zurigo. Fotografia: Niklaus Spoerri

Editoriale

L’insegnamento del solare « Preferirei che non ci definisse amanti del solare », sosteneva il professor Miroslav Šik nell’articolo che scrissi tre anni fa sul suo semestre di progettazione. Poco prima del pensionamento, l’architetto conservatore fece progettare ai suoi studenti le facciate fotovoltaiche del Politecnico federale di Zurigo: normalissimi edifici urbani adibiti a centrali elettriche. Un vero e proprio successo. Il tema era finalmente approdato alla facoltà di architettura della maggiore e più importante scuola universitaria di architettura della Svizzera. Ma essere definiti « amanti del solare» ? No, grazie ! Da sempre gli architetti di punta devono fare i conti con i limiti imposti dai requisiti di prestazione energetica e di sostenibilità. A giusta ragione, è l’estetica il loro carburante, visto che i loro edifici caratterizzano l’aspetto delle nostre città. La discussione sulla crisi climatica, tuttavia, ha smosso le acque. Gli architetti mettono in discussione le loro posizioni. Professori e professoresse fanno calcolare e progettare ai propri studenti bilanci energetici e facciate solari. Sul sito Solarchitecture.ch, il

Politecnico federale di Zurigo, la SUPSI e Swissolar mostrano vari esempi di buona costruzione. Ci sbagliamo, o gli architetti svizzeri sono sulla buona strada per diventare « amanti del solare » ? È questa l’impressione che si evince dalla lettura del presente opuscolo, che raccoglie i temi di progettazione degli studenti di diverse scuole di architettura svizzere. Alcuni di questi progetti potrebbero essere realizzati subito, altri invece gettano uno sguardo visionario alla città del futuro o apprendono dalle condizioni vigenti in altre zone climatiche. Il concorso americano Solar Decathlon è stato vinto dal padiglione di un team interdisciplinare di diverse università della Svizzera romanda. Al centro della presente pubblicazione, quattro professoresse danno informazioni su come hanno affrontato il complesso tema dell’energia, sulla loro responsabilità nei confronti della società e sulla scoperta di estetiche inaspettate. I ritratti sono stati realizzati dalla fotografa Anja Wille di Zurigo. Solaris #04 dimostra che non si tratta più solo di necessità, ma di desideri, sogni e realizzazioni !  Axel Simon

Colophon Casa editrice  Hochparterre AG  Indirizzo  Ausstellungsstrasse 25, CH-8005 Zurigo, Telefono +41 44 444 28 88, www.hochparterre.ch, verlag @ hochparterre.ch, redaktion @ hochparterre.ch  Editore  Köbi Gantenbein  Direzione  Lilia Glanzmann, Werner Huber, Agnes Schmid  Direttrice editoriale  Susanne von Arx  Concetto, redazione e testi  Axel Simon  Fotografie  Anja Wille, www.anjawille.com  Direzione artistica  Antje Reineck  Layout  Juliane Wollensack  Produzione  Linda Malzacher, Thomas Müller  Traduzione  Giuliana Soldini  Litografia  Team media, Gurtnellen  Stampa  Stämpfli SA, Berna  Editore  Hochparterre in collaborazione con Svizzera Energia  Ordinazioni  shop.hochparterre.ch, Fr. 15.—, € 10.—  ISSN  2571 – 8401

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« Quello che ci serve è una sorta di alfabetizzazione » Annette Gigon è tra gli architetti svizzeri più famosi. Si impegna a rendere comprensibile la portata della crisi climatica. E crea progetti per contrastarla. Interviste: Axel Simon, fotografie: Anja Wille

Sulla locandina della sua conferenza dipartimentale ‹ Proporzioni, paradigmi, parti per milione › c’era una foto di Zurigo capovolta. Si potrebbe pensare che la sua ­visione dell’architettura sia ruotata di 180 gradi. Cosa le è capitato nell’estate del 2019 ? Annette Gigon: In realtà mi interesso da tempo alle tematiche ambientati. Come tanta altra gente, però, anno dopo anno ho sempre pensato: ce la faremo. Anche la foto capovolta di Zurigo esprime una sorta di inversione d’immagine di ciò che facevo prima: mi piaceva l’idea architettonica di lavorare contro la gravità, ‹ increspando › la superficie terrestre in punti diversi, facendola ‹ sposare › con l’atmosfera per creare maggiore spazio vitale. Improvvisamente, però, l’atmosfera, i pochi chilometri d’aria che ci circondano, balzano in primo piano. È qui che si accumulano i gas serra che la nostra civiltà produce da decenni e che riflettono le radiazioni termiche provenienti dalla Terra. Una tendenza che va nella direzione sbagliata a velocità crescente. Il titolo del suo progetto semestrale dell’autunno 2019 era ‹ Metabolismo energetico: edifici urbani a zero ­emissioni e a zero energia ›. Per la settimana di seminario, non ha voluto offrire un viaggio a San Paolo oaM ­ umbai, dando preferenza alle aziende svizzere

Annette Gigon è nata a Herisau nel 1959. Nel 1984 si è laureata al Politecnico federale di ­Zurigo e nel 1989 ha fondato, con Mike Guyer, lo studio  Gigon / Guyer Architekten. Già con il loro primo edificio del 1992, il Museo Kirchner di Davos, i due ­architetti hanno acquisito notorietà oltre i confini nazionali. Sono seguiti altri numerosi progetti museali e di edifici residenziali. I primi premi vinti ai concorsi hanno consentito agli architetti di lavorare su scala più ampia, come la torre Prime Tower di Zurigo ( 2004 – 2011 ). Dal 2012 Gigon e Guyer sono professori di ­architettura e costruzione presso il Politecnico fede­ rale di Zurigo e si alternano alla ­direzione dei semestri di progettazione.

produttrici di materiali edili con un occhio di riguardo alle emissioni di carbonio a al ciclo di vita dei materiali. Tutto questo per via di Greta Thunberg ? Il semestre dell’energia era pianificato dalla primavera del 2018 e la mia empatia per gli orsi polari non è stata un fattore decisivo. Il mio intento era quello di trarre qualcosa di positivo dal cambiamento climatico, se il clima sarà più mite, si potrà ad es. praticare la viticoltura nel Regno Unito o l’agricoltura nella tundra. Greta comunque è un vero fenomeno: lei e i suoi ‹ Fridays for Future ›, insieme alle due estati troppo calde del 2018 e del 2019, hanno contribuito in modo sostanziale a portare la questione all’ordine del giorno della politica e dei media. D’un tratto le riviste specializzate – ma anche i giornali – hanno pubblicato molto più materiale sul tema. Ho letto dei punti critici, superati i quali il riscaldamento globale si accelera da solo, e questo mi ha allarmato. Ho iniziato così a interessarmi del problema: quanti sono 400 ppm di CO2 nell’atmosfera ? Quante emissioni di gas serra per chilowattora prodotto vengono rilasciate dalle centrali a carbone, a petrolio, a gas e dagli impianti fotovoltaici? Quanto carbonio è accumulato nel legno? O ancora: quanto CO2 emette una persona respirando? Dalle recensioni ho avuto l’impressione che non sia stato un semestre come gli altri, bensì che si trattasse di un argomento che le stava molto a cuore. Con un reader particolarmente corposo ! Molti grafici, dati e fatti che ho letto sono finiti nel reader, poiché sono convinta che quello che ci manca tuttora sia una panoramica completa. Il tema è molto complesso, ma non c’è modo di evitarlo ! Per affrontare il cambiamento climatico, abbiamo bisogno di una sorta di alfabetizzazione sulla portata, sulle connessioni e sulle cifre, al fine di capire cosa sta succedendo e da dove dobbiamo iniziare a lavorare. Prima che gli studenti iniziassero a progettare, hanno dovuto confrontarsi con i numeri, ad es. da cosa è costituito il mix elettrico distribuito in Svizzera oppure qual è il rapporto tra energia primaria e finale delle diverse fonti energetiche. Tutto questo non li ha scoraggiati? →

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→ Ho temuto anch’io che non tirassero fuori il lato creativo, ma la maggior parte di loro era così attiva e impegnata, da essere stimolata dal calcolo e dal confronto. È stato un approccio felice, qualcosa di illuminante. Il cambiamento dei parametri su ciò che potrebbe andare bene o potrebbe bastare, nonché i dubbi e le contraddizioni hanno alimentato la discussione. Gli studenti, inoltre, hanno calcolato l’energia grigia e le emissioni di gas serra di mattoni, cemento, vetro, acciaio, legno, elementi fotovoltaici, ecc. per constatare ad es. che il cemento non è poi tanto male rispetto ad altri materiali da costruzione. Per vedere tutte queste quantità astratte, la Biblioteca di ingegneria civile del Politecnico ci ha dato l’opportunità di organizzare una piccola esposizione di materiali, dove abbiamo potuto toccare con mano i materiali sostenibili e i vari elementi fotovoltaici, le soluzioni di bassa e di alta tecnologia. Le specifiche del progetto non erano troppo vincolanti. Sì, abbiamo scelto quattro diversi luoghi del centro città: non soleggiati in modo ideale e su strade rumorose – luoghi in cui per il momento ci sono solo stazioni di servizio (ride). Si trattava di edilizia residenziale, qualcosa di consueto nella quotidianità degli studenti. Erano liberi di ristrutturare edifici preesistenti o di progettarne di nuovi.

« Il tema è molto ­complesso, ma non c’è modo di evitarlo ! »  Annette Gigon

Molti hanno lavorato con il legno e con isolanti termici organici. Ho chiesto loro di progettare una facciata fotovoltaica. Dovevano cercare di crearla con sofisticati, talvolta ineleganti elementi fotovoltaici, il che è molto più difficile e restrittivo che progettare una facciata a intonaco ben proporzionata, con le consuete aperture. Tre quarti degli studenti hanno osato farlo e taluni hanno presentato innovazioni interessanti su come realizzare una facciata in modo creativo. Le ambizioni ecologiche dei vari progetti sono state in parte esibite oppure elegantemente integrate, o ancora celate dietro facciate poco appariscenti. Oggi capita spesso che il mondo dei numeri e quello delle forme siano messi a confronto: architettura ed estetica contro energia e ambiente. Questo semestre avete cercato di combinare entrambe le cose. È stato un nuovo tipo di approccio ? Non dissimile dalla pratica, ma senza leggi edilizie né vincoli di costi, e perciò più libero. Nella pratica quotidiana lavoriamo con gli ingegneri per la fisica delle costruzioni, la domotica e, naturalmente, per la statica, che alleggeriscono di molto il lavoro numerico. Ma se noi architetti vogliamo fare qualcosa contro il riscaldamento globale, dobbiamo avere delle conoscenze di

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base sulla portata del problema, altrimenti agiremo alla cieca. A tale scopo in futuro speriamo di poter disporre di strumenti ancora migliori e più facili da usare. Al momento, nonostante le tabelle dettagliate esistenti, è possibile arrivare ai dati comparativi solo attraverso un conteggio laborioso. Le scuole di architettura non dispongono delle conoscenze di base per la progettazione di edifici a basse emissioni. Neppure gli insegnanti. Lei parla di ­alfabetizzazione, un termine che si presta piuttosto a un paese in via di sviluppo. Il Poli­tecnico federale di Zurigo ha molto da recuperare su questo tema ? Occorrono molto più impegno e ricerca su questo tema, in tutto il mondo, in tutta la Svizzera e anche al Politecnico federale di Zurigo, e non solo al Dipartimento di architettura. È necessario un lavoro pionieristico, applicando in parallelo i risultati degli ultimi decenni. Occorre una nuova tendenza dominante. Le emissioni di gas serra degli edifici e delle abitazioni sono solo una parte del problema e l’architettura ecologica può essere solo una parte della soluzione. Al Dipartimento di architettura c’erano e ci sono tuttora personalità interessanti che hanno fornito un contributo fondamentale: Hansjürg Leibundgut, Dietmar Eberle, Arno Schlüter, Roger Boltshauser, Anne Lacaton per citarne solo alcuni, tutti con approcci molto diversi. Al momento, svariate cattedre di architettura stanno lavorando alla ristrutturazione e al riciclo di edifici esistenti. Speriamo che in futuro molte più persone si occuperanno in modo approfondito di edilizia sostenibile. Qual è stata la reazione degli studenti e del collegio ­universitario al lavoro di semestre ? Molti studenti erano entusiasti per l’offerta di un semestre del genere. Anche le conferenze e i dibattiti organizzati con gli esperti Reto Knutti, Marcel Hänggi e Matthias Schuler hanno riscosso grande consenso. Tra gli altri, hanno partecipato come esperti per l’energia e la tecnologia il professore di architettura e tecnica della costruzione Arno Schlüter e il professor Guillaume Habert, che conduce – tra l’altro – ricerche sul cemento ecologico. Lei ha proposto un compito realistico. Non le sarebbe piaciuto un approccio concettuale e visionario al tema, come quello che il professor Elli Mosayebi ha presentato nel semestre precedente ? Sarebbe fantastico, se avessi la sensazione che, quando si tratta di energia e di gas serra, parlassimo tutti la stessa lingua. Ma io volevo gettare innanzitutto le basi necessarie per pensare e andare oltre. Quali sono, in conclusione, le idee, le innovazioni e i metodi tradizionali validi in termini di equilibrio tra energia utile e energia grigia, in termini di inquinamento ambientale e, soprattutto, di emissioni di CO2 e di stoccaggio del carbonio, sempre in relazione all’intero ciclo di vita dei materiali? In futuro tutto questo dovrà essere reso più facilmente prevedibile già in fase di progettazione, per evitare di scadere nell’attivismo cieco. Spesso, anche negli articoli specialistici sull’argomento, mancano le cifre comparative. Ho organizzato questo semestre per motivare e consentire ai giovani di affrontare un tema così complesso, nella speranza che continuino a lavorarci in futuro, nonostante le resistenze e le contraddizioni. Sono loro, la nuova generazione. Per i progetti elaborati nel corso del semestre autunnale 2019, vedi pagina 16.

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« Come architetto, l’importante è continuare a svolgere un ruolo di rilievo » Annika Seifert insegna presso la Scuola universitaria professionale di Lucerna. I luoghi del sud del mondo la aiutano a rendere visibile il metabolismo dell’architettura. Per diversi anni lei ha vissuto e lavorato in Africa. Cosa l’ha attirata in quei luoghi ? Annika Seifert: La mia curiosità di architetto, la ricerca di qualcosa di sconosciuto, di ispirazione. Il mio compagno Gunter Klix ed io abbiamo studiato al Politecnico poi, dopo esserci fatti un nome lavorando in studi rinomati, ci siamo chiesti: « E ora che facciamo ? » Abbiamo deciso di lasciare il nostro lavoro in Svizzera e ci siamo trasferiti in Tanzania. Le donne architetto Anne Lacaton di Parigi e Barbara Buser di Basilea sono a favore di un approccio socialmente responsabile. È una coincidenza che abbiano vissuto entrambe in Africa ? Certo che no. Nel continente africano non è solo il clima ad essere completamente diverso dal nostro, anche le idee di comfort e necessità sono del tutto differenti. Gran parte della popolazione vive in condizioni di estrema semplicità. La questione spaziale, perciò, si presenta in modo completamente diverso. Un’esperienza del genere ti tocca nel profondo e al tuo rientro rimetti in discussione l’ambiente conosciuto. D’un tratto le abitudini spaziali sembrano meno stringenti. Nel 2012 lei ha ricevuto una borsa di studio per la ricerca dalla Federazione degli Architetti Svizzeri. Dal lavoro di ricerca è nata la pubblicazione ‹ Hitzearchitektur in der Schweiz – Lernen von der afrikanischen Moderne › ( Architettura e riscaldamento in Svizzera – imparare dalla moderna architettura africana ). L’approccio tradizionale al tema è il seguente: l’avvento del moderno ha risolto i problemi di riscaldamento e di raffreddamento con la tecnologia e tanta energia. Le soluzioni architettoniche tradizionali e vernacolari sono state dimenticate. È diverso, in Africa ? Anche in India e in Sudamerica la costruzione di edifici si adegua alle condizioni climatiche in modo completamente diverso. Quando la modernità è arrivata nel sud del mondo, questi paesi erano meno sviluppati, anche dal punto

di v­ ista dell’approvvigionamento elettrico. Spesso le case erano costruite in modo molto semplice. A differenza della nostra, la modernità tropicale non era orientata alla massimizzazione tecnica, bensì a un linguaggio moderno di forma e spazio con un approccio low-tech. Il libro afferma che la responsabilità degli architetti è quella di affrontare il più possibile il tema della sostenibilità con mezzi architettonici. Cosa significa ? Un architetto europeo fa un progetto e in seguito il team di progettisti professionisti lo realizza. In Svizzera consideriamo la struttura portante, ma quando si arriva alla tecnica degli impianti domestici, sono necessari molti interventi di potenziamento. In Africa orientale, siamo stati affascinati dagli edifici storici che reagiscono al clima con mezzi architettonici e con questo intendo con gli elementi costruttivi della struttura. Questo significa, da un lato, che se la cavano con un minimo di tecnica della costruzione, e dall’altro, che il processo di progettazione è olistico e orientato agli obiettivi. La collaborazione con i progettisti specializzati non dev’essere un susseguirsi di interruzioni. Più noi architetti siamo in grado di prevedere ciò che la tecnologia dovrà supportare in seguito, meglio sarà per il progetto. Anche in termini di progettazione. Lei gestisce, insieme a Luca Deon e Gunter Klix, il corso focalizzato su ‹ Architettura e Energia › presso la Scuola universitaria professionale di Lucerna. Di cosa si tratta ? Chi segue un master presso la Scuola universitaria professionale può scegliere fra tre indirizzi di progettazione. Il nostro ha come obiettivo principale l’energia. Alterniamo incarichi di progettazione all’estero – ad esempio in Sudafrica, Messico, Egitto – e in Svizzera. Il nostro team di docenza si completa piuttosto bene, da un lato con Gunter e me come uccelli esotici con solide basi svizzere e dall’ altro con Luca, un generalista ancorato alla pratica locale, ma con una mentalità molto aperta. →

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→ Cosa dovrebbero imparare gli studenti lavorando in un’altra zona climatica ? Più tardi, la maggior parte di loro non costruirà in Svizzera ? Nel nostro programma di master insegniamo a un gruppo internazionale di studenti. La metà proviene dall’India, dal Giappone, dalla Cina, dal Brasile, dalla Spagna e dall’Italia. C’è anche un aspetto didattico: non soltanto ci occupiamo del contesto climatico, ma anche di quello sociologico e culturale, dato che lavoriamo parecchio con le tipologie. Non appena mettiamo in discussione i programmi di percezione dello spazio, la cultura degli studenti gioca un ruolo importante. Noi siamo spesso prigionieri delle convenzioni. Con le nostre conoscenze di base sul funzionamento del mondo, talvolta non abbiamo il coraggio di mettere in discussione le cose in modo radicale. Tutti gli studenti voleranno per qualche giorno in Sudafrica. Non è una contraddizione per un corso ­incentrato sulla sostenibilità ? Sì, questo è un oggetto di discussione anche per noi. In realtà, prima del Sudafrica avevamo deciso di scegliere dei luoghi accessibili in treno. Siamo andati comunque a Città del Capo, perché la SUP di Lucerna sta cercando una partnership con l’Università di Città del Capo. Perciò si è trattato di una sorta di missione universitaria. In futuro compiremo i viaggi di studio in treno. Oltre alla tipologia e alla costruzione, anche l’atmosfera gioca un ruolo importante nel vostro studio di progettazione. Un concetto insolito in tema di questioni energetiche. L’energia è qualcosa di simile al metabolismo riferito all’architettura: si manifesta con la luce solare o il calore, con il freddo o il movimento dell’aria ed esercita un’influenza significativa sull’atmosfera dei locali. Per dimostrarlo, collaboriamo con l’artista zurighese Esther Mathis. È una fotografa, che nel suo lavoro si occupa di luce e di movimenti delicati come gli sfarfallamenti, le riflessioni e le rifrazioni. I nostri studenti lavorano con lei per creare delle sequenze cinematografiche, che chiamiamo ‹ breathing images ›, in cui i cambiamenti scorrono attraverso un locale, come la mimica su un volto: una brezza, la posizione del sole o l’ombra di una nuvola. Trasmettono la sensazione di una climatizzazione naturale.

Annika Seifert è nata nel 1979 a Münster, in Germania. Dopo aver conseguito la laurea in architettura presso il Politecnico federale di Zurigo nel 2006, ha lavorato, tra gli altri, presso lo studio Ballmoos Krucker Architekten di Zurigo. Nel 2010 si è tra­ sferita, con il suo compagno di vita e di lavoro Gunter Klix, a Dar es Salaam in ­Tanzania, dove hanno vissuto con i tre figli. Dal 2010 al 2012 è stata la responsabile del progetto Urban Development and Cul­tural Heritage presso il Goethe-Institut Tanzania e nel 2012 ha fondato il Dar es Salaam Centre for Architectural Heri­tage, che ha diretto fino al 2015 e dove ha svolto delle ricerche per l’Habitat Unit dell’Università Tecnica di Berlino. Nel 2016 è diventata docente presso la facoltà di Tecnica e Architettura della Scuola ­universitaria professionale di Lucerna. Lì è la responsabile dell’indirizzo Architettura e Energia ­insieme agli architetti lucernesi Luca Deon e Gunter Klix.

Il tema dell’energia è altrimenti associato a freddi calcoli, numeri e cifre. Che rapporto c’è con il lavoro creativo del vostro corso ? È difficile dire agli studenti: « Bene, ora progettate un’architettura rispettosa del clima ». Si sentirebbero sopraffatti da un tema del genere, perché è molto lontano da ciò che hanno imparato finora. Ecco perché nel corso di ogni semestre miriamo a un obiettivo specifico. In Egitto ci siamo occupati del calore, a Zurigo ci siamo concentrati sulla ventilazione naturale nei grattacieli, a Città del Capo l’argomento è stato ‹ l’acqua come risorsa ›, mentre attualmente ci interessiamo all’energia grigia. Per ogni tematica ci

« L’energia è qualcosa di simile al metabolismo ­r iferito all’architettura: si manifesta con la luce solare o il calore, con il freddo o il ­movimento dell’aria.  »  Annika Seifert

rivolgiamo a esperti competenti. Gli studenti devono confrontarsi con le basi tecniche, devono rifare alcuni calcoli per sviluppare delle conoscenze basilari. Da questo possono trarre i propri concetti architettonici o se non altro accompagnare strategicamente il processo di progettazione. Qual è la sua motivazione nell’affrontare tali argomenti ? Credo che l’idea di un’architettura basata innanzitutto su considerazioni di tipo estetico sia morta e sepolta. In tempi di scarsità di risorse, di cambiamenti climatici e di crisi della biodiversità, noi architetti dobbiamo dare più spessore al nostro modo di pensare. Possiamo continuare ad agire come progettisti ed esteti, ma se non vogliamo morire in bellezza, dobbiamo anche riuscire a padroneggiare altri criteri di valutazione e linee di argomentazione. È l’estetica, l’elemento che apre la porta ai temi ­impopolari della sostenibilità ? Le colleghe più progressiste vedono, nell’affrontare tali tematiche, la promessa di un guadagno estetico. Trovo che sia giusto e lo abbiamo sottolineato anche all’inizio. Ma non smetto di chiedermi: perché dobbiamo continuare a ripeterlo ? È necessario trovare una giustificazione per affrontare le questioni energetiche ? Cerchiamo di coltivare una cultura argomentativa più sfaccettata. L’interesse per il postmodernismo si è risvegliato, Venturi viene riletto, ma nella nostra disciplina non si tratta di pura percezione visiva, bensì di un sistema di rapporti di elevata complessità. Nell’insegnamento non cerchiamo di riflettere la pratica attuale, ma piuttosto di anticipare un futuro profilo professionale. Come architetti, il nostro obiettivo dev’essere quello di assumerci la responsabilità sociale. Anche per poter continuare a svolgere un ruolo di rilievo. Per i progetti elaborati nel semestre autunnale del 2018, vedi pagina 20.

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« S ono alla ricerca del potenziale architettonico » Elli Mosayebi coniuga la scienza con la fiction artistica. Al Politecnico federale di Zurigo rende percepibili a livello sensoriale le fonti di energia nella progettazione architettonica. Il suo corso di progettazione del semestre autunnale 2019 verteva sul tema della casa produttiva, ‹ Das produktive Haus ›. Gli studenti dovevano ripensare gli edifici ­ residenziali secondo i principi di una determinata risorsa energetica. Ci sono riusciti ? Elli Mosayebi: È stato un semestre fantastico. Due anni fa, quando sono arrivata al Politecnico federale di Zurigo, ho chiesto di lavorare con esperti di diversa p ­ rovenienza – persone che nutrivano interessi architettonici diversi. Desideravo unire competenze scientifiche e finzione artistica per affrontare nuovi temi architettonici. Abbiamo lavorato con Arno Schlüter e la sua cattedra di tecnica della costruzione e ci siamo chiesti: in che modo possiamo rendere visibile un elemento invisibile e tecnico come l’energia? Ci interessava scoprire fino a che punto la fonte energetica influisse sul modo di abitare. Non sapevamo quale sarebbe stato il risultato, ma eravamo sicuri che non fosse quello attualmente conosciuto. Perché il tema dell’energia ? Quella energetica è una questione scottante. Volevo porla in modo serio, alla ricerca del potenziale architettonico. Sono sorpresa che siano pochi gli architetti che lo fanno. L’idea di un’architettura autonoma, che ha plasmato la Svizzera negli ultimi decenni, ha riscosso grande successo. Naturalmente i riferimenti a quell’idea sono ancora importanti nella progettazione, ma è diventata anche una questione estetica. La possibilità di combinare la realtà con la finzione apre nuove tematiche architettoniche, che si esprimono nella forma spaziale e nella scelta dei

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materiali. All’inizio, su molte questioni tecniche e fisiche, sei una dilettante, ma poi scopri le connessioni. È stato estremamente piacevole e poetico. Come ha deciso di procedere ? Nella preparazione del semestre, abbiamo pensato alle fonti di energia pulita esistenti e a come renderle produttive nell’architettura. Abbiamo quindi redatto descrizioni narrative diverse per l’energia geotermica, per ­l’energia ­s olare e per il calore disperso dai ­centri informatici, →

Nata a Teheran nel 1977, Elli Mosayebi è cresciuta a Zurigo. Nel 2003 ha concluso gli studi di architettura presso il Politecnico federale di Zurigo e dal 2004 dirige lo studio d’architettura Edelaar Mosayebi Inder­bitzin di Zurigo, insieme a Ron Ede­ laar e Christian Inderbitzin. Avendo vinto nu­merosi concorsi, l’edilizia abitativa e urbanistica assumono un ruolo di tutto ­rilievo nella sua attività. Nella sua tesi di dottorato indaga sull’opera dell’architetto milanese Luigi Caccia Dominioni. Dal 2012 al 2018 è stata docente di progettazione e di edilizia residenziale presso l’Università Tecnica di Darmstadt, dove ha condotto uno studio comparativo sull’edilizia residenziale del dopoguerra europeo. Nel 2017 lei e i due soci sono stati professori ospiti presso il Politecnico federale di Zurigo ; dal 2018 insegna in qualità di docente di architet­t ura e progettazione. Elli Mosayebi è madre di due figli.

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→ per strade e gallerie. In una di queste visioni narrative ­abbiamo descritto quanti pannelli fotovoltaici servirebbero alla Svizzera per diventare autosufficiente dal punto di vista energetico. Ne è risultata una serie di grattacieli cuneiformi. In un’altra abbiamo reso visibile il calore residuo di una galleria stradale, con edifici che riforniscono di energia un quartiere come fossero dei ‹ distributori di carburante ›. Abbiamo svolto il lavoro di ricerca presso la cattedra e su questa base abbiamo formulato le narrative. È questo che producono gli studenti nel semestre attuale, dedicato al tema della casa duratura, ‹ Das Dauerhafte Haus ›. Lei mette in discussione i riferimenti. Non vale la pena di dare un’occhiata alla storia dell’architettura per quanto attiene la questione energetica ? Sì, certo. Si inizia dall’architettura semplice, vernacolare. Lì si impara come immagazzinare l’energia o utilizzarla in modo sobrio. In un progetto uno studente adotta l’antica invenzione dei camini solari. Quando si affrontano i problemi energetici, si trovano rapidamente delle soluzioni archetipiche. Confrontarsi con la storia dell’architettura è tuttora molto importante. Dobbiamo sapere cosa è stato fatto, per poter fornire noi stessi un contributo. Cosa intende per ‹ narrativa › ? Intendo la ‹ narrativa › della progettazione come una contrapposizione al concetto. I concetti funzionano con immagini, diagrammi o metafore, che obbediscono a un principio ordinativo, cioè dall’alto al basso. La narrativa, invece, va dal piccolo al grande. Segue il proverbiale filo rosso, che prende delle svolte senza mai strapparsi. La pittura persiana in miniatura funge da modello per i disegni di progetto ridotti e colorati. Come mai ? Grazie alla luminosità dei singoli colori, i dipinti persiani in miniatura non perdono la loro concisione, nonostante la ricchezza dei dettagli. Anche i nostri progetti

« In che modo possiamo rendere visibile ­ lemento tecnico e in­ un e visibile come l’energia? »  Elli Mosayebi

I progetti hanno un carattere utopico, in quanto sono molto grandi o inventano nuove forme di convivenza. Le finzioni sono utopie ? Gli studenti ci hanno mostrato i modelli di vita di cui sogniamo, ma si tratta di visioni del futuro fondate su calcoli. A mio parere, l’insegnamento in un contesto accademico come quello del Politecnico federale di Zurigo è da considerare un formato sperimentale e di ricerca esplorativa.

« Nel corso del nostro semestre ­abbiamo ­imparato, quanto ci ­sarebbe ­ancora da scoprire. »  Elli Mosayebi

Insieme a scienziati e artisti, ci stiamo muovendo in campi con pochi punti di riferimento. Non siamo chiamati solo a fare cose che siamo già in grado di fare. Si tratta anche di sviluppare un modello di pensiero, che sia consapevole delle grandi sfide e abbastanza agile da adattarsi al costante cambiamento delle condizioni. Per questo ci stiamo occupando di tali tematiche. Alcuni dei progetti potrebbero essere tratti da un film di fantascienza. Nel suo libro ‹ Unruhig bleiben ›, tradotto in italiano con il titolo ‹  S opravvivere su un pianeta infetto  ›, la teorica e storica della scienza Donna Haraway scrive delle opportunità della SF – che per lei significa, tra le altre cose, ‹ science fiction ›. La SF riesce a unire prospettive molto diverse: i miti di un luogo, le scoperte scientifiche, i fatti storici – analogamente alla nostra idea di narrativa. Da un lato le visioni odierne del futuro sono guidate da forze negative: si temono i cambiamenti climatici, la pandemia, la scarsità di risorse, ma ci sono anche visioni positive del futuro, che infondono coraggio. Lei direbbe, che la crisi climatica ha innescato un ­cambiamento di paradigma nell’architettura ? Sì, al Politecnico lo si nota: in pratica non c’è più una cattedra di progettazione architettonica che non si occupi di questioni ecologiche quali la ristrutturazione, l’energia o il riciclaggio. Un chiaro cambiamento degli ultimi due anni. Nella NZZ di settembre è apparso un articolo, in cui lei si pronunciava a favore della tecnologia nell’architettura come strumento di progettazione. Si è basata sulle esperienze semestrali, ma ha conferito un tocco tecnico alla tematica. Voleva forse provocare gli architetti ­svizzeri, scettici dal punto di vista della tecnologia e ­sostenitori del low-tech ? Non sono una tecnofila, non riuscirei a risolvere molti dei nostri problemi con la tecnologia. Ma è sorprendente, quanto poco evoluta sia l’architettura in questo campo. Non c’è nulla di male nel low-­tech, ma c’è anche un altro mondo, quello della tecnologia, della fantascienza e dovremmo smettere di contrapporre l’uno all’altra. Per i

vivono di abbondanti frammenti di testo e di immagini. Riescono, in un’immagine, a creare connessioni complesse e quindi a mostrarne la finzione. Si tratta di dettagli, ma anche dell’insieme. I giovani per strada ci chiedono di riconoscere i fatti e di agire. Lo stato d’emergenza richiede soluzioni pragmatiche e veloci. C’è tempo per la finzione ? Non siamo esseri che prendono decisioni solo pragmatiche o solo morali. Creiamo anche spazi abitativi per suscitare desideri. Lavorare con l’energia è stato finora soprattutto un imperativo morale. Solo quando noi, architetti e committenti, riusciremo a percepire il lavoro con l’energia come qualcosa di positivo, qualcosa di desiderabile, ci decideremo ad applicarlo. progetti elaborati nel semestre primaverile del 2019, vedi pagina 26.

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« Fa parte di un’evoluzione » Maria Cristina Munari insegna ‹ integrazione architettonica del solare › nella Svizzera romanda. Architetti e autorità hanno molto da recuperare a livello d’integrazione, afferma. Nel 2011 l’ho incontrata al Politecnico federale di Losanna per un reportage. Cosa è successo da allora ? Maria Cristina Munari:  Moltissimo. Dopo la catastrofe di Fukushima, nel 2011, è stata avviata una ricerca urgente di alternative all’energia nucleare, tra le quali l’energia solare è una delle più promettenti. Grazie ai recenti movimenti a favore del clima, i partiti dei Verdi hanno registrato un’esplosione di voti. Le normative emanate dalle autorità seguono tale tendenza. A partire dalla fine del 2020, tutti i nuovi edifici dell’Unione Europea dovranno essere conformi allo standard NZEB ( Nearly Zero-Energy Buildings, e cioè edifici abitativi ad alta efficienza energetica ), che in Svizzera equivale allo standard Minergie-A. E il nuovo concetto cantonale dell’energia ( CoCEn ) del Canton Vaud adottato a giugno 2019 si pone l’obiettivo di decuplicare la produzione solare di energia elettrica e termica, e questo alimenta anche il dibattito sull’impatto che la rivoluzione energetica avrà sulla forma dei nostri edifici e delle nostre città. È cresciuto l’interesse degli architetti per l’utilizzo del solare ? Credo che ultimamente il loro atteggiamento sia cambiato. Le nuove normative energetiche e i requisiti per la densificazione dei centri urbani fanno sì che, spesso, i soli tetti non siano più sufficienti per l’installazione delle superfici solari necessarie, anche le facciate degli edifici saranno chiamate a contribuire. Lentamente gli architetti se ne stanno rendendo conto. Sempre più spesso, infatti, si sforzano di aggiornare le proprie conoscenze e si impegnano a sviluppare le competenze necessarie alla ricerca di soluzioni attrattive.

Cosa devono sapere gli architetti di oggi sulla tecnologia solare ? La dimensione e la compresenza di più sistemi nello stesso progetto ( fotovoltaico, collettori ed energia passiva ), richiedono agli architetti un’attenta integrazione di soluzioni architettoniche e nuove conoscenze tecniche. È necessario selezionare, dimensionare, posizionare e ottimizzare i diversi tipi di sistemi solari, tenendo conto al tempo

« Negli ultimi tempi ­l’atteggiamento degli ­architetti è cambiato. »  Maria Cristina Munari

stesso delle esigenze architettoniche e dei vincoli energetici. Gli ingegneri dell’energia non hanno il background necessario per riuscire in questo esercizio. Solo un architetto potrà arrivare ad una sintesi architettonicamente coerente. Lei insegna queste materie da undici anni al Politecnico di Losanna, lo fa anche durante i corsi di progettazione ? Nel 2015 quello che era un piccolo corso bachelor interdisciplinare aperto a un massimo di 10 studenti d’architettura, è diventato il corso master ‹ Architettura ed energia solare ›, aperto a tutti gli studenti desiderosi di seguirlo. →

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→ Ai corsi teorici e alle presentazioni da parte di esperti di architettura, industria e ricerca si integra il lavoro pratico. Si parte dall’analisi di una serie di casi studio, la cui qualità in termini architettonici e di integrazione urbana deve essere valutata dagli studenti. In seguito, nella seconda metà del semestre, gli studenti devono creare un progetto vero e proprio, preferibilmente quello che stanno sviluppando in uno studio di architettura, oppure ristrutturare un edificio realmente esistente o riprendere un progetto precedente. Tutto questo richiede un grande sforzo agli studenti, che di solito partono da zero in questo ­settore. I riscontri sono tuttavia molto positivi. Oltre al Politecnico federale di Losanna, lei insegna ­anche in altre università. Quali esperienze ha fatto ? Il corso del Joint Master of Arts in Architecture ( JMA ) della Scuola universitaria professionale di Friburgo, che dirigo dallo scorso anno, è molto simile a quello del Politecnico federale di Losanna. All’Università IUAV di Venezia invece, dove ho insegnato in veste di invited professor, la struttura didattica è diversa. Lì i laboratori multidisciplinari sono

« Solo un architetto potrà arrivare ad una ­ sintesi architettonicamente ­coerente.  »  Maria Cristina Munari

passione dimostrata dagli studenti e all’impegno profuso da esperti e assistenti, molti ostacoli pratici sono stati superati e il progetto, in fase di concorso, ha convinto. Questo successo indica forse che la Svizzera è leader nell’architettura solare ? Le competenze nel campo dell’integrazione solare e della sostenibilità sono più elevate in Svizzera che altrove, anche perché qui si investe molto nella ricerca. Finora, tuttavia, tutto questo è rimasto praticamente limitato al mondo accademico e allo sviluppo di nuovi prodotti. Ora la consapevolezza sta cambiando e sono sicura che il divario con la pratica si colmerà. Pensiamo solo a quanto rapidamente le nuove esigenze in materia di isolamento termico hanno modificato i materiali e il linguaggio delle facciate! I nuovi standard energetici avranno un’influenza radicale sull’uso della tecnologia solare. È più che legittimo preoccuparsene. Questi vincoli, tuttavia, non sono da considerare come una rottura radicale nella storia dell’edilizia, ma come parte di un’evoluzione che dev’essere capita e ‹ digerita ›. « La tecnologia solare è bella solo se non la si vede », ha affermato Peter Röthlisberger della ditta Solaxess durante una conferenza. Come definisce lei l’integrazione solare ? Per me, tale affermazione è troppo categorica e semplicistica. L’architettura è la capacità di fornire una risposta formale coerente a una gamma molto ampia e complessa di esigenze. La rilevanza di questa risposta non può essere separata dalle specificità di un luogo e di un’epoca. Ogni progetto ha la sua storia e le sue esigenze, e anche una sintesi formale propria. Talvolta il mimetismo può rivelarsi la scelta giusta, altre la scelta giusta è quella di rendere riconoscibile la funzione di produrre energia. Quindi l’architettura non dev’essere ripensata da zero ? La produzione di energia è un nuovo requisito che oggi gli edifici devono soddisfare. Questa necessità dev’essere incorporata nel progetto fin dall’inizio. Ma questo di fatto non cambia il processo di sintesi architettonica. La tecnologia solare è da intendersi semplicemente come ulteriore elemento architettonico, come lo sono le finestre, i camini e i balconi. Tutto concorre a creare un insieme coerente. Il solare non dev’essere percepito come un elemento aggiunto all’architettura, deve farne parte. Maria Cristina Munari è

coordinati con diversi corsi e con gli studi di progettazione e offrono l’opportunità di applicare le conoscenze teoriche e tecniche. Tutto questo richiede un coordinamento tra gli insegnanti, ma ne vale la pena e le competenze acquisite sono elevate. Tuttavia, anche a Venezia tutto è concentrato in un unico semestre, il che ha reso difficile agli studenti tener conto sin dall’inizio dell’energia solare. C’è una mentalità più aperta per l’edilizia solare in Svizzera o in Italia ? Ho avuto l’impressione che a Venezia l’interesse del corpo docenti fosse in qualche modo più sentito, ma forse per- stata membro della giuria del concorso studentesco Sustainable is Beautiché ho insegnato in questa Università solo per un breve ful – Active Housing, vedi pagina 30.  periodo e provenivo da un paese che è sinonimo di innovazione tecnologica. In più la conservazione del patrimonio Maria Cristina Munari Probst è nata nel culturale è molto importante in Italia e perciò le soluzioni 1971 a Treviso, Italia. Nel 1998 si è laureata di integrazione architettonica del solare sono questioni presso l’Istituto Universitario di Architet­ già particolarmente sentite. tura di Venezia (IUAV) e ha lavorato come Nel 2017 un team di diverse università della Svizzera architetto nella Svizzera romanda, dove ha costruito uno dei primi edifici passivi. ­romanda da lei accompagnato ha vinto il Solar Decathlon Dal 2003 al 2008 ha scritto il suo lavoro di ­Denver negli USA. Ci può parlare di quest’esperienza ? di dottorato sull’integrazione solare presÈ stato fantastico. Marilyne Andersen, la nostra ex preso il Politecnico federale di Losanna. Dal side, ha avviato e diretto la partecipazione, mentre io ho 2009 ­insegna nei dipartimenti di architettura del Politecnico federale di Losanna contribuito ad organizzare i contenuti didattici nella fase e dal 2019 della Scuola di I­ ngegneria iniziale e ho accompagnato il progetto in qualità di espere Architettura di Friburgo. Dal 2015 al 2017 ta di integrazione solare e mentore. Il progetto, tuttavia, è stata invited professor presso l’Uni­ si è dovuto confrontare con i limiti della struttura didatversità IUAV di Venezia. La sua ricerca sulla compatibilità dell’energia ­solare con tica esistente, piuttosto rigida. È stato difficile creare in la protezione dei monumenti storici le ha tempi brevi una forma di apprendimento completamente valso il Premio per l’innova­zione in Svezia diversa, basata sulla collaborazione e sulla multidisciplinel 2016. Ha due figli e vive a St-Sulpice, narietà e la collaborazione tra diversi corsi. Grazie alla vicino a Losanna.

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Politecnico federale di Losanna ( EPFL ), Scuola di Ingegneria e Architettura di Friburgo ( HEIA-FR ), Alta scuola d’arte e di design di Ginevra ( HEAD ), Università di Friburgo ( UNIFR )

Solar Decathlon 2017: Neighbor Hub

Al concorso Solar Decathlon, team universitari da tutto il mondo competono con padiglioni tecnicamente avanzati in 10 categorie, tra cui energia, architettura, innovazione e comunicazione. Il concorso, indetto dal Dipartimento dell’energia statunitense, come il suo omologo europeo, ha luogo ogni due anni. Poiché nel 2016 il concorso europeo fu annullato, l’anno seguente, nell’ottobre 2017, il team svizzero di quattro università della Svizzera occidentale partecipò al concorso americano di Denver e vinse con il progetto ‹ Neighbor Hub › ! Il professore di architettura Hani Buri della HEIA-FR descrive così il processo di progettazione: tutto ebbe inizio nel 2014 al corso estivo del Solar Decathlon di Versailles. Gli studenti delle quattro università analizzarono i padiglioni e raccolsero le prime idee. Nei semestri successivi si occuparono dei diversi aspetti, che furono raggruppati in workshop estivi. Raccolsero input da diverse fonti, ad esempio da ingegneri energetici e scienziati ambientali. Il gruppo organizzatore stabilì il tema principale: la densificazione urbana. Ma come presentarla in un padiglione? Le regole del concorso, che esigevano la costruzione di una casa unifamiliare, dovevano essere interpretate in modo creativo. Diversi studi di architettura svilupparono ulteriori idee. Alla fine, il padiglione divenne ‹ Neighbor Hub ›, un luogo di apprendimento comune in cui si ripara o si cucina, si coltivano piante o si allevano pesci, si favorisce lo scambio sociale. Una casa energetica autosufficiente, che mostra l’attuale livello tecnologico. Lo sviluppo del progetto fu difficoltoso, poiché ad ogni fase si univano nuovi studenti, rimettendo tutto in discussione. Le continue discussioni divennero parte del progetto, determinandone il successo. Nell’autunno 2016 fu prevista la costruzione del progetto da parte di un gruppo di insegnanti e studenti, che profusero grande impegno e entusiasmo. L’estate successiva il padiglione fu presentato al pubblico di Friburgo e in seguito inviato a Denver, dove lo assemblarono in 9 giorni, nell’ottobre 2017. Il progetto convinse la giuria, poiché si avvaleva della tecnologia pur senza metterla al centro dell’attenzione e mostrando una visione olistica e umana della sostenibilità. In Svizzera, il ‹ Neighbor Hub › è ubicato nel suo luogo di costruzione: il quartiere innovativo ‹ Blue Factory ›, presso la stazione di Friburgo. Lì, una delle quattro piattaforme di ricerca è lo ‹ Smart Living Lab ›, dove le università coinvolte nel progetto Solar Decathlon conducono ricerche interdisciplinari congiunte sui temi della sostenibilità.

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Spazio intermedio in cui si ripara, si coltivano piante o si allevano pesci.

Diversi moduli fotovoltaici forniscono l’energia elettrica; nella foto: le celle di Grätzel di colorazione arancione.

La sala d’incontro centrale.

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Oggi il ‹ Neighbor Hub › è ubicato nel luogo in cui è stato sviluppato: il quartiere ‹ Smart Living Lab › , accanto alla stazione ferroviaria di Friburgo. Fotografie: Fred Hatt

Pianta piano terra.

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Ubicazione nel quartiere universitario di Zurigo.

Sezione trasversale.

Pianta piano tipo.

Politecnico federale di Zurigo ( ETHZ ), cattedra di architettura e design, Annette Gigon e Mike Guyer Responsabile del semestre: Annette Gigon

Metabolismo

Nel semestre autunnale 2019, con il titolo ‹Metabolismo › 38 studenti hanno progettato edifici residenziali multipiano a Zurigo. Hanno sperimentato come raggiungere elevati standard ecologici anche nei grandi edifici di una fitta area urbana. I quattro cantieri fittizi, tre dei quali di edifici esistenti, si trovavano in parte su strade cittadine molto trafficate. Gli studenti erano liberi di scegliere se ristrutturare o progettare un nuovo edificio. Secondo le loro ambizioni ecologiche, potevano scegliere se gli edifici necessitassero o meno di un approvvigionamento energetico esterno, se potessero essere costruiti con poca energia grigia oppure se i materiali utilizzati potessero fungere da serbatoi di stoccaggio intermedio del carbonio. Il semestre è stato accompagnato da Arno Schlüter, professore di architettura e tecnica della costruzione, e da G ­ uillaume Habert, professore di edilizia sostenibile. Intervista con Annette Gigon vedi pagina 3.

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Progetto di Magnus Lidman, 9° semestre Lo studente ha progettato un nuovo edificio residenziale con piccoli e grandi appartamenti nel quartiere universitario. Una costruzione in legno si erge sulle fondamenta dell’edificio preesistente. Le logge vetrate, che sono locali tampone climatici non riscaldati ma isolati ( spazi 4 stagioni ), possono essere utilizzate anche d’inverno. Grazie all’isolamento termico opportunamente dimensionato, alla pompa di calore salamoia / acqua e ai pannelli fotovoltaici sulle facciate e sul tetto, l’edificio sarebbe in grado di coprire interamente il proprio fabbisogno energetico annuale. Le celle fotovoltaiche policristalline di colore giallo, disponibili in commercio, rilucono attraverso il vetro colato profilato. La cornice dei pannelli, di differente larghezza, unitamente ai coprifili di dimensioni diverse, sono stati utilizzati dallo studente come elementi di design. L’estetica misurata e urbana dell’edificio è adeguata sia per residenze che uffici. Unitamente alla struttura portante a colonne, tale polivalenza estende la flessibilità d’uso anche in termini di durabilità dell’edificio. →

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Cella policristallina.

Appartamento con ‹ spazio quattro stagioni ›.

La cella dietro il vetro profilato.

Progetto di Magnus Lidmann: un edificio residenziale sostituisce una stazione di servizio a Zurigo.

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Ubicazione dei due progetti di Moritz Dutli e Tim Vogel.

La casa con i ‹ filtri › sulla trafficata Birmensdorferstrasse di Zurigo.

Sezione trasversale.

Pianta piano tipo superiore.

Pianta piano tipo inferiore.

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L’elettricità è generata sia dai frangisole ­inclinati che dai parapetti dei balconi.

Progetto di Moritz Dutli, 8° semestre Il progetto conserva la struttura a paratie dell’edificio esistente sulla Birmensdorferstrasse, ma lo completa, lo rialza e lo estende sia verso la strada che verso il cortile retrostante. Anche se il materiale costruttivo è in prevalenza il legno, le sottili strutture delle nuove logge e delle pergole sono tuttavia in acciaio. I piccoli monolocali esistenti vengono collegati verticalmente e orizzontalmente in modo da formare appartamenti a maisonette. Le abitazioni duplex esposte a sud compensano i soffitti bassi dell’edificio esistente e consentono alla luce invernale di penetrare in profondità nell’appartamento. D’estate, il balcone antistante protegge dal surriscaldamento e offre a tutti gli appartamenti uno spazio esterno. Il balcone, inoltre, fornisce energia elettrica, grazie agli elementi fotovoltaici integrati nei parapetti verticali e nei frangisole inclinati. I collettori ibridi del tetto producono elettricità e dissipano il calore generato. In questo modo l’efficienza delle celle solari è maggiore e il calore estivo può essere stoccato nel terreno per l’inverno, tramite le sonde geotermiche.

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Sezione trasversale.

Una facciata solare dai colori vivaci.

Locale abitativo. Più un modulo è trasparente, più è piccolo a parità di potenza.

Pianta ultimo piano.

Pianta piano tipo.

Progetto di Tim Vogel, 7° semestre Lo studente ha deciso di mantenere in gran parte la struttura dell’edificio esistente sulla Birmensdorferstrasse e di estenderla, per includere la linea di costruzione originale degli edifici vicini. Rispetto ai piccoli appartamenti di oggi, questo permette un mix più diversificato di appartamenti per famiglie e di abitazioni collettive. L’ampliamento è costituito da un edificio con struttura in legno e solette in legno-­calcestruzzo composito, al fine di risparmiare quanta più energia grigia possibile e, contemporaneamente, immagazzinare carbonio. La facciata sud, rivolta verso la strada, mostra un gio­co di elementi fotovoltaici in tre dimensioni, ognuno dei quali ha una diversa trasparenza. I moduli orizzontali nascondono le celle dietro una serigrafia rosso scuro, mentre in quelli verticali le celle sono visibili grazie a due diversi gradi di trasparenza. Questo adeguamento della trasmissione compensa le differenze di potenza dei moduli di diversa dimensione, che possono così essere collegati in serie.

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Scuola universitaria professionale di Lucerna – Tecnica e Architettura, Focus ‹ Architettura e Energia ›: Annika Seifert, Luca Deon, Gunter Klix

Ubicazione.

( Ri- ) visitazione di New Gourna

« Calura diurna e freddo notturno, luce del giorno scintillante e ombre in movimento, la pietra bagnata e la brezza rinfrescante: lo spazio e l’atmosfera dei locali sono caratterizzati da processi e fenomeni energetici. In quanto architetti, vogliamo utilizzare in modo consapevole questa impronta nella concezione dei nostri progetti. Confrontandoci con condizioni climatiche estreme, siamo alla ricerca di regole tipologiche e di spazi d’azione architettonici, che possano essere adottati per il nostro lavoro di progettazione, anche nel contesto mitteleuropeo. In qualità di pianificatori nell’ambito dei cambiamenti climatici, siamo consapevoli della nostra responsabilità, della crescente scarsità delle risorse e degli sconvolgimenti Sezione longitudinale. demografici. Affrontiamo queste sfide da una prospettiva interdisciplinare e con mezzi architettonici autentici. Questo semestre ci concentreremo sul villaggio di New Gourna, ubicato nel clima arido dell’Alto Egitto, dove in un contesto di espansione del villaggio, stiamo progettando una grande foresteria. New Gourna è stato costruito negli anni ’40 come villaggio modello secondo i progetti dell’architetto egiziano Hassan Fathy, che lavorava con tipologie costruttive vernacolari, con la tradizionale costruzione in terra cruda e prevedeva l’autocostruzione come esperimento sociopolitico. Nel frattempo l’insediamento, oggi inserito nel patrimonio culturale mondiale dell’Unesco, è ormai segnato dalla fatiscenza. Spinti dalla curiosità per i fattori climatici, culturali, materiali e storici che caratterizzano New Gourna, realizzeremo un intervento strutturale e architettonico mirato.» Tratto dal compito per il ­lavoro di semestre dell’autunno 2018, che è stato seguito dall’ingegnere climatico Matthias Rudolf della Transsolar di Stoccarda.

Progetto di Fabio Isler, 8° semestre Invece di una grande foresteria, il progetto prevede alloggi per famiglie, ognuno con una sezione ospiti integrata. Molti di questi edifici formano un cluster, i cluster formano un blocco unico che funge da nucleo del villaggio, sull’impronta del piano regolatore originale. Lo studente si è occupato del metodo di costruzione tradizionale. Le superfici dei suoi edifici in mattoni crudi si affinano dall’esterno all’interno. Il loro tetto è caratterizzato da vele solari con una leggera struttura in acciaio. Ogni casa è dotata di un cortile chiuso con uno specchio d’acqua che funge da accumulatore di raffreddamento. Il progetPiante. to mantiene l’equilibrio tra presente e tradizione.

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Fotografie tratte dal film, che mostra l’atmosfera climatica dei locali. Ha contribuito a sviluppare queste ‹ Breathing Images › l’artista Esther Mathis.

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Ubicazione.

La cupola di Città del Capo ricorda il padiglione di vetro di Bruno Taut a Colonia.

Scuola universitaria professionale di Lucerna – Tecnica e Architettura, corso focalizzato su ‹ Architettura e Energia ›: Annika Seifert, Luca Deon, Gunter Klix

Urban Lab di Città del Capo

« Il campus dell’Università di Città del Capo ( UCT ) si trova ai piedi della maestosa Table Mountain. Tra la vegetazione ben curata e gli edifici storici, architetti e urbanisti studiano estraniandosi dalla complessa realtà della loro città, caratterizzata da una vita culturale molto ricca, ma con enormi disuguaglianze sociali e tensioni politiche. A complemento del campus isolato, stiamo progettando un ‹ Urban Lab Building › nel sobborgo di Delft, uno dei più grandi e più densamente popolati quartieri informali della città. Lo scopo di questo prolungamento del campus è quello di consentire agli studenti l’immersione nella ‹ realtà › quotidiana della città e della maggior parte dei suoi abitanti. L’edificio dovrebbe inoltre contribuire allo spazio pubblico del quartiere, fornendo infrastrutture e una piattaforma comunitaria diversificata. Alla luce dell’attuale crisi idrica di Città del Capo, ci accompagnerà il tema legato alla questione tecnica e politica dell’acqua, da cui attingeremo i temi architettonici. » Tratto dal compito per il lavoro di semestre dell’autunno 2019, che è stato seguito dagli esperti di idrologia Maryna Peter e Christoph Lüthi dell’Eawag.

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Progetto di Fabian Huber, 7° semestre Dall’approfondimento del tema della densificazione nasce un progetto notevole: la sede progettuale è stata collocata in un perimetro specifico dentro un grande bacino di contenimento dell’acqua piovana, evitando così la demolizione delle abitazioni della borgata. Con le consuete precipitazioni stagionali, il bacino si riempie d’acqua. Lo studente ha perciò progettato una serie di case su ‹ palafitte ›, collegate alla riva e tra loro da passerelle. I mattoni cotti, usati per la costruzione delle case, sono di argilla estratta dal bacino stesso. Sopra le palafitte si erge un’enorme cupola di condensazione costituita da una semplice costruzione in acciaio e da archi di vetro colorato. Con il calore generato sotto la cupola l’acqua evapora, si condensa sulle pareti vetrate e viene portata come acqua depurata e potabile ai rubinetti pubblici attraverso un sistema di grondaie. Il progetto coniuga la costruzione in un terreno non edificabile con il trattamento dell’acqua, il contatto sociale e, non da ultimo, la bellezza.

Film da altri progetti:

www.hochparterre.ch/breathingimages

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L’acqua depurata si condensa all’interno della cupola e viene portata attraverso le grondaie ai rubinetti pubblici.

Le case sotto la cupola si ergono su palafitte, perché nella stagione delle piogge la conca diventa un bacino d’acqua.

Spazi progettati per attirare gli studenti di architettura dal loro campus.

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L’intero complesso di Burgdorf: l’antico edificio in basso, l’edificio allungato dello spogliatoio e lo specchio d’acqua a forma geometrica con le onde stazionarie.

Scuola universitaria professionale bernese, Dipartimento di architettura, tecnica del legno e ingegneria civile ( BFH / AHB ), Peter Schürch, corso di bachelor

Emmenwave

I nostri stage pratici si concentrano sullo sviluppo urbano e sull’architettura. La sostenibilità e l’energia sono parte integrante dei progetti. Gli studenti del terzo anno e quelli del Master congiunto con Ginevra e Friburgo scelgono tra atelier con due focus principali: la trasformazione di aree ( sviluppo di siti ) o la costruzione con il legno. Tutti gli studenti lavorano su problematiche diverse, riferite a una regione o a una città: nel 2019 si trattava di Burgdorf. La città e l’area circostante devono diventare più attrattive. Nel semestre autunnale 2019, il compito del nostro atelier con gli studenti di bachelor, indirizzo tecnica del legno, è stato quello di progettare un centro di surf con onde stazionarie in uno spazio esterno naturale. Un’attività creativa che richiede molta energia, ma che permette alla gente di Burgdorf di ridurre i viaggi. Il legno proviene dalla regione dell’Emmental, l’energia dovrebbe essere prodotta il più possibile dagli edifici. La progettazione dello spazio esterno è stata affidata a un architetto paesaggista, in modo che gli studenti potessero concentrarsi sugli edifici: uno nuovo e uno vecchio da rinnovare, entrambi da gestire in modo economico e adeguati alle esigenze, a partire dal linguaggio architettonico, fino alla costruzione e all’utilizzo di energia. L’ingegnere del legno Daniel Indermühle di Thun ha dato supporto all’atelier con le sue conoscenze.

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Progetto di Sibel Kardelen Yayan, studio abbinato alla professione, 6° semestre Il grande tetto fotovoltaico evoca la domanda: a cosa servirà tanta energia per uno spogliatoio e un ristorante ? Risposta: per le onde stazionarie sull’acqua proprio lì ­davanti ! La studentessa ha integrato nel progetto una centrale elettrica che produce dal 60 all’80 per cento dell’elettricità necessaria. La tipologia dell’edificio è agricola e fa al contempo un raccolto di energia solare. La costruzione in legno, lunga e finemente strutturata, combina tutti gli elementi di utilizzo richiesti in un’unica unità. Sotto il grande tetto c’è spazio per tutti i servizi offerti ai visitatori di breve permanenza: reception, spogliatoio, docce, armadietti, ristorante, chiosco e lounge. Il nucleo semplice è protetto dalla struttura del tetto in filigrana. La studentessa ha ottimizzato la snella struttura di supporto a livello parametrico. Per tutta la lunghezza dell’edificio, interno ed esterno si fondono l’uno nell’altro. Le fasce di vetro trasparente nella zona delle capriate creano una straordinaria luminosità sotto l’impianto fotovoltaico integrato nel tetto. La casa di campagna barocca e ristrutturata accanto all’edificio è destinata ai surfisti: ci sono un negozio di surf e un atelier, un centro fitness e sale per seminari. Oltre allo spazio esterno, simile a un parco, il progetto offre agli abitanti un allettante centro di surf e un centro sportivo di qualità, che contribuisce ad aumentare l’attrattività della regione.

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Piante piano terra e piano superiore.

Vista e sezione trasversale.

L’elettricità solare come segnale: la struttura del tetto in filigrana supporta un impianto fotovoltaico come elemento di copertura.

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Politecnico federale di Zurigo ( ETHZ ), cattedra di architettura e di progettazione, Elli Mosayebi

La casa produttiva

« Che differenza c’è tra una casa riscaldata unicamente dai raggi solari e un edificio che sfrutta il calore residuo di un centro dati? Come progettare il clima interno di un’abitazione? Tutti i locali hanno la stessa temperatura o questa cambia nel corso dell’anno? La casa produttiva è una casa che funge da centrale elettrica, che produce e immagazzina energia. Il nostro intento è quello di sviluppare progetti modello che, tenendo conto di una determinata risorsa energetica, ripensino gli spazi e i materiali, sviluppando una forma abitativa specifica. A tale proposito distinguiamo quattro diversi tipi di energia: solare, geotermica, eolica e calore residuo. Lo spettro dei nostri progetti spazia da soggiorni aperti, inondati di luce, con un involucro sottile, a locali dalle pareti spesse, ombreggiati e massicci. La qualità specifica degli appartamenti, la convivenza dei residenti e il clima interno si sviluppano sulla base di descrizioni narrative. Con il progetto, uno scottante tema di politica climatica diventa l’opportunità di fornire contributi Sezione trasversale. architettonicamente rilevanti per il futuro dell’edilizia residenziale. Sono infatti proprio le abitazioni a generare un’elevata percentuale di emissioni di CO2 e di consumo energetico. » Tratto dal compito per il lavoro di semestre della primavera 2019, svolto in collaborazione con la cattedra di Architettura e ­Sistemi ­costruttivi di Arno Schlüter. Intervista con Elli Mosayebi vedi pagina 8.

Progetto di Larissa Strub, Jonas Haldemann, 6° semestre Con una serie di grattacieli ubicati sul confine sud della rete ferroviaria di Zurigo, i due studenti intendono promuovere la ventilazione rinfrescante della città nelle calde notti estive, mitigando l’effetto isola di calore. Sul grattacielo, un camino solare in vetro sfrutta le differenze di temperatura per creare una spinta ascensionale che fa circolare l’aria nelle immediate vicinanze. I residenti di questo grattacielo ascensionale vivono tra le masse di stoccaggio del sistema, che cambiano fun- Piano superiore. zione e temperatura a dipendenza del periodo dell’anno e dell’ora del giorno. D’inverno il camino solare chiuso è un tampone di calore che riscalda in modo passivo la massa di accumulo, riducendo il consumo energetico per il riscaldamento. D’estate il calore assorbito durante il giorno viene immagazzinato nelle masse di cemento grazie a un circuito ad acqua, in modo che di notte una pompa di calore possa estrarre il calore dalla massa di accumulo e azionare in modo attivo l’effetto camino. In ogni appartamento, all’interno di queste masse di cemento ad azione termica, si trova un serbatoio di energia termica, che attinge l’acqua dal ciclo di stoccaggio, rendendo così percepibili ai residenti le variazioni di temperatura quotidiane e stagionali. Dal profilo concettuale, il progetto è stato seguito dalla cattedra di fisica delle costruzioni di Jan Carmeliet.

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Serbatoio nella massa di accumulo.

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Per ogni progetto gli studenti disegnano una ‹ miniatura › che riassume la narrativa progettuale.

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Ubicazione tra Sihl e la sopraelevata autostradale.

Politecnico federale di Zurigo ( ETHZ ), cattedra di architettura e di progettazione, Elli Mosayebi

Illustrazione ( l’anello con i giardini è a metà altezza ).

Grattacieli

Nel semestre autunnale 2019, la cattedra ha dato il compito di progettare grattacieli come torri polifunzionali. L’utilizzo misto dovrebbe favorire l’urbanizzazione e la mescolanza sociale all’interno degli edifici. Al di fuori delle aree destinate ai grandi edifici, i grattacieli suscitano nuove visioni per Zurigo. Il semestre si è svolto in collaborazione con la cattedra di Joseph Schwartz ( cattedra di progettazione strutturale ).

Progetto di Lukas Brusch e Julian Meier, 7° semestre Per il loro grattacielo gli studenti hanno scelto un sito tra il fiume Sihl e la sopraelevata autostradale sul Brunau, segnando così un’importante via d’accesso alla città di Zurigo. Se oggi dal punto di vista tecnico la produzione di energia tramite impianti fotovoltaici è facile da implementare, l’immagazzinamento di energia rinnovabile resta una vera e propria sfida. Come una sorta di batteria del tutto originale, il fabbisogno energetico dei 224 appartamenti è coperto dall’energia solare in eccesso proveniente dall’area circostante. L’elettricità viene utilizzata per azionare dei verricelli a fune che sollevano un anello in calcestruzzo da 5600 tonnellate, immagazzinando l’eccedenza di ener- Sezione ( l’anello con i giardini è in basso, quindi la ‹ batteria › è vuota ). gia prodotta. In caso di necessità, l’anello si abbassa per rilasciare energia, analogamente alle centrali idroelettriche con impianti ad accumulazione. L’altezza dell’anello indica il livello energetico della ‹ batteria ›. Sull’anello ci sono dei giardini: gli appartamenti davanti ai quali viene a trovarsi la parte superiore dell’anello sono così dotati di un giardino comune. Nel cortile interno del grattacielo, i verricelli dell’anello mettono in tensione un performante tetto a tenda, che si apre o si chiude lentamente a dipendenza del consumo energetico, coreografando così l’uso dello spazio pubblico al piano terra. Dal profilo concettuale, il progetto è stato seguito dalla cattedra di Arno Schlüter. L’architetto paesaggista Daniel Ganz ha contribuito, con le sue conoscenze, al progetto di sistemazione a verde dei giardini dell’anello.

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Planimetria ( con l’anello dei giardini ).

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La miniatura mostra l’anello di cemento, sistemato a verde con terra e piante, che funziona come una centrale idroelettrica con impianto ad accumulazione.

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Giardini pensili con permacultura.

Politecnico federale di Losanna ( EPFL ), Emmanuel Rey

Concorso studentesco: Sostenibile è bello – L’abitazione attiva

Il concorso, aperto a tutti gli studenti di architettura del Politecnico federale di Losanna, si è svolto dal 2018 al 2019. La giuria era composta dal professor E ­ mmanuel Rey ( Presidente ), da Cyril Besson, Angela Clua Longas, Astrid Dettling, Raffael Graf, Sandra Maccagnan, ­Maria ­Cristina Munari Probst vedi intervista a pagina 11, Laure-­Emmanuelle Perret-Aebi e Philippe Vollichard. Agli studenti è stato chiesto di progettare uno o più edifici residenziali per un sito di Ecublens VD. Il concorso definiva standard elevati in termini di efficienza energetica e di utilizzo del fotovoltaico, ma anche in termini di morfologia urbana e di espressione architettonica. I progetti dovevano integrare il sistema di costruzione ‹ Advanced Active Facades › ( AAF ), sviluppato dal Laboratorio di Architettura e Tecnologie Sostenibili ( LAST ) nell’ambito del PNR 70 del Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica ( SNF ), in collaborazione con il Centro fotovoltaico del CSEM e la società H. Glass. Si tratta di un sistema costruttivo per facciate attive, composto da uno scheletro di legno prefabbricato autoportante sul quale vengono applicati un rivestimento interno, un isolamento termico a base di cellulosa e dei pannelli fotovoltaici personalizzati.

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Facciata ‹ a squame ›.

Percorso del sole.

Progetto vincitore ‹ L’alchimista ›: studenti Grégory Dos Santos, Sébastien Lorenzini, Nordine Mahmoudi e Tobias Richterich, 7 ° semestre   A livello urbano, il progetto cerca di differenziarsi in modo netto dalle case unifamiliari limitrofe. Il design audace e radicale concentra tutte le componenti del programma in un unico edificio monolitico, creando lo spazio per un grande parco pubblico. L’edificio, di altezza significativa, è arretrato rispetto al limite del terreno, evitando così un ombreggiamento indesiderato. La geometria del volume enfatizza il percorso del sole. Entra in dialogo con la dimensione ben più ampia del vicino campus del Politecnico federale di Losanna ( EPFL ). Le tre facciate attive sono rivolte a sud, sud-est e sud-­ ovest, permettendo di produrre notevoli quantità di elettricità. Le due facciate rivolte a nord sono rivestite con imitazioni di pannelli fotovoltaici. I pannelli, posizionati come delle squame, sono tutti della stessa dimensione. Essi sottolineano con eleganza le diverse parti della facciata ( base dell’edificio, piani e sottotetto ), integrando l’altezza dei piani, le finestre e le logge. L’espressione uniforme che ne risulta sottolinea il carattere monolitico dell’edificio. La grande varietà di tipologie abitative e dei giardini d’inverno con permacultura sul tetto, offre ai residenti anche un luogo d’incontro intergenerazionale, rafforzando la sostenibilità socio-culturale ed ecologica del progetto.

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Terreno di fronte al campus dell’EPFL a Losanna-Ecublens, sulla destra.

Appartamenti di tipo B.

Appartamenti di tipo C.

Vista dal parco pubblico.

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Con il progetto della lampada solare a LED ‹Little Sun› vedi illustrazione, Olafur Eliasson porta la luce solare alle persone che vivono senza elettricità. L’artista danese di origine islandese (* 1967) vive tra ­Berlino e Copenaghen e si occupa di fenomeni ­fisici e di percezione umana. Nel 2003 ha raggiunto la fama internazionale con il ‹Weather project ›: un sole artificiale, che sorge nella ‹ Turbine Hall › della Tate M ­ odern di Londra. L’intervista con Eliasson ha avuto luogo nel gennaio del 2020 in o ­ ccasione della sua mostra al Kunsthaus di Zurigo.

« Il sapere da solo non basta » L’artista Olafur Eliasson è un ambasciatore dell’ONU per la protezione del clima. Un colloquio su esperienza ed emozioni, conoscenza ed effetto, speranza e azione. Nel 1999 ho osservato l’eclissi di sole totale. Il momento in cui d’un tratto tutto è diventato buio e freddo, ho pianto. Sa spiegarmelo ? Olafur Eliasson:  Spesso la reazione emotiva è legata più alle aspettative e ai ricordi che non al momento in sé. Credo che questo andamento temporale sia centrale per la comprensione di noi stessi e del mondo. Anche in una mostra ci sono aspettative, incontri e ricordi. Per me l’esperienza fisica è importante perché crea connettività, connessioni. Una percezione dal punto di vista fisico ed emotivo, che non solo crea chiarezza intellettuale, ma è come un vento, che dalla testa attraversa il corpo. È proprio questo che suscitano molte delle sue opere: toccano il livello emotivo del pubblico, ­generano emozioni. Come ci riesce ? Sono arrivato alla percezione spaziale attraverso la danza, attraverso la break dance. La storia della danza e le sue evoluzioni decostruttiviste mi hanno sempre interessato. La danza come possibilità di orientamento. Così è strutturato anche il mio lavoro, in modo che non lo si veda solo con gli occhi, bensì con tutto il corpo. Tuttavia, ci vuole un po’ di tempo prima di osare sperimentare il corpo come amplificatore della percezione completa dell’opera e non solo, molto razionalmente, gli occhi. In merito al cambiamento climatico, lei ha detto in ­passato che avrebbe tentato di convincere i cittadini a passare dal pensiero all’azione. Cosa ­dovrebbe fare la gente ? C’è sempre da imparare. I livelli di esperienza sono diversi: in riviste come la sua si possono trovare allestimenti di esperienze, messe in scena da giornalisti e fotografi. Questo ne toglie in parte la fisicità. Guardare l’immagine di un iceberg o toccarlo dal vivo, sono due esperienze molto diverse. Non è una questione di falsificazione o di verità, è solo una messa in scena. Sostengo tuttavia che il confronto fisico con le cose porti con sé un’esperienza e degli strumenti che ci invitano all’azione. Rendono più

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facile l’integrazione della fisicità nel pensiero. Spesso e volentieri pensiamo a ciò che vorremmo fare, eppure c’è una differenza tra il sapere e il fare. Nel suo libro ‹ Il clima siamo noi › ( Wir sind das Klima ), Jonathan Safran Foer la definisce ‹ fede ›, ma non in senso religioso: se sai qualcosa, hai già ottenuto qualcosa, ma ancora non ci credi. Per me, fare una mostra è un modo per fare un passo indietro: vorrei presentare in modo diverso ciò che sappiamo, magari per suscitarla, la ‹ fede ›. L’idea è quella che il sapere da solo non basta. Proprio come è capitato con l’eclissi di sole: la differenza tra conoscenza e esperienza è infinita. L’approccio alle sue opere è sempre diverso, la sua è una sorta di scuola della visione, spesso associata a fenomeni di luce: campagne, come quella della ­lampada solare ‹ Little Sun ›, foto documentaristiche ­sullo ­scioglimento dei ghiacciai, opere d’azione, come i blocchi di ghiaccio dei ghiacciai groenlandesi davanti alla Tate Modern. Qual è, secondo lei, l’approccio più ­efficace, che stimola di più all’azione ? È una domanda molto interessante. Ogni approccio è pluralista, ha una certa risonanza e ognuno ha la sua lingua, come il tedesco, l’italiano o l’etiope. Mi interessano molteplici forme diverse. Se fossi dotato per il cinema o la musica, farei anche quello. Purtroppo non ho alcun talento in questi ambiti. Il format della campagna proviene dalle ONG, che sono al di fuori delle classiche istituzioni artistiche, e crea una sorta di contratto con la società civile. Penso tuttavia che anche la fiducia della società nel DNA culturale sia importante. Che si tratti di musei, di club musicali o di circoli di scacchi, sono concentrazioni di fiducia create dall’uomo, come questo fantastico museo, il Kunsthaus di Zurigo. Naturalmente non rappresenta affatto la verità e ha anche i suoi lati oscuri, ad esempio l’esclusivismo con cui ci si deve confrontare. Lavorare all’interno di tali istituzioni mi rammenta ogni volta quanto sia bello poter lavorare in questo modo. Anche con il rischio che possa trattarsi di una bolla.  Intervista: Axel Simon

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L’insegnamento del solare Nelle scuole di architettura svizzere qualcosa sta cambiando. Sono sempre più numerose le cattedre che lasciano sviluppare ai propri studenti dei progetti in funzione del consumo di energia e delle emissioni di CO2. La responsabilità sociale non viene più perce pita solo in termini di estetica e di funzionalità, bensì anche di sostenibilità progettuale. La presente pubblicazione riunisce i progetti di studenti provenienti da tutta la Svizzera e dà la parola a quattro professoresse. Dimostra che la costruzione solare non è più soltanto una questione di necessità, ma di desideri, sogni e realizzazioni !


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