Il Giornale della Memoria n.07-2010

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con il patrocinio di

Settembre 2010 euro 2,00 OMAGGIO

BRIANZA Ottobre 1959, la Rai in Brianza per una nuova trasmissione

ALLEGRIA!

La puntata di prova di Campanile Sera nella piazza di Giussano gremita e con Enzo Tortora collegato. Sfida con Saronno. Da studio, Mike pronuncia la battuta che diventerà il suo marchio. Brianzoli sconfitti e beffati: non vanno in onda

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ronto Giussano, siete in onda». Così Mike Bongiorno collegato dal Teatro delle Vittorie di Milano. È la prima puntata di Campanile Sera, il nuovo quiz del giovedì che deve sostituire Lascia o raddoppia. Una puntata test, a beneficio dei vertici Rai riuniti in Corso Sempione. Secondo il gioco, una prova di abilità fra due paesi, i Brianzoli si opponevano a Saronno, cittadini dell’Alto Milanese. Durante la gara, la linea passa spesso alla piazza brianzola dove conduce un dinamico Enzo Tortora che presenta, sul palco, alcuni personaggi cittadini, come il comandante dei vigili Corbetta, con cui inscena un piccolo siparietto e la vecchia gloria calcistica Aldo Boffi. In gara, a Milano, il vernciatore Cazzaniga e lo studente del Ballerini di Seregno, Cassina. Ma alla fine, vince Saronno. E, colmo della beffa, la puntata non va in onda: giace ancora negli archivi Rai.

In questo numero PAG.4 Crudeltà su un cavallo Seregno sconvolta

Nell’ottobre del 1970, un animale destinato al macello si ribella. Massacrato a botte e lasciato agonizzante per ore PAG.5 1970, notte da incubo per due fidanzatini a Verano

Pistole puntate al vetro della 500, due balordi rapiscono lei. Tentando di stuprarla. Caccia all’uomo in tutta la Brianza PAG.6 1961, quando il Gran Premio non volle fermarsi

La Ferrari di Von Trips fa strage tra la folla alla parabolica di Vedano. Ma la gara prosegue fino alla fine

servizi a pag. 8

1975 Il dramma

1982

PAG. 12 L’Aldun che sfondava le reti. Un campione discreto

La festa

CRISTINA MAZZOTTI, QUANDO IL MONDO CROLLA A 18ANNI

FEDERICA MORO, QUELLA DICIOTTENNE DI SUCCESSO

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na notte spensierata di giugno, mentre rientra a Eupilio con due amici, dopo aver festeggiato in pizzeria la fine dell’anno scolastico, Cristina Mazzotti, 18 anni, figlia dell’industriale Helios, viene rapita da alcuni uomini armati. Pistole

spianate, hanno costretto la Mini su cui viaggiavano i giovani a fermarsi quindi, individuata Cristina, la chiudono nel bagaglio della loro auto e la portano via. Ritroveranno il suo corpo in una discarica del novarese ai primi di settembre a pag.10

a Carate Brianza a Sanremo, dal liceo alla tv. A fine agosto del 1982, la 18enne Federica Moro viene incoronata Miss Italia. Un successo inaspettato le piove adosso e, in breve, viene proiettata nel jet-set. È del 1 settembre la sua pri-

ma intervista brianzola. La concede a L’Ordine, il nuovo quotidiano monzese. A firmarla è un giornalista di punta di quel giornale, Luigi Losa, che oggi dirige il Cittadino. Nell’intervista la giovane Moro mostra già un discreto carattere. a pag.11

a rumore la politica lissonese, allora molto incentrata, come in gran parte della Brianza del resto, sulla Democrazia cristiana. Nottetempo, la cittadina del mobile è stata inondata di manifesti severi contro il partito, colpevoli di frenare lo sviluppo urbanistico di Lissone. Il che fece tuonare la segreteria cittadina della Dc.

«A parte il livore e insofferenza di questi “utili idioti” del partito del cemento», esordisce l’intervento, «non si riesce a comprendere il fine di questa azione, condotta sotto il segno del più ignobile anonimato». Sull’attacco al consiglio comunale, al sindaco e alla Dc, rei di non avallare lo sviluppo edilizio della città, «con falsi

PAG.14 Gente veneta. Fra nuove storie e ringraziamenti

Il numero scorso del Giornale della Memoria ha fatto parlare di sé fra i Veneti della Brianza. Nuove testimonianze PAG.15 Quando Cantù cambiò faccia. Le demolizioni

LISSONE 1970, NASCE IL PARTITO DEL CEMENTO Il cemento continua a dividere Lissone. Se nelle scorse settimane, il ritrovamento di una «cimice» negli uffici dell’assesorato all’Edilizia ha scatenato le polemiche, lo sviluppo cittadino aveva creato tensioni fortissime anche 40 anni fa. È il 9 gennaio 1970, quando sul Meridiano Lissonese, pagina interna del Cittadino, si dà conto di un fatto che mette

Storia del giussanese Aldo Boffi, dal campetto della Vis Nova alla maglia del Milan e della Nazionale. Un mito calcistico degli anni ’30 e ’40

palesi e insostenibili» e mostrando «il più rozzo e squalificato razzismo», il partito di maggioranza in consiglio comunale ha le idee chiare: «È il risultato», scrivono i Dc, «della campagna orchestrata dal partito del cemento, che non bada a spese pur di continuare a imperversare sulla città e sul tessuto urbano creando confusione e paura».

Nel 1932 una seria di grandi cambiamenti urbanistici investì il capoluogo del mobile. Piazza Garibali, detta «Granda», mutò volto. PAG.16 La Memoria? Abita qui La rete dei negozi amici

Dalla libreria di Seregno al bar giussanese, dall’edicola di Lissone alla tabaccheria di Alzate. Ecco dove trovarci.


La tragedia 1982 eroina killer a Veduggio

2 Settembre 2010

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Editoriale

Distruttori & costruttori Durante l’estate, esattemente il 6 agosto scorso, il critico letterario de La Stampa di Torino, Marco Belpoliti, ha provato a rifare il viaggio in Brianza che Stendhal compì nell’agosto del 1818, col suo amico milanese Giuseppe Vismara. Il giornalista in un singolare remake letterario, di chiara intonazione dissacrante, era tornato sui luoghi che Henry Beyle aveva visto - Giussano, Oggiono, Alserio - volendo anche annotare quanto fossero cambiati, e in peggio. Della città dell’Alberto, Belpoliti ricorda che l’autore de La Certosa di Parma e de Il rosso e il nero salì sul campanile, da cui ammirò il panorama. «Se oggi Stendhal dovesse risalire le medesime scale», chiosava Belpoliti, «non vedrebbe più nulla del genere per via dell’aria piena di polveri sospese. Quasi duecento anni dopo tutto appare immerso in una nebbia rossastra». Errore: oggi Stendhal non vedrebbe niente di quello che vide quasi due secoli orsono, semplicemente perché quel campanile non c’è più. Nel 1927, la furia modernizzatrice che percorreva la Brianza, abbatté la secolare chiesa per ricavarne una piazza. A cavallo degli anni ’30, in nome del nuovo, si rasero al suolo edifici di un certo pregio oltre che pezzi di borghi storici. Accadde a Lissone, come a Cantù (la cui storia raccontiamo a pagina 15). Ottant’anni dopo, ecco la furia costruttrice: edificare ovunque, in nome dello sviluppo, lasciando in malora vecchie cascine o case di cortile anche nei centri cittadini. Oggi come allora una soverchia indifferenza alla bellezza dei luoghi e alla loro storia. Una lezione che ci rifiutiamo di imparare. GdM

MUORE AI GIARDINETTI MA C’È CHI TIRA DIRITTO Buco fatale per un 16enne di Carate: lo trovano all’alba ma, dicono i Cc, molti avevano visto senza dare l’allarme

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a Brianza, in quei giorni, faceva i conti con un’ospite subdola e feroce, che entrava nelle case, prendendosi i figli più indifesi. Si chiamava, colmo della beffa, eroina, quasi fosse una donna capace di coraggio e virtù e invece era una scimmia, come si diceva allora, sulla spalla di tanti troppi ragazzi. L’11 settembre del 1982, era sabato e la gente, andando al bar, a fare spese o in fabbrica per la consueta mattinata di straordinario, mormorava di quel bagai morto per la droga il giorno prima. Un altro. Marino C. un ragazzo lo era davvero: 16 anni, caratese, brianzolo doc. Lo avevano trovato nei giardini di Via Vittorio Veneto a Veduggio. Era andato fin là per bucarsi con un amico più grande, A. Z., 28enne, di Carate anche lui. Li aveva visti qualcuno a terra, apparentemente esanimi, ma solo Marino era già morto: l’altro rantolava. Il buco fatale, secondo la ricostruizione dei Carabinieri di Besana, intevenuti al comando del maresciallo Giovanni Fazzini, era avvenuto intorno alle 22: i due erano arrivati con la moto di Marino e si erano appartati al buio. «Sul posto si sono iniettati una dose e si sono sentiti male», scrive L’Ordine della Brianza. Con loro ci sarebbe stata anche un terzo compagno che, capita la gravità della situazione, si sarebbe dileguato senza neppure dare l’allarme. A uccidere il giovane sarebbe stato il taglio dell’eroina: accadeva infatti

L’articolo dell’Ordine della Brianza che racconta della tragedia di Marino C.

che per “moltiplicare” le dosi, nella catena dello spaccio, si mescolasse spesso a gesso o a borotalco, a intonaco grattato dai muri, ma anche altre sostenze più velenose che, ne-

lel vene, potevano diventare fatali. Ma le cronache raccontano anche un fatto incredibile: «Ieri mattina all’alba diverse persone di Veduggio sono passate in zona e hanno

Il numero

QUATTRO i piani dai quali cadde, il 19 settembre del 1970 una bambina seregnese di soli cinque anni, Maria Selvaggi. Conclusione miracolosa di un’avventura drammatica, titolò il Cittadino, perché la piccola, incredibilmente ne uscì illesa. Scendendo, con un’amichetta, le scale dal decimo piano di uno stabile in via Gozzano 12, Maria scivolò, infilandosi fra la ringhiera di protezione e i gradini, precipitando per alcuni piani, «rimbalzando da un pianerottolo all’altro».

La storia MARIO E ALESSANDRO, CADUTI CHE LIMBIATE RIABBRACCIA

Continuavano a tornare, anche molti anni dopo. Erano i brianzoli caduti nella Seconda guerra mondiale. Man mano che la terra o la burocrazia ne restituiva i resti, i caduti rientravano a casa, dove c’erano ancora amici, familiari, coscritti pronti a piangerli. Fu così anche il 30 settembre del 1963, a Limbiate. Come raccontò L’informatore limbiatese, da Bari giunsero le spoglie del maggiore Mario Gatti e del soldato Alessandro Bogani. Entrambi erano caduti sul fronte greco-albanese e, probabilmente, il capoluogo pugliese era stata una tappa, dopo il loro recupero da qualche cimitero di montagna ellenico. Il tributo dei limbiatesi alle loro giovani vite, troncate anzitempo dalla follia della guerra, si ebbe da prima nella chiesa vecchia di Piazza Solari e poi nella chiesa parrocchiale, presenti tutte le associazioni d’arma e combattentistiche. «Chiediamo a Dio anzitutto e poi agli uomini», scriverà un anonimo redattore, «che tali sacrifici di milioni di soldati e di vittime civili non siano stati fatti invano e che noi ci meritiamo quella che pace che essi hanno già duramente pagato per noi».

fatto finta di niente», scrive l’Ordine, qualcuno ha visto i due corpi, a terra, ma non ha avuto il coraggio di avvisare l’ordine». Quando la notizia era arrivata, per Marino non c’era più nulla da fare. Se l’allarme fosse stato dato subito, forse la sua vita poteva essere risparmiata. Il suo corpo «è stato trovato dai carabinieri a ridosso di una ripa qusi cercasse di allontanarsi dalla morte». L’anonimo cronista chiude il suo articolo con un appello: l’episodio è solo la punta dell’iceberg di una tossicodipendenza crescente. «Ma se l’Alta Brianza, già teatro di delitti inenarrabili, non saprà bloccarli, ogni speranza di sottrarre giovani al male del secolo sarà vana». Secondo il quotidiano brianzolo «nel suolo besanese vi siano almeno sette-otto spacciatori», ma che nessuno pare avere la voglia «di denunciare come avviene in altre zone della Brianza». A fianco, un commento: «Parlare di una situazione “allarmante” è superfluo: il livello di diffusione del fenomeno è divenuto insopportabile. Non è più tollerabile che centinaia di giovani consumino nel nulla la propria esistenza trascinando nel vuoto intere famiglie». E si chiese che la politica anche localmente si muovesse, perché la repressione non bastava: «Le amministrazioni comunali si incontrino, discutano, facciano proposte operative». Prevenzione e recupero dei tossicodipendenti, si disse. Ma non un commento su quelli che a Veduggio avevano visto e deciso di tirare diritto.

La cronaca 1950 Seregno, paura al circo

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utti al circo! La sera del 4 ottobre del 1950, molti seregnesi accorsero in massa alla rappresentazione di un gruppo di acrobati, i Palmiri. Ma sul più bello, mentre gli artisti volteggiavano in numeri che strappavano degli “oh” di stupore, la tribunetta di legno cominciava a muoversi. Come riferisce il Corriere della Sera del 5 ottobre, «a causa del terreno umido, parte della copertura che sosteneva l’assito della platea cedeva e diverse persone cadevano dalle loro sedie». Le espressioni di ammirazione per gli acrobati lasciarono il posto a quelle di paura di quanti ruzzolavano a terra. Fortunamente, racconta il Corriere, «solo un po’ di spavento» e nessuna conseguenza per i caduti. Unico sfortunato il 29enne Antonio Pellegata che riporterà «contusioni giudicate guaribili in 10 giorni».

1960 Carugo, pompieri senz’acqua

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iamme in una notte di ottobre. Molte famiglie di Carugo, il 5 ottobre del 1960, vengono svegliate dalla urla e dal trambusto che arriva dal mobilificio dei Fratelli Turri. Sono le due e, affacciandosi alle finestre, molti vedono lingue di fuoco librarsi alte dai capannoni. L’incendio è minaccioso, come riporterà due giorni dopo il Corriere della Sera, e parrebbe anche poter attaccare le case. Panico. Chi ha il telefono in casa - nella Brianza degli anni ’60 non era certo scontato - fa il numero dei Vigili del Fuoco. Arrivano a sirene spiegate dalla non lontana Carate. Ma, come spiega il giornale, non possono far altro «che allontanae la gente dal luogo del sinistro, isolandolo e assistere impotenti alla distruzione del capannone, giacché nelle vicinanze non esistevano bocche d’acqua sufficienti ad attaccare l’incendio». Un mesto spettacolo che «si è prolungato fino alle prime luci dell’alba» e che ha comportato 25 milioni di danni, in compensati e legnami pregiati. Titolo del Corriere: «Ore d’incendio a Carugo con i vigili senz’acqua».


Il caso 1961, tributo dal Perù

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«QUEL PICCO SULLE ANDE SI CHIAMERÀ OGGIONI»

Settembre 2010

C Colo phone il Giornale della Memoria mensile di divulgazione storica www.giornaledellamemoria.it Registrazione presso il Tribunale di Monza. n. 1975 del 15/02/2010 Direttore responsabile: Giampaolo Cerri

Gli alpinisti sudamericani ancora commossi per la scomparsa dello scalatore di Villasanta sul Monte Bianco

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a lettera viene resa nota dal Cittadino del 9 settembre del 1961: il Club andinista peruviano, il corrispettivo del nostro Club alpino italiano, l’ha scritta allo scalatore monzese Bruno Ferrario: «Il ghiacciaio del Rondoy sarà intestato al suo collega Andrea Oggioni». Gli scalatori sudamericani scrivono a Ferrario, perché in cima al Picco del Rondoy c’era stato di recente. La dedicazione a un altro alpinista brianzolo, Andrea Oggioni, arriva sull’onda dell’emozione che ha colpito il mondo intero pochi mesi prima, il 16 luglio, quando il 31enne è morto di freddo e di stenti sul Monte Bianco. La vicenda aveva sconvolto l’Italia intera perché un’intera cordata era stata inchiodata dal maltempo sul Freney,il pilastro centrale del gigante alpino, insieme al grande Walter Bonatti, a Roberto Gallieni e ai francesi Pierre Mazeaud, Pierre Kohlmann, Robert Guillaume e Antoine Vieille. Italiani e francesi s’erano incontrati proprio sul massiccio, alla Bivacco della Fourche: erano bastate poche parole, pochi saluti e una passio-

ne in comune: raggiungere quella vetta inviolata. Farlo insieme, probabilmente, sarebbe stato più agevole. Era la notte fra domenica 10 e lunedì 11 luglio e tutti, italiani e transalpini, avevano in mente quel monte di granito di cui venire a capo. La scalata procedeva per il meglio: i sei alpinisti effettuarono un altro bivacco, questa volte in parete, la notte successiva e l’indomani, partiti di buon ora, raggiunsero al base del pilastro, a quota 4.500 metri. Si tratta della Chandelle, la porta da cui si può aggredire ancora la montagna, per circa 140 metri, e arrivare in cima al Freney. Era ormai mezzogiorno di martedì 12 e i francesi per primi avevano aggredito la Chandelle quando un tuono squarciò l’aria, accompagnato da nubi nere da Ovest. La spedizioni si bloccò lì. La pioggia e la neve durarono per giorni. Il gruppo tentò la discesa all’alba del 14 luglio. Ma sarà una discesa tragica: la neve fresca costa la vita a Vieille e Guillaume, caduti nei crepacci l’indomani. Poi, al Canalino dell’Innominata, il ghiaccio ingarbuglia le corde di Oggioni, mentre Kohlmann e Mazeaud davano segni di

Redazione Via Giusti, 32/c 20034 Giussano (MB) tel. 0362.285087 redazione.gdm@gmail.com

sfinimento. Bonatti e Gallieni procedevano alla ricerca dei soccorsi ma, che si pensava potessero essere alla Capanna Gamba. Ci arrivarono alle 3 del mattino ma quando,

con i soccorritori, ritornarono al Canalino, trovarono vivo solo Mazeaud. Per Oggioni, il lungo amore con la montagna, cominciato anni prima sulla Grigna, era finito.

La curiosità

Si ringrazia per l’amichevole collaborazione: Pietro Vismara, fotografo Progetto grafico e impaginazione: box313 (www.box313.net) Editore: Associazione Culturale Storia e Territorio Via Giusti, 32/c 20034 Giussano (MB) tel. 0362.285087 email: assostoria@gmail.com

IL CONTADINO IN VALASSINA La foto di Piero Vismara riporta una discalia semplice: «Settembre 1979, svincolo Valassina Briosco-Giussano, Renato Pozzetto». L’ex-cabarettista era in Brianza per girare uno dei suoi tanti film. Quale difficile saperlo: quell’anno toccò a La patata bollente, Tesoro mio, Giallo napoletano e Agenzia Riccardo Finzi.

La tragedia sfiorata PAUROSO CROLLO NEL CENTRO DI MONZA, OPERAI IN BILICO PER ORE A 15 METRI D’ALTEZZA La sicurezza sui luoghi di lavoro è tutt’oggi un problema aperto, figuriamoci mezzo secolo fa. Se oggi, le cronache sono spesso funestate da incidenti se non addirittura morti bianche; ferirsi o, peggio, perire sul lavoro non era troppo infrequente nella Brianza degli anni ’60 Ne è una testimionianza la tragedia sfiorata in un cantiere monzese: a causa di un crollo, due operai, feriti, rimangono per ore in bilico a 15 metri d’altezza. Ne dà notizia il Corriere Lombardo del 16 ottobre 1959. Il giornale, pur riportando la foto, non indica il luogo del fatto ma fornisce le generalità dei protagonisti e molti dettagli sull’incredibile situazione di pericolo in cui si sono trovati. Due operai, dopo il cedimento di una vasta parte dell’edificio che stavano ristrutturando, si trovano salvi ma feriti su una piano che non è largo più di 40 centimetri. Sono il monzese Dino Villa, allora 28enne, e il lissonese Giancarlo Brambillasca, di 30. Sono malconci: Villa ha una gamba quasi spappolata perché finita sotto un macigno. Nel loro precarissimo rifugio, il compagno di lavoro è riuscito ugualmente a prestare le prime cure al ferito: strappandosi la camicia aveva legato stretta la gamba sopra la ferita, in modo da fermare l’emorragia. Alla drammatica situazione assistono impotenti i compagni di cantiere, in attesa dei soccorsi. I vigili del fuoco di Monza, arrivati dopo poco, tentano vanamente di trarli in salvo: per salire dovrebbero appoggiarsi sul

hanno collaborato: Leandro Cazzaniga, Martina Cerri, Beppe Citterio, Daniele Corbetta, Doranna Fumagalli, Sergio Giussani, Walter Giussani, Annagrazia Internò, Gigi Molteni, Erminia Moretto (ricerche d’archivio), Daniele Villa

muro in cima al quale sono intrappolati i due ma la struttura è pericolante e le scale dei pompieri rischiano di farla venir giù definitivamente. Si deve allora far ricorso al comando di Milano, che invia un’autoscala lunghissima, capace di recuperare i due senza mettterne in pericolo la vita. «Il Villa è in gravi condizioni all’ospedale di Monza ma non si dispera di salvarlo», conclude il giornale.

Stampa A.G. BELLAVITE Via I maggio, 41 23873 Missaglia (Lc) Stampato su carta ecologica EFC, con inchiostri a base vegetale.


4 Settembre 2010

Cronaca 1970, incredibile storia di crudeltà sugli animali

SCENE DI FEROCIA IN BASSA BRIANZA Un cavallo destinato a un macello di Seregno, s’impunta. Due addetti lo prendeno a bastonate e lo lasciano agonizzare per ore nella corte. La gente, inorridita, chiama i vigili

SEREGNO 1970

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on si uccidono così anche i cavalli? Era il titolo di un film americano di media fattura degli anni ’70: più che la storia, firmata dal regista Sidney Pollack (e tratta dal libro di Horac McCoy), ebbe più fortuna come titolo o meglio per la sua traduzione italiana. Presentato a Cannes, nel marzo del 1970, è la storia di una coppia che si iscrive a una devastante gara di ballo, con l’America della Grande Depressione sullo sfondo. Quel titolo sarebbe venuto buono, nell’ottobre dello stesso anno, per una storia di ordinaria meschinità andata in scena per le vie di Seregno. La racconta il Cittadino del 10 ottobre e anche oggi suona quasi incredibile. Un macello di Via Colombo acquista un cavallo destinato alla triste fine: allietare con le sue bistecche le tavole di molti brianzoli. La carne di cavallo non piace a tutti ma ha un suo pubblico di appassionati e soprattutto è raccomandata alle persone anemiche, per la sua ricchezza di ferro. Fin qui tutto bene. O meglio, per gli animalisti tutto male: ancora oggi il fatto che gli equini possano finire nel piatto, inorridisce e sgomenta alcuni, ma tant’è. La storia di quarant’anni fa, putroppo, porta in sé un orrore che va ben oltre le posizioni di principio. Accade, in quella mattina d’autunno nella quale, a giudicare dalle foto e dalla luminosità del giorno, l’estate sembrava non voler cedere il passo, che da un allevamento di Zoccorino, di proprietà del brianzolo Luigi S., una bestia fosse condotta a Seregno per essere appunto macellata. Nulla si sa dell’animale: se fosse vecchio, se fosse stata una bestia da lavoro e che avesse terminato le sue fatiche terrene o se, al contrario, fosse stata allevata sui pascoli di Zoccorino - dove il solo illuminava la campagna e fa brillare le nevi su Resegone - per essere poi macellata. Sta di fatto che l’animale, la cui intelligenza è proverbiale, intuisce cosa stesse per accadere e quando l’autista, arrivato nel cortile della macellaria, cerca di farlo scendere dal camioncino, il cavallo punta le zampe come se fosse un mulo. Niente, non c’è verso di farlo uscire fuori. A dar man forte all’autista dell’allevamento allora arriva un addetto della macelleria che, con l’altro, si mette a tirare. Ma l’animale recalcitra: gli zoccoli stridono sul piano di legno, il muso resiste alle corde. Nel cortile risuonano le bestiemme e gli improperi dei due e i nitriti di sforzo e di paura della bestia. Finché i due uomini, sfiniti e infuriati, decidono di passare alle maniere forti: il cavallo non vuol scendere con le buone? Si prenderà una bella razione di randellate. Proprio così, si procurano ognuno un bastone nodoso e cominciano a picchiare sul muso e sulle zampe della bestie che, nell’angusto spazio del camioncino, non ha neppure lo spazio per difendersi. Urla e botte, scalpitio disperato, senza non poter neppure scalciare, senza nemmeno poter tentare una resistenza disperata. E così Seregno si trasforma in un teatrino tragico in cui due energumeni, che hanno la forza dalla loro, massacrano una povera bestia che resiste al suo destino. Che problema c’è? Si saranno deti i due: l’animale deve finire al macello, la sua sorte è segnata. Se non ne vuol sapere di scendere, peggio per lui. Sofferenze? Ma va là, sono bestie! E poi abbiamo da lavorare. Sotto le mazzate dei due infuriati, il cavallo piega le zampe anteriori, s’accascia semi-svenuto.

«Gli hanno fratturato la testa e gli arti anteriori», scriverà il Cittadino. Domata nel sangue la voglia di sfuggire il macello, la bestia viene trascianata dai due in un angolo del cortile. «L’equino è stato ridotto in fin di vita a bastonate e lasciato agonizzare per oltre tre ore agganciato a una corda ad un portone sotto gli occhi sgomenti di numerose persone», scrive il giornale monzese. Proprio così. Non è che i due energumeni, una volta piegata la bestia, l’avessero abbattuta subito. No, ognuno è tornato ad altre occupazioni, tutte evidemente più urgenti del colpo di grazia che il cavallo ferito meritasse. Ma anche quarant’anni fa, seppure la sensibilità verso gli animali non fosse certo spiccata come oggi, la gente aveva un cuore e la sofferenza gratuita, anche di un animale, era uno spettacolo insopportabile a molti. E succede che i tanti che si trovassero a passare dal cancello di quella corte sostassero inorriditi e scandalizzati. Forse qualcuno, si reca anche dai proprietari del macello, a protestare. Qualcun altro non può far a meno di fare un colpo di telefono in Comune, al comando dei vigili, raccontando il triste spettacolo che andava in scena, lì a due passi dal municipio. Il maresciallo Aldo Regolin, con un suo vigile, prende l’auto e va a vedere se le cose che più voci, al telefono, gli denunciano sono vere. E parcheggiata l’auto della municipale in prossimità

della corte, raggiungono l’indirizzo di Via Colombo. E capiscono come fosse tutto vero. Che i seregnesi indignati, quelli che avevano alzano il telefono, fra cui alcuni abitanti della corte, non hanno esagerato: il cavallo - grigio, a giudicare dalle foto - era adagiato su un fianco, sanguinante e respirava con fatica. Secondo il giornalista del Cittadino, i vigili fanno «in tempo a vedere l’animale spirare». Non si uccidono così anche i cavalli? No, non si ammazzano così neppure i cavalli, si dice il maresciallo Regolin, mettendo tutto a verbale.Un fatto che deve aver colpito la pubblica opinione, tanto è vero che, la settimana successiva, il Cittadino ripropone alcuni sviluppi della vicenda, inserendo anche la foto del povero animale agonizzante (che pubblichiamo sopra, ndr). L’aggiornamento della notizia è il seguente: il comando dei vigili urbani seregnesi ha deciso di trasmettere il rapporto dei ghisa intervenuti al Pretore competente, per verificare se e quali reati erano stati compiuti. Nelle settimane successive, i responsabili di quella mattina di follia sarebbero stati sanzionati con pene pecuniarie. Troppo poco - avrà commentato qualcuno dei tanti attoniti spettatori che, in quella mattina di quasi autunno, videro morire un cavallo senza nome - troppo poco: perché chi tratta male le bestie è pronto a far lo stesso, c’è da giurarci, con i cristiani


5 Settembre 2010

Una suggestiva immagine del film La Ciociara, con Sofia Loren, simbolo tragico della violenza sulla donna

Cronaca 1970, aggrediti due fidanzatini in 500

NOTTE DA INCUBO, RAPITA E SEVIZIATA quella pistola, quell’arma puntata metteva a Marco un sacro terrore. Chi sono? Cosa vogliono? Saranno balordi o criminali veri? Basterebbe un urlaccio a metterli in crisi o è gente spietata e pronta a tutto? Ragionamenti spezzati dal rumore della 500 che ingrana la prima e lascia il piazzale della Cava a tutta velocità. Marco si sente morire: il tempo di voltarsi e vedere i fanalini rossi della macchina allontanrsi con Anna dentro e di vedere una Giulia bianca, sgommare a poca distanza, forse guidata da un complice. Mezzanotte passata, freddo, la Cava deserta, le case lontane e soprattutto un paura matta per lei, per Anna. Corre, Marco, corre fino alla Valassina. È disperato: vede i fari di una macchina avvicinarsi, gli fa segno disperatemente, a rischio di essere messo sotto. Si spiega a fatica ma è convincente, il buon samaritano lo aiuta a lanciare l’allarme. «Si è fatto accompagnare alla caserma dei Carabinieri di Seregno», scrive il Corriere della Sera di sabato 17 gennaio, «dove ha denunciato il fatto. Da Desio, Milano e Como sono partite gazzelle dei Cc per la caccia ai malviventi». I militi trovano dopo qualche ora la macchina del veduggiese: è stata abbandonata per le strade di Seregno. E per strada, a Seregno, una gazzella dei Carabineri ritrova Anna che vaga, visibilmente sotto choc, di notte. «Mi hanno portato in un prato e mi hanno violentata», dirà inebetita agli uomini in divisa. Ha solo 17 anni, vive con la famiglia e quella che le sta capitando pare una vicenda troppo troppo

Lui era carino, cortese, un affabile corteggiatore. Studente all’Università di Pavia, faccia simpatica: anche se lei l’aveva conosciuto in Internet e per quanto fosse più piccolo di due anni (lei ne ha 23), accetta l’invito a uscire. Non si era stupita quando lui, una sera, era arrivato a Varedo, dove lei vive, anche con due amici. Due ragazzini più piccoli di lui, 17 e 18 anni, ma tutto sommato simpatici. Ne, lei, si era insospettiva quando l’avevano invitata a salire: «Dai, facciamo un giro», avevano detto ridendo. Ma quando lui, dopo un quarto d’ora di girovagare, ha puntato diretto la zona del campo sportivo, deserta a quell’ora di sera, lei ha capito tutto. Poco dopo la violentavano in due, mentre il terzo filmava col telefonino. È la sera del 6 agosto scorso. I Cc arresteranno il terzetto un mese dopo.

pesante da sopportare. La portano in caserma per prendere a verbale la sua prima deposizione. «Anna, che è stata interrogata a lungo dopo aver superato lo choc, non ha ancora reso una versione convincente di quanto è realmente accaduto dopo che aveva lasciato il fidanzato», scrive il Corriere, «alcune contraddizioni hanno lasciato perplessi gli inquirenti». Quarant’anni fa, come talvolta accade ancora oggi, quando una donna subisce violenza, ancor prima di conoscere i fatti e i loro svolgimento, si insinua, strisciante, l’idea che in qualche modo se la sia cercata. Specialmente se si è giovani, come Anna, e se ci si trova a mezzanotte in macchina col moroso in un luogo isolato. «Le reticenze della ragazza fanno pensare che il suo comportamento sia condizionato da qualche minaccia rivoltale dai suoi rapitori», scrive il quotidiano di via Solferino. Anna conosce i suoi seviziatori? Teme uno scandalo maggiore, rivelandone l’identità? Anna, a un certo punto, cerca anche di alleggerire la posizione dei

suoi rapitori: non l’hanno violentata, limitandosi a compiere degli atti osceni davanti a lei. Un cambio di versione che non convince «il capitano Iamoni, comandante della Comandante della Compagnia di Desio, che con i sottufficiali Capone e Vernò, sta conducendo l’inchiesta, non dispera di poter convincere la ragazza a raccontare tutto». E anche i genitori di Anna, arrivati nella notte da casa, che riabbracciano la loro figlia distrutta, in caserma, non paiono troppo convinti di questa ultimo passaggio, tant’è vero che - come racconta la cronaca - chiedono che la ragazza sia sottoposta ad accertamenti medici. Nelle stesse ore qualcuno è già a letto a casa sua ma forse non riesce a prender sonno per l’adrenalina che quella notte folle gli ha messo in circolo. L’indomani si presenterà a lavoro, tirato a lustro, come ogni mattina e commenterà con i colleghi, ai cancelli o alla macchina del caffè, quella storiacca della Cava di Verano, magari scuotendo il capo e commentando: «Se l’è cercata»

VERANO 1970

U

na sera fredda di gennaio. Forse un cielo stellato e due fidanzatini che cercano un po’ di intimità nella 500 di lui, nella Cava Borgonovo di Verano. Il 16 gennaio del 1970 è un venerdì e i due giovani sono usciti forse perché lui, che oggi chiameremo Marco, nome di fantasia, 22 anni, operaio di Veduggio, non lavora e si può fare un po’ più tardi. Due ragazzi rannicchiati nella 500 in una notte brianzola, un quadretto che vale un’epoca: a quante coppie oggi mature sarà successo. Ma quella notte, per lui e la sua ragazza, che oggi chiameremo Anna, di un paese della Bassa Brianza, fu una notte tragica, segnata dalla paura e poi, per giorni e giorni, dalla vergogna. Mentre sono lì a scambiarsi delle effusioni, nel vetro mezzo appannato, si sente battere come di un rumore metallico. Paura: i due si ricompongono. Al di là del vetro c’è certamente un uomo con una pistola e col volto imbavagliato, alla maniera dei banditi del Far West. Già, ma qui siamo a Verano in una notte di gennaio, non è un film. E ce n’è un altro, insieme a quello armato. Fanno cenno a Marco di uscire. Lui tituba ma i due sembrano maleintenzionati. Esce con le mani in alto. Con modi spicci lo fanno avvicinare a un muro e lo tengono lì a guardare il buio, distante dall’auto, sotto la minaccia di una pistola: «Non ti muovere». Secondi di terrore, rabbia, voglia di reagire: Anna è là, in balia di questi matti, che le faranno? Forse se lui tentasse una reazione, un gesto, un grido forse si sentirebbero minacciati, forse desisterebbero. Ma

A FUTURA MEMORIA

Una coppietta di giovanissimi si apparta in auto nella Cava di Verano in una notte di gennaio. Due armati bussano al finestrino e si portano via lei. La ritrovano i Cc sotto shock


6 Settembre 2010

Tragedie Monza 1961 la Ferrari vola fra la folla

QUANDO IL GP NON SI FERMÒ

MONZA 1961

Il tedesco Wolfgang Von Trips, girando nella parabolica di Vedano, viene tamponato da Clark e finisce fra gli spettatori uccidendone 15. Morti e feriti ma la gara continua di Daniele Corbetta

L’

automobile scappa dal circuito, evadendo dalla prigione in cui si trova. Le reti non hanno abbastanza coraggio per reggere lo scontro con il bolide impazzito che lascia senza scampo ben sedici persone. Tra loro c’è anche Roberto Brambilla, che a soli sei anni se ne va con il padre Mario a causa di un tragico incidente. Ci sono anche due giovani fidanzati di Biella, falciati dal mezzo, così come Augusto, Rinaldo, Franca e Claudina, giunti dalla Valle d’Aosta per una giornata di festa e destinati a un tragico appuntamento con la morte. In ultimo c’è anche Wolfang Von Trips, pilota tedesco della Ferrari, al volante dell’auto uscita di pista. È il 10 settembre 1961 e il Gran Premio di Monza è il teatro di uno dei più gravi incidenti della storia della Formula 1. Il sabato precedente è proprio Von Trips ad entusiasmare la folla, cogliendo una spettacolare pole position e inserendosi di diritto nella lotta per i pretendenti alla vittoria del Gp d’Italia. Non solo: il tedesco dalle nobili origini, soprannominato «Taffy» è in corsa per il titolo Mondiale e detiene la prima posizione con due gare ancora da disputare, a Monza e negli Stati Uniti. L’atmosfera è carica e la risposta brianzola sulle tribune è di quelle da record, come sottolinea la Gazzetta dello Sport «un pubblico che a Monza si era visto poche vol-

Wolfgang Von Trips morto a 33 anni. Sopra la sua Ferrari in pista. A fianco le immagini dell’incidente

te»: sole e caldo fanno il resto, allestendo tutti gli elementi necessari per mandare in onda una giornata di festa sportiva, che purtroppo non arriverà mai. Al secondo giro, presso l’imbocco della curva parabolica di Vedano, la Lotus di Jim Clark tampona ad ol-

tre duecento chilometri orari la Ferrari numero quattro di Von Trips, scatenando una spirale infernale. Il bolide rosso sfreccia senza controllo verso il terrapieno, manda in mille pezzi la leggera rete metallica di protezione e si abbatte come una furia sugli spettatori increduli. Do-

po cinque o sei testacoda, sospesi fra terra e aria, che colpiscono altri tifosi, la carcassa della 156 sceglie fatalmente di tornare nel suo habitat, la pista. Ma è troppo tardi. Von Trips è sbalzato fuori dall’abitacolo subito dopo l’uscita: il suo corpo esanime fu ritrovato a venti metri


I superstiti LUIGI E LUIGI, GLI UNICI SALVI FRA POLVERE E SANGUE

Taffy e gli altri Insieme al pilota tedesco di Horrem,Wolfang Von Trips, morirono nell’incidente anche un cittadino svizzero, Franz Waldvoger e gli italiani Albino Albertini, Mario Brambilla, Roberto Brambilla, Franca Dugued, Luigi Fassi, Luigi Freschi, Rinaldo Girod, Giuseppina Lenti, Luigi Motta, Paolo Perazzone, Claudia Polognoli, Augusto Camillo Vallaise, Laura Zorzi, Renato Janin. Fra loro un gruppo di sportivi arrivati fino a Monza dalla Val d’Aosta.

dal luogo dell’impatto, inesorabilmente adagiato sull’asfalto nero. E Clark? Nessuna grave conseguenza per il pilota britannico. Un disastro terribile, che tuttavia non ha la forza di fermare il Gran Premio. Uno dopo l’altro, ignari, abbandonano la corsa anche le Ferrari di Baghetta, Rodriguez e Ginther: la gara si trasforma in un triste ed inconsapevole monologo di Phil Hill. Lo statunitense taglia il traguardo per primo, cogliendo il prestigioso successo nel XXXII Gran Premio d’Italia e diventando Campione del Mondo 1961. Fu una delle vittorie più nere della storia dell’automobilismo: Hill, sceso dall’auto, chiese preoccupato a meccanici e dirigenti «E Trips? È morto?». «No, vieni ti vogliono alla premiazione». Sorrisi, strette di mano, champagne e inni nazionali, quello statunitense per Hill, l’italiano per la Ferrari di nuovo campione del Mondo. Ma la stessa macchina aveva causato sedici morti. Quando Hill scese dal podio e incrociò gli occhi del direttore sportivo del cavallino non fu necessaria alcuna parola. Il neo iridato comprese piangendo di aver perso un amico. Monza è costretta ancora a rendere omaggio ai propri defunti, proclamando nuovamente il lutto cittadino, poco più di un anno e mezzo dopo la tragedia del disastro ferroviario del 1960. E per la seconda volta sui pennoni dell’Arengario la bandiera italiana e quella della città sventolano mestamente a mezz’asta

Luigi Sirtori e Luigi Paleari furono due brianzoli superstiti nel terribile incidente Von Trips. Il primo, l’unico monzese coinvolto nel sinistro, racconta la sua incredibile esperienza al Cittadino del 23 settembre: «È proprio un miracolo se io e mio cognato oggi siamo ancora vivi». Sirtori, 56enne, spiega di essersi recato all’autodromo quasi per caso, dopo molti anni di assenza, per accompagnare il cognato, Paleari, all’epoca 51enne, di Villasanta. «Per meglio leggere i numeri delle macchine sono arretrato di circa un metro dalla rete di protezione, sovrastando con la mia statura le teste dei vicini», racconta. Improvvisamente «uno schianto e ho sentito una vampata, come di ferro rovente, passarmi sul viso, nel mentre venivo immerso in un polverone. Non fossi arretrato di quel metro scarso, anche per me sarebbe stata la fine». Al contrario Palerai si era «accucciato, per riuscire a vedere attraverso uno spiraglio fra gli spettatori in prima fila». Anche per lui nessuna conseguenza, eccetto un sasso che lo ha leggermente ferito al capo. Nel frattempo, l’inferno: «Non appena diradatasi la nube di polvere abbiamo visto l’orribile scena. Quelli che pochi istanti prima erano a nostro stretto contatto si trovavano tutti a terra ammucchiati, morti o feriti, chi mutilato e chi orrendamente sfigurato. Di quel gruppetto solo noi due eravamo rimasti in piedi e salvi».

LA PRIMA VOLTA DI MONZA IN FORMULA 1 Sessant’anni fa, debutto in Brianza del campionato destinato a fare storia. Una corsa da batticuore, vinta dall’Alfa Romeo

S

ilverstone, Montecarlo, Indianapolis, Bremgarten, Spa, Reims-Gueux e finalmente Monza: la neonata Formula Uno approda per la prima volta in Italia il 3 settembre 1950. All’autodromo brianzolo toccherà il compito di eleggere il primo Campione del Mondo della storia dei motori. Sono passati 60 anni da quando la Federazione Internazionale dell’automobile istituì il Campionato del Mondo di Formula 1 riservato ai piloti e indicando Monza come ultima gara in calendario: il seguito dell’automobilismo, in termini di pubblico, era in continua crescita, perciò ci fu la creazione di un campionato a punti, scegliendo sette circuiti che già avevano segnato la storia di tale sport. La data di nascita del Campionato è dunque il 13 maggio 1950, a Silverstone. Il momento clou, l’apice di questa prima competizione è però nel capoluogo brianzolo, come ricorda il Cittadino del 26 agosto 1950 «l’autodromo di Monza vivrà il 3 settembre prossimo una delle sue più grandi giornate, in occasione del XXI Gran Premio d’Italia». Le premesse erano delle migliori: la «squadra delle tre F» era pronta a dar spettacolo e lottare per il titolo iridato. Juan Manuel Fangio si presentò a Monza in vetta alla classifica con 26 punti, seguito da Luigi Fagioli con 24 e da Nino Farina con 22. I tre piloti correvano per l’Alfa Romeo, assoluta dominatrice con l’Alfetta 158, senza rivali nell’annata in corso: il Campione del Mondo sarebbe uscito da questo tris di nomi. Ferrari e Talbot sono le mine vaganti, pronte a scompigliare la gara e ben comportatesi nelle competizioni non rientranti nel circuito Formula Uno. Continua il Cittadino: «Non si assisterà ad una corsa in famiglia ma a quella gara che le folle desiderano: ad una vera e propria battaglia senza quartiere fra campioni di grande classe». Fangio parte in pole, seguito dalla Ferrari di Ascari, davanti a circa 70 mila spettatori desiderosi di festeggiare un campione del Mondo italiano: la Rai trasmette l’evento in tutta Italia e anche radio argentine e brasiliane mandano in onda la cronaca. Al via è Farina a bruciare tutti, dando il via ad un duello Alfa-Ferrari con la rossa di Ascari, il quale prende il comando della gara durante il 15mo giro. Al 22mo il pilota del Cavallino sarà costretto a ritirarsi per un guasto. Ma la Formula 1 delle origini riserva sorprese: Ascari raggiunge i box a piedi e continua la corsa sulla vettura del compagno Serafini, fermo per rifornimento. Stessa sorte capita a Fangio: ritiratosi al 24mo passaggio per la rottura del radiatore, continua il Gp al volante dell’altra Alfa Romeo di Tanuffi («tra i fischi di disapprovazione del pubblico», come scrive il giornale), prima di prendere la via dei box definitivamente, per un guasto. Tra ritiri e colpi di scena la bandiera a scacchi sorrise a Farina, davanti ad Ascari e a Fagioli: il torinese diventa così il primo campione del mondo nella storia della Formula 1. L’alloro più importante è consegnato per la prima volta ad un pilota italiano, al volante di un’automobile italiana e su un circuito italiano. Brianzolo per esser precisi

7 Settembre 2010

D

Di chi si parla

Il fatalismo del Cittadino Terminato il fracasso e attenuatasi l’indignazione per delle morti così atroci si inizia a riflettere sulle cause dell’accaduto, aprendo un dibattito pro e contro le misure di sicurezza del circuito di Monza. Il Cittadino del 16 settembre fa subito capire la propria posizione in merito alla vicenda, attribuendo la sciagura esclusivamente al destino avverso: «Se dovessimo far correre le macchine per quindici giorni e quindici notti consecutive, la tragedia non si ripeterebbe. È una tragica fatalità, che ha condotto la macchina di Von Trips contro la protezione del terrapieno e contro la rete. La stessa fatalità che fa crollare una casa e seppellisce uomini, donne e bambini». Pensiero è rimarcato anche dopo i funerali delle 16 vittime: «Colpa della fatalità piuttosto che della spericolatezza dei corridori o di eventuali insufficienze protettive lungo la fatale pista». Nel 1961 il pensiero comune fra monzesi e addetti ai lavori era che il circuito fosse il più sicuro del mondo, come fatto emergere dalle dichiarazioni di diversi corridori. Un’idea nata dopo il disastro del 1928, quando la Talbot di Emilio Materassi, sul rettilineo davanti alle tribune, sbandò e piombò sulla folla inerme, provocando 21 morti e quaranta feriti. Da allora, grazie ad un rinnovato sistema di sicurezza, non si verificarono più incidenti che coinvolgessero degli spettatori. Fino a quel maledetto 10 settembre 1961, che rimise tutto quanto in discussione.


8 Settembre 2010

Spettacolo. 1959 la Rai del biancoenero scende in una piazza giussanese ma l

BRIANZA FU

Per la trasmissione di prova di Campanile sera, quiz del giovedì ch la Città dell’Alberto. Mike in studio a Milano e Tortora nella Piazza

GIUSSANO 1959

P

ronto Giussano, state apparendo sui nostri schermi», la voce di Mike Bongiorno arriva distinta nella Piazza San Giacomo, dove alcune centinaia di persone stanno disciplinatamente dietro un lungo transennamento. Guardano, di fronte a loro, un ampio palco che dà le spalle a Villa Mazzenta e a quello che i giussanesi chiamano il Casone, dove avrebbe vissuto il mitico Alberto del Carroccio. È una prima nazionale: Campanile sera, il programma destinato ad ereditare la scena e i trionfi di Lascia o raddoppia. E la televisione, la tv in bianco e nero che si vedeva nei circoli e in poche case borghesi, aveva scelto la Brianza per un debutto del genere. Siamo alla fine di ottobre del 1959. Peccato che quella prima mitica puntata, quella festosa piazza brianzola, fossero destinate all’oblio e al seppellimento nelle Teche della Rai: si trattava di un test, di un numero zero, di una prova da mostrare ai dirigenti che, dagli studi di Corso Sempione, sede milanese della tv di Stato, dovevano successivamente dare l’ok alla messa in onda del nuovo programma. La sigla è nello stile dell’epoca: disegnata su cartelli con le scenografie artigianali della Rai degli inizi. Poi appare Bongiorno, giovanissimo, con la sua faccia rassicurante, che tiene la scena con un lungo discorso introduttivo. I tempi, nella tv di allora, erano meno sincopati di quelli dell’attuale, ma tant’è. Con un lungo prologo, il già Mike nazionale nega metodicamente il motivo per cui la trasmissione nasce e prende persino il titolo: il campanilismo. «Conosceremo dei paesi», spiega, «entreremo nelle loro piazze, ci affezioneremo. Ma non dobbiamo fare del campanilismo: nessuno è peggiore o migliore per il fatto che risponda in meno secondi a una domanda». Un appello rilanciato anche ai contendenti di quella sera: Giussano, appunto, cui si contrapponeva Saronno. Brianza contro Alto milanese, sfida lombarda e sanguigna. In studio, il mitico Teatro delle Vittorie, secondo la formula del gioco, una rappresentanza dei paesi in gara. Per Giussano si presenta un giovane liceale di 17 anni, Giulio Cassina. Studia al Ballerini e si presenta in un impeccabile completo scuro, pronto a rispondere a domande sulla musica leggera. Sarà proprio lui a sfidare il bidello di Saronno sulla cultura generale. «Mi dica almeno due degli autori di queste opere», chiede Mike, «La Mandragola, La Moschetta, Il Negromante». Facile, per uno che fa il Classico, indicare le firme delle prime due: «Machiavelli e Ariosto». Risposta esatta e dalla piazza giunge il primo scrosciante applauso. E arriva il momento di gloria per la cittadina: la linea passa a Giussa-

Immagini della trasmissione: in studio, Mike fa le domande ai rappresentanti. Le piazze sono collegate


la storica puntata non si vedrà mai

UORIONDA

he avrebbe preso il posto di Lascia o raddoppia, era stata scelta a S.Giacomo. Sconfitti da Saronno e beffati: immagini archiviate no, col già citato «pronto» di Mike, quasi fosse al telefono. Sul grande palco brianzolo, saltella, frizzante, Enzo Tortora. Viene dall’esperienza di Telematch, trasmissione che si svolgeva proprio nelle piazze. Con lui, a fare l’inviato c’è Renato Tagliani, altro personaggio sulla cresta dell’onda in quegli anni e poi declinato. «Due bravi ragazzi», li definisce da studio Mike, praticamente coetaneo di entrambi, ma che gioca a fare la star. Tortora ravviva il collegamento con qualche espediente da presentatore consumato: chiama il capo dei ghisa brianzoli, il mitico Corbetta. «Che a più di sessant’anni gira ancora in bicicletta», dice introducendolo. Battuta che dimostra come, nell’Italia degli anni 50, le sessanta primavere fossero considerate il giro di boa della vecchiaia. Il comandante Corbetta, di anni ne ha 67 e, alla chiamata di Tortora, inforca la bici, pedalando da un angolo della piazza fin sotto il palco. Con un gag sicuramente studiata, il presentatore chiede di curiosare nel borsello del vigile urbano, fino a trovare il blocchetto delle multe. Tortora le legge alla piazza: «Tremila lire, mille lire. Ah, qui c’è un semaforo rosso non rispettato». Poi la battuta: «Corbetta, lei ha fatto la guerra di Libia, cosa le scrisse il suo capitano quando si congedò». Il ghisa risponde pronto: «Tanto ha dato senza nulla chiedere». Una risposta che lancia la battuta del presentatore: «Ma se qui ha chiesto mille lire per una multa!». La folla ride fragorosa a quell’umorismo lieve, centratissimo per l’Italia di mezzo secolo fa. Poi, rivolto al ghisa, una domanda a bruciapelo: «Se lei vede una coppia di fidanzati baciarsi su una panchina dà loro la multa?». Risatine in piazza S.Giacomo. Il capo delle guardie sfodera un buonsenso tipico della Brianza: «Dovremmo fargli 500 lire di contravvenzione», premette,

ligio al regolamento, «ma se non danno spettacolo e si vogliono bene, lasciamo correrre». Applausi. Tortora, poi, passa a presentare il tavolo degli esperti che, secondo la formula di Campanile sera, devono concorrere con prove di abilità varia. «Giussano, 13.500 abitanti e nessun disoccupato», dice il futuro inventore di Portobello, «13mila sono a lavoro e gli altri 500 qui con noi». A testimonianza della laboriosità brianzola e volendo segnalare una particolarità nazionale della città, presenta uno degli esperti come un industriale «che fila a partire dal crine di cavallo, importato dalla Manciuria», nella lontana Cina. Quindi accenna alle altre celebrities cittadine: un’aspirante hostess dell’Alitalia, un pubblicista, fino ad arrivare a un mito vero, il calciatore Aldo Boffi. Dinnanzi alla stella calcistica, Bongiorno riguadagna la scena, da studio. «È vero che lei sfondava le reti?», l’Aldo nazionale (cui dedichiamo un servizio a pagina 12-13), arrivato ai vertici negli anni 30 con la maglia del Milan, ridacchia: «Sì, qualcuna che era un po’ andata». Mike giogioneggia: «Boffi, da bambino facevo il tifo per lei», urla quasi dal Delle Vittorie. E quando Tortora, di rimando, dice di averlo avuto fra le sue figurine, Mike vuole avere l’ultima battuta: «Ma quella di Boffi ne valeva dieci». Ormai padrone della scena, il presentatore introduce il «portavoce di Giussano, il signor Radaelli», il quale, salutando, tradisce un’evidente emozione. Da studio, SuperMike lo bacchetta: «Siete tutti molto presi, eh. Sorridete però. Allegria!». I giussanesi, inconsapevoli, avevano assistito alla nascita del celebre motto del Rischiatutto. Di lì a poco, arriva la prova per gli esperti: una somma fra vari addendi da rintracciare nella cultura italiana e nell’attualità. Dal Delle Vittorie, Mike scandisce bene: c’è da

Catodo pedagogico LA TV PER CONOSCERE L’ITALIA La prima puntata di Campanile sera andò in onda il 5 novembre del 1959 (fino al 1962) sul Programma nazionale, l’unico nella Rai dei primordi. Si trattava di un gioco di abilità che contrapponeva due cittadine, di qui il riferimento al campanile, e andava in onda il giovedì alle 21, nel giorno e nell’orario del Lascia o raddoppia, lo storico e fortunatissimo quiz che aveva portato Mike Bongiorno alla notorietà. Con lui, che dirigeva da studio, c’erano uno scalpitante Enzo Tortora e Renato Tagliani a cui, successivamente, sarà preferita la giovane Enza Sampò. Fu anche il primo programma che fece conoscere l’Italia agli Italiani, cui era proposto, all’inizio della puntata, un filmato introduttivo dei paesi in gara, mostrandone la geografia, le tradizioni, la storia. L’idea veniva dalla radio, dove era già andata in onda la serie de Il gonfalone, e fu poi esportata in Francia, dove prese il nome di Intervilles, a cui si ispirerà, negli anni ’70, la fortunatissima Giochi senza frontiere. Molto apprezzata, Campanile sera ebbe anche qualche giocatore di rilievo, come lo scrittore Beppe Fenoglio che, non ancora consacrato come autore nazionale, gareggiò infatti per Alba.

sommare «il numero di figure umane dipinte da Giotto nella Fuga in Egitto, che sta agli Scrovegni», quello delle parole, «escluso titolo, che formano i primi quattro versi del Bove di Giosuè Carducci» più, ancora, «il numero dell’articolo del nuovo codice della strada in cui si definisce il velocipede». Il che scatena gli esperti giussanesi nelle ricerche su manuali ed enciclopedie. In un attimo, il Redaelli scrive alla lavagna i vari numeri: 8, 23, 23 totale 54. Ma Milano gela la piazza: «Non è esatta». Infatti, i personaggi giotteschi degli Scrovegni sono sì otto, ma i versi carducciani assommano a 32. Brusio di delusione dalla folla, tanto che Tortora non sente Mike. Nelle domande da studio, i brianzoli provano a rovesciare il punteggio. Schierano il preparatissimo Cazzaniga, di professione verniciatore. Tortora, dal palco, gli mostra Giuseppe Barzaghi, detto Menude, calzolaio in città, che promette un paio di scarpe gratis al suo concittadino se risponderà correttamente. E Cazzaniga le azzecca tutte. Pulsante alla mano brucia il rappresentante di Saronno. Chi ha vinto il Giro Lombardia nel 1959? Van Loyd. Il Festival Sanremo 1958? Saronno sbaglia, Cazzaniga ricorda correttamente Domenico Modugno: «Nel blu dipinto di blu». E a quale città corrisponde la targa «Erregi»? Ancora Giussano: «Ragusa». E il brianzolo si dimostra ferratissimo anche sul cinema: «In quale film compare il personaggio di Zampanò?». Come dimenticare Antony Quinn ne La strada di Fellini. Ma sulla città in cui è morto l’attore Errol Flyn, Saronno si impalla. Giussano sbaglia, mentre sul nome artistico di Toni Lardera, vale a dire Dallara, i brianzoli guadagnano un altro punto. La sfida si fa avvincente: ora le due squadre finiscono in cabina, per le domande finali. Tocca alla domanda numero 3. se indovinano vanno a quota 5, a un punto da Saronno.«Su quale fiume sorge la città di Tarascona?» Cazzaniga non vaccilla: «Il Rodano». Mugugna, un concorrente saronnese da studio: «Ho sentito suggerire dalla piazza». Scatta la reprimenda di Mike: «Mentre si fanno le domande, si toglie l’audio». Tocca agli altomilanesi la domanda di zoologia: «Quale noto animaletto è definito Sciurus vulgaris?». Quelli di Saronno non sbagliano, si tratta dello scoiattolo. Risposta esatta e vittoria matematica. Mike chiude velocemente. Le telecamere non ritorneranno su Piazza S.Giacomo dove è facile immaginare un po’ di mestizia. A rendere ancora più agra la sconfitta, la mancata messa in onda: per il ghisa Corbetta, il verniciatore Cazzaniga, il liceale Cassina nemmeno il quarto d’ora di celebrità, nemmeno la possibilità di entrare nella storia di della televisione italiana. Aldo Boffi, quello che sfondava le reti, lui la gloria l’aveva già avuta

9 Settembre 2010

D

Di chi si parla

Portobello drammatico Sembrava una carriera brillantemente avviata quella di Enzo Tortora. Il giornalista genovese, classe 1928, dopo Campanile sera, era approdato alla Domenica sportiva, conoscendo negli anni ‘60 la sua massima notorietà. Ma proprio al culmine della carriera - Tortora, oltre al programma sportivo, conduce i quiz Bada come parli, alla tv, e Il gambero, alla radio inciampa in un incidente diplomatico: critica i vertici Rai in un’intervista al settimanale Oggi e viene licenziato. Siamo nel 1969, Tortorà potrà rientrare a Viale Mazzini solo nel 1976, con lo storico successo del mercatino televisivo di Portobello. Ma di nuovo in una fase ascendente della sua carriera, Tortora deve fermarsi. Stavolta non perde solo il programma ma la libertà: un giorno di giugno del 1983, trova i carabinieri ad aspettarlo all’uscita dell’albergo: arrestato per associazione camorristica e spaccio di droga. Lo accusano tre pentiti napoletani, uno dei quali coltivava un astio personale contro il presentatore perché, proprio a Portobello, erano stati smarriti dei centrini fabbricati in carcere e che nella trasmissione dovevano essere venduti. Tortora rimane in carcere per un anno, fino a che, eletto al parlamento europeo nelle fila radicali, ottiene l’immunità. Dopo un’iniziale condanna a 10 anni, il presentatore rinuncerà alle sue guarentigie di eurodeputato e verrà arrestato nuovamente ma gli verranno concessi i domiciliari. Assolto con formula piena in appello e in Cassazione nel 1987, anno in cui torna in Rai, di nuovo con Portobello. Ma l’esperienza ne ha minato il fisico: muore il 18 maggio 1988 per un tumore.


10 Settembre 2010

In una foto di Pietro Vismara, la Mini su cui viaggiava Cristina Mazzotti la sera del sequestro

Cronaca 35 anni fa, rapimento in Alta Brianza

IL CALVARIO DI CRISTINA

EUPILIO 1975

Una sera di giugno, mentre rientra a casa con alcuni amici, la 18enne figlia dell’industriale Helios Mazzotti viene rapita. Morta durante la detenzione e gettata in discarica

C

hi è Cristina Mazzotti», chiese l’uomo armato. «Sono io», rispose coraggiosamente lei. Furono le ultime parole che le sentirono pronunciare. La sera del 26 giugno 1975, la Mini Minor su cui viaggiava Cristina, di ritorno dalla festa di fine anno scolastico con gli amici, fu affianca da una Giulia e da una 125 Fiat che strinsero e fecero fermare l’auto su cui viaggiavano Cristina con due amici, un ragazzo e una ragazza, Carlo ed Emanuela. Di qui la necessità, per i rapitori, di identificarla. A loro interessava la figlia diciottenne di Helios, industriale cerealico di Eupilio, limite estremo dell’Alta Brianza, che allora era provincia di Como. Uno dei malviventi la prese rapidamente e la fecero entrare nel bagagliaio della Giulia, un altro legava e imbavagliava gli amici all’interno della Mini, alla quale foravano le gomme. Immaginiamo il terrore negli occhi e nelle mente di questi giovani, poco più che ragazzini: Cristina nel buio di un bagagliaio, mentre l’auto romba veloce nella notte; Carlo ed Emanuela disperati, al buoio della Mini, senza poter gridare aiuto mentre i fanalini dell’auto si scoloravano nella notte. Una bella sera di prima estate, la gioia per l’anno scolastico che si è chiuso, l’idea delle vacanze davanti, magari qualche progetto per l’estate, da condividere e tutto che si sgretola in un attimo: una manovra brusca di due auto come impazzite, le armi, le urla. Fu Emanuela la prima a liberarsi

dalle corde, sciogliendo poi Carlo. Poi l’allarme, la polizia, i carabinieri, la notizia: diciottenne rapita nel Comasco. Fatti cui oggi non riusciamo a dare la valenza terrificante che avevano, tanto ci paiono lontani. Eppure allora, fra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80, mezz’Italia, ma soprattutto la Brianza, conobbero questa piaga orribile: uomini, donne, bambini rapiti per essere scambiati con somme di danaro. Dopo sequestri in condizioni bestiali, a volte lunghi mesi, anni. Capaci di lasciare conseguenze per una vita. Quando la vita era risparmiata, perché alcuni non tornarono mai. Fu così anche per Cristina, il 1 settembre 1975, il suo corpo fu ritrovato in una discarica del Novarese. Per due mesi si erano svolte le trattative. A Helios Mazzotti furono dapprima chiesti 5 miliardi di lire: una cifra per l’epoca iperbolica. Richiesta a cui seguì un lungo silenzio, tanto che i familiari di Cristina dovettero lanciare appelli accorati ai giornali, spiegando di non poter raccogliere tanto danaro.

Il 15 luglio, improvvisamente, i rapitori si fecero vivi, abbassando le pretese: si sarebbero accontetati di un miliardo e mezzo. La famiglia raccolse il danaro e pagò il riscatto mentre in tutt’Italia divampava la polemica e la gente chiedeva la pena di morte per chi si macchiasse di simili reati. Fu Helios Mazzotti a consegnare materialmente il riscatto ai malavitosi: 1 miliardo e 50 milioni che l’industriale portò, si seppe in seguito, in una casa di Appiano Gentile. E Cristina? Cristina non tornava a casa. I Mazzotti si disperavano, il cuore di Helios, già sofferente, vacillava. Perché non la lasciano? Perché non la rimandano a casa? Cosa vogliono ancora? Ma non potevano rimandarla a casa semplicemente perché l’avevano uccisa. E mentre ritiravano dalle mani di Helios i danari, Cristina era già morta e sepolta. Come le indagini dimostreranno, a ucciderla era stato un cocktail letale di farmaci. Le davano eccitanti per spingerla a parlare con i genitori e poi tranquillanti per tenerla buona durante la prigionia che, come appureranno gli inquirenti, avvenne in un buco di due metri per due, scavato nel giardino della villetta di un sequestratore a Galliate (Varese). Finché un giorno il suo cuore si fermò. I sequestratori trascinarono il corpo in una discarica, a Varallino, nei pressi di Sesto Calende. La gettarono tra i rifiuti e la coprirono di spazzatura: altra se ne sarebbe aggiunta nei giorni a venire, con l’andirivieni dei camion della zona. Nessuno l’avrebbe trovata se uno della banda, non fosse stato arre-

stato in Svizzera, dopo aver cercato di “ripulire” in una banca, una parte del riscatto. Fu lui a rivelare il luogo in cui il corpo era stato abbandonato. E le forze dell’ordine ritrovarono i suoi poveri resti sotto una coltre di spazzatura, vicino a una carrozzina. Per il medico legale, era lì da almeno 40 giorni. Uno dopo l’altro, i banditi finirono arrestati. Erano una decina. Dei balordi: delinquenti di mezzo calibro, qualcuno con un passato di neofascista, un paio di commercianti. A loro la Corte di Assiste, nel maggio 1977, inflisse dieci ergastoli ma non tutti erano stati assicurati alla giustizia, come si scoprirà nel 2008, quando il riesame di un’impronta digitale rilevata sulla Mini, porterà all’arresto di un detenuto in semilibertà, un ergastolano che, negli anni ‘70, era stato con Epaminoda il Tebano, uno dei protagonisti della mala milanese di Vallanzasca e Turatello. Lui indicherà altri complici: erano loro il commando che quella notte di giugno aveva rapito Cristina. Per 30 maledetti milioni: questa la cifra per la quale avevano sequestrato la ragazza per poi consegnarla alla banda che avrebbe gestito il riscatto. E Cristina non fu l’unica vittima di quella barbarie. Il padre Helios morirà di infarto pochi anni dopo mentre la sorella, Marina, all’epoca 23enne, perse il bambino che portava in seno. Sarà lei con la madre, signora Carla, che costituirà la Fondazione Cristina Mazzoti, un ente non profit che finanzia la ricerca per la prevenzione del crimine. Che il sacrificio di Cristina, almeno, portasse un piccolo frutto


Spettacoli Reginetta brianzola conquista il Bel Paese

FEDERICA, PRIMA DA MISS

11 Settembre 2010

L’

O rd i n e d e l la Brianza la ritrae con Ugo Tognazzi ed Edvige Fenech che la baciano simultaneamente sulla guancia. È il 1 settembre 1982, una ragazzina diciottenne, con gli occhioni azzurri e il nasino a punta, porta Carate Brianza alla ribalta delle cronache nazionali. Pochi giorni prima, infatti, a Sanremo, l’hanno incoronata Miss Italia e ora, questa brunetta liceale, si gode il trionfo prima di riprendere la scuola. Il quotidiano brianzolo manda a intervistarla, a casa sua, un esperto cronista di quegli anni, Luigi Losa, attuale direttore del Cittadino. Per introdurre l’intervistata, Losa racconta l’atmosfera di casa Moro, con la mamma della futura stellina, la signora Rosangela, che fa da scudo a fotografi e giornalisti, tradendo una certa confusione e l’imbarazzo che prende la gente semplice quando viene travolta dalla notorietà. Federica sta nel salotto, in accappatoio marrone, che si spazzola i capelli ancora bagnati: ha ricevuto il titolo da 48 ore ma ha imparato

presto a fare la diva. Al giornalista brianzolo ripete quello che ha detto già chissà quante volte: in finale c’è arrivata per caso, avendo partecipato con gli amici del mare alla finale di Miss Liguria ad Alassio, dove si era piazzata quinta. «Le vacanze erano finite, al concorso non pensavo più ma poi, a mezzanotte, mi telefonano per dirmi che il giorno dopo devo essere a Sanremo per la finalissima: dico io “ma cosa c’entro, sono arrivata quinta” e quelli ribattono, “non ti preoccupare, se abbiamo deciso così, vuol dire che va bene”». E poi racconta, in un crescendo di incredulità, l’arrivo al titolo finale: «Non posso nascondere che, all’annuncio del verdetto, sono rimasta incredula ma ho provato felicità per il successo». Sul futuro, Federica fa qualche congettura: «Proposte ne verranno tante», dice, «il mio volto lo vorranno sfruttare sino in fondo. Ho già firmato un contratto pubblicitario e ci sono impegni da definire. Comunque la scuola rientra sempre nei miei programmi e cercherò di trovare il tempo necessario».

Il tono non è certo quello della ragazzina spaesata: pochi giorni nel circo dello spettacolo sono bastati a chiarirle le idee. Programmi a lunga scandenza? Ci sono ancora due anni di liceo da fare, poi, forse l’università, «ad architettura forse, ma anche filosofia mi piace». Sulla ragioni della sua vittoria, s’è fatta un’idea: le altre sfoggiavano un trucco pesante, lei, che aveva

preso a prestito il vestito, s’è presentata con un look acqua e sapone. «Credo che la giuria ci abbia osservato nei momenti di tranquillità», spiega, «mentre eravamo al bar o a tavola». Di sé accredita la figura di una ragazza cui piace non dare troppa confidenza: «Amici ne ho più al mare che qui», racconta, «sì, certo, conosco gente a Carate, Seregno, Desio, ma poca. Qui in Brianza si sta troppo attenti a come ci si veste, come si trucca, quale interesse si suscita tra i ragazzi. Così preferiscono starmene sulle mie, anche perché la scuola mi impegna molto. In fondo, gli unici momenti tranquilli li trovo il sabato e la domenica». Insomma, una diciottenne che sa il fatto suo e parla già come un’attrice navigata che ha molto chiaro che tipo di immagine vuol dare di sé. Lo si capisce bene quando è lei stessa a interrogare il giornalista su cosa «i brianzoli« dicano di lei. «Ci coglie in contrattempo», ammette Losa che pure, già allora, era un cronista di lungo corso. L’intervistatore-intervistato dà fondo a tutta la sua saggezza per replicare alla neo-celebrity: «Anche papà Luigi che ora è accanto a lei, annuisce quando le ricordiamo che, ora come sempre, i brianzoli stanno sulle loro, fingono in fondo indifferenza, ma alla fin fine sono curioso di saperne di più di questa ragazzina che arriva a Sanremo con l’ultimo treno, senza propositi e senza ambizioni, e se ne torna a casa col titolo di “più bella d’Italia”»

CARATE 1982

Eletta la più bella d’Italia, a Sanremo, la diciottenne caratese Moro si misura con la celebrità a casa sua. Ecco la sua prima intervista a Luigi Losa per L’Ordine della Brianza


12 Settembre 2010

Sport Personaggi, Aldo Boffi dalla Vis Nova alla Nazionale

CENTRAVANTI SFONDA RETI

Nei primi anni ’30, un giovane attaccante della squadra di Giussano si impone all’attenzione dei tecnici per la potenza del suo tiro. Dopo otto anni, in maglia azzurra di Daniele Corbetta

BRIANZA 1935-1952

M

entre s’allenava colpì per caso, da una ventina di metri, un ragazzino che gli correva incontro. Il malcapitato rimase svenuto per più di dieci minuti». Dinamite nei piedi e umiltà: così La Gazzetta dello Sport presenta Aldo Boffi da Giussano, futuro bomber di Milan e Seregno, per tre volte incoronato capocannoniere della serie A. Brianzolo doc e talento purosangue, la sua storia è leggenda, ricca di aneddoti e disseminata di grandi e piccole soddisfazioni. Goleador fra le due guerre: Aldo nasce nel 1915 a Giussano, la città dove rimarrà per tutta la vita e che lo farà innamorare del pallone. Da disegnatore di filature dedica il tempo libero a scavalcare il muro che da sul campo del Vis Nova: quella stessa parete è anche quella dell’orto di casa Boffi. È qui che Cesare Dell’Orto si rende conto del diamante grezzo del giovane Aldo, iniziandolo al calcio fatto di regole e allenamenti, indispensabili per affinarlo. Il Vis Nova è dunque pronto a lanciarlo da terzino: dopo una stagione in quel ruolo (1932/33) si converte a centravanti, facendosi conoscere a modo suo in Prima Divisione. Il Seregno, all’epoca militante in serie B, mise subito gli occhi su quel potente attaccante, pronto a strabiliare sin dalla prima apparizione, come racconterà anni dopo la Gazzetta: «I pochi sportivi di Seregno che assistettero a quell’incontro dicono che non se lo scorderanno mai più». Che cos’è successo? Cosa si è inventato quello che diventerà l’Aldone nazionale? Durante l’esordio in maglia azzurra, contro il Lugano, è semplicemente stato se stesso. «Boffi non conosceva nessuno dei suoi compagni. Chiuso di carattere, non scambiò con loro una sola parola. C’era da giurarlo che l’intesa avrebbe lasciato a desiderare». Aggiungiamoci che il Seregno fu sconfitto per 2-1. Centravanti bocciato e rispedito a Giussano? «Boffi colpì due volte i pali, sparò almeno dieci tiri a rete contro lo stupefatto Bizzozzero che fece prodigiose parate e lo battè con un’azione capolavoro». Ecco il biglietto da visita di quel 19enne rampante, sbattuto in faccia senza dire una parola a tutti i portieri della serie cadetta. La stagione ’35-’36, la seconda di Boffi a Seregno, è segnata da un episodio che accompagnerà il giussanese per tutta la vita. I brianzoli sono di scena a Biella: dopo un quarto d’ora di gioco capita una punizione a centrocampo e Aldo si appresta a tirare in porta. «Il pubblico biel-

Aldo Boffi in azione con la maglia del Milan, dove approderà nel 1936, arrivato dal Seregno

lese sorride e si prepara a fischiare il sicuro insuccesso. Un calcio, un sibilo, la palla entra e sfonda la rete. Si dirà che era una rete un po’ vecchia, ma intanto dev’esser stato ben forte il tiro se, nonostante il lungo tragitto, il pallone è riuscito a far breccia». In pochi attimi nasce la leggenda del «centravanti che sfonda le reti», raccontata anche dal quotidiano sportivo più fa-

moso d’Italia. Inoltre Boffi inizia a credere con maggior convinzione nei propri mezzi, come dimostra l’episodio del match di campionato con la Cremonese. La gara d’andata, a Seregno, si era chiusa sullo 0-3: azzurri non pervenuti. La dirigenza chiede il riscatto nella gara di ritorno a Cremona e Aldo, goleador di poche parole, aggiunge prima dell’ingresso in

campo: «Ghe dem indree i stess goii». Così fu: tre capolavori e 0-3 restituito. Neanche a dirlo i gol portano un’unica firma: Boffi. Aldo ha 21 anni, è in partenza per il servizio militare e vede davanti a sé un futuro da campione. Nel 1936 arriva l’esordio in serie A, con la maglia rossonera, condito da scetticismo e popolato di detrattori: fra loro non c’è la dirigenza mila-


13 Settembre 2010

B

Brianzoli protagonisti

La favola di Moreno

Bologna, 1938. Boffi, terzo in piedi da sinistra, esordisce nell’Italia di Pozzo

nista, che scommette sul giovane brianzolo. L’attesa per il 1˚ novembre, giorno della prima apparizione nel Milan, è grande, come riporta una dubbiosa Gazzetta del 31 ottobre: «Ci fu un’accanita caccia delle maggiori società per acquistarlo; possiede più che altro un gran bel tiro, ma non quelle doti tecniche che contraddistinguono i grandi centravanti». Inizio in salita: opaco nella sconfitta contro il Torino («di Boffi si è visto ben poco»), assaggia la tribuna fino alla sfida casalinga con il Novara, quando la Rosea apre gli occhi di fronte all’innegabile talento: «Il portiere novarese non dimenticherà le stangate di Boffi». Il Milan vince 2-0, Aldo torna al centro dell’attacco rossonero, va in gol e si dimostra «l’uomo che ci vuole per assestare un reparto fino a ieri sofferente». Al termine del torneo le reti furono 8, preludio ai grappoli di gol che sarebbero stati interrotti solo dalla Seconda Guerra Mondiale, nel corso della stagione 1942-’43. Arriva quindi la prima apparizione in Nazionale, saltando la trafila della squadra cadetta: è il 20 novembre 1938, l’Italia è Campione del Mondo in carica, Silvio Piola è infortunato e il leggendario Vittorio Pozzo chiama a sostituirlo il ragazzo di

Giussano, in occasione della sfida contro la Svizzera a Bologna. L’intera penisola si accorge improvvisamente di lui: Luigi Grassi della Gazzetta dello Sport ricorda «Aldo Boffi, è un modesto giovinotto della Brianza, di cui in questi giorni si occupano tanto gli sportivi di tutta Italia. Era famoso a Giussano, suo luogo natale, a Seregno, dove aveva completato la preparazione atletica, a Milano, dopo che era venuto a giocare al Milan, ma nessuno in Italia avrebbe voluto saperne di più di quanto ci raccontano le cronache calcistiche del lunedì». E invece tutti vennero a conoscenza dell’Aldun, della suo mite indole, della passione per i libri gialli, per il biliardo e lo scopone. Eccolo in Nazionale, con

34 tifosi giussanesi al seguito pronti a dichiarare «Boffi sei il nostro orgoglio». Il gol non arriva, ma Aldo conquista definitivamente spettatori e cronisti: «Dopo un tiro uscito di poco ci fu un’invocazione popolare “Boffi, Boffi, Boffi”, si urlava a cadenza. Raramente si entra così di slancio nelle grazie del pubblico. Una vera consacrazione». Arriva anche il titolo di capocannoniere della serie A, raggiunto nel 1939, nel ’40 e di nuovo nel ’42, diventando il secondo calciatore a vincere per tre volte la classifica dei bomber. Prima di lui c’era riuscito solo un certo Giuseppe Meazza, ricordate? La Seconda Guerra Mondiale spazza via sogni e certezze, in-

L’addio, ottobre 1987 PER L’ALDUN, OMAGGIO IN ROSA È una domenica sera di fine ottobre quando Aldo Boffi saluta per l’ultima volta la sua amata Paina di Giussano. La Gazzetta dello Sport di martedì 28 ottobre 1987 rende omaggio al bomber «che sfondava le reti», ripercorrendo brevemente la sua prolifica carriera negli anni ’30. Juve, Inter e Bologna dominano in Italia e in Europa; la Lazio è sempre pronta ad inserirsi, mentre il Milan dell’epoca è una squadra modesta. Nonostante ciò l’Aldun è ricordato per i suoi gol a raffica e per l’aver formato un temibile tridente con Gino Cappello e nientemeno che Giuseppe Meazza. Il cronista della Rosea non manca di riproporre le caratteristiche che l’hanno reso famoso: «Sulle punizioni era un castigo, il pallone partiva dal suo piede come una freccia dall’arco, i suoi non erano piedi da palleggiatore ed egli li usava per dare alla sfera una mazzata potente, non era un supercampione ma un centravanti dal rendimento eccezionale». In due sole parole: Aldo Boffi, il granatiere, chiuso in Nazionale dal grande Silvio Piola, partito da Giussano e giunto alle porte dell’Olimpo del pallone. In silenzio, senza mai disturbare.

terrompendo dopo una manciata di partite la stagione 1942-43 e accorciando la carriera al nostro Aldo. Nel ’45 Boffi, dopo 136 gol con la casacca rossonera, lascia il Milan e approda a Bergamo, sotto i colori dell’Atalanta: in questa strana stagione post bellica non ingrana e sarà svincolato al termine dell’annata. Ed eccolo nuovamente a Seregno, in serie B. Il Cittadino del 3 agosto 1946 non nasconde l’entusiasmo: «Notizie rivoluzionarie per il Seregno, è stato perfezionato l’acquisto del famoso cannoniere Boffi dall’Atalanta». L’inizio è ancora una volta in salita: in questa occasione Biella non regala soddisfazioni. Gli azzurri perdono 5-1, Boffi è un corpo estraneo e l’unica rete è realizzata da Como, un difensore. Il cronista è a dir poco duro: «Sullo svolgimento della partita preferiamo tacere». Il 5 ottobre arriva la rivincita, allo stadio Ferruccio di Seregno: la giornata è memorabile e la copertina spetta di diritto all’Aldun, che si guadagnerà l’appellativo di «Bombardiere di Seregno». L’avversario di turno è il Savona e davanti a tremila spettatori il cannoniere si scatena calando un incredibile poker: «La traiettoria del pallone calciato da Boffi ha qualcosa di magico, supera la barriera e inganna il portiere…Aldo ha già saettato, il pallone s’insacca in rete sotto il montante sinistro…». È il 29 settembre 1946 e il bomber chiuderà la stagione a quota 32 reti. Si tratta della sua ultima annata di grande livello, prima del calo di rendimento e dell’inevitabile ritiro: al termine del campionato di serie B 1951-52 Aldo Boffi abbandona il calcio giocato, a 37 anni suonati. Grande potenza, buona tecnica, ottimo colpo di testa, astuzia e fiuto del gol: così Boffi sul campo. Fuori dal rettangolo verde è timido e pacato, l’umiltà e la semplicità come doti primarie: «Il bombardiere di Seregno» non ha mai alzato la voce, nemmeno per dire che in realtà era di Giussano, dove amava giocare a palla con i ragazzini del vicinato. E dove dopo oltre sessant’anni è ancora bello affermare «Boffi sei il nostro orgoglio».

Per trovare un’altra gloria calcistica brianzola del calibro di Boffi - oltre alla storia esaltante e tragica di un altro giussanese come Stefano Borgonovo - bisogna andare ai successi di Moreno Torricelli, terzino pluricampione. Erbese, classe 1970, Torricelli tira i primi calci nei pulcini della Folgore Verano. Lo vedono in tecnici del Como che lo portano sul Lario, dove disputa il campionato Allievi Regionali, ma qualcosa non va e rientra a Verano. Ceduto all’Oggiono nel 1989, gioca con i rossoblu nel campionato Promozione. Operaio in una fabbrica di mobili, ogni tanto indossa anche la maglia dei dilettanti della Caratese. All’inizio degli anni ’90, in una amichevole fra la squara di Carate e la Juventus, si fa notare dai tecnici bianconeri che lo prendono per la squadra primavera. Qui lo vede Giovanni Trapattoni che lo aggrega alla prima squadra con cui esordisce il 13 settembre del 1992. Vincerà Coppa Uefa, scudetti, Coppa Italia, Champions League, Supercoppa, Coppa intercontinentale. Protagonista degli sfortunati Mondiali di Francia del 1998, giocherò tre stagioni nella Fiorentina, quindi milita per due anni nell’Espanyol di Barcellona e chiude la carriera ad Arezzo, in serie B, nel 2004. Lo scorso anno ha allenato la squadra toscana del Figline, in Legapro.


14 Settembre 2010

Seregno 1980, Veneti in Brianza

LA SCOPERTA DEL GIAMBONE CRUDO Paolo Penacchio, 72 anni, originario del Veneziano, ci ha contattato dopo il numero dedicato alla «Gente veneta». E fatto leggere la sua storia in un libro in cerca d’editore

BRIANZA 1950-2010

AAA VENETI CERCASI Ha colpito molti il numero dedicato ai Veneti di Brianza. Oltre alle due testimonianze che pubblichiamo in questa pagina, abbiamo notizia di tanti altri commenti, chiacchiere fra amici, discussioni in compagnia sulle giornate di 50-60 anni fa che registrarono l’arrivo di migliaia di Veneti in questa terra. Fatti che documentano come la memoria di quella grande immigrazione sia ancora viva. Per questo invitiamo tutti i Veneti di Brianza a raccontarci ancora le loro storie. Le pubblicheremo GdM

I

l primo inverno a Seregno, col mio fratello maggiore, fu molto duro. Vivevamo in un cascinotto al Piapan, al freddo e senza soldi». È la storia di uno dei tanti veneti della Brianza, Paolo Penacchio, classe 1938. Anche lui ha letto l’ultimo numero de Il Giornale della Memoria, quello che dedicava la prima pagina alla «Gente veneta». Subito dopo la pausa estiva è venuto a trovarci da Merone, dove vive adesso, dopo a una vita a Seregno. Le storie di sacrificio, di coraggio, di forza interiore che abbiamo raccontato sono le sue. E la voglia farne memoria è la stessa, tanto è vero che ha scritto, in questi anni, la storia delle sue origini, da ragazzino, in Veneto, a Legnaro (Venezia) e quindi quella in Brianza, ricca di episodi, di ritratti, di amici, come quelli della naja. Un libro che non è stato mai pubblicato ma che Penacchio ha dattiloscritto in varie copie, che passa a quanti, come lui, hanno il culto delle radici e degli affetti e il senso del valore della vita che è passata. E le pagine dedicate all’arrivo in Brianza iniziano proprio con il ricordo della durezza dell’inverno al Piapan, anche se Penacchio, appena 17enne, era arrivato proprio il giorno di Ferragosto del 1954. Un giorno in cui, lui ragazzino veneto, s’imbatte nel dialetto brianzolo. «Oé ti bagai, le già mo tri volt ca te me saluti, basta per encù», gli disse uno dei primi seregnesi che il padre gli aveva presentato: Franco Monguzzi, detto el Sambruna, un signore che stazionava spesso in via Manara, alla Cà Storta, dove c’era un negozio d’alimentari «dove si poteva comprare di tutto, anche il formaggio con i vermi». Un uomo buono, «sempre pronto alla burla, amico di tutti e che a tutt riusciva simpatico». Con la lingua briantea, che negli anni ‘50 era sistematicamente preferita all’italiano, all’inizio, fu dura: «Un giorno il principale mi spedi al negozio della Milietta», ricorda, «“te sa fé un et de giambun cru”, mi disse». Davanti al bancone, Paolo titubava: non aveva capito niente di quello che doveva comprare ma al «Savoret?» della signora provò un adattamento: «Un etto di giambone crudo». La risposta della signora Emilia se la ricorda ancora: «Em te di cusè, terun. Diamogli un etto di giambone crudo». Come la frase che il macellaio del quartiere, Pietro Somaschini, disse alla moglie, addetta

Perticato, 1978. Veneti nelle baracche. Un altro bellissimo scatto del servizio di Attilio Mina

alla cassa, la prima volta che il giovane Paolo si recò nel suo negozio a comprare un pezzo di bollito: «Faghe ul prez bun a chel bagai che l’aga dinvetà grant». Col tempo, scriverà, «capii che non era una battuta di convenienza, ma solo l’espressione del suo gran cuore». Buon cuore che non faceva difetto neppure a Pistolin, il fornaio di via Garibaldi, nei pressi di Santa Valeria. «Una volta mio padre gli chiese del pane, offrendo in cambio un vecchio orolo-

gio da polso. Il fornaio tirò fuori un libretto, ci scrisse il nome di mio padre e non volle l’orologio né altro documento e papà, quella sera, fece ritorno a casa con una borsa piena d’ogni ben di Dio». «A Seregno», scrive nel suo libro, «ho incontrato tante brave persone la cui benevolenza mi ha reso sopportabile la nostalgia per la mia terra, la lontananza della mia mamma e dal resto della famiglia»

Terze generazioni MATTIA, FIERAMENTE VENETO Mattia di veneto oggi avrebbe solo il cognome, Pasian, essendo nato in Brianza, diciotto anni fa. Anche lui ha letto il GdM dedicato ai Veneti e ne è rimasto colpito. Innanzitutto perché ci ha letto la storia di sua nonna, Mirella Muner, e poi perché ci ha trovato le bellissime foto di un suo ex-professore dell’Istituto d’arte di Giussano, Attilio Mina. È stato proprio attraverso il contatto su Facebook con quest’ultimo ha determinare quello, sempre via Internet, col giornale. «Vedere l’articolo di mia nonna mi ha emozionato», ci racconta, «anche perchè lei ci tiene a raccontare le sue vicende». «I miei nonni mi raccontavano della loro vita nel Veneto piu precisamente a Sindacale», ricorda. Storie in cui «casoni e animali erano presenti molto spesso» e nelle quali «anche se la vita era povera, anche se non c’era lusso o poco con il quale far giocare i bambini, avevano sempre da fare e le risate non mancavano mai». Vicende che hanno fatto capire a Mattia che «anche se non si è ricchi si può passare una vita felice nella semplicità delle cose». Lunghi racconti di nonni, in cui il nipote si perdeva, incantato, immaginandone sensazioni, suoni, profumi. Esperienza che oggi lo fa sentire veneto. Fieramente veneto, «perché questa gente, i nostri nonni , si è sacrificata per noi, cambiando anche paese, casa, abitutidini, dialetto». Una storia, giura, «da raccontare ai figli», quando ne avrà. «Se non lo facessi», conclude Mattia Pasian, veneto di Brianza, «non saprei proprio far capire loro chi siamo e da dove veniamo».


Cronaca Cantù: cambia volto al centro cittadino

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DEMOLIZIONI DI REGIME

Settembre 2010

A cavallo degli anni 30 l’architettura fascista rifa il look all’Italia, con nuove piazze e nuovi palazzi. La Brianza non fa eccezione: nella Città del mobile sparisce un ex-convento

L

e foto d’epoca mostrano insegne oggi sparite. Come quella dell’Albergo ristorante Cantù, famoso perché, un giorno del 1907, vi fece tappa un giovane maestro romagnolo, infiammato dalle idee socialiste, che girava l’Italia in cerca di adepti per fare la rivoluzione e arrivava in zona per incontrare i setaioli di Como: Benito Mussolini. Nel 1932, la Piazza Garibaldi, la Piazza Granda dei canturini, cambiò fisionomia perché tutta la città fu interessata da una piccola rivoluzione urbanistica: demolizioni, sbancamenti, apertura di nuove vie. Sono gli anni d’oro del fascismo: il regime, dopo le difficoltà degli anni 20, gli scricchiolii avvertiti con l’omicidio di Matteotti, aveva saputo resistere e consolidarsi. Gli anni 30 sono quelli in il fascismo dà l’impronta di sé al Paese e mentre si bonifica l’Agro-Pontino e si aprono i Fori imperiali, le città e i paesi vedono fiorire l’architettura razionalista: stazioni, palazzi pubblici, stadi. Trasformazioni che investono anche la Brianza. A Giussano, nel 1927, l’antica chiesa di San Giacomo viene demolita. A Lissone, tocca alla Curt di Pagan e alla chiesa propositurale, abbattute, fra ’32 e il ’33, per far posto a una piazza. «La disposizione dei palazzi era molto diversa dall’attuale», spiega Gigi Molteni, appassionato culto-

re della memoria di Cantù, autore di personali ricerche negli archivi cittadini, «era una grande isola verso la quale convergevano diverse vie provenienti da zone circostanti, come via delle Torri, via del Commissario, via Campo Rotondo e, in mezzo a un’ampia zona di rispetto, stava un palco per la musica e un monumento con un capitello ed una palla di granito sulla cima». Siamo all’inizio del ’900, «ma anche le foto dei primi anni 30», spiega Molteni, «ci rappresentano chiaramente questa situazione: accanto al complesso dell’Albergo centrale, lungo la futura via Roma, sino al giardino di Villa Calvi, vi erano orti, altre costruzioni e stradine che portavano ai campi sottostanti e terreni adiacenti all’ex-monastero di S.Ambrogio». Fu qui, dopo vari progetti, che si arrivò all’abbattimento del caseggiato indicato come Casa Broggi, «ma conosciuto come Michelin della Frattina», precisa lo storico locale, per aprire una strada che unisce la Piazza Granda all’ingresso di Villa Calvi, nel frattempo divenuta sede della municipalità. «Non solo», prosegue Molteni, «anche l’albergo fu demolito, rendendo così possibile allargare l’imbocco di via Manzoni che assunse l’odierna configurazione». Insomma, il lato occidentale della città cambiò profondamente. Un cambiamento accuito negli anni 50, quando la fisionomia del luogo mutò ancora: «Nacque il se-

condo palazzo della Permanente di mobili e la sede della Banca popolare di Novara, che sorse sul giardino di Casa Mazzucchelli». Oltre la Piazza, a fare le spese della furia modernizzatrice del secolo, fu il convento di Sant’Ambrogio, spianato per ricavarne una piazza, «quella dove si svolge il mercato del sabato e del quale è stato prospettato lo spostamento più valle», osserva la memoria canturina. Convento che, nel 1936, anno dell’abbattimento, aveva quasi quattro secoli di vita, essendo stato edificato nel 1550. La soppressione dell’ordine della Agostiniane, nel 1797 ad opera della Repubblica cispadana di Napoleone, ne decretò la decandenza. «Venduto all’asta nel maggio del 1818, negli anni, subì vari passaggi, tornando in mano pubblica nei decenni successivi».

Finché, un giorno del 1936, il consiglio comunale canturino, cercando di trovare spazio al crescente mercato settimanale che ormai stava stretto in Piazza Grande, deliberò che le merci avessero diritto a un nuovo sito e che quelle vecchie mura potessero benissimo esser tolte di mezzo. «Alla gara per la demolizione parteciparono quattro imprese canturine», spiega Molteni. Alcuni elementi architettonici dell’antico convento finirono nel giardino a lato della chiesa di Santa Maria, dove poi sorgerà il Palazzetto Parini. «Qualche pezzo è sicuramente finito ad abbellire qualche casa canturina», sorride Molteni. E l’imponenza del complesso, documentata anche dalla foto che pubblichiamo, fa certo pensare che di souvenir ce ne fossero davvero per tutti

CANTÙ 1932

L’ex-convento di S.Ambrogio prima della demolizione. Sotto Piazza Granda a inizio del 900


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