Il Giornale della Memoria n.08-2010

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con il patrocinio di

Ottobre-Novembre 2010 euro 2,00 OMAGGIO

BRIANZA Società 1970, il Parlamento approva la legge Baslini-Fortuna

ARRIVA IL DIVORZIO

La norma passa all’alba del 1 dicembre di 40 anni fa. I cattolici si organizzano per indire un referendum abrogativo. Fra loro lo scrittore brianzolo Eugenio Corti. Nel maggio ’74 l’Italia però difende la scelta del Parlamento. Finisce un’epoca

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ivorzio. Nel dicembre di quarant’anni fa, questa parola piomba nella vita politica e civile italiana. Due parlamentari, il liberale Antonio Baslini e il socialista Loris Fortuna, presentano alle camere una proposta di legge che introduce la possibilità di sciogliere il vincolo matrimoniale. Proposta approvata da un vasto schieramento, contro i voti del partito di maggioranza relativa, la Democrazia cristiana, e dei post-fascisti del Movimento sociale italiano. Nella notte fra il 30 novembre e il 1 dicembre, alla Camera, la discussione si fa incandescente e il voto favorevole arriva alle 5,40 del mattino: 319 sì, contro 286 no. Contro la norma i cattolici organizzeranno un referendum abrogativo, uscendone sconfitti nel ’74. Fra loro, lo scrittore brianzolo Eugenio Corti (vedi intervista a fianco) che racconta: «Perdemmo perché 3 milioni di cattolici votarono a favore del divorzio».

In questo numero PAG.2 1981, un solo comitato per dar battaglia alla Roche

Nel novembre, si cominicia a parlare degli indennizzi per Seveso. I due comitati sorti spontaneamente si fondono PAG.2 1970, l’impiegato onesto riconsegna 10 milioni

CORTI: IL MIO REFERENDUM Anche a quasi 90 anni, portati con qualche acciacco fisico ma con una grande, affascinante lucidità mentale, è sempre lui: diretto, lineare, schietto. L’autore de Il cavallo rosso, il cantore di una Italia (e di una Brianza) minima eppure epica, 40 anni

fa guidò i referendari cattolici lombardi nella battaglia per l’abrogazione della legge Baslini-Fortuna. Non è un caso che il suo capolavoro finisca proprio con i giorni della mobilitazione contro il divorzio. segue a pagina 13

Alla Sip di Monza, alla chiusura, un addetto alla cassa trova un borsa piena di danaro. E la porta ai Cc PAG.3 1981, sul parquet di Marzorati grandi concerti

Al Palasport di Cantù, Ivan Cattaneo apre la stagione dei grandi spettacoli anche in Brianza. Folla esultante

servizi a pag. 12-13

1978 Il dramma

PAG. 3 1958, il «Papa buono» si ricorda della Brianza

1927 La storia

RAPITO E UCCISO A 16 ANNI LA BRIANZA SCOPRE LA PAURA

LUIGI, QUEL CARATESE NELLA BANDA DI SANTE POLLASTRI

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n gruppo di banditi che terrorizza l’Italia del Nord. Sono quelli del gruppo Martin-Pollastri, dal nome dei loro capi. Rapinano, sparano, uccidono fra il Piemonte e la Lombardia, spostandosi poi in Francia, dove riparano per-

na mattina di novembre del 1978, Paolo Giorgetti, 16enne medese, figlio di un mobiliere, alle 8 del mattino, si sta tranquillamente avviando a piedi verso il Liceo Marie Curie, dove studia. Sta percorrendo la centralissima via Francia

quando tre uomini, che stavano parlottando vicino a un’auto, lo aggrediscono e lo trascinano via. Da un treno delle Nord che transita lì vicino, due macchinisti assistono impotenti. La sera stessa, il giovane viene trovato morto. a pag.4-5

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ché polizia e carabinieri stanno dando loro la caccia. E proprio durante la ricerca dei malviventi, dopo un rocambolesco inseguimento a Lambrate, viene arrestato un componente della banda: si chiama Luigi Nera, 28enne di Carate. a pag.10-11

ARRIVEDERCI A PRESTO (SPERIAMO) Cari lettori, questa avventura non arriva al capolinea ma certo è su un binario obbligato, su una tratta che non avevamo scelto. Dal prossimo numero non potremo infatti farvi avere il giornale laddove lo avete trovato fino ad oggi: abbiamo esaurito le risorse messe a disposizione dei soci dell’Associazione Storia & Territorio e non possiamo continuare a stamparlo

e diffonderlo gratuitamente. Da dicembre, il giornale sarà ancora gratuito ma si troverà solo su Internet, nel sito che abbiamo attivato sin dal numero uno (www.giornaledellamemoria.it) Una mossa obbligata che, lo sappiamo, provocherà la perdita di quelli fra voi, poco avvezzi all’uso del web. Abbiamo provato con ogni mezzo a mantenere il nostro

progetto come lo avevamo pensato: culturale ma popolare, storico ma alla portata di tutti. Abbiamo chiesto supporto a banche che si presentano come attentissime al territorio, a enti parco, a sindaci ed assessori brianzoli ma tutti, legittimamente, hanno detto «no». Solo l’assessore regionale alla Cultura ha mostrato interesse che, al momento, si è tradotto

nella concessione del patrocinio gratuito. Cari lettori, se non ci fosse stato l’entusiasmo manifestato fra tanti tra voi, avremmo già chiuso tutto. E allora procediamo così, stampando se e quando ne avremo i finanziamenti. Seguiteci o aspettateci, se potete. GdM P.s. Chi volesse continuare a riceve il giornale stampato a casa, legga a pagina 16

In uno dei suoi primi discorsi, Giovanni XXIII cita la terra del santuario a lui più caro: la Madonna del Bosco PAG. 6 1940, la memoria ritrovata. Giussano ricorda i caduti

Ricerca commissionata dal Comune, restituisce le storie degli oltre cento giussanesi morti nell’ultima guerra PAG.8 1950, i grandi illustratori per pubblicizzare il mobile

Un libro dell’Aiap ripropone le più belle campagne firmate dai maestri del segno grafico per Cassina, Boffi e altri PAG.14 1957, i pugni di Gioacchino Da Seregno ai ring italiani

Il figlio di immigrati baresi comincia a tirare di boxe all’Accademia pugilistica seregnese, diventado presto l’idolo dei brianzoli


La novità Seveso, l’ora degli indennizzi

2 Ottobre-Novembre 2010

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Editoriale

Gli anni della paura C’è stata un’epoca in cui la gente di Brianza aveva paura e non c’è da risalire ai tempi dei bravi di Don Rodrigo. Succedeva neanche quarant’anni fa. Per tanti brianzoli che avevano messo in piedi un’impresa e che di conseguenza potevano godere di una certa agiatezza, più spesso sospettata che sbandierata, ogni mattina uscire di casa era una prova. C’era in quegli anni chi poteva decidere di puntarti una pistola, imbavagliarti, infilarti nella bauliera di un’auto e portarti chissà dove, per chiedere poi folli cifre ai tuoi cari. Crimini odiosi che lo diventavano ancora di più quando si rivolgevano agli affetti più cari delle persone delle quali si voleva sottrarre i patrimoni. Fu così per Paolo Giorgetti, un ragazzino di Meda, sequestrato nel novembre del 1978, mentre percorreva una via del centro per raggiungere il liceo Marie Curie, dove studiava. Chi lo aggredì, alle otto di mattina, mentre da un treno delle Nord che passava a pochi metri due macchinisti assistevano impotenti, usò così tanto cloroformio per stordirlo, da farlo morire soffocato. Pochi giorni dopo, come mostrano le bellissime foto di Pietro Vismara, una folla immensa invase Meda, per accompagnare Paolo al cimitero. Negli scatti in bianco e nero, si vedono volti tirati, sconvolti, arrabbiati, disperati, ma certamente facce di chi non avrebbe tollerato oltre. C’era un popolo dietro quela bara, c’erano valori, esperienze, sentire comuni. Quella stagione di paura fu lunga, altri soffrirono violenze inaudite, ma la Brianza seppe farsi sentire e il pericolo cessò. Una coesione, un sentimento comune che oggi sembrano non essere più di questa terra. L’individualismo regna sovrano, infatti. C’è solo da sperare di non dover riaffrontare anni così bui, perché forse non ne saremmo più capaci. GdM

DIOSSINA, SI UNISCONO I COMITATI ANTI-ROCHE Sorti per le aree A3-A5 e «per le case», affrontano assieme la Givaudan che offre 3 miliardi di lire per i danni

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n grande comitato, un «comitatone», come scriveranno i giornali, per trattare con la Givaudan gli indennizi post-diossina. Il 25 novembre 1981, le cronache brianzole danno conto di un fatto nuovo: i due comitati sorti a qualche anno dall’incidente al reattore dell’Icmesa (luglio 1976), per tutelare gli interessi delle centinaia di danneggiati, annunciano di volersi fondere in un’unica organizzazione. L’interlocutore, lo si è detto e scritto, è da par suo piuttosto grosso: la svizzera Givaudan, articolazione delle ben più potente Roche, big dell’industria farmaceutica mondiale. Affrontarlo divisi e dalla Brianza, può essere controproducente, anche avendo la ragione della propria. Alla sintesi si arriva il 24 novembre, dopo un’accalorata riunione alla Sala Tanzi di S.Pietro di Seveso. «Nel corso della riunione», scrive Giacomo Citterio per l’Ordine della Brianza,«si è verificata non poca tensione circa i metodi da seguire, ma prima ancora, per la struttura organizzativa che, fino all’altra se-

ra, non era omogenea per spaccature interne al gruppo dei proprietari, che si sono trovati a sostenere una battaglia, per la verità non ancora iniziata, su due fronti divesi». All’insaputa gli uni degli altri, i danneggiati di Seveso si erano costituiti in due diversi comitati, «l’uno per i terreni insistenti nelle zone che vanno dalla A3 alla A5, costituitosi il 5 novembre scorso, l’altro, denominato “comitato per le case”, formatosi nel maggio di quest’anno e assistito, a livello legale, degli avvocati Arnaldo Borgonovo di Meda e Francesco Borasi di Milano». In palio, ricorda il giornalista, ci sono i 3 miliardi di lire che l’azienda svizzera ha dichiarato di voler mettere a disposizione, ma c’è da produrre molta documentazione catastale che provi il valore di mercato delle proprietà danneggiate dall’Icmesa, il decremento causato dalla diossina, il mancato godimento nei giorni dell’allontamento forzato delle dimore, nei giorni successivi alla nube di diossina. «Prevalendo, come sempre si fa fra persone civili, la ragione», scrive L’Ordine, «i due comitati han deciso di fondersi, se così si può dire,

Il caso SPAZZATURA PER STRADA, MONZA COME NAPOLI Monza come Napoli: mucchi di spazzatura nelle strade. È successo nel novembre del 1981. Nessun problema di raccolta defferenziata non applicata – trent’anni fa non se ne conosceva neppure il concetto – o di inceneritori fuori uso, ma solo una dura agitazione sindacale. A incrociare le braccia gli addetti della Igm, la società che, in quegli anni, ha in gestione il servizio di smaltimenti per oltre 100 comunni lombardi fra i quali appunto Monza. Motivo del contendere un rinnovo contrattuale anche se, come spiega L’Ordine, l’accordo era già stato siglato nel dicembre del 1980. Eppure, dal giugno del 1981, le maestranze Igm avevano cominciato ad avanzare nuove richieste: mutua interna, mensa, aumento fra le 27 e le 50mila lire medie mensili. A settembre, sebbene alcuni delle richieste fossero state esaudite, i netturbini cominciano a fermarsi, per due ore giornaliere, salite poi a sei. Un’impasse che porta a far crescere i mucchi di spazzatura in città, particolamente dinnanzi alla sede della Igm stessa, come mostra un’istantanea in bianco e nero che parebbe essere tratta dalle strade napoletane di questo novembre, di quasi tre decenni dopo.

Un’immagine della riunione fra i due comitati di Seveso, nel novembre di 29 anni fa

in un unico comitatone in grado di andare al tavolo delle trattative e risolvere, si spera in senso positivo, la questione degli indennizzi». Passano pochi giorni, siamo al 4 dicembre, che sempre sull’Ordine della Brianza, stavolta in prima pagina, troviamo la notizia che porta Seveso dritta in Europa: il consiglio dei Ministri della Comunità economica europea-Cee (l’antenata dell’attua-

le Unione) approva la direttiva che dalla cittadina brianzola prende il nome. Contiene «una serie di norme comunitarie il cui scopo è impedire che determinate attività industriali, escluse quelle nucleari, provochino incidenti gravi, nocivi per l’ambiente e per l’uomo». Sono passati cinque anni dalla nube di Meda.

Il numero

DICIASSETTE

sono le interruzioni volontarie di gravidanza-i.v.g. autorizzate dal Consultorio familiare del Villaggio Giovi a Limbiate, in sei mesi di attività. Lo scrive il Cittadino del 17 novembre 1979. Siamo a meno di un anno di applicazione della legge 194/78, quella che introduce in Italia l’aborto. Al consultorio, le donne si rivolgono per ottenere l’attestazione medica relativa al pericolo per la salute psicofisica che la norma richiede a chi vuole interrompere la gravidanza non desiderata. Il giornale cattolico polemizza pacatamente: «Emerge chiaramente che l’orientamento di questo importante servizio e rivolto soprattutto verso un’impostazione che radicalizza solo in un senso le indicazioni di legge, mentre è scarsamente operante nell’ambito di una visione più generale dei problemi della famiglia».

Le cronache 1940 Alzatese caduto in Africa

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l suo nome compare nell’«Albo della gloria» pubblicato dalla Stampa, quotidiano di Torino, l’11 ottobre 1940, diciottesimo dell’era fascista. Il nome è quello di Remigio Salvi, sergente, nativo di Alzate Brianza, che compare in una lista di 158 caduti «in combattimento o deceduti a seguito di ferite di guerra in Africa settentrionale durante il mese di settembre». Oltre ai morti, prosegue la nota, ci sono «389 feriti e 13 dispersi». Accanto al lungo elenco, in un accostamento tragico e ridicolo, la notizia dell’orario invernale delle Ferrovie che «apparirà prima del 28 ottobre”, dice il titolo di una notizia e quella, ben più ampia delle «Estrazioni di Merano», nel senso della lotteria omonima: «La ruota della Fortuna è in moto», recita l’occhiello. Salvi Remigio da Alzate, finito a combattere una guerra non sua a migliaia di chilometri da casa, l’aveva appena imparato a sue spese.

1970 Encomiabile impiegato

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l piacere dell’onestà, come scriveva Pirandello, lo deve aver provato Pier Luigi Anelli, cassiere della Sip (l’attuale Telecom Italia), nel novembre di 40 anni fa. Come riporta infatti il Cittadino del 21 di quel mese, Anelli, «al momento della chiusura dell’ufficio», trova una borsa nera sul bancone. Contiene, spiega il giornale monzese, «2 milioni e centomila lire, dimenticati da un uomo recatosi prima alla cassa a pagare la bolletta». L’impiegato non mette tempo in mezzo: agguanta la borsa, sale sulla propria auto e suona alla porta dei carabinieri, consegnando la cifra davvero ingente per l’epoca (ci si poteva comprare, in quegli anni, un appartamento di 100 metri quadri, ndr). E mentre i militi stanno prendendo a verbale le sue dichiarazioni, suona alla porta un signore piuttosto disperato: il legittimi proprietario del denaro. Sta raccontando al piantone la sua disavventura, quando il maresciallo, dall’ufficio vicino, si presentava con la borsa di pelle e i tanti quattrini in essa contenuti. «L’esemplare condotta», annota il Cittadino, «è stata segnalta alla Prefettura».


Il concerto 1981, Pianella in delirio

SUL CAMPO DI MARZORATI Colo C phone ORA CANTA CATTANEO

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Ottobre-Novembre 2010

il Giornale della Memoria mensile di divulgazione storica

Trent’anni fa, al palasport di Cucciago, comincia la stagione dei grandi concerti

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uesto palasport si sta trasformando in una sala da concerti specialmente usata dai brianzoli dell’hinterland milanese come spaziosa alternativa». Lo dice, parlando del Pianella, Marco Larghi, giornalista de L’Ordine della Brianza, firmando la recensione comparsa il 5 novembre 1981. A riempire il palazzetto di Cucciago, solitamente gremito dai sup-

TU

C’ERI? MANDACI IL TUO RICORDO O LA TUA FOTO, LI PUBBLICHEREMO REDAZIONE.GDM@GMAIL

porters della Pallacanestro Cantù, allora abbinata alla schiuma da barba Squibb, è Ivan Cattaneo, da pochissimo sulla breccia. Per lui arrivano da ogni parte della Brianza e, «pur essendo un giorno feriale, il Pianella era colmo di scatenati teenagers, invitati al concerto da una radio privata di Giussano, decisa a sfondare nel campo dell’organizzazione di spettacoli musicali». Un pubblico di «giovanissimi, in media sui 20 anni scarsi, attirati da Cattano unicamente per il suo ultimissimo disco, ballabilissimia sintesi di vecchi pezzi anni ’60 (sfuggiti invece dai 30enni di quella generazione) e non certo per la sua personalità decisamente “gaia” e “diversa” che negli anni scorso aveva selezionato un suo particolare pubblico variopinto». Cattaneo, all’inizio della performance, viene contestato «da un piccola fetta di pubblico, più che altro per il fatto che non ha eseguito solo i rifacimenti anni ‘60 ma

anche i suoi pezzi più recenti o addirittura nuovissimi caratterizzati dal suo sviscerato amore per l’elet-

tronica e gli arrangiamenti fantascientifici alla David Bowie». Ma il mugugno rientra presto, «superato questo scoglio, Ivan ha condotto in porto, circondato da un entusiasmo crescente, quasi due ore di spettacolo ad altissimo livello, anche se danneggiato in modo evidente dalla pessima acustica». Cattaneo, scrive L’Ordine, «ha sviluppato uno show fatto di scoppi, fumi, luci abbacinanti, travestimenti fantasmagorici, diapositive, quadri, foto e disegni, manichini, effetti elettronici e colpi di scena improvvisi». Tutti al Pianella dunque. E già si annunciano le altre star: Alberto Fortis, da poco reso celebre dalla sua A voi romani e il più impegnato Alberto Camerini, prima della svolta “psichedelica” degli anni che seguiranno.

La pubblicità FORFORA IN CRONACA

Registrazione presso il Tribunale di Monza. n. 1975 del 15/02/2010 Direttore responsabile: Giampaolo Cerri Redazione Via Giusti, 32/c 20034 Giussano (MB) tel. 0362.285087 redazione.gdm@gmail.com hanno collaborato: Leandro Cazzaniga, Martina Cerri, Beppe Citterio, Daniele Corbetta, Doranna Fumagalli, Sergio Giussani, Walter Giussani, Annagrazia Internò, Gigi Molteni, Erminia Moretto (ricerche d’archivio), Daniele Villa Si ringrazia per l’amichevole collaborazione: Pietro Vismara, fotografo Progetto grafico e impaginazione: box313 (www.box313.net) Editore: Associazione Culturale Storia e Territorio Via Giusti, 32/c 20034 Giussano (MB) tel. 0362.285087 email: assostoria@gmail.com

Poteva sembrare il titolo di un articolo di cronaca quello che appare il 27 ottobre 1962 sull’Osservatore limbiatese. Invece si parla della «caduta dei capelli», miracolosamente bloccata «dalla lozione al BETA-NOL di recente scoperta». Caduta che «è in gran parte dovuta a una insufficiente nutrizione dei bulbi piliferi ed alla forfora che ne soffoca la cute». Lozione venduta presso tre profumerie monzesi – la Terzera, la Saporiti e la Millefiori – e una di Vimercate: la Pirovano di Piazza Roma

La notizia IN UNO DEI SUOI PRIMI DISCORSI PUBBLICI IL «PAPA BUONO» RICORDA LA «SUA» BRIANZA

È il 21 novembre del 1958 quando, Angelo Roncalli, da poco eletto papa Giovanni XXIII, arriva a Castelgandolofo, la storica dimora pontificia sul Lago di Bracciano. I giornali danno conto della sua prima visita, con dovizia di particolari: l’ex-patriarca di Venezia si è già distinto per un tratto di umanità che incanta. E dinnanzi alla folla che gremisce la piazza sulla quale si affaccia il palazzo pontificio, Roncalli conferma il suo tratto pacato e gioviale quando, come racconta La Stampa, rabbonisce due monsignori che davano segni di impazienza per le acclamazioni «che non accennavano a a calmarsi». «Siete contenti?», chiede alla gente che lo saluta festosa, «vi ringrazio e vi saluto. E se il Signore mi darà la vita verrò a trovarvi a primavera. Intanto», prosegue il papa, «benedico tra questo ver-

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de che mi ricorda tanto la mia Brianza; voi, tutte le persone che avete nel cuore, i bimbi in particolare». Una riferimento, questo alla verde Brianza, che colpisce i giornalisti: lo stesso giornale torinese lo riporta persino nell’occhiello dell’articolo. Il pontefice non è infatti brianzolo, essendo nativo di Sotto il Monte, uno dei primi paesi della Bergamasca, aldilà dell’Adda. Alla Brianza, però il Papa è molto legato: di fronte al paese natio, c’è il Santuario della Madonna del Bosco, a Imbersago (Lecco): il piccolo Roncalli lo visitava spessissimo e da seminarista, a Bergamo, per due anni fece pellegrinaggi a piedi fino alla santuario brianzolo. Nel 1960, chiederà all’arcivescovo di Milano, Giovan Battista Montini, futuro Paolo VI, di deporre una corona d’oro e di gemme sulla statua della Madonna.

Stampa A.G. BELLAVITE Via I maggio, 41 23873 Missaglia (Lc) Stampato su carta ecologica EFC, con inchiostri a base vegetale.


4 Ottobre-Novembre 2010

Cronaca. 1978 Il sedicenne Paolo Giorgetti, sequestrato in una via centrale m

PAOLO, LA RABB

Figlio di un mobiliere, il giovan viene sequestrato da tre persone i vedono la scena e danno l’allarme. La sera stessa, quando i carabi Limbiate, dentro un’auto che sta bruciando : i rapitori l’avevano so

MEDA 1978

R

ipassava i compiti mentalmente. Paolo, quella mattina, si era incamminato per corso Francia. Salutata la nonna Pierina, detto un ciao veloce a sua sorella Roberta, si era avviato verso la scuola, il liceo Marie Curie di Meda. Sferzato dalla tramontana che arrivava giù dalla Grigna e che prendeva d’infilata le case medesi, alle 8 di quel mattino del 9 novembre 1978, Paolo aveva sulle spalle lo zaino e il peso leggerissimo dei suoi 16 anni. Ripeteva la lezione camminando su quella strada che costeggia il binario delle Nord: un percorso fatto ogni giorno, da qualche anno. E quante volte, a quell’ora, aveva visto passare il regionale della Canzo-Asso, con le sue carrozze grigeverdi e blu? Uno scenario che stava compiendosi, anche quel giorno: il locomotore con i fari bianchi accesi, lo sferragliare del vecchio treno sulla rotaia. Ormai un particolare solito, familare, delle sue mattine. Ma quel mattino di trentadue anni fa, per Paolo Giorgetti, classe 1962, il figlio secondogenito di Carlo e della signora Augusta Orsenigo, si stava compiendo un destino tragico: tre uomini, in piedi vicino a un’Alfetta bianca, fermi a chiacchierare, appena il giovane gli sfila accanto, lo agguantano brutalmente e lo trascinano verso l’auto. Paolo si dimena, cerca di sfilarsi, di sottrarsi a quella morsa, disperatamente, fino a scagliare contro gli aggressori i libri di scuola, fin quando l’odore infernale del cloroformio di cui è imbevuto il tampone che gli premono alla faccia lo vince, i miasmi gli fanno perdere i sensi e cade disteso nel sedile posteriore dell’auto. In un attimo il motore dell’auto, forse tenuto acceso, romba via. Nella strada rimane solo il vento freddo che scende dai monti. Poche decine di metri più avanti, al passaggio a livello nessuno s’è accorto di niente. Solo i macchinisti delle Nord, dalla loro cabina, forse parlottando del più o del meno, di calcio o di politica come accadeva in quegli anni, hanno visto la scena, notato la mossa, guardato la macchina sgommare. Sono loro che danno l’allarme, con la voce rotta dall’emozione: hanno rapito un ragazzo, per strada, a poche decine di metri dalla stazione di Meda. La notizia non ci mette molto ad arrivare a casa Giorgetti. Forse la portano i carabinieri, che hanno verificato con la scuola: Paolo non è arrivato al Marie Curie, Paolo è stato sequestrato. Sequestrare, un verbo che oggi, nel primo decennio degli anni 2000, si usa per le merci false o rubate o per

la droga. Allora, nella Brianza degli anni 70, ancora piegata dalla crisi e dall’inflazione, ancora segnata dalla paura della diossina, si sequestravano le persone. E non solo in Brianza. Per soldi. Cristiani contro soldi; figli, mariti, mogli, contro danaro,

in un feroce baratto. Pochi anni prima, era successo a Cristina Mazzotti, diciottenne di Eupilio, rapita in una sera di giugno, mentre tornava a casa con gli amici. Alla famiglia erano arrivate richie-

ste miliardarie, che il padre della giovane, anche volendo, non sarebbe riuscito a soddisfare. Poi, i rapitori s’erano accontentati di meno e avevano incassato i danari. Ma la giovane a casa non era tornata: avvelenata dai sonniferi che i suoi car-

Corte d’Assise TRENT’ANNI ALLA BANDA DI VENEGONO Un caso giudiziario lampo: due anni fra indagini e giudizio, in Tribunale a Monza, dove il 5 marzo 1979 si pronunciano molte sentenze di condanna. Tutti italiani, residenti a Venegono e zone limitrofe. I fratelli G.,V. e G. L. sono condannati a 30 anni per il sequestro, l’uccisione e l’occultamento di cadavere. Con loro S. I., A. B. e A. M. Pene inferiori, per G. M., 24enne, condannati a 24 anni, e per il ventunenne A. L., fratello dei principali imputati, e R. S. Era stato proprio A., il più giovane dei quattro fratelli L., a raccontare tutto ai carabienieri che avevano fermato il gruppo. Completamente assolto, invece, il decimo imputato: G. M. Ma è a Milano, durante il processo di appello che, come riporta il 24 novembre del 1981,

l’Ordine della Brianza, viene introdotto un fatto nuovo. Durante il dibattimento, che uno dei sequestratori, forse per alleggerire la posizione degli incarcerati, fa il nome dell’uomo cui, nel pomeriggio di quel 9 novembre, avrebbe tenuto sequestrato Paolo in un garage alla periferia di Meda: si tratta di S.A.,detto Sasa, latitante. Il carceriere aveva infatti dato il cambio a G. L., che aveva custodito il giovane per tutta la mattina ma, «al suo ritorno al box, nel pomeriggio, lo stesso A. gli avrebbe detto che Giorgetti era morto, dopo che gli era stato somministrato un secondo tampone di etere». Il processo d’appello si conclude il 1 dicembre 1981. Confermate le pene dei tre fratelli L.. Assoluzione con furmla piena per G.M. che, in primo grado, aveva avuto 30 anni.


mentre si reca a scuola

BIA E LA PAURA

in via Francia, alle otto di mattina. Due macchinisti delle Nord inieri hanno già fermato alcuni sequestratori, lo trovano morto a offocato con il cloroformio. Condanne a 30 anni per tre fratelli Nella foto di Pietro Vismara, il corteo funebre che accompagnò Paolo al cimitero di Meda

Le reazioni MINISTRO, FACCIA QUALCOSA Una folla imponente aveva partecipato ai funerali. La città del mobile s’era fermata e, idealmente, tutta la Brianza che, notoriamente, non si ferma mai. Ma la morte orribile di «chel bagaj», la fine atroce e ingiusta di Paolo, aveva scosso ognuno. E la modalità odiosa e temeraria del rapimento - la mattina alle otto, in mezzo a una via centrale, nel tragitto quotidiano dalla casa alla scuola, mentre passava un treno di pendolari - aveva aggiunto sconcerto e paura. E interrogato tutti sul valore della vita in un tempo così cupo. Rapire un ragazzino, venderne la libertà per danaro, come per un animale e, come per una bestia, non averne riguardo tanto da farlo morire, disfarsi delle sue povere spoglie in maniera ignobile, senza nemmeno l’ultimo pensiero di restituire ai suoi il corpo sui cui piangere prima della sepoltura, era troppo, davvero troppo. In quelle giornate di dolore e di rabbia, i medesi raccolsero 27mila firma e le inviarono al ministro dell’Interno, Virginio Rognoni. Faccia qualcosa, signor ministro, dissero i brianzoli, rispettosamente, com’erano abituati a fare. Faccia qualcosa, prima che sia troppo tardi. Invece, il dramma dei Giorgetti non era che l’inizio, altre famiglie brianzole avrebbero, da quel giorno in poi, trepidato a ogni ritardo di un proprio caro, avrebbero pianto alla notizia che qualcuno, incappucciato, gli aveva strappato un affetto. Per fortuna, pochi altri avrebbe pagato con la vita ma le vite di molti, da quel giorno di novembre, cambiarono e per molto tempo.

cerieri le somministravano. Quel giorno era toccato a Paolo. E chissà se, risvegliandosi in un garage, dove i rapitori l’avevano immediatamente condotto, come ricostruiranno poi gli inquirenti; chissà se, riaprendo gli occhi, il giovane

non avesse pensato a Cristina, poco più grande di lui portata via, e per sempre, a pochi chilometri da lì. Chissà cosa avrà pensato, quale tormento, quale rabbia avrà vissuto. Quale struggimento per i suoi, a casa che, in quel momento - lo

sapeva - trepidavano per lui. Non sappiamo che cosa sia accaduto in quel garage, che secondo le autorità non era molto distante dal luogo del sequestro: forse Paolo si è agitato, forse ha provato a chiamare aiuto, a eludere la sorveglianza dell’unico carceriere cui era stato affidato, prima di essere trasportato in un altro luogo, più lontano, nel Varesotto, a Venegono superiore, dove la banda aveva prepararato già il nascondiglio per la sua preda pregiata. Certo è che S.A., il suo sequetratore, ha di nuovo imbevuto uno straccio di cloroformio per addormentarlo. Che cosa accadde poi non è dato sapere. Forse la sostanza chimica è troppa, forse la disfunzione al setto nasale di cui il giovane soffre e che non gli permette di respirare bene, certamente le due cose insieme ma Paolo Giorgetti, in un istante, muore. Muore mentre i carabinieri lo cercano, mentre i suoi si disperano e aspettano che il telefono squilli, che una voce anonima dica: dateci i soldi. Muore a 16 anni, mentre i suoi compagni di classe sanno solo che non c’è e magari si sono chiesti da

poco: «Ma il Giorgetti s’è ammalato?». Ma la tragedia, putroppo non è finita. Mentre in quella notte, le gazzelle dell’Arma sono già arrivate a Venegono - perché i movimenti in quella villetta erano stati segnalati così come lo erano gli uomini che ci gravitavano - mentre le manette si stringevano ai polsi di un gruppo di 30enni, alcuni fratelli fra loro, tutti calabresi d’origine, una segnalazione arriva da Limbiate: nel Parco delle Groane, c’è un Alfetta che brucia. Corrono, i militi, e nel bagagliaio, trovano un corpo incappucciato e rannicchiato. Dubbi non ce ne potevano essere: i tempi, l’auto, il corpo, non ancora adulto. Un mazzo di chiavi con un moschettone, mostrato agli amici, basta a fugare ogni dubbio: dentro quella macchina maledetta c’era lui. Non solo la libertà violata, brutalmente, in mezzo alla via; non solo la vita spezzata, barbaramente, per domarlo come un animale; a Paolo, ai suoi, ai medesi, tocca anche l’affronto di un povero corpo martoriato, di una bauliera carbonizzata, in una notte fredda in mezzo alle Groane ammutolite

5 Ottobre-Novembre 2010

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Numeri del crimine

Diciannove in dieci anni Diciannove rapimenti di cui tre mortali in dieci anni: è il bilancio dei sequestri in Brianza, tracciato dal Giorno del 17 marzo 1984, alla viglia di un importante convegno organizzato dal Rotaract di Seregno-Desio-Carate a Lesmo, su malavita organizzata e sequestri. Attorno a un tavolo, quella sera, ci furono magistrati in prima linea nella lotta alla mafia, come Giovanni Falcone, Marcello Maddalena (procuratore a Torino), Piercamillo Davigo (pubblico ministero a Milano). E il raduno è l’occasione appunto per un bilancio della stagione dei sequestri. Come ricorda il quotidiano, prima ancora di Cristina Mazzotti, il debutto dei sequestratori in Brianza era stato ancora a Meda dove, l’11 febbraio 1974, era stato rapito Fazio Longhi, 16 anni, come Giorgetti figlio di un mobiliere. Dopo una prigionia di 65 giorni e 500 milioni di lire di riscatto era stato rilasciato. L’anno nero era stato il 1977, con sei sequestri: Maurizio Colombo, Alfredo Cozzi, Giovanni Brega, Giovanni Bolloli (per il quale la Procura inaugurerà la strategia del blocco dei beni familiari), Alfredo Terragni e Luigi Galbiati, conclusosi tragicamente con l’uccisione del commerciante di Bovisio. Un’altra vittima anche nel 1980: il concessionario di auto monzese, Adelmo Fossati. Nello stesso anno rapiti Simonetta Lorini, Luigi Mariani e Giovanna Cesana mentre, nel settembre del 1983, viene sequestrato a Giussano, il mobiliere Ambrogio Elli, patron della Feg.


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GIUSSANO 1940-1945

Ottobre/Novembre 2010

Italiani che combattono in Africa settentrionale. Su questo fronte, molti i brianzoli

Rievocazioni Seconda Guerra, tributo alle vittime brianzole

QUELLI CHE NON TORNARONO Dal fronte greco alla Russia, dall’Africa settentrionale alla guerra di liberazione (su entrambi i fronti): un libro ripropone le storie di 106 giussanesi caduti nell’ultimo conflitto

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entosei vite interrotte, da una pallottola, da uno spezzone d’artiglieria o semplicemente da una malattia mal curata in un precario ospedale da campo o in prigionia. Sono i 106 giussanesi caduti nella Seconda guerra mondiale, le cui biografie sono state riportate a galla da una pubblicazione della storica Paola Chiesa, su incarico del comunedi Giussano. Il libro, Il futuro nella memoria edito da Guardamagna, ricostruisce, grazie agli archivi militari, il profilo dei tanti caduti cittadini. Giussanesi di residenza e di nascita, anche se non mancano quanti vivevano in città al momento della chiamata alle armi, pur essendo nativi di Briosco, Verano, Lissone, Costamasnaga. Giussanesi adottivi anche altri lombardi (di Lecco, di Milano e di Mantova), due veneti, un barese e un siciliano di Agrigento, un toscano della Lunigiana, finiti i Brianza per chissà quali vicissitudini personali e familiari. Per ognuno dei caduti, Paola Chie-

sa ha riprodotto spesso le foto e una scarna biografia desunta dai fogli matricolari: date di nascita, livello di istruzione, arruolamenti, servizi precedentemente svolti in grigioverde e, inevitabilmente, i riferimenti delle morti o delle dispersioni. Gli archivi hanno alcune volte restituito lettere personali, minute delle comunicazioni degli uffici - spesso al comune di appartenenza - in cui si riportavano le notizie dei decessi

da comunicare ai familiari «con i dovuti riguardi», come scriveva la Croce Rossa, o le indicazioni delle tumulazioni avvenute, con il dettaglio spesso della tomba, per favorire, un giorno, il recupero delle salme. Militari ma anche partigiani e repubblichini Una mesta burocrazia della morte, con frequente indicazione delle cause - fatti d’arme, malattie, ma

anche incidenti essendo la guerra un evento ferocemente complesso - che si dipana per oltre 500 pagine. Numerosi i documenti recuperati dagli archivi comunali ma anche fotografie e lettere arrivati dai discendenti di quei caduti, che le avevano sin qui conservate con religiosa devozione. Non mancano neppure alcuni militari che, una volta sbandati o fatti prigionieri, decisero di diventare

Fronti opposti FRA GLADIO E FAZZOLETTO ROSSO CONCITTADINI CONTRO Fra le storie dei Giussanesi caduti nell’ultima guerra, anche quella di chi, dopo l’8 settembre 1943, si schierò su fronti opposti: quello dei resistenti e quello dei fascisti della Repubblica sociale. Nel primo, militò Luigi Colombo, classe 1923. Fante in Jugoslavia, al momento dell’armistizio firmato da Badoglio, si sottrae ai Tedeschi e, dal 9 ottobre, si schiera con i partigiani di Tito, morendo in combattimento il 18 aprile del 1945. Di Giuseppe Colombo, classe 1925, si sa invece che viene catturato come partigiano della Brigata garibaldina «Francesco Nullo» e muore nel campo di prigionia di Blankenhain in Germania, il 7 agosto 1944. È invece legionario della Muti, Carlo Colzani, classe 1925, morto nel dicembre 1944, «per incidente da arma da fuoco», stessa causa che costò la vita a un altro giussanese arruolato sotto le insegne di Salò: Mario Varenna, nato nel 1914, effettivo della Brigata nera «Aldo Resega» a Milano. Muore il 20 aprile del 1945.


7 Ottobre/Novembre 2010

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Di chi si parla

La memoria e la sobrietà

La storia ETTORE NATALE, DA GIUSSANO AL DESERTO DEL SAHARA Dalla Brianza a Giarabub. Ettore Natale Sironi, classe 1909, non avrebbe mai immaginato di finire nelle oasi del deserto libico. Chiamato alle armi nel 1930, arriva in Libia nel 1937, con i gradi di sergente. Non siamo ancora in guerra ma i venti del conflitto spirano fortissimi: da un anno è stato proclamato l’Impero e l’Abissinia si è andata ad aggiungere ai possedimenti libici. Le foto mostrano Sironi con il classico copricapo allungato delle truppe in Africa, con i galloni sulle maniche. In altre, si vedono la sabbia del deserto e i palmizi sullo sfondo. Ma Sironi non partecipa alla strenua difesa dell’Oasi ,nel marzo del 1941, quello che ispirà la famosa Sagra, - Colonnello, non voglio pane,dammi piombo pel mio moschetto! - Ettore viene infatti congedato nel 1938. Ma non è finita: nel 1942 è richiamato nuovamente al battaglione costiero di stanza a Scalea (Cs). Nel luglio del ’43, morirà sotto le bombe degli angloamericani.

partigiani e combattere quel che restava di nazismo e fascismo, come Luigi Colombo e Giuseppe Colombo; così come figura, fra i caduti, un giovane giussanese, Mario Varenna che, dopo l’8 settembre del 1943, aveva deciso di arruolarsi sotto le insegne della Repubblica sociale, finendo fra le fila della Brigata nera Aldo Resega, impegnata in una dura azione di repressione proprio nel Milanese e in Brianza; o come Carlo Colzani, legionario della «Ettore Muti». Tutti «presenti alle bandiere», come si diceva una volta intendendo l’omaggio a chi dava la vita per la propria patria. E tutti i centosei, semplici militari morti sul fronte greco, alpini dispersi nel gelo Russo, bersaglieri schiacciati dai cingoli inglesi a El Alamein, fino ai partigiani morti lottando contro i tedeschi o i brigatista neri che combattevano per il gladio di Salò, sono andati verso la morte per quel senso del dovere, di ineluttabilità della storia, proprio della gente semplice. Piccoli uomini di provincia, spesso gente umile, operai, contandini, fornai, che si sono immolati silenziosamente, fra piccoli e grandi eroismi, se non sul campo di battaglia, certamente nella inimmaginabile lontananza dalla casa e dagli affetti, nell’angustia e nella sofferenza della vita militare durante un conflitto feroce come fu la Seconda guerra mondiale. I loro volti sono certamente la parte più bella del libro: capelli imbrillantinati e comunque pettinati all’indietro, secondo la moda dell’epoca; talvolta baffetti curati, cappello sulle ventitre per chi si faceva ritrarre in divisa, sempre o quasi volti sorridenti di chi pensa alla mamma, alla morosa, agli amici dell’oratorio da riabbracciare, un giorno, finita quella guerra maledetta. Nessuno

di loro sarebbe invece tornato agli affetti, alle amicizie, alle passaggiate al laghetto o alla gite in bici fino a Como o alle domeniche a Milano con lo sferragliante tram che partiva da Piazza Roma. Quelli che non tornarono. Neppure da morti Anzi, qualcuno non è riuscito a tornare neanche da morto. Felice Citterio, classe 1912, figlio di Carlo e Giulia Colombo artigliere dell’Armir, il corpo d’armata italiano in Russia, si è fermato ad Aleskin, nelle Regione di Tula, dove i sovietici l’avevano condotto pri-

gioniero e dove è morto, probabilmente di stenti, il 1 aprile del 1943. Fra le oltre 500 pagine anche alcune sulla vita civile a Giussano negli anni del conflitto, pregevolmente curate da Tiziano Motta, funzionario comunale e appassionato di storia locale: una ricca documentazione d’anagrafe, con statitistiche di ogni genere sulla vita paesana negli anni del conflitto. C’è il dettaglio degli esercizio commerciali (nel 1939 c’erano, per esempio, 29 fra osterie, trattorie, caffè e nove parrucchieri), le istanze per i trattamenti previdenziali, le disposizioni in materia di sfollati che, con l’ini-

zio dei bombardamenti su Milano, si riversarono sulla Brianza. Nel complesso, si prova un senso di gratitudine per questi tanti, troppi morti silenziosi; di rispetto per le loro tragiche vite travolte nel gorgo della storia e, contemporaneamente, un sentimento di ripulsa per la guerra, folle gioco distruttivo che al solito sacrifica i più piccoli fra i suoi spesso involontari protagonisti. Centosei uomini non illustri di Giussano che, in qualche modo, ci parlano del nostro futuro, come dice anche il titolo del libro: che nessuno abbia più da morire così

I fratelli CARO SANDRO, CARO PIERO «Caro fratello, molto dispiacente di quello che è capitato. Sai che Albino è morto?». Sandro Merati, militare della Divisione Legnano scrive al fratello Piero, giussanese classe 1914, è in Jugoslavia, dove fa parte della Compagnia di sussistenza, dato che nella vita civile, in Brianza, fa il panettiere. La missiva, datata 12 maggio 1943, riemerge dalle carte di archivio di questo caduto giussanese, figlio di Carlo e di Giuseppa Sironi. Si parla di un amico morto al fronte. «Chissà i suoi genitori cosa dicono», scrive Sandro, passando poi ad augurarsi di poter reincontrare il fratello magari durante una licenza: «Fra giorni vengo a casa in licenza e tu quando vai a casa ancora? Mi piacerebbe trovarsi a casa assieme che è molto tempo che non si vediamo più e ti ringrazio delle 100 lire che hai dato al mio amico». Le notizie sulla salute precendono, come in molte lettere di quell’epoca, il commiato: «Io mi trovo in ottima salute come spero anche di te. Ti saluto e e cerca di passartela bene.». È invece di pochi giorni dopo, 25 maggio dello stesso anno, una lettera che Piero Merati invia ai suoi, a Giussano. Da quello che si riesce a leggere, si parla ancora della morte dell’amico Albino, delle notizie giunte dal fratello Sandro: «Ricordandovi, Pietro, arrivederci, ciao». Di lì a pochi mesi, l’8 settembre, come molti altri militari italiani in Jugoslavia, sarà fatto prigioniero dai Tedeschi. Morirà in Germania, nell’ospedale militare di Sandbostel, per una tubercolosi.

Oltre cento giussanesi ricordati a 60 anni dalla guerra che li avrebbe uccisi, con un libro e una mostra. Un modo concreto per onorare la memoria dei caduti e per costruire la memoria di una comunità: bravo assessore Marco Citterio: diciassettemila euro spesi bene. L’opera della storica Paola Chiesa però qualche neo ce l’ha: le centosei schede sono tutte desolatamente uguali: iniziano con «Nasce a», proseguono con «frequenta la classe» quindi «all’atto dell’arruolamento», terminano con «è deceduto». Insomma, tanto sforzo di ricerca archivistica avrebbe meritato una scrittura migliore, invece del pratico ma freddo «copia e incolla» dei programmi di videoscrittura. Iperbolica poi la biografia dell’autrice: 35 righe che occupano i tre quarti del risvolto di copertina, un record editoriale. Nessuna scheda di caduto è così lunga. Fra le tante cose che della Chiesa si sente il bisogno di segnalare anche le benemerenze della Provincia di Pavia e il premio «Donna dell’Oltrepò» conferitole nientemeno che dal Lions Club di Stradella. Un lavoro sulla memoria, specialmente se sostenuto da danaro pubblico, avrebbe richiesto una maggiore sobrietà. Ancora meno felice la presentazione del libro, avvenuta il 23 ottobre, nella Sala consiliare: felice intuizione di premiare gli ex-combattenti ancora in vita ma perché non farne parlare nemmeno uno? E sì che alcuni erano, buon per loro, in perfetta forma. Al contrario si è preferito dare la parola a un comandante alpino che aveva l’unico merito di essere stato responsabile degli archivi durante la ricerca. GdM


8 Ottobre /Novembre 2010

Cultura. 1950-1980 I più raffinati pubblicitari italiani al servizio dell’industria

RECLAME BR

Un libro ripropone l’alleanza fra la fabbrica brianzola e gli studi di c al servizio della creatività mobiliera. Campagne che riconsegnano

BRIANZA 1950-1970

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rianza mecenate di fatto. Negli anni ’50 e’60, l’industria mobiliera si affida ai maestri grafici di Milano per le réclame dei propri prodotti in Italia e non solo. Così dalla mano dei vari Confalonieri, Iliprandi, Negri, Munari o Noorda, escono soggetti, creatività, bozzetti destinati a fare scuola. Proprio una recente pubblicazione dell’Associazione italiana progettazione per la comunicazione visiva-Aiap, che raduna grafici e illustratori, ripropone alcuni dei lavori più significativi dei grandi maestri in quegli anni. Il libro, La grafica del made in Italy - Comunicazione e azienda del design 1950-1980, offre molti esempi di questo fecondo rapporto fra la laboriosità degli industriali brianzoli e il genio creativo degli illustratori meneghini. C’è un’esplosione di segni nei manifesti di Giulio Confalonieri , milanese, nato nel 1926 e scomparso nel 1972, approdato all’illustrazione dopo aver studiato in Bocconi. A ispirarlo le cucine Boffi di Cesano Maderno. Per l’azienda cesanese, Confalonieri firma campagne nel 1966 e nel 1967, mixando spesso l’immagine fotografica e l’illustrazione o la costruzione visiva. Insieme a Ilio Negri, Confalonieri pubblicizza anche la medese Cassina, all’epoca Figli di Amedeo Cassina. Negri, bocconiano anche lui, classe 1926, intrigato dalla grafica avendo frequentato la tipografia paterna, firma varie campagne dedicate alle sedie delle azienda, fra il 1959 e il 1960: le foto della Castyro, modello di punta della produzine medese, e segno grafico si alternano. È un’azienda brianzola d’adozione la Arflex, essendo milanese di nascita, ma l’ironica campagna del milanese classe 1925, Giancarlo Iliprandi, Sediamoci ogni tanto, firmata nel 1970, merita d’essere ricordata per la freschezza dei suoi codici visuali. L’immagine del ghisa sul divano è l’icona di un’epoca

ARFLEX DA MILANO Fondata nel 1947 a Milano da un architetto, Marco Zanuso, e da alcuni ex-tecnici Pirelli, Arflex diventa in breve la regina del design. Negli anni ’70 apre a Limbiate. Oggi è a Giussano


mobiliera. E i manifesti diventano opere d’arte

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RIANZA

Ottobre /Novembre 2010

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comunicazione milanese. Segno grafico e linguaggio visuale intatto il fascino di un’epoca e di una genialità produttiva

CASSINA GIO & LE CORBU L’azienda di Amedeo nasce nel 1927 a Meda ma nel 1952, insieme al grande progettista Ponti, arreda l’Andrea Doria. Negli anni ’60 acquista e riproduce le sedie progettate da Le Corbusier

BOFFI CLASSE 1934 Pietro Boffi lascia la Caproni, presso la quale lavora, e si mette a fare mobili. In cascina. La fabbrica arriva nel ’47, coinvolgendo i figli Dino, Pier Ugo e Paolo. Nel 2000 la Boffi apre a Soho, New York.

Di che si parla

Antologia di bellezza Centovantacinque pagine che ripercorrono una stagione esaltante, quella dei grandi maestri della grafica al servizio dell’industria italiana. Fra il 1950 al 1980, grazie alla pubblicità, l’arte di Dante Bighi, Albe Steiner, Massimo Vignelli, Bob Noorda, Bruno Munari e molti altri arriva agli Italiani. Un’antologia dei lavori più significativi di questi maestri del segno è stata curata da Mario Piazza per l’Associazione italiana progettazione per la comunicazione visivaAiap. Il volume, intitolato La grafica del made in Italy Comunicazione e aziende del design 1950-1980, presenta, uno ad uno, i grandi illustratori, accanto a una selezione di manifesti, bozzetti di campagne, immagini. Il volume si trova in libreria ma può essere richiesto all’Aiap a Milano, via Amilcare Ponchielli 3, email aiap@aiap.it@aiap.it


10 Ottobre/Novembre 2010

L’attore Mario Mascitelli sulla scena di Sante Pollastri, un bandito al Giro. Sotto una foto del fuorilegge di Novi Ligure

CARATE 1927

Cronaca 1927 un brianzolo nella banda Pollastri

FRA IL BANDITO E IL CAMPIONE Luigi Nera, caratese di 28 anni, arrestato a Milano dopo un tentantivo di furto, viene accusato di far parte della gruppo di rapinatori sanguinari che sta terrorizzando il Nord Italia

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n brianzolo nella banda di Sante Pollastri, un caratese fra i malviventi che terrorizzarono l’Italia del Nord ma anche Parigi, dove si erano trasferiti, con sanguinose rapine. Il malvivente cresciuto in riva al Lambro era Luigi Nera, classe 1899, figlio di Giovanni Nera e di Giovanna Colombo. Il suo nome assurge alle cronache in una giornata novembrina del 1927, dopo che la polizia milanese gli ha stretto i ferri ai polsi. «Uno della banda Pollastro, arrestato dopo molta corsa notturna», titola La Stampa di Torino a pagina 4, il giorno 26. Pollastro perché

il giornale torinese, incorrendo in un errore, storpiava così il cognome del bandito nativo di Novi Ligure, passato alla storia per la sua controversa amicizia con il concittadino e campione ciclistico Costante Girardengo, cui è stata dedicata negli anni ’90 una celebre canzone di Francesco De Gregori (vedi box, a fianco, ndr), uno spettacolo teatrale e, poche settimane fa, una fiction televisiva con Fiorello junior. Per Nera, arrestato per un tentato furto in un magazzino di foraggi in zona Lambrate (80 anni fa, Milano era ancora un grande città agricola), il capo di imputazione si fa subito pesante: lo si sospetta di essere stato presente alla

sparatoria avvenuta in un’osteria di via General Govone, 17 novembre del 1926, in cui morirono due agenti di pubblica sicurezza. Ad acciuffare il Nera era stato, un commissario, il dottor Tomassino che pattugliava il quartiere con tre agenti, richiamato dalle urla del guardiano del magazzino che si affacciava fra via Saccardi e via Rimembranze. «Con le rivoltelle spianate», scrive La Stampa, «gli agenti si dettero all’inseguimento del fuggiasco in quella frastagliata zona di Lambrate, tutta rotta da corsi d’acqua per l’irrigazione degli orti, da avvallamenti e da piccole montagnole. Ma il ladro non ebbe fortuna: dopo molta corsa, fu raggiunto tutto bagnato. Era caduto in un fosso, dove egli si illuse di poter sfuggire all’inseguimento. Anche due degli inseguitori caddero nel fossato», prosegue un anonimo redattore, «ma subito ne

uscirono più che mai risoluti. Sparati alcuni colpi, si videro dinnanzi il delinquente con le braccia alzate, in atto di resa». È nella perquisizione, al commissariato di Lambrate, che per Luigi Nera da Carate iniziano i guai veri. Dalle tasche del suo vestito, oltre a una polizza al Monte di pietà meneghino, dove probabilmente aveva impegnato della refurtiva, spunta una foto che lo ritrae con un gruppo di uomini fra i quali, al commissario Tomassino «sembrò di ravvisare altre tre sue conoscenze». La memoria del questurino non impiega molto ad arrivare ai volti di Pollastri, Massari detto Martin e un altro membro della banda dei famosi rapinatori. Fra gli effetti personali del caratese, anche alcune (allora) recenti lettere provenienti dalla Francia, dove il Pollastri e i suoi stavano imperversando. Fino a tirar fuori il fascicolo del fattac-


cio dell’osteria con l’omicidio dei due poliziotti, in cui Nera viene più volte citato. Luigi Nera capisce in un istante che essere associato a cotanti banditi poteva significare, per lui, l’ergastolo. E collabora, rispondendo alle domande. «Mi trovavo a Como, in stagione (dove si intende, proprio quella del mariuolo, ndr), allorquando comparvero le pubblicazioni dai giornali sui delitti commessi dalla banda Pollastro e sull’avvenuto arresto del capo. Notai», proseguono le dichiarazioni del brianzolo, «che incidentalmente tali pubblicazioni, senza fare il mio nome, mi indicavano con il nomignolo col quale sono conosciuto negli ambienti della malavita. Troncai di conseguenza la stagione, che per suo inizio si riprometteva fruttifera, e riparai a Milano, ove riuscii a celarmi per tutto questo tempo». Alla domanda, che cosa avesse fatto sul Lario, Luigi Nera risponde minimizzando: «Rapinai qualche passante e due carrettieri di Carate, ai quali portai via della merce che era caricata sui carri. Quella gente», conclude il bandito, «viaggia con così poco che il rischio è molto maggiore del guadagno». Il commissario, «che si era accorto di aver arrestato un delinquente che, un tempo, con i suoi affiliati andava terrorizzando le strade della Brianza con quotidiani assalti ai carrettieri e agli stabilimenti isolati», lo incalza con nuove domande. Nera ammette una rapina a mano armata, avvenuta all’inzio dello stesso mese a Lambrate, in cui fra i valori sottratti, figurava un orologio a catena - trovato indosso al bandito - e lo stesso abito, riconosciuto in seguito come quello che il caratese indossava al momento dell’arresto. Idem, per un’altra rapina ai danni di un giardiniere, avvenuta nei giorni successivi. Sottoposto al fuoco di fila delle domande, Nera fa anche le prime ammissioni sui suoi rapporti con la banda Pollastri-Martin: «Li ho conosciuti in Francia», deve confermare il bandito, che continua però a prendere le distanze dal gruppo dei sanguinari rapinatori. Dalla cronaca del 1927, si capisce che il commissario Tomassino non è intenzionato a fermarsi qui: «Egli deve certo sapere parecchio sul conto di Pollastro», scrive il quotidiano. A spingere il questurino è anche il verbale di un arresto avvenuto proprio a Como, un anno prima, dello stesso Nera, riconosciuto come affiliato alla banda e poi rilasciato a Milano, dopo un interrogatorio. I mezzi con cui lavorava la polizia degli anni 20 erano d’altra parte davvero scarsi: verbali, relazioni, rare fotografie e di pessima carte da sfogliare ogni volta. Tomassino sarà probabilmente sobbalzato apprendendo che il caratese era stato acciuffato almeno un anno prima. Ma sfogliando il medesimo faldone, trova anche l’elemento che lo inchioda alla banda: a Milano aveva fissato la sua dimora in un’osteria di Porta Romana, la stessa in cui stava nascosto Aristide Casini, complice di Pollastri. Caro il mio brianzolo, avrà probabilmente pensato il funzionario, qui per te le cose si mettono male. Nera però non sarà processato col resto della banda nel ’29 (vedi box a fianco, ndr): era probabilmente riusicito a dimostrare che era un rapinatore ma non un assassino

11 Ottobre/Novembre 2010

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Di chi si parla

Dal Giro al tribunale L’articolo della Stampa che riporta la notizia dell’arresto di Luigi Nera a Milano. Sotto, Girardengo e, a fianco, Beppe Fiorello nella fiction televisiva.

La banda QUEI RAPINATORI GUASCONI E DALLA PISTOLA FACILE Gruppo di banditi in un interno. Le cronache degli anni ’20 non ci mostrano la famosa foto parigina che immortala il gruppo degli italiani-canaglia che terrorizzarono la Ville Lumière, a metà di quel decennio. Possiamo solo immaginarli, guasconi e spavaldamente truci, in attesa del lampo di magnesio. Ma sono invece i giornali del 1929, anno del processo a Pollastri, Massari detto «Martin» e tutti gli altri, a fornire la ricostruzione delle loro vite un po’ folli e della scia di sangue che si lasciavano dietro. Come accadeva allora, i dibattimenti processuali, in assenza della tv e con una radio ancora agli albori, si trasformavano in vere e proprie scene teatrali, magistralmente descritte dai cronisti di punta di quotidiani e rotocalchi. E la vicenda Pollastri, con tutti i suoi morti ammazzati, col risvolto esotico dell’espatrio, con quello sovversivo per le idee anarchiche di alcuni e per l’uccisione anche di una militante fascista, persino con il coinvolgimento di un mito sportivo di quegli anni, come Girardengo, offriva tutti gli elementi per un perfetto feuilleton in salsa gialla. I delitti del gruppo vengono ricostruiti nel dettaglio: dal cassiere di Tortona, derubato ed ucciso da Pollastri («forse per sbaglio»), l’assassinio di due carabinieri a Mede in Lomellina, al furioso scontro a fuoco di Rho, in cui sette poliziotti furono feriti, all’omicidio di un orafo milanese, anch’egli rapinato, sino alla clamorosa operazione di via General Govone in cui, un’imboscata della Questura al gruppo si risolve con due morti fra i poliziotti. Il 20 novembre del 1929, Pollastri e l’anarchico Peotta furono condannati all’ergastolo, pene minori agli altri.

La canzone POLLASTRI E GIRARDENGO SECONDO DE GREGORI Due ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta/un’unica passione per la bicicletta/un incrocio di destini in una strana storia/ di cui nei giorni nostri si è persa la memoria/una storia d’altri tempi, di prima del motore/quando si correva per rabbia o per amore/ma fra rabbia ed amore il distacco già cresce/e chi sarà il campione già si capisce/Vai Girardengo, vai grande campione/nessuno ti segue su quello stradone/Vai Girardengo, non si vede più Sante/è dietro a quella curva, è sempre più distante./E dietro alla curva del tempo che vola/c’è Sante in bicicletta e in mano ha una pistola se di notte è inseguito spara e centra ogni fanale/Sante il bandito ha una mira eccezionale/e lo sanno le banche e lo sa la questura/Sante il bandito mette proprio paura/e non servono le taglie e non basta il coraggio/Sante il bandito ha troppo vantaggio./Fu antica miseria o un torto subito a fare del ragazzo un feroce bandito/ma al proprio destino nessuno gli sfugge/cercavi giustizia ma trovasti la Legge./Ma un bravo poliziotto che sa fare il mio mestiere/sa che ogni uomo ha un vizio che lo farà cadere/e ti fece cadere la tua grande passione/di aspettare l’arrivo dell’amico campione quel traguardo volante ti vide in manette/brillavano al sole come due biciclette/Sante Pollastri il tuo Giro è finito/e già si racconta che qualcuno ha tradito. /Vai Girardengo, vai grande campione nessuno ti segue su quello stradone/Vai Girardengo, non si vede più Sante/è sempre più lontano, è sempre più distante/sempre più lontano, sempre più distante… /Vai Girardengo, non si vede più Sante/Sempre più lontano, sempre più distante... Il bandito e il campione, Francesco De Gregori

Un campione nell’aula di una corte d’Assise, un ciclista di fronte a una corte, seppure come testimone. L’Italia intera seguì dai giornali la testimonianza di Costante Girardengo al processo milanese contro la Banda di Sante Pollastri, il 4 ottobre del 1929. Il campionissimo di Novi Ligure (Alessandria), classe 1893, vincitore di due giri d’Italia e di molti altri trofei, fu infatti chiamato a testimoniare, avendo conosciuto il bandito, suo concittadino, e di averne raccolto addirittura la testimonianza. Non senza imbarazzo, colui che aveva duellato con Alfredo Binda, rispose alle domande di un giudice piuttosto insistente. Nel tribunale milanese, Girardengo raccontò d’essere stato avvicinato una volta a Parigi dal Pollastri, nel 1927,dopo una vittoria al Velodromo «Buffalo», della capitale. Manifestatosi come tifoso e compaesano, Pollastri raccontò, come in una confessione religiosa, tutte le sue vicende criminali, scagionando, proprio per un delitto comesso a Novi Ligure, due persone che erano state condannate.


12 Ottobre/Novembre 2010

Politica Cattolici vanno al referendum e vengono sconfitti

E IL DIVORZIO DIVISE L’ITALIA Nel dicembre del 1970, i partiti laici fanno approvare la storica legge che rende dissolubile il matrimonio confermata quattro anni dopo da una valanga di voti

BRIANZA 1970-1974

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l paragone è addirittura con Porta Pia, di cui è appena ricorso il centenario. La legge Baslini-Fortuna, approvata dal Parlamento martedì 1 dicembre 1970 (319 sì, 286 no), ha da subito messo in moto i cattolici italiani che si muovono per abrogarla. Nei mesi precedenti la discussione della norma, le gerarchie e la stampa si mobilitano: se, come sembra, il divorzio passerà, nasceranno in tutta Italia i comitati che raccolgano le 500mila firme necessarie a chiedere un referendum abrogativo. Sul Cittadino del 6 giugno 1970, la campagna di sensibilizzazione dei cattolici è all’acme. Nelle pagine limbiatesi del giornale cattolico, si può leggere un articolata presa di posizione su come la legge sia «uno schiaffo morale agli italiani». Caricando la legge di significati anti-cattolici: «Da troppi indizi, del resto, traspare una comune matrice laicista, in cui convergono i gruppi parlamentari favorevoli al divorzio. Il centenario di Porta Pia lo si vorrebbe ad ogni costo sottolineato con un fatto che la maggioranza ancor sana degli Italiani non ha voluto accettare». A corredo dell’ampia pagina referendaria, alcuni dati di fonte Onu, relativi all’andamento delle separazioni nei Paesi europei e in altri 28 nazioni extraeuropee, tutti egualmente divorzisti. Statistiche che documentavano l’aumento progressivo dei divorzi, una volta concessa la possibilità per legge: dalle 2,2 per cento sui matrimoni europei degli anni 1906-1909, si arriva al 12,2 del 1965-66. Dati a cui, gli anti-divorzisti brianzoli oppongono il 2,9% delle separazioni richieste in Italia nello stesso biennio. Seguono quindi una serie di argomentazioni: danno ai figli, «dimenticati» in luogo di quelli dei matrimoni successivi; danno alle donne che subiscono il divorzio e sulle quali «spesso l’onere dei figli da mantenere». E anche all’avvenuto cambio della mentalità italiana, evocato dai sostenitori della legge Fortuna, gli abrogazionisti rispondono con un sondaggio Doxa del 1969 che parla di quasi 47 italiani su 100 contrari al divorzio contro poco più di 20 favorevoli. Contro il divorzio, gli attivisti cattolici, in Brianza come nel resto d’Italia, propongono «una efficace riforma del diritto familiare», tramite «l’aggiornamento delle cause di nullità del matrimonio», la revisione «della disciplina della separazione con tutti gli effetti giuridici ed economici», equiparazione «a tutti gli effetti del trattamento dei coniugi», tutela «dei figli naturali, sui quali non fa ricadere la colpa dei genitori adulteri, dando a costoro la facoltà, in certi casi, di riconoscerli

MONZA GUIDA I DIVORZISTI Comuni

Le prime pagine dell’Unità e dell’Avvenire il giorno dopo ai risultati del referendum

legalmente» e quindi, promuovendo una «migliore preparazione al matrimonio». Proposte dalle quali si possono ricavare, a rovescio, alcune delle argomentazioni dello schieramento opposto. L’anno successivo, incalzando la raccolta di firme, ancora una pagina del Cittadino (10 aprile 1971), rilancia le ragioni del «sì». «La legge Fortuna-Baslini», si può leggere a pagina 7, «sancisce non un piccolo divorzio ma uno dei più ampi divorzi che le legislazioni moderne prevedono. Questa legge si fonda sull’egoismo e sulla temporaneità dell’amore, anzi sanziona legislativamente l’amore a termine». E un’altra riflessione, intitolata Vita e divorzio, divorzio e vangelo, vangelo e vita, ricorda al lettore che «divorzio non significa separazione di coniugi disgraziati: tali separazioni ci sono sempre state e ci saranno sempre», il verso significato è «consacrazione legale e promozione civile di unioni succedanee costruite con i tronconi e i rottami di quelle disgrazie». Non che manchino i problemi, scrive un anonimo redattore, «le disgrazie vanno evitate il più possibile, e se non si sono potute evitare si cerca di ridurne al minimo gli effetti disastrosi; e i disgraziati vanno compresi, confortati e aiutati a risollevarsi». Al referendum si arriverà nel maggio del 1974 e dalle urne uscirà

un’Italia divorzista: 19.093.929 voti a favore della legge, ovvero «no» all’abrogazione, contro 13.188.184 «sì», vale a dire quanti volevano cassare la Baslini-Fortuna, approvata solo quattro anni prima. E anche nella cattolica Brianza, come si vede nella tabella che pubblichiamo a fianco, il divorzio passa a maggioranza: 225mila voti contro 175mila: nella cittadine più grandi il «no» dilaga o comunque si afferma. In quello che sarà il capoluogo di provincia, Monza, la vittoria più schiacciante: 45.686 «no», contro 28.052 «sì». Una sconfitta per la Chiesa e per i vescovi, una disfatta personale per il segretario democristiano Amintore Fanfani, che aveva schierato il partito di maggioranza relativa sul fronte antidivorzista. Esultava, per contro, l’Italia laica ma soprattutto quella socialcomunista che di lì a poco, nelle elezioni amministrative del 1975, tenterà il sorpasso dello scudocrociato. Certo, quella che uscì dalla urne nel pomeriggio di quel lunedì 14 maggio fu un’Italia (e una Brianza) molto diversa da quella che era nella rappresentazione comune di paese fortemente cattolico e tradizionalista. Un cambiamento che sollecitava molte forze politiche e culturali a nuove battaglia: quella per introdurre l’aborto volontario. Accadrà solo quattro anni dopo

Agrate Aicurzio Albiate Arcore Barlassina Basiano Bellusco Bernareggio Besana Biassono Bovisio Briosco Brugherio Burago Busnago Bussero Cambiago Camparada Caponoago Carate Carnate Carugate Cavenago Cesano Concorezzo Cornate Correzzana Desio Giussano Lentate Lesmo Limbiate Lissone Macherio Meda Mezzago Monza Muggiò Nova M. Ornago Pessano Renate Roncello Seregno Seveso Sovico Sulbiate Triuggio Usmate Varedo Vedano Veduggio Verano Villasanta Vimercate TOTALE

SI

NO

2.903 572 1.451 3.514 1.264 396 1.392 1.616 4.474 2.483 2.787 1.553 6.070 459 915 765 754 319 919 4.867 1.091 2.545 914 8.884 3.511 2.061 323 7.564 6.614 3.034 1.250 4.536 8.651 1.912 5.155 695 28.052 3.697 3.359 639 1.394 879 395 10.985 4.583 2.115 919 2.144 1.584 2.729 1.501 1.190 2.185 3.183 5.185 175.023

2.690 411 1.365 4.859 1.991 341 1.719 1.983 2.914 2.367 3.806 1.092 9.633 747 720 1.099 1.210 359 733 4.402 1.906 2.590 1.339 10.317 3.639 2.325 282 11.993 4.673 4.782 1.406 12.928 9.639 1.605 5.993 955 45.686 7.148 6.584 842 1.281 1.049 441 11.198 5.293 1.861 510 1.669 1.850 4.141 1.725 1.105 1.809 3.159 7.482 225.646

bianche nulle

73 17 69 143 66 13 47 62 150 87 105 67 224 21 19 35 53 12 31 182 53 74 35 261 113 90 14 355 121 171 43 125 299 45 202 28 940 169 108 32 45 46 9 346 142 61 20 75 57 71 58 54 63 80 229 6.110

33 9 35 54 36 6 24 17 75 36 40 22 110 4 20 11 16 7 12 72 17 37 11 161 4 33 6 160 168 71 16 174 205 30 70 6 415 82 63 10 18 77 3 187 105 25 18 27 32 60 17 20 95 44 83 3.172

Fra «sì» e «no» La Brianza cattolica, la Vandea d’Italia, così come veniva rappresentata, scelse il divorzio. Il voto del referendum del maggio 1974 registrò un’ affermazione dei divorzisti, certo inferiore a quella nozionale. Gli unici a far prevalere il «sì» all’abrogazione, seppur di misura, furono Carate, Giussano, Triuggio, Villasanta, Briosco, Agrate, Besana, Biassono, Verano, Veduggio, Villasanta. Per il resto, la Brianza scelse nettamente la difesa del divorzio, introdotto quattro anni prima, con vittorie importanti a Desio, Brugherio, Limbiate, Muggiò, Varedo, Vimercate.


Intervista Eugenio Corti ricorda la mobilitazione antidivorzio

«LA MIA ULTIMA SCONFITTA» L’autore del Cavallo rosso racconta la sua battaglia contro il divorzio come capo del Comitato per il Sì della Lombardia e ricorda: decisivi i cattolici divorzisti

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erdemmo per quei tre milioni di cattolici che vollero il no»: Eugenio Corti, anche a quasi 90 anni, portati con qualche acciacco fisico ma con una grande, affascinante, lucidità mentale, è sempre lui: diretto, lineare, schietto. L’autore de Il cavallo rosso, il cantore di una Italia (e di una Brianza) minima eppure epica, 40 anni fa guidò i referendari cattolici lombardi nella battaglia per l’abrogazione della legge Baslini-Fortuna. Non è un caso che il suo capolavoro finisca proprio nei giorni della mobilitazione contro il divorzio. Lo incontriamo nella villa di famiglia, a Besana, alla vigilia di un grande convegno monzese per celebrarne l’opera organizzato dal dinamico comitato che vuol candidare Corti al Nobel. Come finì alla guida del comitato? Per una mia vecchia conoscenza con Gabrio Lombardi, che ne era l’organizzatore a livello nazionale. Aveva servito con me nel Corpo italiano di liberazione (i militari italiani che dopo l’8 settembre ’43 rimasero fedeli ai Savoia) e c’eravamo conosciuti a Lecce, lui capitano, io sottotenente. Ricordo che nacque una simpatia: avevo capito che anche lui era un paolotto. Ma poi non ci rivedemmo, essendo lui nel comando del Cil e io impegnato in prima linea. E fu così per quasi 30 anni, quando mi scrisse una bella lettera... Per coinvolgerla? Sì, la legge era stata da poco approvata e lui andava costituendo i comitati. Si era ricordato di quel nostro incontro sotto le armi e mi aveva scritto dicendo: “Sono certo che su questa battaglia tu sarai dei nostri”. E non mi tirati indietro. Che cosa c’era da fare? Tutto. Il presidente lombardo era un uomo di banca e di tempo libero non ne aveva molto. Io già a quel tempo mi dedicavo alla scrittura. Anzi ricordo che, con l’approssimarsi del voto, accantonai la stesura del Cavallo rosso per almeno quattro mesi. Cominciando a girare in lungo e in largo la Lombardia: per incontrare i volontari, sostenere incontri pubblici, fornire spunti e indicazioni. Fu una bellissima esperienza, per la gente incontrata e anche per i luoghi. Che clima trovava fra i cattolici? C’era la consapevolezza che quella legge fosse davvero un pericolo per la famiglia e la società italiana e che ce l’avremmo fattta a rime-

diare, abrogandola. Perché pensavate di vincere... Sì, almeno all’inizio, c’era la convinzione che l’Italia non avrebbe accettato il divorzio e di mettere in crisi il modello familiare che, contrariamente a quanto si voleva rappresentare, teneva ancora... Ma venivamo dal ’68, in cui si era contestata fortemente la famiglia patriarcale, autoritaria e vessatoria della donna e dei figli... Una mentalità ideologica che pesò e dette il suo contributo, anche con la cosiddetta Rivoluzione sessuale ad attaccare il ruolo del padre, il pater familias ma la famiglia non era in crisi nei primi anni ’70. Certo, con i suoi difetti: era eccessivamente patriarcale e maschilista al Sud, ma nel complesso teneva. Anche in Toscana, dove magari, per impostazione culturale ci si separava di più, c’era una certa base popolare comunista che comunque guardava al matrimonio e alla sua indissolubità con fiducia. Ricordiamoci che per anni, la storia fra Togliatti e la Jotti dovette essere taciuta perché i compagni della base non avrebbero approvato. Quali argomenti utilizzo il Comitato negli incontri pubblici? Mostravamo, dati alla mano, che laddove si era introdotto il divorzio, c’era stata una moltiplicazione delle divisioni, rispetto alle separazioni precedenti. E soprattutto cercavamo di rendere consapevole la gente del fatto che il divorzio avrebbe distrutto la famiglia. E putroppo così è stato. Proprio in questi termini? Il colpo di grazia. Oggi se ci si sposa meno e o lo si fa in ritardo è perché si è indotta nei giovani una paura del matrimonio, una sfiducia nell’unione fra l’uomo e la donna basata sulla lealtà reciproca. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Si introdusse un vulnus e oggi ne paghiamo le conseguenze. L’avevano capito, a suo tempo, persino i Romani... Vale a dire? Era un argomento, che utilizzavo spesso nelle conferenze: nella Roma del 200 avanti Cristo, ai tempi di Catone, si introdusse il divorzio, non senza polemiche pubbliche anche rilevanti perché veniva meno la lealtà e il concetto di parola data, ma nessuno osava divorziare. Si capiva che si metteva in crisi la società e si resisteva. Com’erano i dibattiti, allora? Dialetticamente vincevamo noi, sul confronto delle idee e delle tesi, in genere soccombevano ma avevano la quasi totalità dei gior-

Eugenio Corti fotografato da Fabrizio Radaelli nel salotto della sua villa di Besana Brianza

nali dalla loro, in modo smaccato. A noi rimanevano i giornali diocesani e poco altro: lo stesso Avvenire, all’inizio, pencolò non poco, dando voce anche ai cattolici dissenzienti: ci volle un richiamo dei vescovi... Del resto, Raniero La Valle, che di quel giornale era stato direttore, si schierò per il No. E non fu il solo. Fu una cosa davvero penosa. Oggi, molti di loro non ci sono più e mi spiace persino ricordarlo ma col padre Turoldo ebbe discussioni pubbliche molto accese. Per non dire della Acli, schierate per il no e dell’Azione cattolica, molto defilata, se si eccettua a Milano un gruppo di fucini che si erano formati con gli insegnamenti di padre Olgiati in Cattolica. In compenso fecero un lavoro splendido i giovani di Comunione e liberazione che, al contrario di quanto si è scritto, non lo fecero solo per obbedienza ai vescovi, quasi obtorto collo, ma per adesione convinta. Se la Chiesa avesse insistito, probabilmente quei tre milioni di voti per il divorzio, decisivi per il risultato, non ci sarebbero stati. E invece il Papa, nei giorni del referendum era all’Estero, in visita apostolica. In compenso si schierò la Dc... Fu un merito di Amintore Fanfani, il segretario di allora: pagandone un prezzo politico altissimo. Con la sconfitta, dovette lasciare la guida del partito. Ma ci provò,

realizzando che i Comitati, da soli, non ce l’avrebbero fatta. Sembra che avesse detto: «Ma quando cominciano a muoversi?». Non sapeva che lo stavamo facendo da mesi, solo che nessuno se n’era accorto. Perché a quel voto fu annesso anche un significato politico: ci fu una storica copertina dell’Espresso post referendum che titolava: Cento posti da occupare subito... Sì la vittoria divorzista si caricò di significati politici enormi... Dov’era quel giorno del 1974, in cui arrivò la notizia della sconfitta? A Milano, nella sede del Comitato. C’eravamo preparati: negli ultimi giorni, avevamo chiaro che non ce l’avremmo fatta, lo schieramento divorzista era troppo ampio. In Brianza, come andò? Non ci si aspettavo tutti quei «No». Nelle zone interne, lontano da Milano, prevalemmo. Altrove, i «no» furono maggiori, ma di misura. Quanto amara fu quella sconfitta? Di sconfitte me ne intendevo: la Russia, la guerra di Liberazione, che facemmo combattendo da Sud a Nord, finendo poi in all’Alto Adige, senza nessun riconoscimento, come se avessero fatto tutto solo il partigiani. Ci fu lo sconforto per cià che quella legge avrebbe inevitabilmente prodotto nella società italiana. Ora toccherà all’aborto, dissi. E fui facile profeta

13 Ottobre/Novembre 2010

D

Di chi si parla

Referendum a Nomana Anche nel Cavallo rosso, il capolavoro di Eugenio Corti, si parla del referendum abrogativo del 1974. Anzi, il grande romanzo inizia con l’entrata in guerra dell’Italia, accolta con dignitosa mestizia dagli abitanti di Nomana, la cittadina brianzola di fantasia da cui Corti fa partire la sua grande saga, e termina proprio alla vigilia del voto sul divorzio, con il protagonista Michele che partecipa alla mobilitazione referendaria. Una delle drammatiche scene finali del libro vede Alma, la moglie del protagonista, morire in un incidente stradale alla fine di una faticosa serata di propaganda del marito, in giro per i paesi lombardi. «Questa lotta contro il matrimonio civile », si scrive a pagina 1260, riferendosi proprio ai pensieri di Michele, «la cui indissolubilità era stata introdotta in Italia dal cristianesimo un millennio e mezzo prima, gli appariva l’ultima possibilità obiettiva per bloccare la scristianizzazione delle delle leggi e del costume. Per questo egli - sospesa da quattro mesi ogni attività - vi dedicava gratis e con tutta la forza di cui era capace l’intero suo tempo. Guai se questa lotta fosse andata perduta! Subito dopo sarebbe stata introdotta con certezza anche la libertà d’aborto, cioè di strage degli innocenti ancora non nati...»


14 Ottobre-Novembre 2010

Sport Personaggi, dallo stadio Ferruccio ai ring nazionali

SATALINO, PUGNI APPASSIONATI

Un ragazzino pugliese, arrivato ad Agliate alla fine degli anni ’40, trova nella boxe un modo per emergere. Arrivando ai vertici sotto le insegne dell’Accademia di Seregno di Daniele Corbetta

SEREGNO 1955

D

alla Puglia alla Brianza: quando Gioacchino Satalino, barese, classe 1941, arriva ad Agliate, col padre, nel 1947, è un ragazzino vivace ma non imagina ancora che nel suo futuro ci sono i guantoni e una carriera che lo porta fin sulla soglia del pugilato che conta. L’incontro con la boxe arriverà soltanto quattro anni dopo, quando conosce Ciano Trovati, collega presso il Panificio Panzeri di Corso del Popolo, a Seregno. Quest’ultimo introduce Gioacchino alla palestra dell’Accademia Pugilistica Seregnese, presso lo Stadio Ferruccio, dove si allenano dilettanti e professionisti, tra cui Formenti, Ballabio, Crosio e Bagnoli: «Mi sembrò subito una cattedrale», ricorda Satalino, «era davvero bellissima. Mi incuriosiva provare a boxare, in fondo da piccolo mi toccava difendermi e spesso si finiva per fare a botte». Dal ’51 al ’55, al giovane Gioacchino e ai suoi coetanei sono riservate le aperture in occasione delle riunioni: categoria pulcini, tant’è che iniziano a chiamarli «la covata brianzola». Il passo seguente è il tesseramento come novizio e la partecipazione ad un torneo con oltre trecento iscritti che si teneva in piazza Medaglie d’oro a Milano. Gioacchino ottiene un buon risultato, facendosi sconfiggere solo ai quarti. Nel frattempo il giovane pugliese d’origine non esita a rimboccarsi le maniche, dividendosi fra lavoro e palestra: «Erano anni duri, lavoravo quasi sempre. Da lunedì a domenica mezzogiorno ero impegnato a Seregno, poi andavo a vendere gelati e caramelle in un cinema di Carate, mentre durante le vacanze estive mi davo da fare in un hotel alle grotte di Realdino». Il nostro pugile tenta quindi di entrare nel salumificio Vismara di Casatenovo: per fare ciò serve la «raccomandazione» del sacerdote del paese di residenza: «Era un attestato che testimoniava che fossi un bravo ragazzo. Andai dal prete di Agliate, ma dato che i miei genitori si erano separati, questo mi cacciò fuori di casa». Niente raccomandazione e addio Vismara, la Brianza è anche questa. Il filo che lega il seregnese alla boxe si fa sempre più stretto nel 1957, in occasione del Torneo interregionale di seconda serie a Mestre. Sulla sua strada, passato ai pesi piuma, s’intromette in semifinale Sandro Lopopolo, futuro campione italiano e medaglia d’argento a Roma ’60. Gioacchino perde l’incontro a causa del maggiore tasso tecnico dell’avversario, che, dopo qualche anno, rivelerà: «Satalino aveva un

Gioacchino Satalino in una foto di inizio carriera. Sotto, con la maglia dell’Accademia seregnese

pugno che faceva male». Brevilineo, guardia normale, giostrava a mezza distanza: il pugile nel ’59 passa a leggero, conquistando anche la cintura di Milano, seconda serie. Ora Gioacchino è pronto per l’ennesimo salto, in prima serie. È nel ’61 il momento d’oro: si presenta al campionato regionale dilettanti di prima serie, senza essere

iscritto nell’elenco dei favoriti. «Misi ko Ledda alla prima ripresa, vinsi con Di Pace ai punti, poi mandai al tappeto anche Rivabene». A questo punto un giornalista della Gazzetta dello Sport, Luigi Grassi, indica per ogni categoria il nome di tre favoriti. Dei leggeri ne segnala solo uno, scrivendo: «Satalino, l’uomo da battere». E vittoria sarà, sconfiggendo in semifinale Dante ai punti e, in fi-

nale, sempre ai punti, Panerini. La partecipazione ai Campionati Italiani di Bologna, dove sono presenti i migliori boxeur nostrani, come Arcari e Brandi, è piuttosto sfortunata: «Al primo incontro Chessa mi diede una capocciata, spaccandomi il sopracciglio. Così persi il match». Arriva anche la prima chiamata in Nazionale: «Mi allenai con Mazzin-


15 Ottobre-Novembre 2010

B

Brianzoli protagonisti

Da Lentate a Las Vegas

Giovani pugili in un interno. Fra gli anni ’50 e ’60, la boxe infiamma i paesi della Brianza

ghi, Piazza, Canea, Penna, Massa, Ricci, Vacca; fra di loro c’era chi sarebbe diventato campione Italiano, d’Europa e del Mondo». Il 1962 è l’anno che vede il passaggio di Gioacchino Satalino al professionismo, con la scuderia Baravecchia Pejo di Brescia. L’esordio è proprio a Bari e vince contro Sedicino. Quindi «avrei dovuto sfidare Paone al Palalido di Milano», continua l’ex pugile, «ma a pochi giorni dal match mi arrivò un telegramma in cui la scuderia mi informava che la riunione era rimandata». Gioacchino si rilassa e trova un’altra data per l’incontro ma non riesce a presentarsi nelle giuste condizioni di forma: «Non riuscivo a battermi secondo le mie possibilità, finché persi per squalifica». È l’ultima volta che sale sul ring, le decisione è presa: addio alla boxe. I motivi? «Mi guardai intorno, c’era molta gente davvero brava a boxare, molto più brava di me». Determinante è anche l’incontro con Lino Mastellaro (campione italiano dilettanti, pesi piuma professionisti, si battè anche per il titolo europeo) in un bar di Meda: «Fui sorpreso di trovarlo lì», rivela Gioacchino, «mi disse che faceva il tappezziere in quella zona». Brusco ritorno sulla terra: «Feci due conti e capiì che di boxe non si pteva campare». Nel marzo del 1964 apre in corso del Popolo a Seregno quella che diventerà la storica Pescheria Satalino. Nonostante gli impegni Gioacchino non ha smesso di frequentare il mondo del pugilato: «Fui aiuto insegnante alla Lombarda, come assistente all’angolo di Zanon (europeo nei massimi, vedi box, ndr), quindi fondatore e presidente dell’Accademia pugilistica Cesano Maderno». A quasi 70 anni, vanta un fisico davvero invidiabile. Nella sua palestra privata, molto simile a un grande affresco degli anni ’60 - pieno di coppe e pagine di giornale, ci rivela il suo segreto: «Mi alleno ancora tre, quattro volte a settimana», dice, «spaziando dalla ginnastica, soprattutto quella addominale, al footing, passando per corda e sacchi». Quando si nasce atleti, si resta atleti. Sempre

Gli inizi GRAZIE AL TRIONFO DI FORMENTI, LA BRIANZA SCOPRÌ LA NOBILE ARTE La storia di Gioacchino Satalino apre una pagina sull’epica del pugilato: nel 1948 Ernesto Formenti conquistò l’oro alle Olimpiadi di Londra, nella categoria pesi piuma. Successo che dette una forte spinta alla diffusione della boxe in Italia: in particolare la Brianza si sentì chiamata in causa, in quanto il neo campione era nato e cresciuto a Cassina Savina, ora frazione di Cesano Maderno e si allenava a Seregno. Il risultato fu che la boxe esplose letteralmente: «A Seregno le palestre erano sempre strapiene, tant’è che capitava di doversi allenare al di fuori di esse», come ricorda Gioacchino. Olre alla Pugilistica seregnese erano attive l’Ap Monzese, la Modoetia Monza, quindi aprirono anche la Ap Lissonese e tante altre a Milano, tra cui la Us Lombarda. «Ho disputato parecchi incontri al cinema Impero ed era sempre strapieno di gente», continua Gioacchino, «la boxe aveva davvero un grande seguito». Parola di chi ne era protagonista. Il pugilato aveva colmato il gap che lo separava da gli altri sport predominanti nella cultura italiana: ora se la giocava alla pari con il calcio e il ciclismo.

Un brianzolo - anche di chiare origini venete - ai vertici della boxe europea: è Lorenzo Zanon, classe 1951, di Lentate sul Seveso, arrivato alla corona continentale dei pesi massimi. Un primato conteso vittoriosamente a un altro italiano, il riminese Alfio Righetti, la sera del 11 luglio del 1979. Da quel momento, la carriera del lentatese decolla, fino ad arrivare ad affrontare l’impossibile Larry Holmes, il gigante dei massimi mondiali, che aveva piegato il vecchio Mohammed Ali e Michael Spinks. L’incontro si svolgerà il 3 febbraio del 1980 a Las Vegas, tempio della box, per un knock-out al sesto round ma consolandosi con una borsa di 150 milioni di lire. In precedenza aveva fatto soffrire campioni del calibro di Ken Norton e Jerry Quarry.


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