Il Giornale della Memoria n.04

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n.04

Maggio 2010 euro 2,00 OMAGGIO

CONOSCIAMOCI

A SEREGNO! Il Giornale della Memoria si presenta

12 giugno, ore 17,30 nei pressi della libreria Area Libri

BRIANZA

al Sabato della Via Umberto a cura de Le Vetrine del Re - Seregno

Cronaca. 1955, incidente a Monza

ASCARI, ULTIMO GIRO Il 26 maggio, provando in solitaria nell’autodromo, Alberto detto «Ciccio», esce di pista e muore. Una settimana prima, a Montecarlo, era finito in mare. Tragico destino del pilota cha aveva fatto grande la Ferrari

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ochi giorni prima, la sua macchina era finita nel mare di Montecarlo e quanti avevano visto quell’uscita di pista pensarono subito al peggio. L’appuntamento con la morte, per Alberto Ascari era purtroppo solo rimandato. Il 26 maggio di 55 anni fa, mentre provava da solo la Ferrari 3000, va dritto a una curva, cappotta, e si schianta contro la recinzione. Per il pilota che aveva fatto grande la Ferrari, vincendo due mondiali, l’addio è dentro un autodromo vuoto. Pochi minuti prima, al telefono nei box monzesi, aveva rassicurata la moglie, che lo chiamava dalla casa di Milano, dicendo: tornerò a pranzo. Tragico destino di un uomo che, ancora bambino, aveva perso il padre Antonio, pilota anch’egli, per un incidente di gara in Francia. Il circuito di Monza, da poco rinnovato, era pronto ad accogliere, a settembre, un altro Gran Premio.

In questo numero PAG.3 La morte in pista a Seregno non ferma il Giro d’Italia

Nel giugno 1960, due bambini di sei anni travolti dall’auto del direttore Torriani. Ma la corsa a cronometro va avanti PAG.4 Cenzin, un brianzolo nell’inutile strage

24 maggio 1915, l’Italia nella Grande Guerra. Fra i 600mila morti, l’1% viene della Brianza. Storia di un reduce PAG.7 Cabiate, 1980. Due balordi sulla strada di Luca

Luca Allievi, 22enne, si affronta due giovani rapinatori che escono dalla fabbrica dei suoi. Ucciso

servizi a pag.14/15

1980

Montevecchia

PAG.10 Le Nord conquistano tutti con le Francesine

1980 Renate

SANTUARIO A PEZZI E INCURIA SULLA TERRAZZA DI BRIANZA

TESTORI SPIAZZA L’ITALIA: PIETÀ PER LUCA, IL MATRICIDA

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n omicidio che sconvolse l’Italia e la Brianza: nella tranquilla Renate, a marzo del 1980, un figlio uccise la madre. Per settimane, le responsabilità non furono chiarite: non si sapeva chi avesse ammazzato la signora Orietta Ballabio. Poi, a

a Beata Vergine di Montevecchia che cade letteralmente a pezzi, l’incuria che domina tutto intorno, con rifiuti di pic-nic in bella vista. Nel maggio del 1980, la Provincia di Como pubblica un articolato servizio sulle condizioni in cui versa

la collina di Montevecchia e il suo santuario per secoli caro ai brianzoli. Il reseconto è impietoso: la Terrazza della Brianza è il trionfo dell’abbandono. E il giornale comasco lancia un duro j’accuse: la colpa è di residenti e turisti. (servizio a pag. 6)

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fine aprile, la confessione: era stato l’amato figlio Luca Casati, forse sotto l’effetto di droga. Orrore, sbigottimento, rabbia. Fuori dal coro, come gli accadeva spesso, il drammaturgo Giovanni Testori, che scrisse, sul Sabato, «Caro Luca». (servizio a pag. 8)

FUNERALE TZIGANO, SEREGNO INVASA Una folla di zingari, come li chiamavano allora senza la smania del politicamente corretto, a Seregno da tutta Italia. Siamo nel maggio del 1955 e il motivo di questo raduno Rom è la morte di Bulla Kakaroska, un’ottantenne popolarissima fra i nomadi di tutta Europa, come racconta il Cittadino del 21 maggio. Per la tradizione tzigana, l’an-

ziana è una sorta di sacerdotessa e per onorarne la memoria, si radunano in Brianza in centinaia, anche dall’estero. Bulla, «che andava di città in città a vendere “i pianeti della fortuna” e a predire il futuro», aveva scelto di morire a Seregno perché qui, due anni prima, era deceduto il marito, sepolto nel cimitero cittadino. Sentendo approssimarsi l’ora

della fine, aveva fatto portare sin lì «gli sgangherati carrozzoni» della sua carovana. Per le esequie erano arrivati gitani dal Padovano, da Bergamo e da Torino e dall’Estero e in centinaia avevano partecipato ai funerali in Collegiata, perché Bulla era cristiana. «Ma la tradizione tzigana è stata ugualmente rispettata», avverte il Cittadino. In un cer-

chio di uomini, donne e bambini «indossanti variopinti paludamenti delle varie tribu, la bara è stata deposta al sommo di un ricco catafalco». Poi tutti gli zingari «sono sfilati a passo lento e silenziosi davanti alla bara: gettandole ciascuno un chicco di riso e una moneta, rituale viatico per l’estremo viaggio». Sergio Giussani

Sulla linea Canzo-Asso, a maggio del 1980, esordiscono i nuovissimi treni a due piani, che nessuno in Italia ha PAG. 11 1928, Cantù si scopre alata. Nel cielo, l’aereo Molteni

Un mobiliere con il pallino del volo, il 28 maggio fa librare nel cielo di Brianza il suo prototipo tutto in legno PAG.12 Quei cristiani in fabbrica che fondarono la Cisl

Il primo maggio del 1950 fa il suo esordio il sindacato cattolico. In Brianza i primi successi nella contrattazione PAG.16 Maggio piovosissimo e il Garbogera allaga Limbiate

Piogge record nel 1972: l’innesto del torrente nel Villoresi è ostruito da tonnellate di rifiuti e mezza città finisce a bagno


La festa 1960 In gara per il Galletto

2 Maggio 2010

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Editoriale

FRA BRUGAZZO E CENTRO: A PAINA IMPAZZA IL PALIO

Trent’anni fa Luca & Luca Dal biliardo alle boccette, dalla scopa al ping pong, un paese e le sue contrade in gara agguerritissima tutto l’anno «Caro Luca». Inizia così la commovente lettera di Giovanni Testori al giovane renatese Luca Casati, che, 30 anni orsono, uccise la madre Orietta Ballabio, in un raptus di follia. Non avremmo ricordato il tragico omicidio che sconvolse l’Italia e ancor più la Brianza, se non ci fossimo imbattuti, ancora una volta, nelle parole di questo grande lombardo, una dello voci più autentiche del secolo scorso. Il drammaturgo del Ponte della Ghisolfa, sul Corriere della Sera e sul Sabato, settimanale di grandi battaglie che lui amava tanto, scrisse per questo giovane matricida parole di cristallina pietà e che furono capaci di scuotere l’intera società italiana: «Quello che conduce dalla caduta alla resurrezioneè un tragitto che ognuno di noi deve compiere ogni giorno». Questi articoli, riproposti in un bellissimo libro edito da Rizzoli, La maestà della vita, ci hanno convinto che anche di tragedie come quella di Renate, il cui ricordo ferisce ancora, si possa far memoria, oggi, in modo da risultarne migliori. Di Luca in Luca. Si chiamava così anche il 22enne, Allievi che, a Cabiate, trent’anni fa, perse la vita affrontando due balordi che avevano rapinato la fabbrica dei suoi. La Brianza, allora, era piagata dalla delinquenza e dai sequestri di persona. Ricordarlo può aiutarci a riconsiderare in maniera più equilibrata il tema della sicurezza: i problemi, che sono innegabili, vanno inseriti nella storia di un altrettanto innegabile progresso. GdM

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a stracittadina painese, nel 1960, si chiama Palio del Galletto. I rioni della frazione di Giussano ma con una storia fiera e un campanilismo spiccato, si affrontano lungo diversi mesi all’anno in varie discipline. Il Cittadino del 21 maggio di cinquant’anni fa dedica proprio alla competizione, giunta alla seconda edizione, quasi una pagina. Si fa il punto dopo lo svolgimento delle gare di biliardo, scopa e boccette e che precede i confronti di calcio, tennis tavolo, bocce e atletica. In testa quelli del quartiere Brugazzo che, all’epoca, viene indicato ancora col toponimo brianzolo: Brugascin. Il rione, con 38 punti, sopravanza il Centro, che segue a 34, San Lorenzo, fermo a 33, lo Stradum che staziona a 30 punti, precedendo a sua volta San Martino, 27, e il Campanile, che chiude la graduatoria a 24, maglia nera, per usare una terminologia ciclistica, certamente in voga in quegli anni. Il racconto di un anonimo cronista, ripercorre i confronti sin lì disputati. «Questa seconda edizione», scrive il Cittadino, «come al solito è iniziata con la gara di scopa a coppie e qui il campo era apertissimo, malgrado le velleità del Campanile che forse si era illuso di poter ripetere il successo dello scorso anno. Dopo otto giorni di partite accanitissime», prosegue l’articolo, «contro ogni previsione è uscito vincitore il rione San Martino che, con l’affiatatissima coppia Colombo Ezio-

Il corteo storico che accompagnava il Palio del galletto a Paina negli anni ’60

Trezzi Mario, si è imposto in finale ai concorrenti dei rioni Stradum e Brugascin». Quando si passa alle boccette, se-

conda gara in cartellone, quelli del Centro primeggiano grazie «al solito Pozzi Giuseppe che ha letteralmente travolto tutti gli avversa-

Il numero

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è il numero dei posti dell’asilo nido allestito presso la Gavazzi di Desio nel maggio del 1948, per i figli delle dipendenti. Ne annunciò l’innaugurazione il Cittadino del 9 maggio di quell’anno, presenti il sindaco, avvocato Strazza, il prevosto di Desio, monsignor Bandera, e il presidente dell’Opera assistenza maternità e infanzia-Oami e, con loro, tutta la dirigenza Gavazzi, in primis Franco e Pietro Gavazzi, giustamente orgogliosi. Il giornale parla di «locali ampi, ben disposti e finemente arredati».

La tradizione TUTTI IN MONTAGNA PER LA NARCISATA Si prendevano le Nord, di domenica, e si saliva sino a Canzo, dove il trenino s’arrestava. E poi, di lì, su per le i verdi pendii che stavano ai piedi dei Corni. Bastava salire poco che i prati biancheggiavano di narcisi, rendendo il panorama unico. Qui fra canti, giochi e balli, si riempivano i panieri di vimini degli splendidi fiori da regalare alle mamme e alle nonne. La Narcisata a maggio, è stata per anni e per molte comunità brianzole quasi un rito: la grande scampagnata, con l’oratorio, col Club alpino, con gli amici o con le famiglie. A ribadire che l’inverno era finito davvero e che l’estate sarebbe arrivata di lì a poco. Il Cittadino del 21 maggio 1950, propone un reseconto, con foto, della Narcisata organizzata dal Cai cittadino a Selvino.

ri rivincendo la gara che lo scorso anno aveva dato motivo di infinite discussioni». Alle spalle dell’inarrivabile Pozzi, la cronaca riporta i nomi di Carlo Barni, talento del Brugascin, e di Giacomo Riva, stella del Campanile, che «però pur impegnandosi a fondo nulla hanno potuto contro la bravura e... la fortuna del centraiolo Pozzi». Quando, giorni dopo, il Palio arriva alla disfida di biliardo, arrivano le prime sorprese. Sul panno verde, dopo vari turi, si affrontano per le finali Silvestro Longoni (Campanile), Leandro Colombo (Stradum) e Vittorino Biginato per San Lorenzo. Secondo le previsioni, quest’ordine avrebbe dovuto essere anche quello finale. E invece, clamoroso a Paina, il sanlorenzino Biginato - cognome di chiara origine veneta - regola tutti d’autorità, con una prova definita «ineccepibile» dal cronista e assicurando al prioprio rione la prima vittoria. Vittoria importante perché, San Lorenzo si presenta, secondo gli osservatori, come un rione «con carenza di uomini e giovani», anche se nel quartiere, «non vogliono sentirselo dire». La cronaca di chiude con la notizia che, il 23 maggio, nei locali dell’Oratorio maschile, si incroceranno le racchette per il tennis tavolo mentre già tutti i rioni si stanno allenando per la disfida calcistica, prevista per il 5 giugno e valevole anche per il IV Trofeo don Marco Fusi.

La cronaca 1950 Arcore, epatite fulminante

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patite fulminante: questa la diagnosi dei medici dell’Ospedale di Vimercate che vanamente si adoperarono intorno a una giovane operaia di Arcore, Lucia Tremolada «di Luigi», come precisò il Corriere della Sera del 16 maggio. Lucia, che lavorava in uno stabilimento tessile cittadino, era arrivata al nosocomio vimercatese in gravi condizioni e vani erano. stati i tentativi di salvarla, anche se, come spiega il quotidiano milanese «risulta che non si è verificato alcun stato febbrile e l’ittero stesso abbia avuto una modesta manifestazione». Sta di fatto che per la povera Lucia, il morbo giallo, come si usava dire all’epoca, fu fatale: dalla diagnosi al decesso non trascorsero nemmeno 24 ore. Nei giorni precedenti, il Corriere di Informazione aveva riportato di un’altra epatite fulminante che a Rho aveva ucciso due persone.

1949 Lissone, certo l’addio a Crippa

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comparso in mare, nel 1941 e da allora Lissone disperava di vederlo tornare. Piero Crippa, sottotenente dell’esercito, era a bordo della Conte rosso con il suo battaglione quando, nei pressi di Siracusa, i siluri inglesi colarono a picco la nave. E di Crippa non si ebbero più notizie. A maggio del 1949, giunge in paese la notizia: è certo, Piero Crippa, morì in quell’affondamento, in mezzo al Mediterraneo, in un posto così lontano e così diverso dai campi verdi di Lissone dai quali, in certi giorni, si vedeva, distinto e bellissimo, il Monte Rosa. Un altro nome nella lista dei lissonesi caduti in quella guerra assurda. Riportava il Cittadino del 21 maggio che, ricevuta la triste comunicazione, il padre Luigi «volle offrire all’Ospedale della Carità lire 55mila e fece pure altre elargizioni in opere buone». Una messa per ricordare il lissonese morto, avvisava il giornale monzese, si sarebbe svolta il giorno 23.


Il caso 1980,vigne canturine

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CUCCIAGO, PICCOLO CHIANTI BRIANZOLO

Maggio 2010

C Colo phone il Giornale della Memoria mensile di divulgazione storica www.giornaledellamemoria.it Registrazione presso il Tribunale di Monza. n. 1975 del 15/02/2010 Direttore responsabile: Giampaolo Cerri

Si riscopre il Pincian, vinello leggero prodotto da un vitigno locale, il Clinto. Agricoltori entusiasti

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arolo? Barbera? Noi preferiamo il Pincian. Accadeva nel maggio del 1980: due agricoltori-pensionati, a Cucciago, in via Giovanni XXIII, decidevano di trasformarsi in vigneron del Canturino, trasformando l’uva delle vigne dei loro piccoli appezzamenti nel vino prodotto già dai loro avi. «La Brianza, ad eccezione della collina di Montevecchia», avvertiva la Provincia di Como del 10 maggio, «non ha mai prodotto vino buono: tutti i tentativi di impiantare aziende vinicole sono sempre falliti». Dalla parti di Cantù però, per tradizione, chi coltivava la terra spremeva le uve Clinto, per ricavarne un vinello «molto leggero e un po’ acidulo”, da bersi almeno dopo un anno dalla produzione, il Pincian appunto. Trent’anni fa, Giuseppe Giudici, classe 1923, e Mario Gilardoni, 59enne, ex-agricoltori canturini avevano rinnovato la tradizione locale, dandosi all’arte vitivinicola. Con buoni risultati, almeno dal punto di vista quantitativo. «Il Giudici produce ogni anno da sette ad otto quintali da cui ne trae due o tre di vino», informava la

Provincia, mentre l’altro vignaiolo poteva vantare «una quindicina di quintali di uva e cinque quintali di vino». La differenza, secondo il quotidiano di Como, stava anche nella tecnica: «Il Giudici pigia l’uva ancora con l’antico sistema, cioè con i piedi mentre il suo collega con un moderno impianto». A maggio del 1980 - questo il motivo dell’articolo - si cominciava ad assaggiare il vino dell’anno precedente, ottimo per qualità e quantità. «Il Pincian, anche se non raggiunge la qualità di altri vini molto conosciuti, si lascia bere», garantisce l’anonimo cronista, con il vantaggio di poter “alzare tranquillamente il gomito senza correre il rischio di alzarsi dal tavolo un poco brilli». Cucciago come il Chianti o, senza andare troppo lontano, come la Val Calepio? La Provincia pronosticava una ripresa dell’antica tradizione del vinello canturino, confidando in una ripresa dell’agricoltura, che pareva profilarsi trent’anni orsono «anche se a livello di occupazione supplementare». D’altra parte, come avvertiva il cronista, «per tenere un vigneto

Redazione Via Giusti, 32/c 20034 Giussano (MB) tel. 0362.285087 redazione.gdm@gmail.com

non occorre molto impegno. Il figlio del Giudici, per esempio, si è appassionato all’hobby del padre e quindi continuerà» e anche in casa Ghilardoni, «vi è molta passione ed

entusiasmo», condiviso dalla consorte del sciur Mario, «la moglie, dal bel nome di Ausilia, è la prima ad assecondare ed aiutare i marito nel campo e i cantina».

La pubblicità

Si ringrazia per l’amichevole collaborazione: Pietro Vismara, fotografo Progetto grafico e impaginazione: box313 (www.box313.net) Editore: Associazione Culturale Storia e Territorio Via Giusti, 32/c 20034 Giussano (MB) tel. 0362.285087 email: assostoria@gmail.com

PESANTEZZA POST-BELLICA L’Italia del dopoguerra ha un enorme appetito.Vuol dimenticare il pane a tessera e l’angustia delle tavola. Ma fa i conti con la pesantezza di stomaco. Come mostra questa pubblicità, comparsa sul Cittadino degli anni ’50, compaiono i primi digestivi. L’Antonetto, reclamizzato da Nicola Arigliano, arriverà dopo.

La tragedia DUE BIMBI MORTI A SEREGNO NEL CIRCUITO DELLA CRONO MA IL GIRO NON SI FERMA

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nquetil che pedala contro il tempo per le vie di Seregno. Accadeva il 2 giugno di cinquant’anni fa e per le strade del circuito c’era tutta la città ma anche migliaia e migliaia di brianzoli, giunti da ogni dove. Quel 2 giugno, Seregno era addirittura partenza ed arrivo, trattandosi di una gara contro il tempo, la Crono Brianza. Ma qualla giornata sarebbe rimasta tragicamente memorabile, per un gravissimo incidente che costò la vita a due bambini di cinque anni, Augusto Colombo e Gianni Lomazzi. I piccoli erano con i loro genitori, immersi nelle due ali di folla assiepate lungo il percorso, «una muraglia umana, eccitata, scamiciata, che si allungava compatta, si può dire, per tutti e sessantotto chilometri», scrisse sul Corriere di Informazione. Fra loro anche i due bambini. «Forse non capivano lo spettacolo al quale stavano assistendo», raccontò Marco Oriani, «forse conoscevano già il nome di qualche corridore, forse, nei loro giochi, pedalando sui tricicli, si divertivano già a chiamarsi Coppi o Bartali».

hanno collaborato: Leandro Cazzaniga, Martina Cerri, Beppe Citterio, Daniele Corbetta, Doranna Fumagalli, Sergio Giussani, Walter Giussani, Annagrazia Internò, Gigi Molteni, Erminia Moretto (ricerche d’archivio), Daniele Villa

Alle 15, quando si attendevano le prove dei migliori, i due si trovavano ai lati diversi della strada, in un punto che le cronache non specificano. Probabilmente si conoscevano o forse, fra quella marea di adulti, guardandosi dal basso, si sono individuati e salutati, mentre i grandi chiaccheravano della corsa. Sta di fatto che, come a un segnale con-

venuto, Augusto e Gianni, sfilatisi dalle mani dei genitori, si sono andati incontro, attraversando la strada che avevano visto a lungo vuota. Due-tre passi veloci, di corsa, per incontrarsi in mezzo alla strada asfalta e fermarsi subito l’uno di fronte all’altro incerti sul da fare. Solo che in quel momento arrivata la macchina del Giro, quella che precede i corridori. Un urto terribile sebbene, si disse, la macchina non fosse neppure veloce. Vana la corsa all’ospedale. Disperato anche il direttore del Giro, Vincenzo Torriani, che era sull’auto. Giro che non si fermò, neppure davanti a una simile tragedia. Forse perché sul circuito c’era quasi un milione di persone. O forse, perché il ciclismo d’allora era come il calcio di oggi, uno show che non poteva fermarsi davanti a niente. E anche lo stesso Cittadino, due giorni dopo, non può fare a meno di celebrare la gloria della città, capitale delle due ruote: «Mai la nostra città, come nel caso della riuscitissima Crono Brianza, aveva sinora avuto la possibilità di assistere ad uno spettacolo di così alto livello tecnico ed agonistco che è durato più di quattro

Stampa A.G. BELLAVITE Via I maggio, 41 23873 Missaglia (Lc) Stampato su carta ecologica EFC, con inchiostri a base vegetale.


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BRIANZA 1915

Maggio 2010

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rancesco Arienti, detto Cenzin, classe 1893, la Grande Guerra se la fece tutto, senza risparmiarsi niente. Di quegli anni durissimi tenne un diario che, anni dopo, fu riscritto dal maestro Ernesco Colli. Il diario è riportato nel bellissimo Il prezzo della pace, imponente lavoro sui seregnesi al fronte curato a più mani da Norberto Bergna, Riccardo Corno, Mauro Di Mauro, Bruno Iacovone e Lorenzo Silva ed editato dall’Associazione Brianza Viva. La sua vicenda - di cui pubblichiamo alcuni stralci - può essere certamente presa a simbolo di quelle delle migliaia di brianzoli che servirono l’Italia in quel tragico conflitto. Una guerra che papa Benedetto XV non esitò a definire «l’inutile strage» e che costò all’Italia oltre 650mila morti. Di questi 6.945 provenivano dal Distretto militare di Monza. Francesco Arienti, caporale di fanteria, combatté nella zona di Redipuglia, in Friuli, presso la Dolina Cappucci. Scampato all’orrore della prima linea, è morto a 87 anni.

24 maggio 1915 L’Italia entra in guerra

CENZIN, DA SEREGNO ALL’INUTILE STRAGE Il diario del caporale Francesco Arienti, uno delle migliaia di brianzoli che parteciparono alla Grande Guerra. Per 6.495, morti in conflitto o di malattia, non ci fu mai ritorno

11 settembre 1916 Sotto il fuoco amico «Ieri notte, alla Dolina Cappucci, un attacco di sorpresa, le nostre vedette sono state pugnalate dagli austriaci. Oggi, i nostri, mediante contrattacco, sono riusci a riconquistare la posizione. I nostri militari avevano messo in funzione le bombarde per martellare le posizioni nemiche, ma, a causa del vento, due bombarde hanno deviato la loro traiettoria venendo a colpire i nostri bersaglieri che si trovavano al nostro fianco sulla stessa linea. Rientrando dalla Dolina da un servizio nel Vallone di Doberdò, ho incontrato un gruppo di circa 30 barelle che portavano i bersaglieri feriti dalla nostre bombarde». 6 ottobre 1916 Dalla trincea alla latrina «Qui devo dire che entrò col tragico entrò anche il comico. Quando corsi in soccorso dei seppelliti non avevo badato dove mettevo i piedi: e chi ci bada in simili occasioni? Terminata l’operazione di salvataggio mi accorgo che i miei piedi portavano qualcosa di attaccaticcio e di poco profumato. Mi guardo e mi trovo sporco fino al ginocchio. Insomma è inutile che io vi dica di che cosa ero sporco; ero entrato in una specie di gabinetto di decenza e portavo attaccato agli abiti ed alle scarpe ciò che esso conteneva» Dicembre 1916 Il disertore fucilato «Quando mancavano circa 300 metri per arrivare alla prima linea un soldato è scappato indietro, il comandante lo ha dato mancante. Lo hanno preso dopo 5-6 giorni nelle retrovie, poveretto lo hanno passato per le armi nel mese di febbraio del 1917. Avevano scelto pure me per fare quel servizio, ma mi hanno fatto un immenso piacere scegliendo un altro soldato al posto mio, perché quelle non sono cose da vedere». Natale 1916 A digiuno sotto le bombe «Alla vigilia di Natale siamo in trincea a Quota 208. E’ mezzanotte, ho molto appetito e il rancio non è ancora arrivato. Quando giunge non si sa bene se è riso o è colla: tuttavia

Un gruppo di fanti italiani ritratti intorno alla mitraglia in una trincea. Furono oltre 650mila i caduti italiani della guerra

siccome l’appetito non manca, mi appresto a mangiare. Improvvisamente il nemico sferra un attacco, preceduto da nubi di gas asfissianti e lacrimogeni e da un fitto fuoco di artiglieria e di fucileria. Devo abbandonare la gavetta e imbracciare il moschetto. La gavetta si rovescia sui pantaloni ed io resto a stomaco vuoto. Aspetto con impazienza il marsala e il cognac che dovevano essere portati da un soldato (...) Ma che delusione! Che è, che non è? Il soldato ritorna in trincea senza marsala e senza cognac poiché i fiaschi si erano rotti durante una

caduta nel buoio della notte». Febbraio 1917 L’odore della morte «Vicino allao nostra trincea c’è una buca nella quale vi erano 8 morti, erano lì da 5-6 mesi, e nessuno andava a prenderli perché se andavamo noi gli austriaci sparavano a noi, se invece andavano gli austriaci, noi sparavamo loro; allora un coraggioso portaferiti della mia compagnia ha voluto, strisciando come una biscia, andare dentro a prenderli portandoli nella nostra trincea, erano quasi putrefatti, co-

sì abbiamo dovuto mettere le maschere per il gran fetore». Marzo 1917 Otto giorni col nemico «Abbiamo fatto amicizia con il nemico, verso le ore 15, da un piccolo posto davanti alla sua trincea un austriaco ha alzato la mano con un pacchetto di sigarette, parlava italiano e diceva: “Dateci pane, noi vi daremo sigarette, non abbiate paura non vi spariamo”. Da quel giorno sempre alla stessa ora, noi parlavamo e scambiavamo le cose con il nemico, per tre, quattro gior-


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Guerra tra le righe

Lettere dal disastro Molte opere letterarie hanno raccontato la Grande Guerra, il primo conflitto mondiale, che vide cadere qualcosa come 8.536.000 uomini a fronte di oltre 64 milioni di mobilitati. Una guerra prevalentemente di trincea, senza gli attacchi alle popolazioni civili che avrebbero caratterizzato la Seconda Guerra Mondiale e i conflitti successivi. Un libro che fece scalpore fu Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque. Comparso nel 1929, e divenuto film grazie al regista Lewis Milestones, già l’anno successivo, il romanzo fu uno spietato atto di accusa alla follia della guerra. Racconto tragico del conflitto fu quello di Ernest Junger che scrisse, già nel 1920, Nelle tempeste d’acciaio. Descrive parzialmente la disfatta di Caporetto, Addio alle armi, di Ernest Hemingway. Storia d’amore, il cui protagonista maschile, mosso da passione ideale, si scontra con la dura realtà del conflitto. Il libro, tradotto in Italia nel 1943, fu vietato dal fascismo perché considerato antimilitarista e antitaliano. Anche quest’opera fu trasposta cinematograficamente addirittura tre volte, la più famosa nel 1957, diretta da John Huston con la partecipazioned i Rock Hudson e Vittorio De Sica. Visceralmente antimilitarista sarà invece il romanzo Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu. Lo scrittore sardo, che combatté sull’altipiano di Asiago, scrisse il libro negli anni dell’esilio, in quanto antifascista, e fu pubblicato a Parigi nel 1938. L’incapacità e il cinismo dei comandi militari italiani, ritenuti responsabili dell’alto prezzo di vite umane, sono al centro del racconto. Al libro si ispira il bellissimo Uomini contro, in cui Francesco Rosi dirige Gian Maria Volonté.

in quelle condizioni era diventato nostro fratello». Giugno 1917 Un morto vivente «Dopo 20 giorni sono ritornato dalla prima linea, sono andato ancora verso le parti di Redipuglia, ho trovato quelli di Seregno che mi hanno detto: “Ma non eri morto?”; non sapevano che io ero partito il giorno prima che cadesse la bomba nella baracca. Tutti si sono meravigliati di trovarmi in vita, sano e salvo. Un mio compaesano che aveva portato per me un pacco da Seregno, mi dà solo un po’ di zucchero, ultimo avanzo del pacco». 15 luglio 1917 Il temporale più che gli austriaci «Stavolta per poco non ci ho rimesso la pelle. Ero davanti all’Ermada in una buca profonda due metri circa con un altro soldato, certo Bertoncelli Riccardo, toscano. Tutto a un tratto un violento temporale rovescia acqua a torrente e la buca comincia a riempirsi. Il mio compagno non può uscire subito e l’acqua sale, sale. Mi è già alla vita ed il mio compagno non è ancora riuscito a uscire. Ecco, l’acqua mi arriva alle ascelle ed io sono sempre nella buca. Farò in tempo a uscire o dovrò morire qui, annegato come un topo? Finalmente il mio compagno esce ed io lo posso seguire quando l’acqua ormai mi arriva alle spalle».

ni, sempre così, ci alzavamo fino a metà corpo sventolando un fazzoletto, era il segnale, ci sembrava di essere in paradiso, pero quell’amicizia è durata poco, solo 8 giorni. Un giorno hanno cominciato a picchiare la nostra artiglieria e noi abbiamo risposto, dal paradiso siamo passati all’inferno. In quel piccolo posto abbiamo fatto 17 prigionieri, erano laceri e tremanti, nello stesso tempo sorridenti, erano i nostri amici austriaci. Qualche volta abbiamo visto per castigo un austriaco legato ad un palo della sua trincea, ma per noi quel poveretto

21 agosto 1917 Avanzare fra i cadaveri «Riceviamo al mattino l’ordine di portarci avanti. Infiliamo i camminamenti cosparsi di cadaveri e ci portiamo in prima linea. Che spettacolo terribile! La prima linea è piena di cadaveri; ma per noi l’ordine è di uscire e di avanzare. Uscire? Avanzare? Ma come si fa ad eseguire quest’ordine quando il terribile fuoco nemico oppone tra la nostra linea un muro di fuoco e di ferro che storpia, uccide, schianta e sconvolge il terreno? Eppure si esce, e da un morto all’altro, da una sporgenza all’altra, da un morto a un’altra sporgenza e da quella a quella, camminando ventre a terra, si avanza lenteamente»

Le foto di queste pagine sono state tratte dal libro Il prezzo della pace - Nel ricordo dei seregnesi alle armi 1915-1918. Edito dall’Associazione MADM - Brianza Viva, si trova nelle biblioteche delle Brianza. I ritratti sono solo alcuni delle decinde e decine di caduti che i curatori del libro hanno pazientemente raccolto. Nel libro, anche alcuni diari di combattenti brianzoli, fra cui anche quello, che pubblichiamo a fianco. Nella foto in alto la lettera del caporoale Giuseppe Brambilla, altro seregnese caduto


6 Maggio 2010

Ambiente 1980, la Beata Vergine abbandonata all’incuria

MONTEVECCHIA SANTUARIO A PEZZI Edifici cadenti, sporcizia, abbandono: la Terrazza della Brianza affonda nella precarietà. Denuncia della Provincia di Como: visitatori e residenti indifferenti allo scempio

BRIANZA 1980

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all’alto pezzi di intonaco e gruppi di mattoni si staccano dall’insieme come si sfalda delicato il pane fresco al mattino». La cronaca della Provincia di Como, dei primi di maggio del 1980 è impietosa. Teatro di questo disfacimento, uno dei luoghi più caratteristici della Brianza: il Santuario di Montevecchia. Il giornalista Daniele Giambiasi che lo visita, nella primavera di 30 anni fa, ne fa un quadro piuttosto serio. L’edificio, consacrato al culto della Beata Vergine del Carmelo, versa in condizioni davvero precarie. «A la base dei muri», prosegue il racconto, «fra cespugli selvatici, va facendosi il fenomeno di un luogo sacro che si sbriciola». Appena sotto il piano della chiesa, costruita nel XX secolo, nel sentiero che corre lungo il perimetro della collina, c’è «uno spetacolo di disamore», nel quale troneggia «un bidone nero con le pareti intorno arrugginite, indizio di un falò contornato da resti di cibarie che fanno capolino da confezioni pubblicizzate». E cade a pezzi anche l’edificio sul retro del santuario, un tempo dimora del parroco: «Attraverso le finestre con i vetri rotti», prosegue la Provincia, «uno strano rumore di sciacquone che non funziona mai». Alla decadenza delle strutture si accompagna l’incuria dell’uomo: «Giù dal campanile», osserva il giornalista, «pendono funi e corde metalliche colorate delle quali è difficile dire quale sia la funzione», mentre il portone «è rammendato alla buona con un pezzo di legno

Montevecchia in una immagine recente. Inimmagibile il degrado di 30 anni fa

dove c’era la serratura». Domina l’abbandono sulla storica terrazza affacciata sulla Brianza e buona parte della pianura sottostante dalla quale, nelle giornate terse, si vede distintamente la Madunina brillare fra le guglie del Duomo di Milano. Il cronista ha le idee chiare su quali siano le responsabilità di tanto scempio: «I turisti e la gente che vive nel comune, anche se sono

quattro gatti». I primi perché «fra tanta gente con voce in capitolo e con il portafoglio pieno che ha visitato il santuario, non ce mai stato nessuno che abbia messo una buona parola da qualche parte (e Dio solo sa se in Italia ci sono posti giusti per le buone parole)». Bacchettate anche per i residenti che «pur avendo tanto di centro culturale, non si sono decisi ancora a far sentire la loro voce combi-

nando quelle manifestazioni pubbliche che fanno rumore più di un terremoto». Ma la fine di questo triste spettacolo, avverte il giornale, potrebbe essere vicina, perché «ci sono trattative fra il parroco, don Luigi, e il sindaco» e la speranza è che si dia finalmente corso «a un progetto architettonico approvato dal cardinal Colombo nella sua visita a Montevecchia nel 1968»

Inquinamento shock MARMO SULLA BRUGHIERA Ne dà notizia la Provincia di Como, mostrando la foto che ancora oggi, col bianco e nero della carta invecchiata da tre decenni, stupisce ancora. Si può vedere un’ampia estensione di terreno erboso - la tipica torbiera paesaggisticamente unica - ricoperta di una coltre bianca. Come spiega il giornale, del maggio 1980, si tratta «di uno strato di polvere bianca» che arriva dagli scarichi di un’azienda che lavora il marmo a Lentate sul Seveso. Una bella nevicata marmorea contro cui si scaglia il Gruppo naturalistico della Brianza. Il presidente degli ambientalisti, Acherman, va giù duro, dichiarando che «si tratta del peggior disastro ambientale in Brianza dopo la diossina a Seveso». La cosa singolare è che l’azienda, denunciata quattro mesi prima alla Pretura di Desio dagli stessi ecologisti, non dà nessun segnale di voler almeno interrompere le piogge di marmo. Ancora più singolare, a una lettura degli anni 2000, che l’autorità giudiziaria non intervenga d’urgenza. Il Gruppo naturalistico, nel frattempo, interessa anche la Regione: per salvare la brughiera si è disposti a tutto. Colmo dei colmi, l’azienda inquinatrice «ha le vasche di decantazione ma non le fa funzionare, dimostrando un raro spregio nei confronti dell’ambiente e delle normative di legge».


Cronaca 1980, rapina mortale

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FRA BALORDI ED EROI, A CABIATE I GIORNI DELLA PAURA

Maggio 2010

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uca aveva concluso da poco il servizio militare. E non aveva perso un giorno: subito a lavorare nella fabbrica del padre e dello zio, Allievi Adolfo e Silvano, un mobilificio artigiano in via IV Novembre a Cabiate (Como). Ventidue anni e tanta energia da spaccare il mondo. Ma il suo mondo, il mondo di un ragazzo di 22 anni, finì in un pomeriggio di maggio. Era il 5 di quel mese, lunedì, poco dopo le 16, quando sulla strada di Luca Allievi si frapposero due giovani balordi che avevano appena compiuto una rapina nella casa del ragazzo, adiacente alla fabbrica, prelevando quattro milioni in contanti con cui l’azienda si accingeva a pagare gli operai. Lui era appena sceso dall’Alfetta del padre, con la quale era andato a comprare un cacciavite particolare, che gli occorreva per una riparazione. Come raccontò la Provincia di Como del giorno 6, Luca Allievi incrociò i due, in fuga, ancora con i passamontagna indossati che correvano verso uno scooter, un Fantic Motor 50, color giallo, ancora appoggiato al muro di cinta esterno. Luca li vide, in un lampo capì la situazione e d’impeto gli si parò davanti, brandendo l’unica arma di cui disponeva, il cacciavite appena acquistato. I due rapinatori, forse intimoriti per la prontezza del giovane e della presenza del arnese fanno fuoco: un colpo fatale. Lui cadde silenziosamente, raccontano le cronache di Emilio Magni, storico corrisponde del Canturino per il quotidiano comasco. La madre, la signora Rachele, 46 anni, udito quel botto si precipitò all’esterno intuendo, disperata, che fosse successo qualcosa di grosso. Ma lo spettacolo che gli si parò davanti fu devastante: il figlio a terra, sanguinante mentre i due delinquenti, ignorato lo scooter, si allontanavano rubando una macchina poco distane. Un attimo dopo, usciva anche la giovanissima Laura, 16enne, sorella di Luca. Madre e figlia, fra urla strazianti, chine sul corpo del giovane ucciso: scena di infinità drammaticità. Tragedia nella tragedia quella del padre di Luca, Adolfo, 49enne: non è in stabilimento e neppure in Brianza. La morte degli figlio lo co-

glie dall’altro capo dell’Italia, a Bari, dove si era recato in fiera per la sua attività di mobiliere. Oggi sarebbe bastato uno squillo sul cellulare: trent’anni fa poteva passare una giornata prima che una persona, così lontana, fosse rintracciata. Enorme l’emozione in tutta la Brianza, sia per l’età giovanissima della vittima, sia per le modalità e il tragico epilogo, con il coinvolgimento dei familiari più cari. Il 6, oltre a un’ampia cronaca sull’accaduto che prendeva per intero la cronaca dedicata a Cantù, sulla Provincia compariva un corsivo non firmato (e quindi attribuibile al direttore) dai toni gravi: «Da qualche tempo sembrava che la morsa della malavita, imperante in Brianza fino all’anno scorso, fosse un po’ attenuata». E si rievocava la tragica fine di Paolo Giorgetti, figlio adolescente di un mobiliere di Meda, rapito nel novembre del 1978 e morto di infarto in mano ai suoi rapitori (una banda calabrese del Varesotto e processata praticamente in quel periodo, ndr). Nei giorni successivi, Cabiate si mobilitava. Fernando Nicoli, primo cittadino, inviava una lettera accorata a tutte le istituzioni preposte alla sicurezza, richiedendo maggior protezione per i propri amministrati. Il giorno 8, artigiani, commercianti e molti cittadini si riunivano in assemblea a Cabiate, guidata da Ambrogio Maspero, capo degli artigiani della zona. Luca Allievi era il figlio di uno dei suoi oltre 500 associati della zona. Una riunione a cui prese parte l’allora presidente della Giunta regionale lombarda, Giuseppe Guzzetti, attuale numero uno di Fondazione Cariplo che, da avvocato, fece la sua parte, illustrando all’assemblea a quali organi competenti, dal ministero degli Interni alla Prefettura, si potesse indirizzare un’azione di sollecito. Dalla platea, come riportò Luca Marchi, anche qualche autocritica. Un cabiatese esortò tutti «a vigilare innazitutto sui propri figli che spesso finivano coinvolti in forme di teppismo dal quale poteva nascere la piccola delinquenza».Sì, perché la Brianza sbigottita realizzava, proprio in quelle ore, che gli autori della feroce uccisione potessero essere due giovanissimi. Lo stesso giorno, nella chiesa cit-

Brianza nera SICUREZZA IERI E OGGI La Brianza ha vissuto una stagione cupa, di violenza e paura. Non un secolo fa, ma solo tre decenni orsono. La tragica vicenda di Cabiate, col sacrificio del giovanissimo Luca Allievi, non è che uno dei tanti casi che riempivano le cronache nere fra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80. Oltre alle rapine a mano armata, in quegli anni, prosperava la malapianta dei sequestri di persona, che questa ricostruzione rievoca en passant in uno degli episodi più tragici: la morte di Paolo Giorgetti a Meda. Storie che fanno riflettere su come oggi sia radicalmente cambiata nei brianzoli la percezione del tema sicurezza. GdM

tadina, una folla imponente aveva dato l’addio a Luca. Alle esequie, celebrate da monsignor Giuseppe Bratti e concelebrate dal parroco, don Luigi Oldani, con molti altri sacerdoti, proprio don Luigi aveva ricordato Luca, la sua laboriosità, il suo essere generoso che forse, in quel maledetto pomeriggio di maggio, gli aveva dato il coraggio di affrontare i due balordi in fuga. Dopo preghiere e benedizioni, il fe-

retro lasciava la chiesa alla volta del cimitero, mamma Rachele e papà Adolfo con la giovane Laura, a guidare la lunghissima e ammutolita processione. Tutto pareva essersi fermato in questo pezzo di Brianza: un tempo sospeso ed irreale, un silenzio cupo rotto solo dallo scalpiccio della folla dolente stretta attorno alla povera famiglia e a Luca. Perché era davvero assurdo morire così. A 22 anni

CABIATE 1980

Luca Allievi affronta due malviventi in fuga dalla azienda di famiglia. Gli sparano: muore a soli 22 anni. Uno shock collettivo


8 Maggio 2010

Cronaca. 1980 il drammaturgo racconta una tragedia brianzola

TESTORI, SCAN

Nell’aprile di trent’anni fa, la cruda verità di un fatto di cronaca: a Ballabio è stata uccisa dal figlio Luca, appena diciottenne. Dalle co della Sera lo scrittore ne parla con toni laceranti e, come sempre, c

RENATE 1980

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uello per cui avremmo tutto dato affinché non risultasse vero, è invece accaduto: Luca Casati, 18 anni, ha confessato: a uccidere sua mamma è stato lui». Giovanni Testori, pittore, scrittore, drammaturgo, nel 1980 commenta sulla prima pagina del Corriere della Sera le vicende più dure e significative dell’attualità italiana nel ruolo che era stato, anni prima, di Pier Paolo Pasolini. Testori, che in tutta la sua vita non era mai stato una voce nel coro, anche questa volta stupisce e scandalizza, perché ha parole cariche di umanità. Non buonismo, Testori, in quel primo articolo del 20 aprile 1980, ricostruisce la scena stessa del delitto, nella tranquilla villetta di Renate: «Madre e figlio lì, nella sala. Una discussione sulla vita che andava facendo. Poi la furia. Ed è su di lei, sulla mamma; è sul grembo, in ogni caso santo e sacro, che, di colpo, contraendo chissà quali terribili esperienze copiate prima ancora di essere desiderate o capite, che il ragazzo si scaglia. Sembra che voglia far pagare l’assurdità in cui ha lasciato scivolare la sua esistenza e chi gliela ha donata». Il dramma della tranquilla Brianza prende i toni tragici che, anni dopo, si sarebbero potuti ritrovare nel contestatissimo e amatissimo In Exitu, che avrebbe recitato egli stesso con Franco Branciaroli. «Infine, la resa», scrive. «Forse solo nel momento in cui ha detto: “Si, sono stato io”, Luca ha cominciato a riconciliarsi con lei, la sua mamma, con la sua famiglia, col suo paese e, in loro e sopra loro, con quel Dio in cui pure, bambino, aveva creduto». Testori prende le distanze dalle «spiegazioni meramente psicanalitiche», ma si dice certo «che la fuga dalla casa o l’uso della casa come contenitore di pranzi, sonni, trasmissioni televisive e basta, significa la fuga da quel centro primo d’ogni società che è la famiglia e la fuga da quel grembo primo che è la madre; quindi, a poco a poco, la loro distruzione. Per trovare quale altro centro e quale altro grembo? Una scommessa al gioco? Una dose di droga? Sempre e comunque un non-centro, un non-grembo, una non-casa». Non si esime da trarre una qualche conclusione da una vicenda che appare del tutto folle: «Questo delitto, su cui preghiamo Dio perché scenda la carità di cui ha bisogno, non può tuttavia non darci un ulteriore allarme. Accaduto in un ambiente di benessere e in un paese della Brianza, d’una cioè delle regioni che fu tra le più dolci e le più belle e che permane tra le più dedite alla quotidiana fusione di vita civile e di vita religiosa, di vita pratica e di vita morale, ci fa chiedere cosa stia smangiando proprio all’inter-

16 marzo 1980. Nella foto di Pietro Vismara, la villetta di Renate dove fa uccisa Orietta Ballabio. Sopra, Giovanni Testori

no, come una terribile muffa o come un terribile salnitro, il valore e il senso delle nostre famiglie e delle nostre case». Sarebbe troppo facile, continua Testori «e significherebbe eludere quell’allarme, attribuire il tutto a un’anomalia. Il gesto di Luca è come l’ingrandimento macroscopico e crudele di quanto, giorno per giorno, viene roso tra i muri in cui abitiamo; e anche di quanto irrigidisce e blocca, nelle nostre case, le nostre parole (che hanno pur sempre un margine infinito di salvezza), sostituendo ai nostri, discorsi e parole d’altri; e che ai nostri visi guardati e scrutati nel loro quotidiano mutare, antepone il freddo

e l’astrazione di immagini esterne che ci arrivano da non sappiamo quale disegno, ma che certo ci inducono, giorno per giorno, a disimparare a costruire il disegno faticoso, epperò reale, della nostra esistenza». Secondo lo scrittore, «un’estraneità subdola, fredda, lucida e ostinata s’insinua attraverso i mezzi di ciò che chiamavamo “benessere”: Ma l’uomo non può vivere estraneo e se stesso. In effetti, la doppia estraneità risulta una sola; e ha origine nel continuo, cieco e demenziale sforzo di estraniarci dal nostro stesso senso: che, per l’appunto, è una casa del Padre». C’è da combattere, scrive Testori,

«il meccanismo cieco che vorrebbe obbligarci ad essere estranei; estranei nelle case, estranei nelle fabbriche, estranei nelle scuole, estranei negli uffici, estranei nelle strade». L’autore de Il Ponte della Ghisolfa scriverà per Il Sabato, la toccante lettera al giovane omicida che pubblichiamo qui a fianco. Ma sempre il 3 maggio, con il titolo Un vento che va, il settimanale proporrà anche un dialogo con Marco Casati, fratello gemello di Luca. Intervista che si chiude con il ricordo di una ricorrente preghiera della madre: «Che il Signore ci tenga la mano sulla testa». Formula, scrive, che «la nostra superbia ci fa pronunciare di rado»


DALOSA PIETÀ

a Renate, Orietta olonne del Corriere controcorrente.

«QUESTA LETTERA CHE TI MANDIAMO» Sul settimanale Il Sabato, ai primi di maggio, Testori indirizza al giovanissimo omicida di Renate parole struggenti.

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arissimo Luca, questa lettera che ti mandiamo noi tutti che lavoriamo a questo settimanale e, con noi, tanti tuoi amici, vorremmo che t’arrivasse, calma e serena, e che ti si fermasse lì, sul cuore, quel cuore, quel cuore su cui chissà quante volte tua mamma ha appoggiato la sua fronte. Insieme che sul cuore, vorremmo che ti si fermasse sulla fronte, quella fronte che chissà quante volte hai appoggiato sul cuore di tua mamma. Vorremmo che, restando lì, ti portasse una dolce e ferma certezza: che tu sei nostro fratello (di me, che ti scrivo, potresti addirittura essere figlio); e che, come figlio e fratello, nessuno di noi ti lascerà mai, qualunque cosa vorrai chiederci: aiuto, visite, compagnia, lettere, libri,sacrifici. Un’altra certezza vorremmo che tu avessi da questa lettera; ed è che da giorni sei entrato come una nostra necessità nelle nostre preghiere e, dunque, nella speranza unica e vera che sostiene gli uomini, tutti, della terra. Personalmente, la notte, prima di chiudere gli occhi ho cominciato a pronunciare il tuo nome assieme a quelli degli esseri che più mi sono cari; e come quelli affido anche te al Padre di tutti noi. Allora mi pare di vederti e che, da dove sei, anche tu mi veda. Noi non vogliamo varcare nessuna soglia che appartiene al segreto e al mistero della tua coscienza. Tu, se ne avrai necessità, ce la spalancherai. Ma noi sappiamo che in quel segreto e in quel mistero, tu sei uomo come noi, come noi figlio carissimo di Dio e che, come noi, anche per te Cristo, Colui che è amore assoluto e assoluta carità, è salito sulla croce. Non ha forse mormorato Cristo, poco prima di morire, a colui che popolo e autorità non sapevano chiamare altrimenti che «ladro», le parole del perdono? Non gli ha forse detto, e solo perché aveva riconosciuto il suo errore e s’era pentito, «oggi sarai con me in paradiso»? Se ci siamo permessi di riferirci a quanto è accaduto nella tua casa di Renate, non è stato per riaprire in te, nei tuoi e anche in noi i lembi d’una così dura ferita; ma perché desideravamo restituire a quella ferita, coi mezzi di cui siamo capaci, il senso più vero e profondo: quello che dall’abisso porta alla luce e dalla perdizione alla salvezza. Per far questo non esiste che una strada: rimettersi completamente alla volontà, alla comprensione, all’amore e alla sapienza di Dio. Solo così, nel leggere e rileggere le meditazioni che abbiamo svolto, e in cui vorremmo che tu non ti sentissi coinvolto più di quanto lo sia ognuno di noi, potremo trarre il senso di servizio che ogni uomo non può non trarre dai gesti, qualunque essi siano, compiuti da un altro uomo. Non per servirsene; ma per servirgli e così servire alla fratellanza che ci lega. E «servizio» qui è detto nel senso più umile, fisico e reale; nel senso, cioè, che risulta interno alla carità. Tu leggerai queste pagine; e noi speriamo che, leggendole, tu capisca come il nostro bisogno e il nostro sforzo nel

Il libro La maestà della vita e altri scritti di Giovanni Testori a cura di Giuseppe Frangi e Davide Rondoni Bur - I libri dello spirito cristiano, pagg. 504, euro 9,50 Nel 1978, il direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella offre a Testori il ruolo di commentatore che fu di Pier Paolo Pasolini. Lo scrittore novatese inizia così a chiosare l’attualità anche drammatica del Paese, con tesi spesso controcorrente. Proprio grazie a un articolo sul caso Moro, Testori incontra i giovani di Comunione e liberazione, molti dei quali diventeranno suoi allievi e inseparabili amici, ed inizia a scrivere anche per il settimanale ciellino Il Sabato. Il libro ripropone questi testi e alcune bellissime interviste, fra cui una, a pochi mesi dalla morte, di Renato Farina.

considerare, nel riferire i colloqui e nello scrivere, sia stato di cavare qualcosa che avesse un significato e un valore di salvezza e di speranza per te e per noi tutti. Ma, in modo particolare, per chi essendo, come te, giovane è maggiormente sottoposto al disumano tentativo che la nostra società sta compiendo di ridurre l’uomo a oggetto, numero, cosa; a non-uomo. Proprio per questo continuiamo a parlarti dell’uomo, dell’amore dell’uomo, del destino dell’uomo, della fronte dell’uomo, del cuore dell’uomo. Pensa! La fronte del Dio fattosi uomo per noi s’è lasciata trafiggere dalle spine; e il suo cuore s’è lasciato lacerare per amore di noi! L’uomo è stato ed è ogni giorno, ogni ora d’ogni giorno, la ragione prima e ultima per cui Cristo s’è incarnato e s’incarna; la ragione prima e ultima della sua sofferenza, della sua passione e della sua morte; la ragione prima e ultima della sua resurrezione. Quello che conduce dalla caduta alla resurrezione è un tragitto che ognuno di noi deve compiere ogni giorno. Chi crede d’averlo compiuto una volta per tutte e di non dover rimettersi ogni giorno in cammino, pecca di superbia o mente. Noi tutti abbiamo sbagliato e sbagliamo; noi tutti abbiamo peccato e pecchiamo. Anche per questo, caro Luca, ti siamo tutti fratelli. A qualcuno potrà forse sembrare che tu abbia peccato in modo atroce; scrivo «potrà sembrare» e ho quasi paura... Ma se anche fosse vero, questo non elimina neppure per un attimo la realtà prima; e cioè che tu sei, come noi, interamente, totalmente uomo; e che dunque tu sei, come ognuno di noi, al centro dell’incarnazione di Cristo; anzi, in questo momento, tu lo sei in modi del tutto privilegiati, per tenerezza, per assiduità, per tremore. Chi può presumere di capire fino in fondo quello che t’è accaduto? Dio solo sa: Lui solo capisce. E, in realtà, lui ha capito tutto; e un giorno ti misurerà secondo il suo metro che è d’infinità carità. È a quella giustizia e a quella carità che dobbiamo rimetterci tutti; ognuno di noi, né più, né meno, di te. Vedi? Così facendo, finiamo col dividere anche gli errori. Tu ti prendi sulle tue spalle i nostri e noi ci prendiamo sulle spalle i tuoi. Anche perché chi mai, essendo come sono io che ti scrivo già in su con gli anni, può ritenersi incolpevole della società disumana e irreligiosa in cui tu sei stato chiamato a percorrere la tua giovinezza? L’umiltà, questo è il dono più grande da chiedere a Dio. E,nell’umiltà, l’intelligenza che deriva dalla carità e dall’amore. È proprio a questa intelligenza, certo in noi incompleta e imprecisa, che abbiamo cercato di riferirci nel mettere assieme queste pagine. E’ probabile, anzi è certo, che il tema sia stato e continui ad essere più grande di noi; ma, forse, qualche parola segnerà un passo avanti per tutti... Questo volevamo dirti, chiedendoti scusa se abbiamo osato riprendere tra le nostre braccia la tua esistenza. Ma vorremmo pregarti di leggere tutto con la certezza della nostra amicizia e della nostra fraternità, di cui ti parlavamo all’inizio. Quando poi, la sera, ti sembrerà che la tristezza sia troppa, pensa a Gesù che per noi s’è caricato della tristezza più terribile, pensa alla tua mamma, che certo t’ha compreso più di tutti; pensa a tuo fratello e a tuo papà; pensa a noi; pensa ai tuoi amici; pensa al tuo paese, al sole che scende sui prati, sui tetti delle case e inonda tutto delle sue luci rosa che chissà quante volte hai visto! «...augurio d’un più sereno dì»: ti ricordi questo verso con cui si chiude un famoso «coro» del Manzoni? Forse sì; e ricordandolo, ti verranno a mente anche le aule delle tue scuole, i tuoi compagni, i tuoi libri. Ma, in quei momenti, non dimenticare mai che Dio vuole da te sopratutto una cosa: che tu abbia carità verso te stesso perché sei suo figlio. Allora, dopo aver pregato, potrai addormentarti. E che il sonno ti dia, ogni sera, il riposo necessario per affrontare ciò che dovrai affrontare. Potessimo sapere che t’aiutiamo a dartelo anche noi, con le nostre preghiere e col nostro fiato... ll Sabato , 3 maggio 1980

9 Maggio 2010

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Di chi si parla

Il critico e lo scrittore Giovanni Testori nasce il 12 maggio 1923 a Novate Milanese ma i genitori sono originari dell’Alta Brianza e il padre è un piccolo industriale tessile. Laureatosi nel 1947 alla Cattolica di Milano con una tesi sull’estetica nell’arte moderna che gli provocherà qualche guaio: il relatore gli impone la censura di alcune pagine giudicate «scandalose». L’anno successivo scrive Caterina di Dio, suo esordio in teatro. Lo interpreterà, al Teatro della Basilica di Milano, una grande Franca Valeri. Nel 1951, Elio Vittorini gli pubblica Il Dio di Roserio, racconto che lo consacra come scrittore. Fra gli anni ’53 e ’56, si afferma anche come critico d’arte. Nel 1958 esce il suo primo grande successo: Il Ponte della Ghisolfa, da cui Luchino Visconti trarrà, due anni dopo, Rocco e i suoi fratelli. Nel 1959 esce La Gilda del Mac Mahon, seguono le messe in scena di Maria Brasca, al Piccolo con Franca Valeri, e L’Arialda, per la regia di Visconti, che fu bloccato dalla censura. Nel 1978, dopo il passaggio alla prima pagina del Corriere e l’incontro con gli universitari di Cl,Testoria scrive per una compagnia di esordienti, Il teatro dell’arca di Forlì, Interrogatorio a Maria, che ebbe un successo clamoroso, rappresentata anche davanti a Giovanni Paolo II. Nel 1980 un dialogo con don Luigi Giussani, Il senso della nascita, inaugura la nuova collana della Rizzoli: I libri della speranza. L’anno dopo, il suo Factum est, per la regia di Emanuele Banterle, il cui protagonista è un bambino non nato che reclama il suo diritto alla vita. Nel 1985, con Confiteor, inizia la sua collaborazione con Franco Branciaroli, che continuerà con In Exitu e Verbò. Nel 1990, Testori si ammala ma continua a scrivere: Branciaroli mette in scena il suo Sfaust. Muore il 16 marzo del 1993. Per approfonidire, il sito associazionetestori.it


10 Maggio 2010

Trasporti 1980, nuovi treni per le Nord

TUTTI PAZZI PER LE FRANCESINE Vagoni a due piani sulla Canzo-Asso: sabato 3 maggio, festa grande sulle tratta, con viaggio inaugurale, da Cusano a Erba, del treno progettato in Francia. Cronaca della giornata

ERBA 1980

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ei, due, nove: tre numeri destinati a rimanere nella storia delle Ferrovie Nord Milano. Sabato 3 maggio 1980, infatti, contrassegnano il treno che, sulla linea Canzo-Asso, inaugura le nuove carrozze appena consegnate da un’azienda bolognese che le ha costruite su licenza francese. Tirato a lucido, con i colori aziendali, il verde e il blu, piuttosto smaglianti, il treno non era partito da Cadorna ma dall’anonima stazione di Cusano Milanino. Come racconta la Provincia di Como di domenica 4, i vertici delle Nord hanno voluto compiere fin lì un viaggio rievocativo, a bordo d’una suggestiva vaporiera «che trainava due carrozze passeggeri con portabagagli». In quel di Cusano, invece, il traorsbordo sul nuovissimo convoglio delle numerose autorità. «Erano presenti», annota il cronista Arple Ferrato, «il presidente delle Ferrovie Nord, Rezzonico, l’assessore regionale ai Trasporti, Semenza, e altre personalità politiche tra cui l’onorevole Briccola che ha trovato modo di ricordare come la scelta delle vetture “francesine”, a due piani, porti la sua “firma”, che ha apposta sulle commesse, quando, qualche anno fa, era lui il presidente delle Nord». Le nuove carrozze «trasportano ciascuna 357 passeggeri, dei quali 150 seduti su sedili imbottiti in finta pelle». Dettaglio importante, quest’ultimo, visto che all’epoca circolavano i vagoni con le tostissime panche in legno. Carrozze che «pesano, vuote, 41 tonnellate che diventano, 64 a pieno carico», dato questo che «lascia capire come la struttura portante dei carrelli sia molto leggera, soprattutto per poter aumentare l’accelerazione nelle partenze». Il viaggio inaugurale, che si concluderà a Erba Icino, risulta quasi trionfale. «Viaggiando», prosegue la cronaca, «ci si rende conto di quanto confortevoli siano le sospensioni dei carrelli a tal punto che le oscillazioni sono quasi ine-

Nate nel 1877 L’IDEA DI MONSIEUR VAUCAMPS 12 dicembre 1877: viene fondata a Milano la Società anonima per le ferrovie Milano-Saronno e Milano-Erba, in seguito Società anonima ferrovie Nord Milano. Primo azionista, il belga Albert Vaucamps cui subentra, nel 1888, la Société Générale de Belgique. Il tricolore viene issato nel 1907, con l’acquisto da parte della Società per le Strade Ferrate del Mediterraneo. Linee elettrificate nel 1929, quando la società finisce sotto il controllo della Edison. Nazionalizzate nel 1974, le Nord furono affidate alla Regione che, nel 1985, suddivise i vari rami d’azienda in altrettante società con, a capogruppo, la Ferrovie Nord Milano S.p.A. Nel 2009, nasce LeNord-Trenitalia per la gestione del trasporto locale in tutta la Lombardia.

sistenti e comunqe non si avverte nessun disagio neppure restando al piano rialzato». Sì perché in quella assolata giornata di maggio, la grande novità è proprio questa: vetture a due piani, prima assoluta per l’Italia, capace di fare sentire i pendolari della Canzo-Asso al centro del mondo ferroviario nazionale. Il giornalista, per la verità, qualche pecca l’annota. «È sembrato che il comfort non sia identico su tutti i vagoni», scrive, «quasi che ci fossero delle differenze tra i carrelli». Da buon osservatore, rileva che l’accesso è rialzato e che il fatto potrebbero costituire un problema per qualche viaggiatore, «ma i tecnici delle Ferrovie Nord non hanno mancato di ricordare che

le piattaforme saranno allo stesso livello delle nuove banchine che in futuro verranno rialzate a quota 90 centimetri rispetto al binario». Trent’anni dopo, un dettaglio quest’ultimo che fa sorridere più di un lettore-pendolare che per anni e anni ha salito quei gradini dalla stessa altezza: le banchine sono rimaste per tre decenni tali e quali. Ma torniamo a quel viaggio. Altre novità destinate a colpire i pendolari, già dal lunedì successivo, è il sistema di apertura degli sportelli: nei nuovi treni non dipenderà più dal capotreno, che effettuava lo sblocco, ma saranno gli stessi passeggeri ad aprire «sollevando un pomello», mentre toccherà al macchinista chiudere centralmente. La Provincia spende

un buon consiglio per i viaggiatori ritardatari: «Le porte, rispetto alla metropolitana, “non perdonano” i passeggeri che salgono all’ultimo istante, perché inesorabilmente chiudono dopo che è scaduto il preavviso acustico che dura cinque secondi». Altro limite la mancanza di un «accesso per gli handicappati». Un linguaggio che suona duro oggi, ma che fa onore, per sensibilità: trent’anni fa non era proprio frequentissimo che ci si ricordasse delle esigenze dei disabili. «I responsabili hanno preso nota , per poter rimediare nelle prossime ordinazioni», scrive un po’ ingenuamente il cronista. In quel sabato inaugurale, forse già un po’ caldo come temperatura, desta un po’ di preoccupazione il sistema di ventilazione del treno: «assicurato da circolazione di aria forzata». L’impressione è «che al piano superiore già ieri facesse un po’ troppo caldo ma a chi ha palesato i timori che questa estate la temperatura possa risultare eccessiva, è stato risposto che carrozze simili sono in funzione in Francia da sei anni, con soddisfazione». Il primo treno «transalpino» è costituito solo da vetture di seconda classe e, in chi scrive, si fa largo l’idea che le Nord stiano per abbandonare la differenza di classi, «come sulla metropolitana». Idea subito bocciata dalla dirigenza: prima e seconda classe ci saranno anche su quei nuovi treni a due piani, magari aggiungendo vagoni. Alla stazione di Erba, ad attendere la freccia bianca-blue e verde, una gran folla, fra cui alcune classi delle IV e V elementari di Arcellasco, i cui piccoli studenti visiteranno incuriositi i nuovissimi treni. Trent’anni dopo, molti di loro, li useranno ancora per andare a Milano. E anche chi scrive queste righe, ha avuto il singolare privilegio di farlo su un treno mattutino della linea Canzo-Asso, coltivando l’idea di viaggiare proprio in quel convoglio inaugurale di trent’anni fa. Giornalisticamente, un’esperienza rara


Imprese 1928, la prima ala canturina

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E IL SOGNO DI ERNESTO VOLÒ SUL CAMPANILE

Maggio 2010

Il 28 maggio un mobiliere vide realizzarsi la grande aspirazione: costruire un velivolo. L’aereo Molteni volteggiò ma rimase progetto

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L’aereo Molteni sulla pista a Milano. Sopra e sotto, il pilota Ferrarin e lo storico volteggio su Cantù. In basso, i lavori

conferire una grande plasticità. Per farlo alzare in volo, Molteni aveva chiamato un asso dell’aereonautica del tempo, il capitano Francesco Ferrarin. «Era un luminoso giorno di maggio», spiega Luigi Molteni, proponipote di Ernesto, e che alla sua morte, nel 1982, raccolse alcuni documenti. «A Talie-

do, c’erano tanti invitati: autorità, amici, eleganti signorine», racconta. E anche le foto documentano, gente elegante che si aggira incuriosita intorno al bellissimo velivolo. Poi l’elica gira, l’aereo effettua il rollaggio e si libra verso il cielo. Scompare presto dal cielo milane-

se perché Ferrarin ha un compito preciso: arrivare sino a Cantù, dove Molteni desidera essere profeta in patria. A Cantù molti sapevano, qualcuno aveva anche preso nota che quello sarebbe stato il giorno della grande impresa ma sentire il rumore dell’elica e vedere l’areo girare attorno al campanile fu un’emozione enorme. Eccolo l’aereo del Molteni! Volteggiando più volte, Ferrarin getta sulla città dei volantini verdi: «La prima Ala Canturinia, coronamento di fede e fatica, ansiosa di mete, saluta Cantù». Storia esaltante, di estro e caparbietà ma che non ebbe un lieto fine. Quando tutto era pronto per convertire la Molteni in un’azienda aereonautica, arriva la spaventosa crisi del 1929 e il progetto si perde nei cassetti ministeriali. Ernesto ne rimarrà scosso. Trasferitosi a Milano, distrusse quasi tutta la documentazione del suo sogno

CANTÙ 1928

n aereo, un aereo vero. Di legno, da costruire nel mobilificio di famiglia. Alla fine degli 1926, Ernesto Molteni, canturino trentenne, ha un’idea fissa, realizzare un monomotore capace di solcare i cieli della Brianza e quelli del mondo intero. Reduce dalla Grande Guerra, dove aveva servito in Cavalleria con il grado di sottotenente, Molteni cominciò a lavorare al suo progetto nello stabilimento di via per Como. Assoldato un ingegnere milanese, Vittorio Boschi, comincia, egli stesso a progettare. Il mobilificio, che produce mobili e arredi in stile, vede pian piano nascere uno splendido velivolo ad ala parasole. Guidati dall’ingegnere e dello stetesso Molteni, gli abilissimi artigiani canturini, tagliano, raccordano, montano i pezzi di uno straordinario Meccano in legno. Non una banda di dilettanti: Molteni e Boschi eseguono prove di carico severissime, di trazione, di elesticità; riportano tutto su diagrammi, calcolano la resistenza dell’aria sui singoli pezzi. Fino a che, con il beneplacito del la Sezione delle costruzioni e degli approvvigionamenti (poi divenuto Registro aereonautico), l’aereo si prepara a prendere il volo. Il 28 maggio 1928, nel campo di volo di Taliedo, nei pressi di Milano, che diventerà anni dopo l’aereoporto di Linate, si vide in pista l’oggetto di tanta passione. Sinuoso, elegante, con la grande ala a


12 Maggio 2010

Politica Nascita di un sindacato

QUEI BIANCHI IN FABBRICA

Il primo maggio di 60 anni fa, la Cisl vede la luce anche in Brianza. Ci convergono quanti vogliono far valere i propri diritti ma senza pagare pedaggio a un’ideologia di Daniele Corbetta

MONZA 1950

A

lla prima riunione del direttivo di zona mi hanno subito fatto capire che un conto era Milano e un altro Monza. Tenevano molto alla loro autonomia e sulla sede non c’era scritto “Zona di Monza Cisl di Milano”, ma “Cisl di Monza e Brianza”». Sono molto chiare le parole di Sandro Pastore, sindacalista milanese attivo per sei anni nella sede di Monza, delegato per le zone di Lissone, Seregno, Desio, Carate, Cesano Maderno e Vimercate. È il cuore della Brianza, dove il sindacato ha messo le radici da tempo, grazie ad una forte presenza industriale, che attirava addetti dalle zone limitrofe. Lo raccontano le pagine di Autonomia e contratti - Storie di sindacalisti della Cisl in Lombardia (Edizioni Lavoro). A partire dalla seconda metà del 1948 la sede di Monza si trovava in Piazza San Pietro Martire, quando la Cisl ancora era un’idea e la neonata realtà si chiamava Lcgil. In prima fila troviamo Luigi Cattaneo, segretario del sindacato, e un nucleo storico di persone provenienti dal medesimo bacino: l’oratorio del Redentore. Insomma, nonostante dipendesse a tutti gli effetti da quella di Milano, la Cisl di Monza e della Brianza fu sempre considerata come una realtà autonoma. Autonomia conquistata grazie alla sua capacità di mobilitazione e al suo forte radicamento sul territorio. Non solo: è utile ricordare che in tutta la Brian-

Monza 1960, operai della Singer radunati davanti ai cancelli in occasione di uno sciopero

za era presente un tessuto produttivo composto da tantissime aziende di piccole e medie dimensioni (ma anche grandi realtà come la Singer, la Philips, la Cgs, la Candy), che solo in parte aveva rapporti con la realtà produttiva milanese. Ma come è arrivata la Brianza all’appuntamento del 30 aprile? È Lorenzo Cantù, cislino delle origini, a sottolineare «l’anomalia» brianzola, come riporta un libro edito dalla

stessa Cisl, Pane, minestra e sindacato - Storie di cinquant’anni di Cisl in Brianza (e da cui sono tratte le foto di queste pagine, ndr): «L’adesione alla Libera Cgil prima e alla Cisl poi, fu entusiastica. Se in altre zone il sindacato si organizzò a partire dai vertici, in Brianza il movimento fu contrario. Fu la base a strutturarsi per prima e a creare un’organizzazione forte sul territorio». Nel 1948 il problema fondamen-

tale era articolare capillarmente il nuovo ente di matrice cristiana. In primis ci si mosse fotografando la situazione, usando gli occhi e le menti dei segretari di zona e di lega. L’obiettivo era trovare attivisti, disposti ad incentivare le adesioni alla Lcgil e a raccogliere i contributi mensili dei lavoratori. Per far ciò fu creata una rete di collettori (vedi box a fianco, ndr), responsabili della raccolta fondi e del-


13 Maggio 2010

S

La Storia

Divisi dopo Togliatti

la fase promozionale. Il passo seguente fu la creazione di un periodico, Conquiste del lavoro: la macchina era in moto. Le prime elezioni si svolsero nel ’48, nelle delegazioni di Monza, Cesano Maderno e Vimercate: gli eletti furono rispettivamente Luigi Cattaneo, Lino Mariani e Vittorio Panzeri. Nel ’49 furono riconfermati e a loro si aggiunse Alessandro Mariani, della delegazione di Seregno. Dopo la nascita della Cisl iniziarono a spuntare anche le prime sezioni comunali, a cura dell’Unione zonale di Monza e sotto la spinta degli attivisti di Brugherio. In termini numerici la Cisl era un fiume che andava ingrossandosi, penetrando in parecchi settori dell’industria, dal metalmeccanico al chimico, dal tessile all’abbigliamento: alla Singer di Monza, nelle votazioni del 1951 la Cgil ricevette 545 voti (4 seggi), mentre la Cisl ebbe 166 preferenze (un seggio). L’esordio positivo si replicò alla Pirelli di Brugherio: 1.122 voti (4 seggi) per la Cgil, 287 (2 seggi) per la Cisl, a cui andavano maggiormente le simpatie di industrie di piccole e medie dimensioni. Analizzando le commissioni interne, anno 1955, le cifre sono in crescita: alla Cgs di Monza risultano 161 iscritti alla Cisl (su 1.200 dipendenti), e 364 voti assegnati; alla Gilera di Arcore erano presenti 90 iscritti (720 addetti) e 324 hanno votato Cisl. È possibile tracciare un parallelo con i dati disponibili per la Singer di Monza: nel ’55 i voti per il candidato cislino furono 247 (contro le 166 di quattro anni prima) e 97 possedevano la tessera del sindacato. Sono ancora le parole di Cantù a condurci alla conclusione: «In Brianza, la Cisl fu veramente espressione dei lavoratori», scrive. «A nascere per prime furono le categorie che presero vita sulla spinta della militanza dei lavoratori. Le prime ad operare sul territorio furono quelle dei cappellai e dei tessili. Poi nacquero quelle dei lavoratori del legno, dei metalmeccanici e dei chimici. In tutti i settori», conclude, «noi andavamo alla trattativa con posizioni precise, ma senza preclusioni nei confronti delle controparti»

Seregno, esordi di un cislino CARLO, FIGLIO DEL COMUNISTA, RACCOGLIEVA LE ISCRIZIONI «Ero giovane ed esuberante, per questo mi fecero fare il collettore». Carlo Castelletti, classe 1935, seregnese di nascita e desiano d’adozione, ricorda con ardore il momento della rottura dell’unità sindacale: nel 1949 entra nella Lcgil e riconferma il suo impegno nella Cisl, di cui oggi fa ancora parte con la medesima verve che lo ha accompagnato nel corso del suo cammino sindacale. I collettori erano gli incaricato della raccolta fondi: a ciascuno di loro era affidato un blocchetto per le ricevute (le tessere nel 1949 costavano 100 lire) e veniva lasciata libertà su metodi e forme di recupero. Altro importante compito era quello di fare proselitismo: «La mia energia mi portava a chiedere a chiunque se desiderasse entrare in Cisl. Molti, fornite le debite delucidazioni, acconsentivano, ma a volte presi anche qualche pedata, mentre altri mi dicevano “Sei un lattante, che vuoi?”. Insomma tanti non accettavano che un giovane tentasse di opporsi all’egemonia della Cgil, proponendo nuove idee». Nel 1953 Castelletti lascia la ditta Mazza, dove non era riuscito ad entrare nella commissione interna, e si trasferisce alla Pirelli di Seregno. «Il mio impegno sindacale aumentò, cercai di diffondere l’idea di una politica estranea alle scelte del sindacato». Il «figlio del comunista», così chiamato per le origini politiche del padre, ribadisce più volte che la Cisl dell’epoca era un gruppo di giovani che portava alla ribalta il sindacato nascente, distinguendosi dalla Cgil, radicata e predominante nelle fabbriche. E sempre più lavoratori seguivano questa forza ascendente: «Inutile nascondere che ero conosciuto come uno che creava problemi. Ma mi interessava solo una maggiore attenzione per i lavoratori, soprattutto nelle grosse fabbriche. E questi lo capirono, perché ero molto attento ai problemi concreti». L’unico rammarico è quando guarda il presente, a sessant’anni dalla storica fondazione «Sempre meno giovani s’interessano al sindacato, i più anziani abbandonano e non ci sono i ricambi necessari». D.C.

Albiate, sindacalista e sindaco DALL’ORATORIO ALLA COMMISSIONE INTERNA, IL SERVIZIO DI DINO Ul Dino, ad Albiate, lo conoscevano tutti, perché al sindacato aveva dato davvero tutto. La storia di Dino Longoni, classe 1928, era così bella e significativa da finire nel libro dei 50 anni di Cisl. Come tanti, negli anni della Guerra, Longoni entra in fabbrica presto, da ragazzino. È il 1942 quando varca i cancelli della Cgs di Monza, industria elettromeccanica con 1.200 dipendenti. Ul Dino è uno che insegna catechismo in parrocchia, organizza la vita dell’oratorio. A Monza, nell’intervallo del pranzo, promuove un gruppo di preghiera nella vicina chiesa di S.Carlo, dove si reca con non pochi colleghi. «Il clima in fabbrica non era buono», ricorda, «nel biennio 194850 c’erano stati scontri duri fra i militanti della Cgil e quelli del sindacato cattolico (vedi GdM di marzo, ndr). Il confronto con la Cgil era sempre all’insegna della contrapposizione». E proprio con l’opposizione del sindacato rosso, Longoni si trova a condurre la sua prima battaglia in Cgs, quella delle riforma delle paghe con il riproporzionamento delle tariffe per il cottimo. Battaglia con la quale la Cisl conquistò la maggioranza in fabbrica. Nel ‘56 la crisi più dura: il sindacato comunista aveva indetto uno sciopero in appoggio all’invasione dell’Ungheria, con tanto di picchetto ai cancelli: «Noi della Cisl eravamo contrari all’invasione e in particolare, eravamo contrari agli scioperi politici. Entrammo in fabbrica con difficoltà passando fra due ali di folla che ci fischiavano». Nel ‘64, a Dino Longoni arriva la proposta da Roma: fare il sindacalista a tempo pieno, a Sesto San Giovanni. Accetta. Si ritrova nei colossi della Marelli, della Falck, della Breda, con il clima che si politicizza sempre più., Per lui e per altri cislini vecchia maniera, saranno anni difficili. La pensione anche per lui. Ma non dall’impegno: nel 1983 è segretario della Dc di Albiate. Due anni dopo è primo cittadino, carica che manterrà fino al 1999. Dino, ul sindacalista ora è ul sindaco.

È il 30 aprile 1950: dall’unificazione della Lcgil (Libera Cgil), della Fil (Federazione italiana del lavoro) e di alcuni sindacati autonomi nasce la Cisl ovvero la Confederazione italiana sindacati lavoratori. Si presenterà all’Italia intera solo il giorno seguente, il 1˚ maggio 1950, presso il teatro Adriano di Roma. Ma serve fare un passo indietro: con il Patto di Roma del 1944 i tre maggiori partiti (socialista, comunista e democristiano) costruiscono un sindacato unico, chiamato Cgil (Confederazione generale italiana del lavoro). L’armonia dura pochi anni e già nell’ottobre del 1948 avviene la separazione. La scintilla scoppia in seguito allo sciopero generale proclamato dalla Cgil per l’attentato a Togliatti (14 luglio 1948): secondo la corrente cristiana l’unico scopo era far cadere il governo (retto da De Gasperi) e perciò non aderisce. Sceglie quindi di fondare un nuovo sindacato, autonomo, con il nome di Lcgil. Anche socialdemocratici e repubblicani seguono le orme dei cristiani: nel giugno del ’49 viene alla luce la Fil. È il preludio al 30 aprile 1950, data di nascita della Cisl: Giulio Pastore è il segretario generale. Il nuovo sindacato nasce quindi da una costola della Cgil, ma prende subito le distanze dalla corrente comunista, incentrando il proprio pensiero sulla netta separazione tra mondo sindacale e quello politico e sulla produttività, considerata come benzina nel motore del lavoro. Il Cittadino della domenica, edizione di Monza, del 6 maggio 1950 celebra la nascita del nuovo organismo sindacale indicando due suoi capisaldi: «La democraticità nella prassi interna ed esterna e la salvaguardia degli effettivi e reali interessi dei lavoratori». Nel numero seguente, datato 13 maggio 1950 si schiera apertamente contro la Cgil: «Chi ha assistito al raduno del 1˚ maggio indetto dalla Cgil avrà notato lo sfacelo che incombe sul vecchio e traballante organismo. Niente di originale: vecchi slogan, logore parole sui cartelloni. Si è avuto così la prima prova palmare che l’influenza della Cgil è scemata enormemente sulle masse». D.C.


14 Maggio 2010

Sport Tragico incidente all’Autodromo di Monza

L’ULTIMO GIRO DI ASCARI Una settimana prima era scampato alla morte, finendo in mare mentre correnva il G.P. di Monaco. Ma l’appuntamento era fissato a Monza, il 26 maggio, durante le prove di Daniele Corbetta

MONZA 1955

V

ariante della Roggia, curve di Lesmo, quindi quella del Serraglio: è il preludio per quella che era la curva del Vialone, l’odierna variante Ascari. Bastano pochi istanti per trasformare un dramma sportivo in leggenda, consegnandolo per sempre alla storia del circuito di Monza. Il nome di Alberto Ascari è indissolubilmente legato all’autodromo brianzolo: era il 26 maggio 1955 quando il non ancora trentasettenne milanese perse la vita in quella serie di curve, che in futuro gli sarà dedicata. Il popolare «Ciccio», così com’era soprannominato, è un fuoriclasse affermato nel circo delle quattro ruote: campione del Mondo di Formula 1 nel 1952 e nel 1953, a bordo della Ferrari, nonché acerrimo rivale del mitico Juan Manuel Fangio e unico in grado di arginare la brama di successi dell’argentino. Lo shock per la sua improvvisa morte colpì tutta l’Italia: la cronaca locale brianzola, tramite la pagina sportiva del Cittadino della domenica del 28 maggio 1955, ricostruì le ultime ore di vita dello sfortunato campione che, solo quattro giorni prima, era stato protagonista di uno spettacolare incidente sul circuito di Montecarlo, finendo in mare con l’autovettura; le conseguenze furono lievi, la cronaca racconta di un naso rotto e poco altro. Che fosse un segnale di avvertimento? Di certo non lo pensaro-

CIccio e il Drake, Enzo Ferrari, insieme ai box. Con i bolidi di Maranello, Ascari vinse due mondiali

no in molti e tra questi non c’era Ascari, che in capo a pochi giorni era di nuovo in pista, Monza, per provare. Si arriva dunque a giovedì 26 maggio: il corridore si presentò a Monza «in elegante abito, a bordo di una Seicento che aveva da poco compe-

rato», riporta il Cittadino. La domenica seguente avrebbe dovuto partecipare al III Gran Premio Supercortemaggiore, chiamato anche Mille chilometri, concorrente nostrana della Mille miglia. Così Ascari, forse svogliato o ancora scosso dall’incidente monegasco,

chiese all’amico e compagno Eugenio Castellotti di poter effettuare pochi giri sulla sua Ferrari 3000. Prima di mettersi al volante per l’ultima volta, Ascari ricevette una telefonata: era la moglie che gli chiedeva quando pensasse di rientare. Ciccio Ascari, secondo chi lo aveva


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QUELLA CURVA MALEDETTA

Maggio 2010

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Gli altri piloti caduti

Da Sivocci a Peterson Curve Curve di diLesmo Lesmo

Curva Curva del delSerraglio Serraglio

Curva CurvaSud Sud Alta AltaVelocità Velocità Anello Anellodi divelocità velocità

Curva Curva della dellaRoggia Roggia

Curva Curva del del Vialone Vialone

Curva CurvaNord Nord Alta AltaVelocità Velocità

Rettifilo Rettifilocentro centro Curva Curva Parabolica Parabolica

Curva Curva Grande Grande

Rettifilo Rettifilo

Nella ricostruzione del tracciato dell’Autodromo di Monza del 1955, questo è il punto dove Alberto Ascari perse il controllo della sua Ferrari 3000. L’auto cappottò, strisciando per decine di metri. Il corpo del pilota, sbalzato fuori, fu ritrovato esanime nell’erba. Qui oggi, la Variante che porta il suo nome

ascoltato, le rispose poche parole: «Stai tranquilla, prepara da mangiare che all’una sono a casa». Primo giro, secondo giro, terzo e ultimo giro: Ascari frena, lascia le gomme sull’asfalto, ma la macchina esce di pista mettendosi di traverso. La Ferrari si cappotta, sbat-

te a terra e non cessa la sua corsa, Ascari è sbalzato con violenza all’esterno dell’abitacolo, mentre l’auto impazzita prosegue zigzagando il suo tragitto, con le ruote rivolte verso l’alto. Il mondo delle corse di velocità era ben lontano dagli standard attuali:

Carriera vincentexxx TRIONFI SULLE ORME DI PAPÀ Alberto Ascari nasce a Milano il 13 luglio 1918: il padre Antonio è un pilota del Campionato del mondo marche (precursore della Formula 1) e trasmette al figlio il suo amore per i motori. Nel 1925, mentre si trova al comando del Gran Premio di Francia, Antonio rimane vittima in un incidente mortale. Il figlio decide di seguire le orme del padre e fa il suo esordio nella Mille Miglia del 1940, al volante di una Ferrari. Dopo la guerra continua l’avventura di Ascari, ormai compagno fisso di Gigi Villoresi e proprietario di una Maserati da gara. Enzo Ferrari non si fa scappare il talento del giovane milanese dal volto paffuto, tanto che lo chiamano tutti Ciccio, e lo veste di rosso, facendolo debuttare in Formula 1: è il 1950. La stagione del trionfo è quella del 1952: sono 12 le vittorie e al termine dell’annata arriva il primo titolo mondiale. L’anno seguente arriva la doppietta, Ascari e la Ferrari sono di nuovo campioni. Quindi il passaggio alla Lancia e in seguito alla Maserati, dove però non ebbe grande fortuna. Le vetture di Manuel Fangio e Stirling Moss erano superiori rispetto a quelle a disposizione del pilota italiano. Si arriva così al 26 maggio 1955: Ascari perde la vita a poco più di un mese dal compimento dei trentasette anni, come era successo al padre, morto anch’egli il giorno 26. Ciccio chiude così la sua carriera con 36 Gran Premi disputati, 13 vittorie, 14 pole position e 12 giri veloci. D.C.

la sicurezza, o quantomeno le protezioni necessarie, erano ipotesi non ancora affrontate con la giusta accortezza; la sorte dei campioni delle quattro ruote era spesso in bilico: la famiglia Ascari insegnava, visto che anche il padre, Antonio, morì in un incidente automobili-

stico a Montlehry, nel 1925, mentre correva il Gran Prix di Francia. E Alberto non era che un bambino. Fa scalpore ciò che riporta la cronaca locale: «Quando i primi soccorritori giunsero sul posto, raddrizzarono subito la macchina credendo che sotto ci fosse il ferito, ma non trovandolo, lo cercarono nei pressi rinvenendolo vicino ad un cartellone pubblicitario, sul prato». Lungo il circuito brandelli della camicia azzurra del pilota e frammenti del suo casco giallo. Nessuna corsa in ospedale, Ascari se n’era già andato. L’ospedale di Monza accolse il corpo del corridore e le prime lacrime della moglie, di Castellotti e di Gigi Villoresi, altro “driver” di quegli anni. Il Cittadino ricorda quindi il grande afflusso di personalità giunte a porgere l’ultimo saluto ad Ascari: dal questore di Milano al sindaco di Monza, passando per i vertici di Ferrari, Lancia e Maserati. Persino Juan Domingo Peròn, storico presidente argentino, chiese telefonicamente a Fangio, di porgere le sue condoglianze a parenti e a tutto l’automobilismo italiano. Il 27 maggio, in un affollato Duomo di Milano, fu celebrato il funerale del campione. Il suo nome sarebbe diventato immortale e tragicamente associato al circuito monzese: ancora oggi ad addolcire quel tratto, dove lasua macchina volò via, è stata introdotta una Variante che ne ricorda il nome

L’incidente mortale ad Alberto Ascari non fu né il primo né l’ultimo dell’Autodromo monzese. L’8 settembre del 1923, toccò al pilota salernitano Ugo Sivocci, che provava una Alfa Romeo P1. Il 9 settembre 1928, il pilota toscano, Emilio Materassi, mentre cercava di superare con la sua Talbot un altro pilota, urtò il muretto laterale, volando fra gli spettatori a 200 all’ora. Morirono 20 spettatori, lo stesso pilota e si registrarono più di 40 feriti. Nel 1931, durante il collaudo di una Alfa Romeo, perse la vita il forlivese Luigi Arcangeli. Due anni dopo, nel 1933, per un fuori pista causato da una macchia d’olio, morirono gli alfisti Mario Umberto Borzacchini e Giuseppe Campari. Nella batteria successiva, nello stesso punto, altro incidente mortale al conte polacco Stanislaw Czaykowski che pilotava una Bugatti. Nel 1961, mentre si correva il Gran Premio, toccò al ferrarista tedesco Wolfgang von Trips: sul rettilineo che conduce alla Parabolica, la sua macchina finì fra la folla, uccidendo lui e 12 persone. Altro incidente mortale, ma stavolta nelle prove di qualifica, occorse nel 1970 all’austriaco Jochen Rindt. La sua Lotus 72, in prossimità della Parabolica, sbanda e finisce dritta contro un guardrail: il pilota muore sul colpo. In cima alla classifica del mondiale, nessuno, nei gran premi successivi, riuscirà a togliergli il primato, che quindi gli fu assegnato post-mortem. Il 10 settembre del 1978, dopo una carambola alla partenza, lo svedese Ronnie Peterson finiva su un muretto con la sua Tyrrel. Morirà l’indomani a Milano per le ferite riportate.


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LIMBIATE 1972

Maggio 2010

Ambiente 1972 Maggio superpiovoso

VILLORESI OSTRUITO, IL GARBOGERA ALLAGA Nella frazione limbiatese di Pinzano, le piogge e l’incuria provocano danni ingenti. Due tonnellate di rifiuti a far tappo

E

ra bastato un maggio piovoso, come quello dei giorni scorsi, per allagare tutto. Trentotto anni fa, il 20 maggio del 1972, l’Informatore limbiatese, cronaca locale del Cittadino, dava conto di una piccola alluvione in quel di Pinzano, frazione di Limbiate. A far danno, una vecchia conoscenza degli abitanti: il Garbogera, torrente esiguo d’estate quanto paurosamente gonfio nei mesi invernali. Ma a far disastro, stavolta più di altre, è l’incuria dell’uomo: come racconta infatti il giornale monzese sono i rifiuti a far tracimare il corso d’acqua «che già da giorni faceva paura». Perché il Garbogera, dopo aver attraversato Ceriano Laghetto, Solaro e Limbiate arriva a Pinzano e lì dovrebbe immettersi nel Villoresi, il grande canale ottocentesco che dal Varesotto attraversa la Bassa Brianza. Il condizionale è d’obbligo, perché il quel maggio di quasi quarant’anni fa, il grande sifone costruito per immettere le acque del Garbogera nel grande flusso del canale risulta completamente ostruito dai rifiuti: «Vi potete trovare di tutto”, scrive il Cittadino, «un autentico immondezzaio. Una montagna di bidoni e barattoli di plastica». Situazione peraltro portata a conoscenza delle autorità: «Fino a ieri si è protestato, ma senza gran chiasso. C’era un gran puzzo, particolarmente d’estate ma si sopportava stoicamente e si stava zitti». Finché le abbondanti precipitazioni maggioline hanno combinato il guaio: non ricevendo il Villoresi, le acque, invero piuttosto sudice del Garbogera, hanno comiciato a ribollire dai tombini e dagli scarichi delle

Un’immagine del Garbogera a Novate. A Limbiate il torrente è coperto da tempo

case. «Abbiamo avuto la casa allagata», dicono Antonio Tagliabue e Giovanni Gerussi, «il tombino di scarico rimetteva le acque. Non era mai successa una cosa del genere». Sotto vari centimetri d’acqua anche

l’oratorio di don Giorgio Ceppi e sommerso anche il campo sportivo. Il comune alza le mani, essendo il corso d’acqua e il sifone intasato di competenza demaniale. «Pinzano è costretta a subire i rifiuti di tutti

Il degrado QUEL TORRENTE PATTUMIERA La storia si ripete. Avevamo già scritto dell’allagamento del 1972, causato dall’accumularsi di rifiuti, quando ci siamo imbattuti in una nuova cronaca del Cittadino, quella del 12 maggio scorso. Trentotto anni sembrano non essere passati. Gli abitanti di Limbiate che vivono fra via Vittorio Veneto e via Guido Rossa si lamentano del tratto ancora scoperto del torrente. Raccontano a Ileana Brioschi di un corso d’acqua ridotto a discarica. «Qui abbiamo trovato di tutto dai sacchetti della spazzatura, agli scheletri dei divani, a carcasse di biciclette e motocicli, uno dei quali è visibile ancora oggi sul letto del Garbogera». Quasi inesistente la manutenzione del verde lungo il corso del torrente (con gli abitanti che si sono improvvisati giardinieri in più di un’occasione) e «le recinzioni di protezione per la passeggiata sull’argine sono insufficienti. La rete non garantisce la necessaria sicurezza ai bambini». Un degrado che, soprattutto d’estate, porta zanzare e topi che «a causa della vegetazione e del ristagno dell’acqua, diventano una sgradita, ma purtroppo irrinunciabile, compagnia».

quei paesi che stanno a monte», accusa il vicesindaco comunista Cesare Pasetti. E qui si innesta forse anche una piccola polemica politica, essendo Limbiate, in quel maggio del 1972, l’unica isola rossa della Brianza. Con il sindaco Zaccaria e i tecnici comunali, Pasetti si è precipitato a Pinzano, contemplando uno spettacolo desolante. «Se entro oggi non avremo ricevuto precise assicurazioni, provvederemo noi», assicura il vicesindaco preallertando le ruspe. Perché se ormai il danno è fatto, basta un altro temporale per riportare l’acqua nelle case dei pinzanesi. Ma non è solo un problema di danno alle strutture. Come fa osservare il giornale, le acque del Garbogera sono putride: «Industrie ed abitanti vi scaricano di tutto» e il problema igienico è tutt’altro che indifferente. E in effetti, gli attoniti abitanti di Pinzano vedevano uscire dai tombini «acqua ora rossa ora gialla». L’articolo, come accadeva spesso essendo il Cittadino settimanale, fa in tempo a dare l’happy end: le ruspe del Genio civile e del Consorzio Villoresi al lavoro con una decina di operai. Il bollettino fa impressione: rimosse 2 tonnellate di riufiuti

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