fermano, dice alla mamma Teresa, di non aver fatto nulla. È un giovane problematico: disoccupato e seriamente malato di tubercolosi, fatto che lo spingerebbe a bere frequentemente. Una vita non facile la sua. Intanto la madre gli è matrigna: la sua è morta nel ’36, quando lui aveva due anni. Quando ne aveva 11, aveva visto i partigiani venire a casa sua a prendersi il padre. Era stato il 4 maggio 1945, la guerra è finita da qualche giorno ed è scattata l’ora della vendetta. Giovanni Giarrusso, maresciallo della Brigata nera, viene fucilato. «Dirigeva la banda musicale», scrive Gino Mazzoli sulla Stampa del 1 febbraio 1963, «sembra che non abbia mai partecipato ad azioni di rastrellamento o torture di partigiani. Ma questo fatto non gli salvò la vita. Fu fucilato su un prato alla periferia di Desio». E sempre in un campo fuori città, quello in cui viene uccisa Ornella e ferito Angelo, si compie il destino di Italo Benito Giarrusso: per gli inquirenti è subito colpevole, per i giornali è immediatamente il mostro. C’entra il suo vissuto - la malattia, la familiarità repubblichina vista come marchio di infamia a pochi anni dalla guerra - il suo volto bovino, sgraziato, con due occhiali da sole che ne celano lo sguardo assente, appoggiate su due orecchie troppo grandi. Italo Benito Giarrusso è un mostro perfetto. E non può che confessare: al giudice istruttore, a Monza, ai carabinieri di Desio. Dice di aver agito in preda a un raptus: «Erano felici, non ci vidi più e li accoltellai», titola a tutta pagina La Notte del 31 gennaio, che invia a Desio, uno specialista di nera, Massimo Cianetti che sbatte il mostro in prima pagina e lo distrugge così: «Un maniaco sessuale, minato dalla tubercolosi e più volte ricoverato in case di cura per gravi scompensi psichici». Anzi, si spinge a ipotizzare che il mostro di Desio «risulterà probabilmente responsabile di altre aggressioni a coppiette avvenute nella zona». Ma già la descrizione che il giornalista, così convintamente colpevolista, offre ai lettori è sconcertante: «È un giovane alto, magro, con i capelli biondicci e risponde perfettamente alla descrizione dell’assassino fatta a suo tempo da Angelo G.». Ma nella foto di prima pagina, in cui si vede l’arrestato uscire dalla Procura di Monza, Italo Benito Giarrusso appare tutt’altro che magro e con i capelli scuri. E solo una delle tante incongruenze che accompagnano il caso (vedi box), che l’avvocato desiano Sergio Carpinelli, difensore, comincerà, di lì a poco a mettere in fila. Già due anni dopo, al tempo del processo in Corte d’Assise, qualche quotidiano comincia a parlare di «presunto colpevole». Ma ormai il mostro è mostro. Malgrado, ritratti la confessione e poi, lungamente, si protesti innocente. Nel processo di primo grado gli daranno 14 anni, riconoscendone la seminfermità mentale. In appello gli ridurranno la pena di due anni. Non sconterà tutto perché il 25 settembre del 1968, a sei anni esatti da quella orribile notte di Desio, morirà nel carcere marchigiano di Fossombrone. «Il bruto omicida di Milano, morto in cella per collasso», scriverà la Stampa di Torino dell’indomani
13 Genn.Febb. Marzo 2011
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Di chi si parla
La lotta della sciura Teresa
Uno dei tanti articoli con cui i giornali nazionali seguirono il processo del mostro di Desio
Processi 1965 e 1966, in Corte d’assise
LA CONFESSIONE PIÙ CHE LE PROVE Malgrado la strenua difesa dell’avvocato Sergio Carpinelli, i due giudizi si risolvono in condanne a 14 e poi a 12 anni. Periti divisi
D
ue processi, due condanne. Italo Benito Giarrusso non riuscirà mai a staccarsi dall’appellativo infamante di «mostro di Desio», affi bbiatogli nelle prime ore del suo arresto, il 31 gennaio del 1963. Nel processo davanti alla seconda sezione della Corte di Assise, a Milano, nel marzo del 1965, presieduta dal giudice Curatolo, la difesa del disoccupato desiano proverà a smontare la tesi accusatoria del pubblico ministero Gresti. A patrocinare il presunto omicida è un avvocato della sua città, Sergio Carpinelli. Il legale l’aveva patrocinato nei giorni successivi l’incriminazione e proprio a Carpinelli, Giarrusso aveva offerto la sua prima ritrattazione. Ne dava notizia il 9 febbraio il Corriere della Sera: «Ritratta l’uomo che confessò di aver ucciso la Bancora». Secondo il quotidiano, l’accusato «si sarebbe deciso a confessarsi colpevole unicamente per sottrarsi allo stretto interrogatorio cui i carabinieri lo sottoponevano da 36 ore e forse anche con il morboso proposito di vedersi indicato come protagonista di un fatto di sangue che per la sua gravità aveva destato notevole impressione in tutta la zona». Nel dibattimento Carpinelli, dopo aver chiesto la seminfermità mentale per il suo assistito (convinto che sia assunto inizialmente la paternità dell’omicidio in preda alla mitomania), punta sulle incongruenze della linea accusatoria, a cominciare dal riconoscimento del Giarrusso, a opera del sopravvissuto. Uno dei testi ascoltati, il primo ad accorrere, parla di «luogo buio e coperto da una leggera nebbiolina». Malgrado ciò Angelo G. vede o crede di vedere un uomo «biondiccio, magro, alto 1,65», tre dati che non rispondono in niente all’aspetto del presunoto omicida che ha i capelli neri, «corvini» dice qualcuno, è piuttosto in carne e sfiora il metro e ottanta di altezza. Lo scampato lo riconosce in una pizzeria di Desio, mentre mangia una pizza. Angelo, che è col fratello, ha un fremito, gli pare di ricordare quel volto. Chiede di farlo parlare con un escamotage e appena sente le sue parole, gli pare di riconoscere la voce dell’assassino che s’allontanava, mandando al diavolo. E lui, si dice e dice al fratello. Ma aspetta due giorni prima di andare in caserma, «convinto che si sarebbe tradito da solo». Altro fatto sconcertante, i due sono vicini di casa, da tempo, ma il fidanzato ferito dice di averlo visto per la prima volta in quel locale di Desio, la sera del riconoscimento. In aula vengono sentiti anche i carabinieri
autori delle prime indagini, quellli che raccolsero la confessione del Giarrusso. Sono il maresciallo Antonino Mura, brigadiere Francesco Can, che accompagnarono il reoconfesso sul luogo del delitto per una ricostruzione di cui però Carpinelli fa notare la mancanza della verbalizzazione. «Sarà stato smarrito», dicono i sottufficiali e il presidente ammonisce il loro superiore, il tenente Salvatore Gangitano, quando per giustificarsi dell’assenza del verbale, ricorda che il presunto omicida aveva fornito alibi falsi. È la verità. Giarrusso aveva raccontato d’essere stato al cinema, al Centrale di Desio, vedendo I pirati, «un fim a colori». Versione ripetuta anche in aula e confutata dallo stesso presidente: «Non è vero, Giarrusso. Al Centrale davano Anni ruggenti, ed era in bianco e nero», gli contesta Curatolo. In aula, il Mostro accusa apertamente l’Arma di avergli estorto la confessione. «Avevo paura, mi avevano detto che arrestavano tutta la mia famiglia», dice secondo quanto riporta il cronista de L’Unità del 23 marzo 1965. Giarrusso continua: «E poi giù, pum, calci, sberle mi han fatto saltare un dente, vuol vederlo?». E l’accusa vacilla anche quando viene chiamato a deporre il direttore dell’Upim di Porta Volta, a Milano, dove secondo la prima confessione resa, il Giarrusso dichiarò di aver acquistato il coltellino a due lame con cui avrebbe poi aggredito la coppietta. Gianfranco Sacchi, direttore di quel grande magazzino, nega decisamente che da loro siano in vendita «coltelli bitaglienti». Ovviamente, anche pubblico ministero e parte civile portano testimoni e prove: Giarrusso è un maniaco sessuale, sosterranno citando un episodio della sua gioventù e cercheranno di far dire lo stesso alla matrigna (vedi box a fianco), sottolineando come il figliastro dormisse con un coltello sotto il cuscino. Divisi anche i periti incaricati di valutarne la salute mentale: per un paio di psichiatri Giarrusso è chiaramente folle, tanto da richiedere un’ulteriore perizia al manicomio criminale di Reggio Emilia. L’accanita difesa dell’avvocato Carpinelli sarà vana: Giarrusso si prende 14, riconsciuto seminfermo di mente. La condanna verrà confermata in Appello, il 20 gennaio 1966, seppure con uno sconto di pena di due anni. Una sentenza che non convince. «In ogni caso prove concrete che il Giarrusso sia effettivamente il cosiddetto “mostro di Desio” non ve ne sono», spiega l’Avanti del 21 gennaio
Teresa Mongiardini gli voleva bene come un figlio, anche se Italo Benito l’aveva partorito un’altra, la prima moglie di suo marito Giovanni Giarrusso, quando lui, l’ultimo di cinque figli, aveva solo due anni. E forse, per averlo tirato su lei, non aveva mai esitato a sentirlo suo. Anche quanto Italo, intorno ai vent’anni, cominciò a svagolare, mostrano i segni della malattia mentale che la costringeranno a ricoverarlo in neurologia. Dovette fare tutto lei perché Giovanni non c’era più: la guerra se l’era portato via, quella guerra feroce fra italiani, che s’era combattuta in Brianza. Giovanni era un maresciallo delle «Resega» che in zona ne aveva combinate troppe, ma quando i partigiani vennero a prenderlo, a casa, a guerra finita da almeno una decina di giorni, lei aveva urlato che lui era solo il direttore della banda musicale, che non aveva mai ammazzato nessuno. Non bastò: lo fucilarono. Con questa storia e con questa sofferenze, la sciura Teresa vide arrivare i Cc a casa sua, in una fredda sera di gennaio. Si presero l’Italo Benito, sussurrandole che aveva fatto una cosa orribile, mesi prima, nella strada che da Desio andava a Nova. Se la ricordava quella sera di settembre, l’allarme l’avevano dato proprio dall’Aurora, dove lei faceva la cuoca: urlavano, piangevano, parlavano di coltellate. E ora incolpavano quel suo ragazzo difficile. Che prima di andarsene le giura, sulla tomba del padre morto di non entrarci. E poi i Carabinieri e il giudice istruttore a Monza, che le facevano domande per sapere se lui l’avesse mai insidiata, fino a costringerla a dormire nel ballatoio, se fosse un esibizionista. E lei che aveva ammesso, convinta di farlo ricoverare anziché finire in carcere. E anche il fatto del coltello sotto il cuscino non era un’abitudine ma era accaduto una notte soltanto, perché suo figlio non stava bene. Niente, non le credettero e le sentenze furono pesanti. Ma la sciura Teresa non s’arrendeva: era stata già dall’avvocato Carpinelli per giocare l’ultima carta, vale a dire la domanda di grazia al presidente della Repubblica. Era convinta che gliela avrebbero concessa, a quel suo figlio malato, da sei anni dentro e condannato con quelle prove così confuse. Ma un giorno di settembre del 1968, i Carabinieri tornarono. «Signora Mongiardini», le dissero, «suo figlio è morto».