a volte ritornano storie di fantasmi
Dall’affamato fantasma di Canterville di Oscar Wilde al Gran Galà degli spettri alla vigilia di Natale di Jerome K. Jerome, otto racconti per attraversare, tremando o sorridendo, il fragile confine tra visibile e invisibile.
A volte ritornano
«In lontananza risuonò una sola risata, acuta e terribile…»
Storie di fantasmi
9 788832 070156
¤ 20,00
Guy de Maupassant · Joseph Sheridan Le Fanu · Jerome K. Jerome · Gustavo Adolfo Bécquer Robert E. Howard · oscar wilde · Tcheng Ki-Tong · Edgar Allan Poe
illustrazioni di Maurizio A.C.Quarello a cura di serenella quarello
© 2019 orecchio acerbo s.r.l. viale Aurelio Saffi, 54 · 00152 Roma © Maurizio Quarello, 2019 (illustrazioni) © traduzione e adattamento a cura di serenella quarello Grafica: orecchio acerbo Stampa: Grafiche AZ, Verona Finito di stampare nel mese di settembre 2019
a volte ritornano storie di fantasmi
illustrazioni di Maurizio A.C.Quarello
Guy de maupassant Joseph sheridan le fanu Jerome K. Jerome Gustavo adolfo bécQuer robert e. hoWard oscar Wilde tchenG Ki-tonG edGar allan poe
a cura di SERENELLA QUARELLO
La morta da Guy de Maupassant
L’ avevo amata perdutamente! Non è strano vedere nel mondo un solo essere, avere in testa un solo pensiero, nel cuore un solo desiderio e sulla bocca un solo nome? Un nome ripetuto, mormorato, dovunque? Non intendo raccontare la nostra storia. L’amore non ha che una storia sola, ed è sempre la stessa. Io l’avevo conosciuta e amata. Tutto qui. E avevo vissuto per un anno intero tra le sue braccia, nelle sue carezze, nel suo sguardo, nei suoi abiti, nelle sue parole, legato a lei in modo tale che non sapevo più se ero vivo o morto, se ero sulla terra o da un’altra parte. Ed ecco che un giorno, lei morì. Come? Non lo so. Ritornò a casa fradicia, una sera di pioggia e il giorno dopo, tossiva. Tossì per una settimana intera e poi si mise a letto. Poi che cosa successe? Non lo so più. I medici venivano, prescrivevano e se ne andavano. Qualcuno portava delle medicine e una donna gliele faceva prendere. Le sue mani erano calde, la fronte 4
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scottava, aveva gli occhi lucidi e tristi. Io le parlavo e lei mi rispondeva, ma cosa ci dicevamo non lo so più perché ho dimenticato tutto, tutto! Morì: ricordo bene il suo respiro, sempre più debole, l’ultimo. L’infermiera disse: «Ah!» E io compresi, compresi! E non seppi più nulla. Vidi un prete che la chiamò ‘la mia amante’ e mi sembrò un insulto così ne chiamai un altro che fu gentile e io piansi quando mi parlava di lei. Mi fecero mille domande sul funerale. Non so più, ma ricordo benissimo la bara e il rumore dei colpi di martello quando inchiodarono il coperchio. Ella fu sotterrata, sotterrata! In quella fossa. Alcune persone erano presenti, degli amici. Ma io scappai correndo. Percorsi molte strade, poi, il giorno dopo, mi misi in viaggio. E proprio ieri feci ritorno a Parigi. Quando rividi la mia stanza, la nostra stanza, fui invaso nuovamente dal dolore. Poi, non potendo più restare in mezzo a quegli oggetti, tra quelle pareti che l’avevano protetta e che erano sicuramente impregnate, nelle fessure, di mille atomi di lei, presi il cappello e uscii. Improvvisamente, mentre andavo verso la porta, mi fermai davanti allo specchio che lei aveva fatto mettere all’ingresso per controllare, prima di uscire, che il suo abbigliamento fosse in ordine e bello: dagli stivaletti alla pettinatura. Mi fermai proprio lì davanti, dove lei si era specchiata così tante volte, così tante volte che doveva averne conservato l’immagine. Ero lì davanti, con gli occhi fissi su quel cristallo liscio e piatto, profondo, ormai vuoto, ma che l’aveva posseduta intera, come io l’avevo posseduta attraverso il mio sguardo appassionato. E così mi sembrò di poter amare quello specchio, lo toccai, era freddo! Ah, ma il ricordo non è che un’immagine dolorosa, bruciante e che fa soffrire ogni tipo di tortura. Fortunati quegli uomini il cui cuore è simile a uno 6 Guy de Maupassant
specchio dove i riflessi scivolano e dimentica tutto ciò che gli è passato davanti, tutto ciò che prima si è guardato con amore. Come soffro! Decisi di uscire e, senza saperlo né volerlo, mi diressi verso il cimitero. Trovai la sua tomba, molto semplice, una croce di marmo e poche parole: “Amò, fu amata e morì.” E lei era lì sotto, imputridita! Che orrore! Singhiozzavo con la fronte appoggiata sulla lapide. Restai a lungo e poi mi resi conto che si stava facendo buio, allora un desiderio strano, folle, un desiderio da innamorato disperato, s’impadronì di me. Volli passare la notte accanto a lei, per piangere sulla sua tomba per l’ultima volta. Ma se mi avessero visto mi avrebbero scacciato. Come potevo fare? Fui astuto. Mi misi a camminare fra quelle tombe, nella città degli scomparsi, una città piccola se paragonata a quell’altra dove si vive, ma molto più grande per il numero di morti rispetto ai vivi! A noi servono case, vie e piazze, invece, a tutti questi morti, quasi nulla… All’estremità del cimitero abitato, vidi il cimitero abbandonato, quello dove i vecchi defunti finiscono per confondersi con la terra e dove perfino le croci marciscono. Era pieno di rose selvatiche, cipressi robusti e un giardino triste che si nutre di carne umana. Ero solo e mi nascosi tra i rami grossi e scuri. E aspettai aggrappato al tronco come un naufrago a un relitto. Quando la notte diventò nera, molto nera, lasciai il mio rifugio e cominciai a camminare lentamente su quella terra piena di morti. Camminai a lungo, ma non la ritrovavo. Procedevo con le braccia tese in avanti, gli occhi sbarrati, andando a sbattere contro le tombe con le mani, i piedi, le ginocchia, il petto e addirittura la testa, inutilmente. Toccavo pietre, croci, ringhiere di ferro, ghirlande di vetro e corone di fiori appassiti cercando di leggere i nomi con le dita facendole passare sulle scritte. Che nottata! E non la ritrovavo! 7 la morta
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Non c’era neppure la luna e avevo paura in quei sentieri stretti tra due file di tombe. Tombe! Tombe! Dappertutto, tombe! Mi sedetti su una di esse perché non riuscivo più a camminare e sentivo battere forte il mio cuore. Sentivo anche qualcos’altro. Ma che cosa? Un rumore confuso, senza nome. Era dentro la mia testa o sotto la terra misteriosa quel rumore? Mi guardai attorno. Non so quanto tempo restai là. Ero paralizzato dal terrore, pronto a urlare. D’improvviso, mi sembrò che la lastra di marmo sulla quale ero seduto si stesse sollevando. Mi buttai sulla tomba vicina, e vidi, sì, vidi la pietra da cui mi ero spostato, sollevarsi in verticale e il morto apparire, uno scheletro nudo che la alzava con le spalle. Anche se la notte era tenebrosa, lo vedevo perfettamente. Sulla croce c’era scritto: “Qui riposa Jacques Olivant, morto a cinquantuno anni. Voleva bene alla sua famiglia, fu onesto e buono.” Anche il morto stava leggendo le parole scritte sulla sua tomba. Poi prese da terra un sasso aguzzo e cominciò a grattare con cura quelle scritte. Le cancellò completamente, lento, guardando con le sue occhiaie vuote il punto dove, fino a poco prima, erano incise. Poi, con la punta dell’osso che era stato il suo dito indice, in lettere luminose come le linee che tracciano sul muro i fiammiferi, scrisse: “Qui riposa Jacques Olivant, morto a cinquantuno anni. Con la sua durezza affrettò la morte di suo padre di cui voleva l’eredità, maltrattò sua moglie, tormentò i suoi figli, imbrogliò i vicini di casa, rubò quando riuscì e morì da miserabile.” Quando finì di scrivere, il morto contemplò la sua opera. Io mi voltai e vidi che tutte le tombe erano scoperchiate, tutti i cadaveri erano usciti e avevano cancellato le bugie scritte sulle loro tombe sostituendole con la verità. Così mi accorsi che tutti erano stati rabbiosi, disonesti, ipocriti, bugiardi, canaglie, invidiosi, che avevano rubato, imbrogliato, compiuto azioni terribili; tutti quei buoni padri, quelle spose fedeli, quei figli devoti, quelle ragazze pure, quei commercianti onesti, quegli uomini e quelle donne irriprovevoli. 10 Guy de Maupassant
Essi scrivevano la crudele verità che tutti fanno finta di ignorare su questa terra. Pensai che anche la mia donna doveva avere tracciato la verità sulla sua tomba e, ormai senza paura, correndo tra le tombe scoperchiate, in mezzo ai cadaveri e agli scheletri, andavo verso di lei sicuro di ritrovarla. La riconobbi da lontano, senza vedere il suo volto, coperto dal sudario.
E sulla croce di marmo dove poco prima avevo letto: Amò, fu amata e morì.
vidi: Uscita un giorno per tradire il suo amante, prese freddo sotto la pioggia e morì.
A quanto pare, mi raccolsero all’alba, inanimato, vicino a una tomba.
Il fantasma e il conciaossa da Joseph Sheridan Le Fanu
F rugando fra i documenti lasciati dal mio compianto amico, reverendo Purcell, ho scoperto il seguente incartamento. Uno dei tanti. Infatti il mio amico era un instancabile raccoglitore di tradizioni locali. Il suo passatempo era proprio raccogliere leggende fantastiche. Ecco il documento: Estratto dalle carte del defunto Reverendo Francis Purcell, di Drumcoolagh: La storia capitò a Terry Neil, il padre di colui che mi raccontò la vicenda. «Amici, questa è una storia insolita e oso dire che nessuno possa raccontarla meglio di me perché accadde a mio padre e l’ho già sentita molte volte dalla sua viva voce. Era un uomo onesto e leale, ma un po’ troppo portato al bere. Comunque non c’era persona migliore di lui per scavare fosse e lavorare di carpenteria: era nato per questo genere di cose. Perciò, dopo un po’, si mise a fare il conciaossa che non era proprio come aggiustare le gambe di un tavolo o di una sedia… Si occupava delle ossa di tutti: uomini e bambini, giovani e vecchi. 12
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Bene, Terry Neil, così si chiamava mio padre, cominciò a guadagnare e bene e si comprò un pezzo di terra nella tenuta del Signore di Phelim, sotto il vecchio castello. E tutto il giorno, i poveracci che avevano braccia o gambe rotte andavano da lui per farsele racconciare. Tutto andava per il meglio, ma era abitudine che, quando il Signore di Phelim si allontanava dalle sue terre, qualcuno dei fittavoli doveva andare a fare la guardia al castello come dovere verso l’antica casata ed era un compito poco amato perché tutti sapevano che in quel castello capitava qualcosa di molto strano. Era noto che il vecchio nonno del padrone fosse solito andarsene in giro nel cuore della notte urlando da farsi scoppiare le vene, bevendo e poi fracassando bottiglie. E fin qui, potremmo farlo anche voi ed io. Il bello è che, per farlo, il vecchio, scendeva dalla cornice in cui era appeso il suo ritratto! E quando qualcuno della famiglia entrava nella sala, lui se ne tornava nella sua cornice come se niente fosse, come se non sapesse nulla della faccenda… Vecchio imbroglione! Bene, una volta, tutta la famiglia decise di andarsene per un paio di settimane a Dublino e così, come al solito, uno dei fittavoli dovette salire al castello. La terza notte toccò a mio padre. “Maledizione!” fece mio padre. “Mi tocca stare lì tutta la notte, mentre quel vecchio spirito vagabondo se ne va in giro per la casa facendo tutti i danni possibili.” Pioveva a dirotto e la notte era buia e paurosa quando arrivò al castello, armato solo di una bottiglia d’acqua santa e una di whisky. Si coprì d’acqua santa e si fece una sorsata di whisky e poi entrò. Gli aprì il maggiordomo, Lawrence Connor, che fu contento di vederlo perché erano amici e si offrì di restare di guardia con lui. Lawrence disse: 14 Joseph Sheridan Le Fanu
“Accenderemo un bel fuoco in sala”. “E perché non in anticamera?” disse mio padre, poiché sapeva che il ritratto era appeso proprio in sala. “Non si possono accendere fuochi nell’anticamera” rispose Lawrence “perché c’è un nido di cornacchie nel comignolo.” “Allora restiamo in cucina: non è conveniente che un semplice fittavolo sieda in salotto” disse mio padre. “Oh, no” disse il maggiordomo. “Se è per rispettare una vecchia tradizione, non è affatto sconveniente!” E così mio padre dovette andare in sala, maledicendo la tradizione. Dopo un po’, il vecchio Lawrence, un po’ per il fumo della pipa, un po’ per il sonno, si addormentò. Mio padre, impaurito, iniziò a scuoterlo, ma poi si ricordò che, se l’avesse svegliato, il maggiordomo se ne sarebbe di certo andato a letto e l’avrebbe lasciato solo col fantasma. Iniziò a camminare avanti e indietro recitando tutte le preghiere che sapeva e poi si scolò mezza bottiglia di whisky. Ho dimenticato di dire che mio padre, nonostante gli sforzi, non poteva fare a meno di guardare il ritratto e si era accorto che gli occhi del vecchio lo seguivano, fissandolo e ammiccandogli, dovunque si spostasse. “Oh” pensò, “non ho davvero più scampo, però, se devo morire, sarà meglio farlo con coraggio!” Così cercò di mettersi comodo e, se non fosse stato per la tempesta di tuoni e lampi e il vento che fischiava, si sarebbe addormentato. Non erano passati tre minuti dacché la tempesta si era calmata, che mio padre sentì un rumore che sembrava venire dal camino. Socchiuse gli occhi e vide che il vecchio stava scendendo dalla cornice con la sua giacca da cavallerizzo. Prima scese sulla mensola del camino e poi saltò per terra. Quindi il 15 Il fantasma e il conciaossa
vecchio fantasma si fermò per controllare che i due dormissero e, appena ne fu certo, allungò la mano e afferrò la bottiglia di whisky e se la scolò fino all’ultima goccia. Allora cominciò a passeggiare per la stanza e quando passò vicino a mio padre, egli sentì una spaventosa puzza di zolfo e incominciò a tossire. “Oh, oh” fece allora il vecchio gentiluomo fantasma, “sei tu, vero, Terry Neil?” “Al vostro servizio, signore” rispose mio padre (per quel che la paura gli permetteva di parlare dato che balbettava tremante). “È un onore per me incontrarvi.” “Terence” disse il gentiluomo, “tu sei un uomo rispettabile…” “Grazie” disse mio padre prendendo un po’ di coraggio. “Dio vi conceda un sereno riposo.” “Un sereno riposo?” disse il vecchio facendosi rosso per la rabbia. “Dio mi conceda il riposo?” ripeté. “Ascolta, contadino rozzo, ignorante, plebeo: dove hai lasciato le buone maniere?” urlò. “Se sono morto non è colpa mia e non è giusto che quelli come te me lo rinfaccino sempre.” “Oh” disse mio padre, “sono solo un pover’uomo, ignorante, sono d’accordo.” “Nient’altro che questo, appunto” convenne il gentiluomo. “Ma comunque non è per ascoltare le tue fesserie che sono salito, ehm, sceso dal quadro questa sera. Io sono sempre stato un buon padrone per tuo nonno, Patrick Neil… E un sobrio e corretto gentiluomo.” Mio padre assentì anche se era una bugia, non poteva evitarla. “…Non mi trovo a mio agio dove sono ora e ho ancora un dovere da compiere.” 16 Joseph Sheridan Le Fanu
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“Forse volete parlare a padre Murphy?” “Taci miserabile” sbottò il fantasma. “Non è dell’anima che mi preoccupo, ma di sistemare questa” aggiunse battendosi una mano sulla coscia, “non è la mia anima a preoccuparmi, ma la mia gamba destra che mi sono rotto il giorno che ho ucciso Barney.” Mio padre scoprì che Barney era il cavallo del vecchio che quel giorno si era rotto una zampa saltando la siepe. “Quel che vorrei è che mi dessi una sistematina!” “Oh, vostra Signoria” esclamò mio padre, che non voleva avere a che fare con nessun fantasma, “non potrei mai permettermi di toccare una personalità come voi!” “Non dire sciocchezze” fece il fantasma sollevando la gamba verso di lui. “Tirala bene o non lascerò intatto un solo osso della tua carcassa.” Sentendo questo, mio padre tirò e tirò.
“Tira più forte!”
strillava il fantasma.
Mio padre tirava più che poteva. “Per farmi coraggio” disse il fantasma, “mi berrò un goccetto.” Ma prese la bottiglia sbagliata: quella dell’acqua santa; non appena se la portò alle labbra, lanciò un grido, diede uno strattone tanto che la gamba, staccandosi, rimase in mano a mio padre; il fantasma cadde all’indietro sul tavolo e mio padre perse conoscenza. Quando ritornò in sé, il sole del mattino entrava dalle persiane, mio padre si ritrovò sdraiato sulla schiena, con la gamba di una delle vecchie sedie in mano, puntata verso il soffitto e il vecchio Larry che dormiva ancora, russando. 18 Joseph Sheridan Le Fanu
Quella stessa mattina, mio padre andò da padre Murphy e, da allora, non si perse più una sola messa o confessione. Quanto al vecchio fantasma non gradì il liquore di mio padre e, forse per la perdita della gamba, non scese più dal suo quadro.»
Il fantasma della camera azzurra da Jerome K. Jerome
E ra la vigilia di Natale. In una storia di fantasmi, è sempre la vigilia di Natale. La vigilia di Natale ha luogo il Gran Galà dei fantasmi che fanno di tutto per mettersi in mostra. Già dalle settimane che precedono il Gran Galà, si provano le urla più agghiaccianti, si restaurano le catene arrugginite, si rammenda e si fa prendere aria a lenzuoli e sudari. È immancabilmente una delle notti più tetre e umide dell’anno. Per di più la pazienza della gente è messa a dura prova dalla casa invasa dai familiari per poter apprezzare l’apparizione di un parente morto e sepolto. Ci deve essere qualcosa di spettrale che li attira così come l’umidità estiva fa uscire rane e lumache. Ogni volta che cinque o sei inglesi si trovano intorno a un camino acceso, la notte di Natale, questi iniziano a raccontarsi storie di fantasmi. E così accadde anche quella vigilia di Natale. Ci sono troppe “vigilie di Natale” in questa storia, me ne rendo conto. 20
Eravamo attorno al camino, fuori il vento ululava come uno spirito inquieto. Avevamo reso giustizia al pasticcio di carne, all’aragosta e alla torta al formaggio, il tutto annaffiato con l’abbondante birra dello zio John che, dopo cena, preparò un punch al whisky, seguito da un’altra caraffa; resi giustizia pure a quella. Poi fu la volta del punch al gin. Insomma, è una mia passione, il desiderio di rendere giustizia. Restammo a far compagnia allo zio io, il curato, il dottor Scrubbles, mister Coombs e Teddy Biffles. Il dottore cantò una canzone intelligente imitando gli animali anche se, a un certo punto, il gallo ragliava e il maiale faceva «chicchirichì». Poi ciascuno raccontò la propria storia di fantasmi. Quando fu la volta di mio zio, ci disse che la sua era una storia vera poiché, proprio in quella casa e proprio la vigilia di Natale, la camera azzurra era infestata da un fantasma di un uomo che aveva ucciso un cantore tirandogli in bocca un pezzo di carbone mentre quello steccava un si bemolle sotto la sua finestra. «Doveva avere una buona mira» borbottò mister Coombs. Ma quello non fu l’unico crimine commesso da quell’uomo il cui fantasma infestava la camera azzurra: aveva ucciso un trombettista, un suonatore di cornetta che conosceva solo due canzoni e le cantava per due ore filate proprio sotto la sua finestra. Fu visto entrare e mai più uscire. E poi fu la volta di un’intera banda dalla Germania che aveva intenzione di fermarsi fino all’autunno. Il secondo giorno li invitò a pranzo e, dopo aver trascorso le successive ventiquattro ore a letto, se ne andarono con problemi di stomaco. Il dottore disse che difficilmente avrebbero potuto ancora cantare in quelle condizioni. E poi vi fu la sepoltura misteriosa di un gentiluomo arpista e di un giovane suonatore d’organetto… «Ogni vigilia di Natale» proseguì mio zio a bassa voce, «il fantasma di quel terribile individuo, tra urla e risate di scherno, scatena una lotta tremenda con gli spiriti di coloro che ha assassinato nella camera azzurra.» Mio zio disse che era impossibile dormire la vigilia di Natale in quella camera. 22 Jerome K. Jerome
«Ascoltate!» aggiunse «credo che in questo preciso momento… si trovi proprio nella camera azzurra.» Mi alzai e annunciai che quella notte avrei dormito nella camera azzurra! Cercarono di dissuadermi, ma l’ospite, la vigilia di Natale, dorme sempre in una camera infestata e non ci fu verso di convincermi. Le cose andarono male da subito: la candela cominciò a ruzzolare giù dal candeliere e ogni volta che la risistemavo, quella ricadeva per terra, mai vista una candela così scivolosa. Mi svestii e mi infilai nel letto dove rimasi sveglio per mezz’ora. Mentre guardavo in giro per la camera, a un certo punto, vidi uno spettro che mi osservava con aria soddisfatta mentre fumava una pipa-fantasma. Non ebbi paura. Il fantasma mi salutò con un cenno gentile del capo. «Immagino di avere l’onore di parlare con il fantasma di quel signore che ebbe ‘quell’incidente’ con il cantante» dissi. Mi sorrise e disse che era molto gentile da parte mia ricordarmene. Mi sarei aspettato parole di rimorso, invece pareva vantarsi della faccenda e allora pensai che forse non si sarebbe offeso se gli avessi chiesto se era sempre lui che aveva avuto a che fare con il suonatore italiano d’organetto che suonava solo melodie scozzesi. «Avuto a che fare?» s’infiammò. «Ho ucciso il giovane da solo, senza che nessuno mi abbia aiutato!» Lo tranquillizzai assicurandogli che mai ne avevo dubitato e proseguii chiedendogli che avesse fatto del corpo del trombettista. «A quale trombettista si riferisce?» «Allora ce n’è più di uno…» azzardai. Sorrise. Non voleva sembrare sbruffone, ma contando i tromboni, ne aveva uccisi sette. 23 IL FANTASMA DELLA CAMERA AZZURRA
Dopodiché entrammo in confidenza e mi riferì tutto dei suoi crimini. Mi raccontò che attirava i venditori di focacce e li ingozzava con la loro stessa merce fino a farli scoppiare e che radunava e ammazzava a gruppi di dieci, uomini e donne che recitavano, per la strada e a tarda notte, poesie deprimenti. Era un piacere ascoltarlo. Quindi gli chiesi quando sarebbero arrivati i fantasmi del cantore, del suonatore di cornetta e della banda tedesca. Mi sorrise e disse che non sarebbero più tornati, perché, negli ultimi venticinque anni, li aveva eliminati tutti. «Lei continuerà a venire, vero?» dissi. «Altrimenti qui tutti sentiranno la sua mancanza.» «Non saprei, ma la trovo simpatico» aggiunse «e lo farò se mi promette che la prossima vigilia dormirà di nuovo qui. Lei non scappa come gli altri strillando e non le si rizzano i capelli sulla testa. Non ha idea di quanto sia stufo di vedere la gente con i capelli dritti in testa!» In quel momento si sentì un rumore nel cortile sottostante, il fantasma trasalì e diventò mortalmente nero. Rimase ad ascoltare, poi fece un sospiro di sollievo: «Pensavo fosse il gallo». «Ma siamo nel pieno della notte» osservai. «Oh, non fa differenza, quei dannati gallinacei fanno chicchirichì anche nel cuore della notte. E quando il gallo canta, noi fantasmi dobbiamo sparire.» «E come fate quando non c’è nessun gallo nei dintorni?» Stava per rispondermi quando trasalì di nuovo. Questa volta si sentì chiaramente il gallo cantare. «Visto?» disse prendendo il cappello. Guardai l’orologio: erano le tre e mezzo. «Se mi aspetta, farò un pezzo di strada con lei.» 24 Jerome K. Jerome