











Margaret Mitchell
Via col vento. Fuoco e ceneri. LIBRO 3 traduzione dall’inglese di Paola Mazzarelli
ISBN 978-88-3624-920-6
Prima edizione italiana gennaio 2023
ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
anno 2027 2027 2025 2024 2023
© 2023 Carlo Gallucci editore srl - Roma
Titolo originale: Gone with the Wind
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LIBRO 3
traduzione dall’inglese di Paola Mazzarelli
La terza parte di Via col vento racconta l’ultimo anno della Guerra civile americana, dal maggio 1864, quando i nordisti al comando del generale Sherman entrano in Georgia, fino al settembre del 1865, quando, dopo la disfatta subita in aprile dalla Confederazione, gli ultimi reduci tornano a casa. Anche qui, come nel volume precedente, la prospettiva da cui viene vista e commentata la guerra è quella di Scarlett e, per tutta la prima parte del volume, della città di Atlanta. Attraverso la costruzione della storia privata dei protagonisti, l’autrice fornisce un quadro storicamente accurato e coerente delle vicende belliche, non solo per quanto riguarda il fronte della Georgia – cioè quello che i suoi personaggi vedono e vivono direttamente – ma anche rispetto all’andamento generale del conflitto su fronti più lontani, dai quali giungono qua e là, per sentito dire o attraverso altri canali, le notizie salienti.
All’inizio di questo terzo volume ritroviamo Scarlett dove l’abbiamo lasciata alla fine del secondo: a casa di zia Pittypat, ad Atlanta. Ora però la guerra, che fino a questo momento si è svolta in “luoghi remoti”, si sta avvicinando. Entrato in Georgia nei pressi di Dalton, un centinaio di miglia a nord di Atlanta, Sherman punta sulla città, cercando di impadronirsi della Western and Atlantic Railroad, la ferrovia che la collega con il Tennessee e l’Ovest e garantisce il
contatto con il resto del Paese all’esercito confederato che gli si contrappone.
La campagna si prolunga per quasi due mesi, grazie alla strenua resistenza delle truppe al comando del generale Joseph Johnston, detto “il vecchio Joe”. Inferiori numericamente, meno attrezzati e privi di truppe fresche di riserva – a differenza delle armate nordiste che possono contare su costanti rifornimenti dal Nord – i confederati sono costretti a ripiegare via via verso Atlanta, perché Sherman, ripetutamente respinto negli attacchi frontali (le battaglie di Dalton, Resaca, New Hope Church, Kennesaw Mountain di cui si sente parlare nei primi capitoli) mette in atto una serie di manovre di accerchiamento intese a prendere il nemico alle spalle.
Il fronte dunque si avvicina ad Atlanta, dove nel frattempo Johnston, per prepararsi a resistere all’inevitabile assedio, ha fatto potenziare le fortificazioni di difesa, anche ricorrendo alla requisizione degli schiavi delle piantagioni della zona, come scopre Scarlett con stupore e sgomento, quando vede sfilare per le strade di Atlanta Big Sam e altri lavoranti di Tara.
Atlanta segue lo svolgimento della campagna con crescente apprensione e con un altalenarsi di sentimenti, dallo scoramento alla rabbia all’euforia, a seconda delle notizie che giungono dal fronte. Dopo l’ultima, sanguinosa battaglia di Peachtree Creek – da dove i feriti arrivano direttamente nel giardino di zia Pittypat – cominciano l’assedio e l’esodo della popolazione civile benestante verso altre città.
Il primo agosto, persa anche la battaglia di Jonesboro, prima che cada l’ultima ferrovia ancora attiva che collega Atlanta con Savannah e la costa, gli ultimi reparti confederati abbandonano la città, incendiando, perché non passino al nemico, le fabbriche e i depositi di munizioni. È il giorno in cui nasce il bambino di Melanie. Quella
notte anche Scarlett, con Melanie e il resto della famiglia, fugge da Atlanta, ormai in mano ai nordisti, per tornare a Tara, attraverso campagne distrutte dai recenti combattimenti. Nella finzione del romanzo proprio a Tara si è accampato e ha posto il quartiere generale l’esercito nordista prima della battaglia di Jonesboro.
A questo punto in Georgia la guerra ha una battuta di arresto. Sherman si insedia ad Atlanta, facendo evacuare l’intera popolazione civile di quarantamila persone, e lì organizza il proseguimento della campagna verso le città della costa. A metà novembre, quando abbandonano Atlanta, che viene interamente rasa al suolo – come racconta, se pure tacendo gli episodi più macabri, Frank Kennedy a Scarlett e Melanie – le truppe nordiste ricevono l’esplicito ordine di distruggere al loro passaggio ferrovie e ponti, fabbriche e mulini e ogni altra struttura, nonché di “rifornirsi liberamente”, nei territori attraversati, di quanto necessario alla sopravvivenza di uomini e animali. Il che significa requisire alla popolazione foraggio, animali da soma, veicoli da trasporto, animali da macello e tutte le altre provviste alimentari accumulate per l’inverno.
Tali disposizioni furono dettate dalla consapevolezza che, penetrato tanto profondamente in territorio nemico, l’esercito nordista non poteva contare su rifornimenti che arrivassero dalle retrovie, poiché non si poteva garantire la salvaguardia delle linee ferroviarie di approvvigionamento. Ma è facile immaginare che un esercito in marcia, o parti di esso, le intendessero con molta elasticità, e cioè come licenza di saccheggio, cosa del resto prevista da Sherman e, se non incentivata, neppure esplicitamente proibita. Le distruzioni di cui si racconta nel romanzo – anche gratuite, allo scopo di “punire”
i ribelli del Sud – sono ben documentate dalle fonti dell’epoca: dallo sradicamento di intere linee ferroviarie all’incendio delle balle di cotone – la ricchezza del Sud – accumulate nei magazzini delle pian-
tagioni, dalla razzia e l’incendio delle case private alla sistematica distruzione di orti e colture. Sono vicende in cui vediamo coinvolti Scarlett a Tara e altri personaggi del romanzo nelle piantagioni dei dintorni: viene perduto, o distrutto, tutto ciò che era stato salvato o faticosamente ricostruito fino a quel momento. È novembre. Per tutto l’inverno la popolazione della Georgia si trova ridotta alla fame.
La “marcia verso il mare” di Sherman, con armate schierate su un fronte di una cinquantina di chilometri che lasciavano terra bruciata dietro di sé, fu una vera “guerra totale” di epoca moderna, intesa non solo a tagliare i rifornimenti agli eserciti nemici, ma anche a mettere in ginocchio la popolazione civile al fine di accelerare la resa. Resa che avvenne nella primavera successiva, dopo le disfatte sui fronti delle due Carolina e di cui a Tara si ha notizia “con due settimane di ritardo”, quando cominciano ad arrivare alla spicciolata i primi reduci.
La guerra ha fatto un numero altissimo di vittime – sono morti quasi tutti gli amici di Scarlett – e i reduci sono pochi, spesso infermi, invalidi o malati. Tra loro c’è anche Ashley Wilkes. Non tornano però gli schiavi che nel corso del conflitto sono fuggiti o sono stati requisiti dall’esercito, perché è passato in Parlamento nel frattempo (31 gennaio 1865) il XIII emendamento alla Costituzione, che abolisce la schiavitù in tutti i territori dell’Unione, quindi anche negli stati secessionisti del Sud.
Con gli iniziali, faticosi tentativi di ricostruzione e l’indomita volontà di Scarlett di conservare Tara e renderla di nuovo produttiva, se pure nelle condizioni radicalmente mutate del dopoguerra, si chiude questa terza parte del romanzo.
Paola MazzarelliIl Via col vento che hai in mano è un romanzo. Più precisamente: un romanzo storico. Spesso, invece, quando si parla di Via col vento, si pensa al film tratto dal romanzo. La differenza è rilevante. Il film racconta una storia d’amore sullo sfondo della Guerra civile americana. Il romanzo racconta la Guerra civile americana (e le sue conseguenze) sfruttando come filo conduttore una storia d’amore. La prospettiva del racconto è quella del mondo che esce sconfitto, o meglio annientato, dalla guerra, prospettiva che – sul piano della tecnica narrativa – coincide quasi sempre con l’angolo di visuale della protagonista Scarlett O’Hara.
Queste considerazioni sono alla base dell’impostazione di fondo della mia traduzione e delle scelte che ne derivano. Nel romanzo l’ambientazione, costruita attraverso una precisione quasi maniacale di dettagli significativi – fattuali e linguistici – non ha funzione pittoresca, ma è essenziale a descrivere in modo storicamente coerente il mondo dei grandi proprietari terrieri degli stati americani del Sud, in particolare della Georgia, allo scoppio della guerra, cioè a metà Ottocento. È un mondo dove le stratificazioni sociali, non solo tra padroni e schiavi, ma anche tra gli stessi bianchi e perfino tra i neri, costituiscono l’ossatura portante della società e si manifestano in ogni aspetto della vita.
Particolarmente rilevante in questo senso è il modo di parlare dei personaggi, che nel romanzo esprime sia la loro appartenenza sociale, sia i rapporti che instaurano gli uni con gli altri.
I neri parlano una lingua propria, a prima vista incomprensibile al lettore che non ci sia avvezzo. È una lingua che attiene al creolo (un creolo fortemente influenzato dal rapporto coi padroni bianchi, come osserva la stessa Margaret Mitchell a proposito di Pork, il servitore di Gerald O’Hara che proviene dalle isole costiere della Georgia) e a varie forme dialettali all’epoca parlate negli stati del Sud. Lingua orale, fluida, con caratteristiche fonetiche, lessico e strutture riconoscibili, anche se non standardizzate, che l’Autrice a volte riproduce anche nelle diverse varianti parlate dai singoli schiavi, a seconda del loro grado di istruzione e della maggiore o minore frequentazione e intimità con i bianchi. I bianchi parlano inglese, in varianti diverse. Tuttavia, pur parlando “lingue” diverse, neri e bianchi si capiscono perfettamente (come possono capirsi perfettamente, in un romanzo italiano, due personaggi che parlino l’uno un dialetto, l’altro l’italiano standard). Se si esclude l’opzione estrema di non tradurre le battute dei neri, ma di lasciarle in originale con una traduzione di servizio in nota, ogni altra scelta è arbitraria. E segna, comunque, una perdita che nella traduzione è inevitabile, e di cui sempre ci si rammarica. Gli autori della prima traduzione italiana del 1937 ricorsero a soluzioni interessanti, ma oggi impraticabili, perché avvertite come grottesche (i neri parlano coi verbi sempre all’infinito, per esempio). In questa traduzione ho optato per una lingua con coloriture popolaresche (dislocazioni, echi dialettali, distacchi di vario genere dalla norma), che nei limiti del possibile varia a seconda del carattere, del ruolo e del rapporto coi bianchi dei diversi personaggi. Nel romanzo i neri sono tutti schiavi, ma non sono tutti uguali. Zio Peter, il maggiordomo, cocchiere e “despota”
di casa Hamilton e Mammy, la governante di casa O’Hara, hanno una consapevolezza di sé, e dell’importanza del proprio ruolo, ben diversa da quella di Prissy, la servetta di Scarlett: differenze che si esprimono non solo in ciò che dicono, ma anche in come lo dicono. Dilcey, una schiava che in parte discende dai nativi americani, e che viene presentata sempre come figura di grande dignità, esprime la propria diversità rispetto agli altri schiavi anche attraverso la lingua che parla.
Perché valga come esempio, riportiamo qui uno scambio di battute tra zio Peter, Melanie e Mammy, tratto dal Capitolo 14 di questo volume, nel testo originale, in una trascrizione più vicina all’inglese standard e nella nostra traduzione.
«Y’all nee’n try ter ‘scuse you’seffs. Ain’ Miss Pitty writ you an’ writ you ter come home? Ain’ Ah seed her write an’ seed her a-cryin’ w’en y’all writ her back dat you got too much ter do on disyere ole farm ter come home?»
«But, Uncle Peter—»
«Huccome you leave Miss Pitty by herseff lak dis w’en she so scary lak? You know well’s Ah do Miss Pitty ain’ never live by herseff an’ she been shakin’ in her lil shoes ever since she come back frum Macom. She say fer me ter tell y’all plain as Ah knows how dat she jes’ kain unnerstan’ y’all desertin’ her in her hour of need.»
«Now, hesh!» said Mammy tartly, for it sat ill upon her to hear Tara referred to as an “ole farm.” Trust an ignorant city-bred darky not to know the difference between a farm and a plantation. «Ain’ us got no hours of need? Ain’ us needin’ Miss Scarlett an’ Miss Melly right hyah an’ needin’ dem bad? Huccome Miss Pitty doan ast her brudder fer ‘sistance, does she need any?»
«You all need not try to excuse yourselves. Has not Miss Pitty written you and written you to come home? Have I not seen her write and seen her crying when you all write her back that you got too much to do on this here old farm to come home?»
«But, Uncle Peter…»
«How come you leave Miss Pitty by herself like this when she [is] so scary like? You know well as I do Miss Pitty has not never lived by herself and she been shaking in her little shoes ever since she come back from Macon. She say to me to tell you all plain as I knows how that she just can’t understand you all deserting her in her hour of need.»
«Now, hush!» said Mammy tartly, for it sat ill upon her to hear Tara referred to as an “ole farm.” Trust an ignorant city-bred darky not to know the difference between a farm and a plantation. «Haven’t us got no hours of need? Aren’t us needing Miss Scarlett and Miss Melly right here and needing them bad? How come Miss Pitty don’t ask her brother for assistance, does she need any?»
«Nossignore, niente scuse. Signora Pitty non ha scritto una volta e un’altra volta e un’altra volta che venite a casa? E io non l’ho vista che scriveva? E non l’ho vista che piangeva quando è arrivata la lettera che dite che non potete venire perché c’è troppo lavoro qui nella cascina?»
«Ma zio Peter…»
«E come mai lasciate sola signora Pitty, che lo sapete che ha paura? Lo sapete, come lo so io, che lei non sta mai da sola. E io vedo che trema tutta nelle sue scarpine da quando siamo tornati da Macon. Mi ha mandato a dire tutto come stanno le cose, che lei non capisce perché la abbandonate nella sua ora del bisogno!»
«Oh insomma!» intervenne Mammy seccata, perché non le era piaciuto sentir chiamare Tara “cascina”. Figurarsi se quell’ignorante di un nero di città sapeva la differenza tra una cascina e una piantagione! «Non ce l’abbiamo anche noi la nostra ora del bisogno? Non abbiamo bisogno
anche a noi qui di signora Scarlett e di signora Melly, molto bisogno? E come mai signora Pitty non chiama suo fratello, eh? Se vuole qualcuno con lei?»
Neppure i bianchi parlano tutti nello stesso modo: carattere, provenienza geografica e posizione sociale incidono sulla loro lingua. Come abbiamo visto nel primo volume, Gerald O’Hara, il padre di Scarlett, parla un inglese più rozzo, segnato da echi irlandesi, rispetto alla moglie Ellen, che proviene da una famiglia di origine francese, più colta e di più antica tradizione; la lingua dei gemelli Tarleton è più vicina al parlato e meno compita di quella di Ashley Wilkes e di Melanie Hamilton; e così via. In questo terzo volume, in particolare, l’Autrice segnala la provenienza geografica e lo status sociale dei soldati che vi figurano (sudisti in rotta, nordisti che razziano Tara) con piccole ma rilevanti variazioni linguistiche. Posto che certe caratteristiche, come gli echi irlandesi di Gerald, in traduzione si perdono, ho cercato di sfruttare abbassamenti e innalzamenti del registro, forme più o meno colloquiali, giri di frase, a volte anche tic linguistici, per rendere almeno in parte le differenze e peculiarità del modo di parlare dei personaggi.
Quando si traduce dall’inglese un’altra scelta che ha sempre un margine di arbitrarietà è quella degli allocutivi. L’italiano ne possiede tre: tu, lei, voi; l’inglese ne possiede uno solo: you. Compete al traduttore decidere se i personaggi si danno del tu, del voi o del lei, e se e quando passano dall’uno all’altro. Non che l’inglese non abbia modo di esprimere la maggiore o minore formalità dei rapporti: in una società come quella descritta nel romanzo chiamare una persona “Miss O’Hara” o “Miss Scarlett” o “Scarlett” fa differenza, ed è una differenza che esprime e insieme codifica relazioni sociali o familiari diverse.
Nella traduzione ho cercato di sfruttare le potenzialità offerte dagli allocutivi italiani, usandoli tutti e tre secondo i modi in uso nell’italiano della seconda metà dell’Ottocento: il lei per rapporti contraddistinti da formalità, il tu per quelli marcati da informalità (per esempio, Scarlett con i suoi amici d’infanzia, quindi anche Ashley Wilkes), il voi per casi non marcati in un senso o nell’altro, o per casi particolari di “formalità familiare” o di “familiarità formale”. Per esempio, nel primo volume si danno del voi i genitori di Scarlett O’Hara (che nell’originale si chiamano Mr O’Hara e Mrs O’Hara anche in privato, e non solo in pubblico, come sarebbe la norma nel mondo in cui vivono); usa il voi Scarlett con zia Pittypat (il tu marcherebbe una familiarità eccessiva), la quale invece usa il tu con Scarlett (familiarità consentitale dalla differenza di età). In questo terzo volume Scarlett usa il voi con Will, il reduce che si ferma a lavorare a Tara, e Will dà del lei a Scarlett: sebbene vi sia tra i due un rapporto di stima e confidenza reciproche, viene marcata nella lingua – e, date le condizioni di vita del dopoguerra, quasi esclusivamente nella lingua – la differenza di posizione sociale.
In generale, a parità di ambiente, i giovani danno del voi o del lei alle generazioni precedenti, i vecchi danno rispettivamente del tu o del voi ai giovani. Anche i neri danno del voi ai bianchi, mentre i bianchi danno del tu ai neri: scelta arbitraria, che mi serve a sottolineare il rapporto di asservimento degli uni agli altri. Stabilito questo schema di riferimento, l’adesione alla norma e a maggior ragione la deviazione dalla norma possono diventare strumenti per veicolare un significato espresso nell’originale attraverso gesti o parole che non hanno equivalente altrettanto pregnante in italiano.
In questo senso va inteso, per prendere un esempio da questo volume, l’improvviso (e per altro temporaneo) passaggio dal voi al
tu di Rhett con Scarlett, a marcare una dichiarazione di amore e un momento di tensione erotica che Scarlett però rifiuta. Non a caso mantenendo da parte sua l’uso del voi che tra i due è diventato la norma per una frequentazione che, come abbiamo visto nel secondo volume, si è intensificata, ma non ha ancora l’informalità socialmente accettabile del rapporto tra fidanzati o tra coniugi.