Quaderno di Gallio e le sue gesta - Verso il Centenario - Capitolo 1

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Indice

Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 I Primi Documenti

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Dal Medioevo alla Grande Guerra . . . 14 La ProprietĂ Collettiva Il paese Stoccareddo

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Prima Guerra Mondiale

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Gallio nella Guerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52 Come un Gregge Disperso . . . . . . . . . 58 Ritorno a Gallio

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Riferimenti Bibliografici

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Prefazione Il tempo trascorre rapidamente, e con esso rischia di cadere nell’oblio la memoria e la conoscenza del nostro passato e delle nostre tradizioni. Lo studio scolastico della storia, disciplinato dai programmi ministeriali, non può che essere rivolto alla storia comune degli italiani riservando, nella migliore delle ipotesi, poco spazio alla storia delle singole località. In tal modo i giovani studiano le vicende dell’Antica Grecia, o dell’Impero Romano (solo per fare un esempio), ma talvolta non conoscono i personaggi o gli avvenimenti che hanno segnato la storia del loro paese. Rammento che quand’ero bambino, consideravo le persone più anziane le vere detentrici della memoria del paese, consideravo ed ascoltavo con attenzione i racconti della Nela Papi e della Giovanna Putia, in casa quando venivano a trovare mio nonno Giovanni (Nena) morto nel ‘71, e successivamente del Giovanin del Caffè Italia, e più tardi del figlio Carlo Munari, del Dario dei Ronchi e del fratello Turi, che nella sua contrada era considerato un intellettuale in quanto 6

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leggeva il Corriere della Sera, e di tutti coloro che potevano trasmettere il loro sapere ai giovani. Ma le generazioni passano ed inoltre, sfortunatamente, oggi la figura dell’anziano non è più percepita come detentrice di un’esperienza di vita. Lo studio della storia della nostra comunità viene demandata all’interesse individuale ed al tempo che residua dai molteplici impegni ed affanni della vita quotidiana. Fortunatamente esiste qualche cultore della storia di Gallio, costoro sono i custodi del nostro passato e delle nostre tradizioni, che si ritrovano nelle loro pubblicazioni, alcune delle quali recenti. Anche alcune tra le precedenti amministrazioni del Comune di Gallio avevano pubblicato dei testi storici, “Gallio 1915-18 Dramma di un paese”, Autori Vari, 1986, e “Gallio, Vicende di uomini e di paese” di Bortoli Giancarlo, 1995. È sufficiente una breve consultazione per rendersi conto che trattasi di opere alle cui spalle vi è un lungo lavoro di ricerca e di studio, che spiccano per la

loro autorevolezza e completezza. Tuttavia proprio la completezza di questi volumi li rende talvolta piuttosto impegnativi. Questo quaderno, ha uno scopo differente, non la completezza ma la semplicità, pagine brevi, di

rapida lettura, il cui scopo è quello di suscitare nel lettore curiosità, interesse e desiderio di approfondimento, pagine da ricordare e tramandare. Pino Rossi

Scene di vita quotidiana nella piazza di Gallio, come appariva ai primi del ‘900. 7

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I Primi Documenti

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Poco si sa dell’insediamento di Gallio precedentemente all’anno mille, in quanto sono rari i documenti che ci sono giunti. Risale al 983 l’atto di privilegio del vescovo della Diocesi di Padova, Rodolfo, in favore del monastero di San Felice di Vicenza, che menziona tra le proprietà oggetto di donazione il molte Longara “Alpes quoque quatour duas supra Marosticam quae vocantur Lastaria ed Bagnaria. Longara in super et montes de Zurimeno et Novegno”1.

ma non è da escludere che questo intervento sia stato motivato anche dei vantaggi militari. In caso di invasione dal nord la zona dell’Altopiano è l’ultima linea di difesa prima della pianura, non è pertanto opportuno che quest’area rimanga disabitata o peggio che possa cadere in mano a dei nemici. La colonizzazione ha consentito di insediare nella zona una popolazione amica che in caso di bisogno si sarebbe schierata contro potenziali invasori. A tal proposito è opportuno precisare che il decimo secolo è stato un periodo storico difficile, sia a livello italiano che europeo. Agli inizi del nono secolo buona parte del continente si trovava riunito sotto un unico re, Carlo Magno, sovrano del popolo dei franchi (capostipiti degli odierni francesi). In questo periodo non esisteva tra i franchi il diritto di maggiorasco (cioè l’attribuzione dell’intera eredità al figlio maschio primogenito) pertanto l’eredità paterna, fosse pure un grande impero, era destinata ad essere divisa tra i figli.

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Le prime popolazioni insediatesi sull’Altopiano, che furono i nostri antenati, provenivano dall’odierna Baviera e furono favorite nella loro migrazione dai monaci benedettini. Queste popolazioni si spostarono a causa della carestia che aveva colpito i loro territori, ed erano spinti dalla necessità e dal bisogno, con all’appoggio dei monaci poterono stabilirsi in queste terre. Certamente l’azione benedettina fu ispirata dai più alti valori cristiani,

Non di rado tra gli eredi sorgevano contrasti che sfociavano in scontri armati, talvolta molto cruenti, la divisione delle eredità era anche allora fonte di contrasti! Carlo Magno morì nell’anno 814 D.C. ed il suo trono passò all’unico figlio, Ludovico il Pio, tuttavia dopo la morte di quest’ultimo, il Sacro Romano Impero venne diviso definitivamente (trattato di Verdum, anno 843). 9

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I Primi Documenti L’impero fu diviso in sezioni verticali, ed il territorio che andava dalla Manica all’Italia fu assegnato a Lotario I. Come è facile intuire le capacità militari di Carlo Magno e dei franchi avevano permesso la conquista di un vasto impero, che tuttavia, date le loro regole relative alle successioni, era fatalmente destinato a frammentarsi. Dopo la morte di Lotario, avvenuta nell’anno 855, il suo regno, seguendo le usanze dei franchi fu ulteriormente suddiviso, dando inizio a quel periodo storico che talvolta viene definito “anarchia feudale”. Anarchia feudale è una definizione molto appropriata per il periodo in questione, dove il territorio, un tempo riunito sotto lo stesso potere

Lotario I. 10

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politico, viene ad essere frammentato fra molteplici aristocratici, il cui numero aumentava con il passare delle generazioni. Assai frequentemente questi nobili avevano degli antenati comuni, risalenti a Carlo Magno, questo tuttavia non significava che tra loro vi fosse pace e armonia, tutt’altro. Gli scontri, le guerre, gli accordi politici, i matrimoni di convenienza e le donazioni vanno collocate in questo quadro politico intricato. 11

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I Primi Documenti

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La donazione del Re Berengario, sovrano dell’area geografica corrispondente grossomodo all’attuale Friuli Venezia Giulia (nipote da parte di madre di Ludovico il Pio) in favore del vescovo di Padova, avvenuta nel 917 va vista in quest’ottica, ovverosia l’opportunità di avere un alleato potente. Vista la localizzazione strategica dell’Altopiano appare ovvio che la donazione comprendesse il diritto di costruire fortificazioni (a protezione del Vescovo e naturalmente allo stesso Berengario). E sempre in quest’ottica si comprende l’intervento degli altopianesi contro gli invasori provenienti dalla Pannonia (corrispondente pressappoco all’odierna Ungheria) avvenuto tra il X secolo e l’inizio dell’XI; la toponomastica del Monte Ongara, oppure Ungara (ovverosia il Monte Longara, sopra ricordato nell’atto di privilegio del vescovo Rodolfo), trova origine in questo periodo. Risalente al 1162 una pergamena nella quale per la prima volta viene citato il nome di Gallio, nella quale si legge: “È stato stabilito tra l’abate di San Felice e

secondo a poco meno di 9. Si tratta di misure di volume risalenti alla Roma Antica, che venivano solitamente usate per i cerali secchi. L’importanza storica del documento, secondo la mia opinione, è la conferma del ruolo cruciale rivestito dai monaci benedettini riguardo ai primi insediamenti avvenuti sull’Altopiano. Quanto sopra menzionato costituisce la conferma che delle persone già abitavano a Gallio nel 1162, e che sull’area i monaci benedettini del monastero di San Felice e Fortunato esercitavano dei diritti di proprietà, tale da concedere terreni e boschi cambio di una contropartita.

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Fortunato di Vicenza ed Orso, Menico, Enzo, e i loro soci, i quali si trovano ad abitare sulla terra che viene chiamata Gallio, che essi avranno la terra che è senza bosco per otto anni completi, la terra boschiva fino a dieci anni, senza alcun pagamento tranne che rifondare le decime ed un prosciutto con due focacce per ciascuno ad ogni festa di Santo Stefano. Inoltre superati questi anni devono in aggiunta dare un sextario di biada per ciascun campo ... Qualora non avessero biade devono dare denaro o valore corrispondente. Nel patto poi è stato stabilito che abitiate in qualunque luogo che volete, secondo il vostro desiderio, per averlo e possederlo voi e i vostri eredi. E nello stesso tempo daremo a ciascuna massaria cinque moggi di biada alla giusta misura del moggio di Marostica e ad ognuno zappe e scuri. Enzo invece avrà un proprio manso come giusto feudo senza pagamento. Offriremo il giusto pagamento per la costruzione della chiesa”2. Si utilizzano delle unità di misura molto antiche, ed oramai in disuso, il sextario ed il moggio, il primo corrispondente a circa 3 litri ed il

1. Mantese, “Memorie Istoriche della Chiesa Vicentina”, pag. 532-536 2. Minto, “Guida storica delle chiese parrocchiali ed oratori della città e della diocesi di Padova”, pag 29 13

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Dal Medioevo alla Grande Guerra

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A quanto è dato sapere, probabilmente non vi furono popolazioni stabilmente residenti sull’Altopiano prima del decimo secolo, questo non significa che l’Altopiano fosse totalmente disabitato, è plausibile che occasionalmente fosse frequentato da pastori con le loro

di ventura, (oggi sarebbe definibile con il termine di “mercenario”), che al servizio del Re Corrado si contraddistinse per abilità militare e per fedeltà. Era il tempo in cui il papato e l’impero si contendevano il potere, ognuno dei quali con i sui seguaci; sono ricordati con il nome di guelfi i sostenitori del Pontefice e come ghibellini i sostenitori dell’imperatore. Grazie al legame con i re germanici gli Ezzelino furono i signori di parti consistenti del territorio Veneto. Non è da escludere che questo legame abbia favorito una seconda immigrazione dalla Germania verso l’Altopiano, tuttavia in merito a tale seconda migrazione non vi è certezza storica. Le vicende degli scontri tra l’impero ed il papato furono alterne, basti ricordare che nel 1250 morì l’imperatore Federico II, ed il papa Alessandro IV scomunicò gli Ezzelino. Subito dopo si accese lo scontro tra questa casata, oramai molto indebolita, e Vicenza, che voleva approfittare della situazione per ampliare i propri

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greggi, da boscaioli, da cacciatori e da soldati, ma costoro non vi dimoravano abitualmente. I primi abitatori stabili, furono popolazioni di origine bavarese, che tra il 900 ed il 1000 si trasferirono in questa zona, grazie all’appoggio dei monaci benedettini. Queste popolazioni si trovarono in tal modo a vivere in prossimità della Pianura Padana, dove varie casate e città si contendevano il potere. La prima dinastia con cui gli altopianesi ebbero a confrontarsi fu quella dei Da Romano, conosciuta successivamente come gli “Ezzelino”. Questa famiglia, le cui origini sono tutt’oggi controverse, dovrebbe essere giunta in Italia al seguito del Re Corrado nel 1026. A quanto è dato sapere il fondatore della dinastia, Arpone, era un soldato

domini. La dinastia degli Ezzelino cadde poi nel 1260 e le popolazioni altopianesi, diedero l’avvio alla formazione della Reggenza, che nacque ufficialmente nel 1311. L’autogoverno della Reggenza, così come voluto dai nostri antenati, è un evento storicamente molto interessante e significativo. 15

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Dal Medioevo alla Grande Guerra

In questo periodo storico il potere politico era sinonimo di monarchie, aristocrazie ed alto clero, le guerre e le prevaricazioni erano all’ordine del giorno, ed una ristrettissima casta di privilegiati, violenti e sanguinari, godeva di una vita agiata sfruttando il lavoro di una massa di contadini poveri e privi di qualsiasi diritto. I nostri antenati decisero di cambiare, mi piace pensare che fossero dei sognatori medievali, forse addirittura degli utopisti, ma ciò che costituisce un dato di fatto è il desiderio di instaurare una forma di governo democratico, basato sulla collaborazione e sul 16

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rispetto reciproco. In effetti, per grandi linee, le modalità di governo della Reggenza erano semplici, ogni centro abitato era rappresentato nella Reggenza, venivano esposte le opinioni di tutti e poi di comune accordo venivano adottate le decisioni. Questo sistema non è altro che la democrazia, che certo talvolta può essere più lenta o più macchinosa, ma che tuttavia, a lungo andare crea collaborazione ed amicizia, mai sudditi. Da galliese posso affermare con orgoglio che il governo della Reggenza dei Sette Comuni, per quanto esteso su un’area e su una popolazione modesta, fu un esempio splendente di democrazia e di fratellanza tra i popoli, un modo di governo estremamente avanzato per l’epoca. Certo i nostri antenati erano coscienti che la Reggenza non aveva la forza militare per contrapporsi frontalmente alla altre potenze, pertanto per vanificare possibili pretese da parte di Vicenza, che era la potenza geograficamente più vicina, si

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stipularono alleanze con gli Scaligeri di Verona e successivamente con i Visconti di Milano. Questi trattati impegnavano la Reggenza alla difesa dei confini in caso di attacchi dal nord, ed in cambio ne assicuravano la sopravvivenza politica, oltre a ciò i nostri avi godevano di ampie esenzioni fiscali. Agli inizi del 15° secolo la “nuova potenza” che stava ampliando i suoi domini nella Pianura Padana, era Venezia. Gian Galeazzo Visconti era morto nel 1402, e nel 1405 la Reggenza strinse nuovi accordi con la Serenissima, che assicuravano ai nostri antenati esenzioni fiscali ancor più vantaggiose delle precedenti, ed in cambio della protezione da eventuali attacchi provenienti da nord, Venezia garantiva la difesa della Reggenza. Ricordiamo che la dissoluzione del Sacro Romano Impero aveva dato il via ad un periodo turbolento e sanguinoso, e non era certo impossibile che i re Germanici avanzassero diritti sui territori italiani in virtù della loro discendenza da Carlo Magno. La stesso titolo di “imperatore del

Sacro Romano Impero” (che dopo il trattato di Verdum del 843 fu attribuito ai sovrani germanici) sottintende qualcosa di più vasto rispetto ai regni germanici, e questa dizione sopravvisse molto a lungo, finendo per essere abbandonata solamente durante le guerre napoleoniche, nel 1806. Fino ad allora aleggiava sempre l’edea che il re di Germania, in quanto portatore del titolo di imperatore, avesse dei diritti su tutte le aree dell’ex Sacro Romano Impero.

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Dal Medioevo alla Grande Guerra

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Altopiano terra di confine, che da questa posizione ha tratto benefici ma anche molti problemi, ricordiamo solamente, che nel 16° secolo si originò una controversia riguardante i confini della Reggenza, tanto che nel 1575 la Serenissima fu costretta a nominare un provveditore ai confini, il vicentino Francesco Caldogno, per dirimere la contesa. Quello che fece fu un lavoro di tipo diplomatico, funse infatti da mediatore, al fine di trovare un compromesso politico che evitasse la guerra. La disputa fu decisa nel 1605 nella cosiddetta “Sentenza Roveretana” dai rappresentanti dell’Imperatore e quelli della Serenissima, i quali si accordarono sui confini della Reggenza, ed assegnò il territorio del Vezzena a Levico e Grigno. É necessario sottolineare che furono presenti i rappresentanti della Serenissima e dell’Imperatore, ma nessuno della Reggenza dei Sette Comuni, che certamente non avrebbero accettato supinamente la perdita di parte del loro territorio.

la Reggenza in quel periodo, ovverosia una piccola pedina tra due grandi giocatori, a nord i re tedeschi, a sud la Serenissima. Alla fine del ‘700 la grande potenza emergente in Europa era la Francia, le cui truppe, guidate da Napoleone

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Questa controversia, risolta per via diplomatica, convinse i veneziani della necessità che la Reggenza si dotasse di un esercito professionale stabile; fino ad allora in caso di necessità combattevano uomini che abitualmente si occupavano di tutt’altro (contadini, pastori, boscaioli...), per poi tornare alle loro occupazioni dopo la fine degli scontri. La Milizia dei Sette Comuni, nata su richiesta della Serenissima, si costituì nel 1623 ed era un gruppo di soldati professionali, oggi diremmo un reggimento, che erano mantenuti ed equipaggiati a spese della collettività e che praticavano professionalmente la guerra e nei periodi di pace si dedicavano all’addestramento, come gli eserciti attuali. Ancora successivamente i confini (e le controversie sugli stessi) furono decisi, sempre a Rovereto nel 1754, tra i rappresentanti di Venezia e quelli dell’Austria, ove furono stabiliti i confini attuali (sempre senza consultare le popolazioni dell’Altopiano). Questo è sufficiente per trasmettere concretamente l’idea di quello che era

Bonaparte, per due oltre due decenni sembrarono inarrestabili. Il 1797 segnò la fine della Serenissima e l’anno seguente il Veneto, e con esso l’Altopiano, furono ceduti all’Austria, che tuttavia riconobbe le istituzioni preesistenti.

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Dal Medioevo alla Grande Guerra Le guerre napoleoniche erano lungi dal finire e l’Austria (ricomprendente ora anche i territori dell’ex. Serenissima e dell’Altopiano) in coalizione con gli altri stati europei avversi al Bonaparte, fu ancora sconfitta dai francesi, che occuparono l’Altopiano il 6 novembre 1805, infine il 29 giugno 1807, il Regio Prefetto ad Asiago (Regio Prefetto del Regno d’Italia, che nonostante il nome non aveva nulla a che vedere con il Regno d’Italia della Casata dei Savoia, in quanto assoggettato alla Francia) abolì il governo federale, cioè dichiarò ufficialmente la morte della Reggenza, che era durata 496 anni. Come sappiamo l’area del Lombardo Veneto fu assegnata dal Congresso di Vienna all’Austria nel 1815, ed il Veneto rimase territorio austriaco fino al 1866. Per l’importanza storica e per l’originalità dell’istituzione ritengo opportuno trattare il fenomeno della Proprietà Collettiva in un capitolo a parte, tuttavia è necessario precisare che Napoleone abolì la Reggenza dei Sette Comuni, intesa come entità politica autonoma, tuttavia non 20

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modificò l’Istituto della Proprietà Collettiva, intesa come modalità di gestione del patrimonio comune. Nemmeno nel periodo in cui la nostra terra fu sottoposta al dominio austriaco (1815-1866) la Proprietà Collettiva fu cancellata. Il rispetto da parte di Napoleone e poi degli austriaci per la Proprietà Collettiva deriva dal fatto che questa è solamente una forma di gestione del patrimonio e non rappresenta una minaccia per la loro egemonia. Fu nel 1866, anno di annessione al Regno d’Italia, che i nuovi governanti italiani decisero di abolire gli Usi Civici e la Proprietà Collettiva, in favore delle forme di gestione attuali. Dopo la fine delle guerre napoleoniche per tutto il 19° secolo l’Italia viveva il periodo del Risorgimento, cioè tutti quegli eventi che portarono all’Unità Nazionale. Sono di questo periodo le guerre d’indipendenza, i moti carbonari, ed i personaggi storici che contribuirono alla riunificazione italiana tra i quali ricordiamo per esempio Giuseppe Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele II. 21

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Dal Medioevo alla Grande Guerra d’Italia che fu presente in altri luoghi, qui infatti non accadde praticamente nulla di significativo il questo periodo. Dopo il 1866, anno in cui il Veneto fu annesso al Regno d’Italia, le condizioni di vita sull’Altopiano peggiorarono, la Proprietà Collettiva fu abolita, inoltre la lana inglese era preferita alla nostra, il ferro e successivamente l’acciaio sostituirono il legno nel settore delle costruzioni navali, la tassazione era pesante e fu introdotto il servizio militare obbligatorio.

Il fervore attinente alla riunificazione attraversò buona parte della penisola italiana, ma non l’Altopiano. Nel periodo d’annessione all’Austria (1815-1866) non si registrano da noi eventi, personaggi, associazioni o la diffusione di ideologie tese a perseguire l’annessione all’Italia. I nostri antenati non dimostrarono quel desiderio di unirsi al regno 22

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Giuseppe Garibaldi.

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L’annessione del 1866 al Regno d’Italia diede avvio ad un periodo di emigrazione che si concluse con il ritorno degli emigranti nel periodo immediatamente precedente la Grande Guerra. L’affermazione che per l’Altopiano, da un punto di vista economico, il periodo del dominio austriaco fu preferibile rispetto a quello italiano non è completamente priva di fondamento. Dopo l’annessione al Regno d’Italia, le condizioni di vita sull’Altopiano peggiorarono, ed iniziò il fenomeno della migrazione. Nel periodo tra il 1866 ed il 1914 i galliesi, e gli altopianesi in genere, spinti dalla necessità erano emigrati all’estero per lavorare. I paesi di destinazione erano molteplici, nel vecchio continente la Germania, la Francia, l’Ungheria ed il Belgio erano le mete principali nei nostri emigranti. I lavori svolti in questi paesi erano solitamente molto faticosi e logoranti, lavoravano nelle miniere, costruivano canali in Germania, erano operai nelle fabbriche, oppure lavoravano nel settore agricolo, spesso stagionalmente. Nel 1914 questi lavoratori tornarono a

casa, dove trovarono quanto avevano lasciato alla loro partenza, ovverosia la povertà e la disoccupazione. In questo periodo tornò anche mio nonno, Rigoni Angelo “Taparo” che era nato nel 1908 a Chicago.

Stemma del Regno Unito d’Italia. 23

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Dal Medioevo alla Grande Guerra

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questo modo una fonte di sostentamento. Agli inizi del 20° secolo il Trentino Alto Adige, non faceva parte del territorio italiano, bensì dell’impero Austro-Ungarico, l’Altopiano di

Tuttavia anche la guerra necessita di lavoratori e dal 1914, coloro che non erano stati arruolati, poterono trovare una fonte di lavoro costituita dalle opere da realizzarsi per l’esercito. Strade, fortificazioni, cisterne, depositi e tutto quello che è necessario per il conflitto, furono una fonte di lavoro per molti galliesi, che divennero operai militarizzati. La figura dell’operaio militarizzato si caratterizza per il lavoro prestato per il Genio Militare, senza che il lavoratore 24

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Asiago era ancora una zona di confine, e questa sua posizione geografica, (che in passato aveva comportato qualche vantaggio) sarebbe stata origine di incredibili sofferenze e devastazioni.

sia incorporato nell’esercito, l’operaio tuttavia nello svolgimento delle sue mansioni è soggetto alle direttive e alla gerarchia militare come i soldati. Oltre a questi lavori ufficiali la presenza di numerosi soldati sull’Altopiano permetteva la nascita di commerci più o meno leciti, che ricomprendevano il commercio di tabacco, di patate, sigarette, alcolici... Negli anni immediatamente precedenti il 1916, in cui l’Altopiano dovette essere evacuato rapidamente, molti trovarono in 25

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La Proprietà Collettiva

Con il trascorrere degli anni la popolazione residente a Gallio era cresciuta, non si hanno dati esatti ma sembrerebbe che verso gli inizi del 1300 non fosse inferiore ad alcune centinaia di persone. Le genti stanziate sull’Altopiano compresero rapidamente che uno sfruttamento eccessivo del territorio avrebbe comportato seri problemi per la loro sopravvivenza. Le attività che consentivano la sussistenza della popolazione erano poche, ed il tenore di vita miserevole. Vi era l’agricoltura con i pochi prodotti coltivabili, stante il clima rigido di Gallio, 26

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l’allevamento, la pastorizia, la caccia e l’utilizzazione dei prodotti dei boschi. Queste erano le sole ricchezze disponibili, tutte provenienti dal territorio, pertanto la preservazione, e possibilmente il miglioramento ambientale, era una questione di sopravvivenza. Il 17 giugno 1357 “Francesco di Calavena da Verona, Abate di S. Felice, concede a Pietro, detto Benicio, del fu Bertoldo da Gallio, nella sua qualità di Sindaco e procuratore degli uomini di Gallio, il monte chiamato Longara...”1. Si tratta forse di una sottigliezza, ma la concessione dei beni non venne fatta al Sindaco, in rappresentanza

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dell’amministrazione comunale, o del municipio, ma in qualità di procuratore degli uomini, quindi i beni furono concessi direttamente agli uomini, non al Comune. Quando la proprietà è condivisa da centinaia di persone è necessario stilare un regolamento per l’utilizzazione dei beni e per la loro salvaguardia, nonché eleggere un gruppo più ristretto di persone che oggi si chiamerebbe Consiglio di Amministrazione, o Commissione Amministratrice, per adottare le decisioni necessarie. Del 17 luglio 1583 un documento basilare, nel quale si sancirono le regole fondamentali dell’utilizzo dei beni, redatto dai regolieri di allora presso il notaio Gianesin Finchati (come riportato nel testo del Bortoli, “Gallio, vicende di uomini e di paese”), che sotto sintetizzo, nell’italiano di allora, utilizzato nell’atto: 1. Coloro che pascolano pecore prese in affitto da terzi debbono pagare un compenso ai regolieri; 2. i pastori forestieri non possono pascolare senza licenza dei regolieri; 3. nessuno può seminare “dal

capitello de Bertigo in qua verso sera” e principalmente nella località che si dice “El Chemple e la Loba, e Cismollo, e Plerde” e in altro luogo del Comune “de Galio et Ronchi”; 4. nessuno può seminare sopra i beni comunali; però i regolieri lo possono fare, dietro compenso a favore delle casse del Comune; affinché l’incasso vada a beneficio “del povero come del richo” … (preciso che casse del Comune indica cassa Comune della Regola, non dell’amministrazione comunale); 5. nessuno può usare i beni della contrà roça, che deve essere assegnata solo ai poveri;

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La Proprietà Collettiva

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12. coloro che avendo pecore e non vogliono farle pascolare in montagna, bensì nei beni comuni, sono tenuti a mettersi in nota dai regolieri o govenatori, e pagare un affitto.

6. nessuno può fabbricare, tantomeno recinti nei suddetti terreni, sotto pena di L.100, da assegnare alla magistratura di Vicenza o di Marostica per 1/3, all’accusatore per 1/3 e alla chiesa di S. Bartolomeo per il restante; 7. quelli che hanno costruito abusivamente lo dichiarino urgentemente, sotto pena di multa e sequestro; 8. nessuno può usare lo stesso 28

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terreno per più di tre anni; 9. sia eletta annualmente una commissione di regolieri (…) per sovraintendere alla riscossione dei proventi; 10. nessuno può ingrassare i prati della contrà “de la roça”, che spetta ai poveri; 11. nessuno può portare al pascolo bestiame nei terreni autorizzati per la semina;

Da quanto sopra riportato si può ricavare l’intendo di una gestione diretta a tutelare i diritti dei regolieri nei confronti degli estranei, (che erano chiamati a pagare per usare le terre comuni). Vi è inoltre la volontà di impedire che i beni della Regola fossero divisi anche tra i regolieri stessi, che non potevano recintare i terreni ne usarli per un periodo superiore ai tre anni, impedendo in tal modo il formarsi di pretese sui beni comuni. Infine, cosa assai lodevole per il

periodo, vi è un’occhio di riguardo per i poveri (che sicuramente non mancavano), tanto da riservare loro l’utilizzazione di alcuni terreni e di parte degli introiti. L’istituzione della proprietà collettiva è tipica dell’autogoverno della Reggenza dei Sette Comuni, e di poche altre località alpine, e coesistette assieme alla Reggenza. La dissoluzione dell’autogoverno dell’Altopiano, che come ricordato in precedenza avvenne nel 1807, non coincise con l’abolizione della Proprietà Collettiva. Come accennato in precedenza questo modo di gestione non fu cancellato da Napoleone e nemmeno dagli austriaci, ma scomparve con l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, avvenuta nel 1866, quando furono introdotte le forme di amministrazione tutt’ora utilizzate. La Proprietà Collettiva, era durata per 509 anni, dal 1357 al 1866.

1. Bortoli, “Gallio, vicende di uomini e di paese”, pag. 42 29

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Il paese di Stoccareddo

Quaderno di Gallio e le sue gesta

La storia di Gallio e della frazione di Stoccareddo per buona parte si sovrappongono, tanto che trattare dell’una equivale a parlare anche dell’altra. Si ritiene opportuno citare brevemente quelle che sono le particolarità storiche di questo splendido paese. E’ provato storicamente che Stoccareddo, Zaibena e Sasso esistono in conseguenza la costruzione della famosa Calà del Sasso del 1389, divenuta ben presto “un’auto-strada” commerciale.

erano in numero di quattro, l’una lontana dall’altra. I possessori di esse erano Girolamo Baù, Pietro Baù, Bartolomeo e Gaspare Baù e Giovanni Rossi, l’una lontana dall’altra. Quelle case giacevano in mezzo pezze prative, arative e zappative, dove le biade mature ondeggiavano ed increspavanasi al leggero e fresco venterello che spirava. Qui e la erano piantate noci, ciliegi e altri alberi fruttiferi. Ogni casa era fornita d’orto. Cinque case pure esistevano alla Zaibena con prati, campi ed orti, dove abitavano Marco, Domenico, Pellegrino, Bartolomeo, e Girolamo Marini... eseguita la perticazione delle terre e prati risultò che la Zaibena aveva 70 campi, Stoccarè 136 campi e Sasso 207 campi”. Trattasi di un documento molto interessante, innanzitutto per la precisione dei dati riportati, precisione tutt’altro che frequente nei documenti di quest’epoca. Vi è poi una descrizione dell’ambiente favorevole all’agricoltura, con orti e prati fertili ed alberi da frutto.

Risale al 1556 una documentazione in cui viene citato “conservata presso l’Archivio Municipale di Valstagna relativa ad una contesa territoriale tra Asiago e Valstagna, parla della … presenza alle pendici del Col del Rosso antecedente il 1502: … All’albergatore del dì seguente, montata la sua cavalcatura, s’incamminarono per la via di Gallio fino alla Frenzela: ove giunti ascesero fin quasi alla sommità del monte. Da questo luogo il Podestà ...gli indicò le case e le abitazioni di Stoccarè che

Stoccareddo 1906: due chiese, un solo campanile. 30

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Facile comprendere che un simile territorio abbia riscosso il favore dei suoi abitanti. Si nota anche che la dizione antica era di Stoccarè, non quella attuale di Stoccareddo, questo nome storico è rimasto nel parlare comune degli abitanti dell’altopiano. Una delle particolarità di Stoccareddo è il cognome condiviso dalla maggior parte della popolazione, questo fenomeno è probabilmente attribuibile alla prima colonizzazione dell’area, avvenuta presumibilmente tra il 1400 ed il 1500. La prima numerosa famiglia, aveva già allora il cognome Baù, e sarebbe stata composta da due fratelli con numerosi figli. La tradizione dell’epoca era che le mogli andassero a vivere nella località d’origine dei mariti, per cui le spose, originarie dei paesi limitrofi, avrebbero aumentato la popolazione di Stoccareddo, ed i loro figli, prendendo il cognome paterno, sarebbero stati dei Baù. Le spose con il cognome Baù, invece, quando si trasferivano in altri paesi, non ne trapiantavano il cognome. 31

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Il paese di Stoccareddo

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Questo è il motivo di una concentrazione tanto marcata del medesimo cognome nella stessa località. Infatti Stoccareddo è un unico agglomerato urbano a differenza degli altri paesi altopianesi che sono un insieme di contrade. Con il fenomeno delle migrazioni, del

Storia religiosa di Stoccareddo e Zaibena.

profugato, della necessità di emigrare per lavorare, questo cognome si è poi diffuso praticamente in tutto il mondo. Comunque sia, ogni Baù ha le sue radici in quella prima famiglia che circa 600 anni or sono diede origine a Stoccareddo.

La prima Chiesa di Gallio, sorta sul collicello del Lekle, dipendente prima dalla Chiesa madre di Caltrano ed in seguito da Santa Margherita di Rotzo, diventa autonoma (Chiesa Parrocchiale) nel 1402 e primo Parroco ne è un certo don Nicolò Francesco Iermer de Allemagna”. Questa è stata la prima chiesa anche dei “colonnelli” di Stocharedo, Sàlbona e Ronchi. Dopo la costruzione della chiesa “campestre” di Stoccareddo, nel 1671, si continuò comunque ad andare a Gallio per celebrare i battesimi, le cresime, i matrimoni e i funerali fino al 1852 quando la Chiesa di Stoccareddo diventa ufficialmente Curazia. Scrive il Maccà: “San Giovanni Battista in Stocaredo è ufficiata da un curato eletto da detta contrada con obbligo della messa in tutte le feste e certi altri giorni…”

Stoccareddo ai suoi caduti. 32

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La chiesa di Stoccareddo solo nel 1952, prende il titolo di Parrocchia ossia non più dipendente dalla Chiesa Arcipretale di Gallio. Il primo curato a Stoccareddo, dal 1671, è stato Don Domenico Fracaro; il primo parroco a Stoccareddo e Zaibena, dal 19 marzo 1952, è stato Don Federico Molena.

Tratto da: “Stoccareddo il Paese dei Baù”, di Amerigo Baù. 33

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Prima Guerra Mondiale La prima guerra mondiale che si svolse tra il 1914 ed il 1918 passò alla storia come “La Grande Guerra”, nome certamente appropriato in considerazione della vastità di questo conflitto, dell’entità dei caduti e dei danni prodotti. Molteplici ne furono le ragioni, tra le quali ricordiamo solamente gli attriti e le controversie che si erano generati tra i principali stati europei nel periodo coloniale. L’ottocento fu infatti il secolo in cui alcuni stati del vecchio continente occuparono ampie zone dell’Africa e dell’Asia. Gli interessi dei paesi colonizzatori entrarono quindi presto in conflitto, oltre che nel vecchio continente, anche nelle aree extra europee.

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Nel corso dei decenni che precedettero la guerra la diplomazia portò alla stipulazione di alleanze militari tra i principali paesi. La Triplice Alleanza, ricomprendeva la Germania, l’Impero Austro-Ungarico e l’Italia, mentre la Triplice Intesa riguardava Inghilterra, Francia ed Impero Russo. In caso di guerra ogni paese coinvolto avrebbe mobilitato anche gli stati che costituivano il proprio impero coloniale, estendendo in questo modo il conflitto anche al di fuori dell’Europa. In pratica il meccanismo posto in essere era un sistema di alleanze, una sorta di “equilibrio del terrore” che avrebbe assicurato la pace oppure

avrebbe condotto ad una guerra di immense proporzioni. Il 28 giugno 1914 l’erede al trono asburgico, Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este e la moglie Sofia perirono in un attentato a Sarajevo. L’attentatore, Gavrilo Princip, aderiva alla Mlada Bosna (Giovane Bosnia), un’organizzazione che perseguiva l’indipendenza e la riunificazione dei popoli della Jugoslavia.

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Prima Guerra Mondiale

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Inizialmente il Regno d’Italia rimase neutrale, tuttavia nei mesi successivi si formarono due schieramenti opposti, i neutralisti e gli interventisti; l’opinione pubblica e gli esponenti politici si divisero tra coloro che volevano il mantenimento della neutralità e coloro che avrebbero preferito intervenire. Ricordiamo tra gli interventisti, Benito Mussolini, il futuro capo del fascismo, il poeta Gabriele D’Annunzio, Antonino Salandra e Sidney Sonnino, e l’irredentista Cesare Battisti. Quest’episodio, che si inserisce in un quadro internazionale particolarmente teso, fu la scintilla che fece divampare la guerra. L’Austria, dichiarò guerra alla Serbia il 28 luglio 1914, inizialmente il conflitto riguardò l’Austria e la Germania contro la Serbia-Montenegro. A questo punto l’intreccio dei trattati, e degli interessi contrapposti, produsse gli effetti previsti e nel giro di poco tempo la guerra si estese a macchia d’olio. Per quanto riguarda l’Italia, questa aveva aderito alla Triplice Alleanza, quindi era legata alla Germania e all’Austria. 36

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Bisogna precisare che si trattava di un accordo difensivo, che quindi impegnava il nostro paese solamente se uno degli stati sottoscrittori fosse stato attaccato, tuttavia fu l’Austria a dichiarare guerra, quindi non vi era alcun obbligo per l’Italia schierarsi con gli austriaci. La morale e l’etica in caso di guerra divengono concetti assai deboli, ed è comprensibile che la propaganda austriaca abbia sottolineato il tradimento dell’ex. alleato italiano, tuttavia desidero ribadire con forza che l’Italia non violò alcun accordo o trattato.

Alcuni neutralisti furono Giovanni Giolitti, Ivanoe Bonomi, Leonida Bissolati, ed in generale i militanti della sinistra di allora, la cui ideologia ricomprende l’ideale di fratellanza fra i popoli e fra i lavoratori. É necessario precisare che in entrambi gli schieramenti vi furono persone molto differenti tra loro, come pure diverse furono le loro motivazioni. Progressivamente le idee interventiste acquisirono maggiore importanza, al fine di contenere gli Imperi Centrali,

Gallio sotto il fuoco. 37

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Prima Guerra Mondiale di annettere il Trentino Alto Adige, la Venezia Giulia con Trieste e l’Istria e consentire un ampliamento delle colonie. Oltre a queste considerazioni nel periodo antecedente la guerra, in Italia si stavano diffondendo idee ed aspirazioni socialiste, che provocarono disordini; l’entrata in guerra consentiva di indirizzare le tensioni interne verso un nemico straniero.

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Vi era anche, nei vertici militari, la mancanza di comprensione delle modalità di svolgimento della guerra. I generali più anziani (e quindi più in alto nella scala gerarchica) si erano formati nel corso del secolo precedente, dove le guerre erano state combattute con i fucili ad avancarica. L’ introduzione delle mitragliatici aveva completamente mutato le modalità di svolgimento delle battaglie, e soprattutto l’entità delle perdite, ma l’effetto dei nuovi armamenti non era pienamente compreso. Questi motivi indussero il governo presieduto da Antonio Salandra ad unirsi all’Intesa e a dichiarare guerra agli Imperi Centrali il 24 maggio 1915. Nel quadro sopra brevemente tratteggiato si trovano le motivazioni che produssero la devastazione dell’Altopiano, e con esso di Gallio. Aderendo alla Triplice Intesa l’Altopiano si trovò ad essere situato direttamente sulla prima linea del fronte (ricordando che il Trentino Alto Adige era parte dell’Impero AustroUngarico).

L’Italia, che prima della guerra era un’alleata dell’Austria e della Germania, probabilmente non riscuoteva la piena fiducia degli alleati infatti già “nel 1911-13 furono costruiti i forti austriaci di Vezzena: il “Verle”, il “Luserna”, ed il forte-osservatorio di Cima Vezzena detto anche lo “Spitz” ed i forti “Gschwendt”, o “Belvedere”, di Lavarone, il “Cherle”, il Forte del “Sommo Alto” e di Serrada di Folgaria. Furono battezzati i “Forti del Conrad”. 39

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Prima Guerra Mondiale

Il fatto che gli austriaci costruissero o ammodernassero i loro forti in prossimità dell’Italia è la prova tangibile della sfiducia nei nostri confronti. Il mattino del 24 maggio 1915 alle ore 3:55, i cannoni del Verena fecero fuoco contro il forte austriaco del Vezzena, annunciando l’avvio delle ostilità, queste cannonate furono le prime sparate dal Regio Esercito Italiano nel 44

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primo conflitto mondiale. L’esercito austriaco era dotato di un equipaggiamento migliore rispetto a quello italiano e di armi più moderne, questo tuttavia indusse in errore negli austriaci, che sottovalutarono i contingenti italiani, più numerosi e dotati di grande determinazione e coraggio. Nel corso del 1915 l’esercito italiano, seppur male equipaggiato, riusci a tener testa a quello austriaco.

e le sue gesta

L’anno seguente i generali dell’esercito asburgico dovettero ricredersi sul valore dei nostri soldati, ed inviare rinforzi in quest’area. Questo è il motivo per il quale la popolazione galliese fu costretta alla fuga solamente nel 1916. “L’evoluzione” degli armamenti, come precedentemente ricordato, non era stata pienamente compresa dai generali dei vari eserciti, che si erano formati militarmente nel corso del secolo precedente. Il massimo esempio di questa incomprensione è forse rappresentato dalle corazze che furono utilizzate anche dall’esercito italiano. Famose rimasero le corazze realizzate dalla ditta Fasina, delle quali riporto le fotografie di due modelli diversi.

Si tratta di protezioni individuali che nell’aspetto ricordano le armature medioevali, che erano in grado di fornire protezione contro un proiettile sparato da molto lontano o da un colpo di rimbalzo, ma erano totalmente inefficaci nel caso di un proiettile diretto. Queste corazze furono utilizzate, per un breve periodo, dalle truppe d’assalto, e l’unico effetto concreto che produssero fu di rallentare i movimenti del soldato che le portava, 45

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Prima Guerra Mondiale

rendendolo un bersaglio facile per il fuoco nemico, che da breve distanza le perforava facilmente. La nuova regina dei campi di battaglia era la mitragliatrice, la più usata dall’esercito italiano fu la Fiat-Ravelli modello 1914, mentre quella austriaca maggiormente impiegata fu la Schwarzlose. Queste armi provocarono innumerevoli vittime, anche sull’Altopiano. 46

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Nel 1918, nello stupore generale, sulla città di Parigi iniziarono a cadere delle cannonate, delle quali non si capiva la provenienza, visto che il fronte era a circa 100 chilometri di distanza. In quell’occasione fu utilizzato il pezzo di artiglieria più imponente della prima guerra mondiale, passato alla storia come il “Cannone di Parigi”, che aveva una gittata di poco superiore ai 120 chilometri. Si trattava di un’arma immensa, la cui lunghezza complessiva era di ben 37 metri, calibro 210 millimetri, proiettili del peso di 119 chilogrammi. Si trattava di un cannone enorme, la cui altezza era grossomodo simile al campanile della chiesa di Gallio!

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Una simile arma presenta comunque anche dei limiti, innanzitutto è impossibile da nascondere, in secondo luogo si può spostare solamente su binari, si trattava infatti di un “cannone ferroviario” del peso di 750 tonnellate. Nella fotografia sotto riportata si può paragonare la grandezza dell’arma con quella di un soldato. I pezzi di artiglieria utilizzati sull’Altopiano si possono distinguere in due categorie, quelli di artiglieria fissa, cioè posizionata sui forti, e i cannoni che erano trasportati dalle truppe in movimento. Questi ultimi venivano frequentemente

trasportati in luoghi impervi, come le vette più alte ed inaccessibili, e da queste posizioni potevano bersagliare il nemico. Tra i cannoni più famosi, ricordiamo la Grande Berta, in dotazione all’esercito tedesco, si trattava di un’arma fabbricata in Germania dalla ditta Krupp, calibro 420 mm. Nella foto della Grande Berta si nota che per impedire l’affondamento nel terreno alle ruote sono state applicate delle placche che ne allargano l’area di appoggio. Questo accorgimento è il precursore dell’invenzione del cingolo e della sua applicazione nel carro armato. 47

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Prima Guerra Mondiale

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Oppure il cannone Lungo Giorgio (Long Georg), in dotazione all’esercito austriaco, che nel maggio 1916 bombardò Gallio. Si trattava di un cannone navale

All’epoca ai cannoni navali venivano attribuiti nomi maschili, a quelli destinati all’uso sulla terraferma nomi femminili. La storia di questo cannone è

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adattato per l’uso terrestre, che era posizionato a Calceranica, in prossimità del Lago di Caldonazzo, e ci bombarò grazie alla sua gittata che superava i 30 chilometri.

curiosa, negli anni immediatamente precedenti il conflitto, l’Austria aveva commissionato ai propri cantieri navali situati nella città di Pola (che all’epoca faceva parte dell’impero Austro-Ungarico), una dozzina di navi, tra cui tre corazzate. Causa ristrettezze di bilancio i cantieri ne costruirono quasi completamente due, e non iniziarono mai a costruire la terza, allo scoppio della guerra si decise di utilizzare i fondi disponibili per rendere operative le due corazzate quasi ultimate, rimandando la costruzione della terza a data da destinarsi. La realizzazione dei cannoni delle corazzate era stata commissionata alla Skoda, (oggi nota per la produzione di automobili) che aveva prodotto rapidamente i cannoni per le due corazzate e ne aveva già costruito uno per la terza, prima della comunicazione di sospensione della sua costruzione. La marina si trovò in tal modo con un cannone superfluo, che fu quindi utilizzato dall’esercito.

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Prima Guerra Mondiale

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Quest’arma, avente una volata di 15,75 metri, sparava un proiettile calibro 350 mm ad una distanza massima di 31,5 Km. Il proiettile era alto 1,6 metri e pesava 710 Kg, al suo interno era racchiusa una carica di esplosivo di 81 Kg. Certamente era un’arma difficile da spostare, viste le dimensioni ed il peso di circa 75 tonnellate, tuttavia presentava tre punti di forza. La lunga gittata assieme al grosso calibro erano due aspetti che pochi cannoni avevano, inoltre l’arma assunse presto una funzione di

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propaganda dell’esercito e delle fabbriche austriache. Fu l’azione di propaganda a rendere famoso un cannone costruito per errore ed utilizzato dall’esercito perché superfluo per la marina. Nel Trentino Alto Adige quest’arma portentosa divenne nota con il suo nome austriaco “Lange Georg”, presto italianizzato in “Lungo Giorgio” oppure in “San Giorgio”. Questa la storia del cannone navale che nel maggio 1916 bombardò Gallio.

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Gallio nella Guerra

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Tutta l’Italia fu coinvolta nella guerra, ma Gallio si trovò letteralmente nella guerra, l’Altopiano divenne una zona strategica per entrambi i contendenti. Per gli austriaci riuscire ad occupare quest’area rappresentava la possibilità di invadere la Pianura Padana, per gli italiani quindi, questa rappresentava un baluardo irrinunciabile.

Desidero tuttavia riportare una breve cronistoria tratta dal lavoro di Bepi Boccardo, (in “Gallio 1915-18 Dramma di un Paese”), per due motivi; in primo luogo perché trattasi di una cronaca incentrata sul nostro territorio ed in secondo luogo perché tra le sue righe si può scorgere il dramma che colpì i nostri antenati.

Le cronistorie della Prima Guerra Mondiale riguardano solitamente gli eventi visti nel loro complesso e possono apparire talvolta come delle cronache distaccate, che riportano in maniera quasi contabile la consistenza degli eserciti, l’estensione delle conquiste, il numero dei morti e dei feriti.

1915 23 maggio. L’ambasciatore italiano a Vienna, Giuseppe Avarna, comunica che l’Italia non si ritiene vincolata dall’accordo della Triplice Alleanza. 24 maggio. Inizio della guerra, alle ore 4 del mattino il rombo dei cannoni del forte italiano del Monte Verena contro quello austriaco situato sul Vezzena apre le ostilità. Queste cannonate furono le prime sparate dal Regio Esercito Italiano nella Prima Guerra Mondiale. 52

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25 agosto. Offensiva italiana sulla piana del Vezzena, obiettivi sono il forte di Vezzena ed il Verle, nonché il fortino di Monte Basson. Gli assalti sono respinti dalle postazioni austriache. Autunno ed inverno. Situazione tranquilla, da segnalare solamente colpi di artiglieria e lavori di rafforzamento delle rispettive difese.

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Gallio nella Guerra

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1916

prende avvio l’esodo dei galliesi verso Valstagna e Campomezzavia.

18 maggio. L’artiglieria nemica colpisce Gallio, verso il tramonto cade un primo proiettile ai piedi del Lekele, vicino alla cabina elettrica, in prossimità della strada che conduce ad Asiago, il secondo cade in Via Campo, un terzo in prossimità della Covola, un quarto colpisce Val dei Ronchi. Il 18 maggio 1916 è il giorno in cui

21 maggio. Riprendono i bombardamenti e gli assalti austriaci, gli italiani ripiegano. 29 maggio. Verso le ore 15 l’abitato di Gallio viene occupato dagli austriaci. 5 giugno. Imponente attacco austriaco, gli italiani resistono.

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Gallio nella Guerra 7 giugno. Dopo eroica resistenza italiana gli austriaci conquistano Monte Fior. 8 giugno. Gli austriaci giungono a Monte Valbella e alla Contrada Xaibena. 16 giugno. Controffensiva dell’esercito italiano, gli austriaci sono costretti ad abbandonare il territorio di Gallio.

1917 10-29 giugno. Battaglia dell’Ortigara, tesa ad allontanare gli austriaci dalla zona nord dell’Altopiano, il 19 giugno

gli italiani conquistano la vetta, ma il 25 giugno si ha il contrattacco austriaco, gli italiani si ritirano il 29 giugno. 24 Ottobre. Disfatta di Caporetto. 9 novembre - 5 dicembre. Le truppe austriache avanzano nuovamente, si ha un mese di lotte quasi incessanti, fintanto che il territorio di Gallio viene ad essere nuovamente occupato dal nemico. 24 Dicembre. Battaglia di Natale, dopo una inefficace offensiva italiana le truppe austriache avanzano ancora, arrivando ad un passo dalla pianura.

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1918 28 - 30 gennaio. Battaglia dei “Tre Monti”, la Brigata Sassari riesce ad impadronirsi del Col del Rosso, ed il Col d’Echele, è la prima vittoria dopo Caporetto. 15 giugno. Battaglia del Solstizio, immane sforzo dell’esercito austroungarico per schiacciare gli italiani, Gallio, Col del Rosso ed il Col d’Echele sono nuovamente occupati dagli austriaci. 29 - 30 giugno. Seconda Battaglia dei “Tre Monti”, dopo scontri furiosi le truppe italiane riconquistano quanto perduto il 15 giugno.

Questi i principali scontri avvenuti nel periodo 1915-1918 nel territorio del Comune di Gallio e limitrofi, le modalità di questa guerra anticiparono quanto avvenuto nella seconda guerra mondiale, fu una guerra di logoramento, di posizione, di ingenti perdite per consentire conquiste modeste, tutt’altro che definitive. Evidentemente le zone contese per anni, a suon di cannonate, di trincee, di bombe, di proiettili e di innumerevoli morti, non possono che venire completamente devastate. Questo fu il tremendo lascito che le nostre genti ricevettero, questo fu il prezzo della vittoria.

24 ottobre - 3 novembre. Battaglia di Vittorio Veneto il cui successo sancisce definitivamente la sconfitta austriaca, l’Italia è vincitrice. 4 Novembre. Sottoscrizione Armistizio, cessazione definitiva delle ostilità.

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Le descrizioni storiche presentano talvolta un limite, rappresentato dalla difficoltà di trasmettere al lettore l’impatto emotivo degli eventi. Con il trascorrere degli anni diminuisce il numero di coloro che vissero in prima persona l’esperienza, spaventosa e traumatica, della fuga dalla propria terre e dalla propria casa, ed ora, trascorso quasi un secolo da quel terribile 1916, credo che i testimoni di quei fatti siano oramai molto pochi. Anche il lettore dotato di maggior

sensibilità può solamente immaginare le sofferenze di una popolazione che perde buona parte dei propri miseri averi, per fuggire precipitosamente verso un luogo sconosciuto. Solamente chi fu profugo può comprendere pienamente l’enormità di questo dramma. La descrizione della fuga della gente di Gallio fu sommariamente descritta dal parroco di allora, Don Francesco Caron, che la visse in prima persona e che non abbandonò il suo gregge nel momento della difficoltà.

Ponte sulla Val Frenzela. 58

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Come un Gregge Disperso

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“Il 24 maggio 1915 scoppiava la guerra Italo-Austriaca, e così anche l’Italia venne avvolta nella terribile conflagrazione europea. Dopo più di un anno, dacché l’Altopiano teneasi sicuro dall’invasione del nemico, ebbe la grande sorpresa di vedersi occupate le cime inespugnabili che gli fanno corona dagli Austriaci, i quali il 15 maggio 1916 bombardarono la cittadina di Asiago, producendo incendi e rovina.

venne risparmiato e piombarono i primi proiettili di grosso calibro ... la sera del 18 maggio verso le 6 e ¾ pomeridiane. Impossibile descrivere lo spavento e il terrore. Esterrefatti dal dolore, come un gregge disperso per lo scoppio di un fulmine, tutti cercano gridando salvezza, correndo qua e là all’impazzata. Le madri vanno in cerca dei figli, i bambini piangono disperatamente, gli ammalati e gli impotenti a camminare invocano aiuto. Tutti abbandonano le proprie case e cercano scampo chi su per la valle delle Garberie, chi per i boschi, e chi per Campomulo, chi va ad accovacciarsi giù per la valle dei Ronchi. È un momento terrorizzante, è una scena indescrivibile, in ¾ d’ora caddero quattro proiettili, mentre l’aeroplano nemico girava sopra il paese, facendo ai suoi continue segnalazioni. Il primo proiettile scoppiò a cento metri lontano dalla chiesa, sulla strada che conduce ad Asiago, vicino alla cabina della luce elettrica: alla formidabile detonazione si infransero tutti i vetri della chiesa e delle case.

La popolazione terrorizzata si rifugiò nei boschi o cercò scampo fuggendo forsennata al piano e nei paesi vicini; trascinando seco i vecchi cadenti e bambini ammalati. Non pochi si rifugiarono in questa Parrocchia, tenendosi sicuri dal tiro dei cannoni, sperando che la forza brutale di devastazione del nemico fosse passeggera perché arginata dai nostri, purtroppo così non fu; con grande spavento anche Gallio non

Pinnacolo della chiesa distrutto. 60

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Il secondo, dopo dieci minuti, cadde davanti alla caserma dei militari in via Campo, sorvolando di poco il centro del paese. Il terzo s’infranse sopra il sasso delle Covola per la via che conduce in val dei Ronchi gettando i sassi e le schegge di granata sino alle ultime case della contrada, e proprio sotto quel sasso dove vi è una caverna vi stavano accovacciate moltissime persone che si videro cadere i sassi proprio davanti e coprire di terra e di 61

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Come un Gregge Disperso

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alcuni registri parrocchiali più recenti e necessari, raccolto in chiesa un gruppetto di persone che ancora non si erano decise ad abbandonare il paese … recitando il Santo Rosario si intraprese il doloroso viaggio dell’amaro esilio … lungo e aspro... Uscendo dal paese, e dirigendosi per la val dei Ronchi, verso il Buso, il Vicario diede un’ultima benedizione col Santissimo all’abitato, invocando sopra tutti la Divina Benedizione. Da tutti

fumo. La quarta granata andò a finire in valle sotto la Covola. Con tanta gente e con tanta confusione, vi poteva rimanere un cumulo di morti e di rovine; invece niente si ebbe a deplorare, nessuna vittima, anzi nessuna ferita neppure lieve. Fu un vero miracolo della Madonna di Lourdes esposta in mezzo alla chiesa, verso la quale tutti avevano speciale devozione. Finito il bombardamento, sul calar 62

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con le lacrime agli occhi e l’angoscia nel cuore, si guardava alla propria casa, alla amata chiesa, circondata di ceri e fiori, testimonio vivissimo di profondo affetto del paese... Il cielo era sereno, silenziosa natura d’intorno, non si sentiva che il calpestio e dei prolungati sospiri della mesta comitiva … mentre la luna dall’alto del firmamento mestamente l’accompagnava attraverso i boschi e lungo la valle.

della notte, la gente tornò alle proprie case non più per rimanervi, ma per prendere in fretta qualche cosa e poi andarsene; molti non vi tornarono più e come sono fuggiti allo scoppio del primo proiettile, così fuggirono e vennero senza niente in pianura camminando tutta la notte. Proprio a mezzanotte di quella stessa sera, il Vicario Parrocchiale Caron Don Francesco, dopo aver messo in salvo alcuni oggetti più preziosi, 63

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Come un Gregge Disperso

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Alle due si arrivò all’Oratorio della Madonna del Caravaggio al Buso; ivi il vicario … rivolse commoventi parole ai presenti che piangevano dirottamente; celebrò la Santa Messa, quindi dato l’addio a tutti, li benedisse col Santissimo. … giunti al Buso, non avendo più tempo di scaricare e trasportare la roba a spalle, perché il nemico era ormai vicino, continuavano così carichi fino a Valstagna giù per la strada mulattiera piena di difficoltà e pericoli, per la quale c’era un via vai, una continua processione di profughi e soldati. In

Non si possono ridire i patimenti e i disagi, le sofferenze sopportate con grande rassegnazione cristiana e nel lungo e doloroso esodo e nella nuova residenza, da quella povera e sventurata gente avvezza alla vita quieta e alla mite temperatura dei monti. Molti non potendo più resistere all’eccessivo caldo della campagna,

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tanta confusione e fra tanti pericoli non successe nessuna disgrazia, nessun accidente. La disgraziata popolazione profuga, dispersa qua e là per le strade, sotto il sole cocente ed esposta a tutti i disagi e le intemperie, finalmente per disposizione Prefettizia si raccolse in gran parte ad Albettone, ameno paesello sito lungo la Riviera dei Colli Berici poco distante da Noventa Vicentina. Quivi si accomodarono alla meno peggio; chi nei granai, chi nei fienili e chi nelle stalle.

scongiurato il pericolo dell’offensiva austriaca, lasciarono più tardi Albettone e si ritirarono verso i monti, nei dintorni di Fara Vicentina, di Marostica e di Bassano: si dispersero in cento e più paesi, aspettando con grade ansia il momento di poter rimpatriare. Causa le sofferenze patite numerosi morirono, specialmente bambini... Gallio in Albettone lì 31 dicembre 1916 Caron Don Francesco - Vicario Parrocchiale di Gallio”1. 65

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Come un Gregge Disperso

Come si è cercato di delineare brevemente, per buona parte della guerra le truppe italiane dislocate sull’Altopiano di Asiago erano in numero maggiore rispetto a quelle austriache, queste ultime tuttavia erano meglio armate ed equipaggiate. La guerra sull’Altopiano fu in avanzare per poi retrocedere, una conquista seguita da una ritirata, un immenso cimitero. Era un nuovo tipo di guerra, combattuta con un nuovo tipo di armamenti, il cui impatto non era stato pienamente compreso dagli 66

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stati maggiori, composti da generali formatisi nel secolo precedente. Le ingenti perdite non assicuravano conquiste consistenti, ne tanto meno durature. Come era già accaduto nel corso della storia, quando le cose vanno male si cerca un facile capro espiatorio che distolga l’attenzione dai veri responsabili e che attiri su di se l’indignazione pubblica. Quale capro espiatorio migliore di una popolazione che parla la lingua del nemico? Dilagò una campagna di stampa

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che attribuiva alle genti cimbre la responsabilità degli insuccessi militari. Sabotatori, spie, filo-austriaci, traditori; furono solamente alcune delle accuse mosse alle genti dell’Altopiano. Le indagini svolte dalle autorità militari, solitamente molto sommarie, coinvolsero la popolazione civile ed ancor di più i parroci. Nel periodo antecedente allo scoppio della guerra e fino all’intervento italiano del 1915, molti sacerdoti avevano predicato alla popolazione l’ideale della pace (quindi del neutralismo dell’Italia). Predicare il non intervento italiano,

al fine di evitare ingenti spargimenti di sangue, non aveva l’intento di favorire il nemico o di diffondere il disfattismo, era solamente la proclamazione degli ideali cattolici, tuttavia non pochi parroci altopianesi furono tratti in arresto dalle autorità

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militari, incarcerati e processati sommariamente. Queste persecuzioni, unite a quello che oggi chiameremo “linciaggio mediatico”, durarono fino al 1916, quando l’avanzata nemica obbligò le popolazioni altopianesi a sgomberare rapidamente la loro terra e le loro case. Le autorità militari fissarono ad Albettone il luogo di rifugio dei galliesi, a Noventa Vicentina quello degli asiaghesi, le genti di Roana furono destinate a Pojana Maggiore, i fozesi a Schiavon Vicentino. Gli abitanti di Lusiana conobbero forse la sorte più triste, venendo

frammentati e dispersi per buona parte dell’Italia. Queste le destinazioni stabilite dalle autorità militari, che tuttavia molti galliesi (ed altopianesi in genere) disattesero, preferendo altre località magari più vicine ai loro monti o dove si conosceva qualcuno. Indipendentemente dal luogo dell’esilio vi fu un fattore che accomunò tutti i profughi, ovverosia il disprezzo, se non l’odio, delle genti dei paesi ospitanti nei loro confronti. L’ignobile ed ingiusta denigrazione, sistematicamente perpetrata contro gli altopianesi, aveva prodotto i suoi

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spregevoli effetti. I nostri antenati, che tanto avevano patito per l’essersi trovati in prima linea, che avevano perduto buona parte dei loro miseri averi nella fuga, ora erano trattati alla stregua di traditori, di nemici, di spie. Questo era il prevedibile effetto della propaganda posta in essere contro di loro, ed a ciò si univa il fatto che la lingua che utilizzavano era assai simile alla lingua del nemico. Negli anni del profugato i galliesi conobbero un avvilimento ed una miseria la cui vastità ben difficilmente può essere compresa da chi non l’ha vissuta in prima persona.

Perfino le razioni di cibo fornito erano inadeguate, basti ricordare che un bambino al di sotto dei due anni di età riceveva mezzo litro di latte al giorno e nient’altro. È probabile che questo periodo così difficile, che questa sorte tanto ingrata, abbia indotto due fenomeni. Il primo, avvenuto tra le due guerre è l’abbandono dell’antica lingua cimbra, in favore dell’italiano. Il secondo, e forse più importante, è dato dal fatto che un trattamento tanto ingrato, ricevuto durante l’esilio, ha spinto la maggior parte dei profughi a ritornare nelle loro terre d’origine, ed a ricostruire le loro case e paesi.

Cerimonia con corteo in centro a Gallio. 1. Caron, “Descrizione della fuga spaventosa” in “Gallio 1915-18 Dramma di in Paese” Pag. 50-51-52

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Ritorno a Gallio Nel 1918 si concludeva il primo conflitto mondiale, l’Italia era vincitrice, ma il costo della vittoria, in vite umane, in devastazioni e sofferenze era immenso. Il territorio di Gallio, che aveva costituito la prima linea per l’intera

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durata del conflitto, era sconvolto; praticamente ogni cosa era stata distrutta, chiese, edifici pubblici e privati, boschi, prati, pascoli, tutto era orrore e devastazione. Degli insediamenti che erano state le case dei nostri padri rimanevano solo macerie, annerite dal fuoco e talvolta ingiallite dai gas tossici. I boschi centenari e splendidi che cingevano i paesi e le contrade erano stati in buona parte abbattuti a forza di cannonate, ed al loro posto si trovavano cadaveri e filo spinato. Sui prati giacevano esanimi innumerevoli soldati, che erano stati nemici, che si erano battuti con tenacia e con coraggio, ora resi eguali dalla medesima fine. I pascoli, che in passato ospitavano le greggi e le mandrie, presentavano i lunghi solchi delle trincee, che come delle cicatrici ne deturpavano l’antica bellezza. La guerra terminò, ma non il pericolo per chi voleva tornare, poiché per anni vi erano stati bombardamenti era facile imbattersi in ordigni inesplosi, che potevano trovarsi sia in quello che rimaneva dei centri urbani, che al di fuori di essi.

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Presumibilmente l’unico luogo sicuro, per le prime persone che fecero ritorno, furono le strade carrabili, poiché il frequente passaggio dei veicoli era garanzia che sulla carreggiata non si trovavano ordigni pericolosi. Per questo motivo solo a pochi venne consentito di fare ritorno immediatamente dopo la conclusione della guerra. “Notizie precise e dolenti vennero anche dall’Arciprete di Gallio Don Francesco Caron che, mentre era ancora convalescente della Spagnola a causa

della quale era stato quasi in fin di vita, dopo l’armistizio volle visitare Gallio. Era il 17 novembre 1918 … feci la Valle di Valstagna, tutta ingombra di materiale bellico. Al Buso, con un senso di orrore, trovai in mezzo alla strada un primo cadavere: era un soldato austriaco. Giunto a Gallio, restai profondamente impressionato, avvilito; non immaginavo mai di trovare così grandi rovine. La chiesa era quasi completamente distrutta, la sola facciata era rimasta 71

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Ritorno a Gallio in piedi; il campanile troncato fino alla base, le canoniche, il municipio atterrati; delle scuole, asilo, teatro, e di qualche casa privata rimaneva solo in piedi qualche moncone di mezzo, di tutto il resto macerie … macerie … Il terreno era coperto di carriaggi, di cannoni, di bombe inesplose, insomma non trovai più Gallio, ma rovine, desolazione, distruzione … in piedi, piangendo, mi cibai non senza sforzo di un po’ di pane, con l’animo straziato, con un nodo che

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mi serrava la gola, ritornai sui miei passi, desiderando di portare le mie tristissime impressioni ai fratelli profughi.”1 Nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, fece la sua temibile comparsa il sistema burocratico italiano. A chi affidare l’opera di ricostruzione? Alla Provincia di Vicenza? Alla Regione Veneto? Allo Stato? Al Genio Militare? Poi ricostruire in quale maniera? Nelle stesse località? Spostando i paesi dalla loro

ubicazione originaria o mantenendoli in loco? Seguendo la pianta originaria o modificandola? A chi affidare i lavori, a imprese locali o alle imprese edili lombarde e piemontesi, che all’epoca erano di maggiori dimensioni rispetto a quelle del Veneto? In questo mare di domande gli uffici pubblici e gli organi politici persero mesi preziosi, tanto che a sei mesi dalla fine del conflitto ben poco era stato fatto. Anche per quanto riguarda la priorità dei lavori da eseguire vi erano idee 72

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assai variegate, tanto che quella prevalente (in ambiente politico e amministrativo) era di costruire prima le chiese e gli edifici pubblici. É mia opinione che i primi interventi sarebbero dovuti essere la bonifica dagli ordigni inesplosi e l’edilizia privata. Nell’infinito fiorire di idee e di proposte, fu emanata una legge (n.426 del 27 marzo 1919) sul rimborso dei danni di guerra. Per sommi capi la legge prevedeva che lo Stato avrebbe rimborsato sette volte il valore ante-guerra degli edifici 73

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distrutti. Bisogna subito precisare che non fu una legge che consentisse un guadagno per nessun profugo, innanzitutto perché nel periodo della guerra e negli anni successivi l’inflazione era stata molto consistente, inoltre i danni non erano solamente negli edifici ma riguardavano anche i boschi, i terreni, gli animali perduti nel periodo della guerra, senza considerare le sofferenze patite. L’onere di dimostrare il danno subito era interamente a carico del richiedente, ed era una cosa tutt’altro che semplice visto che gli uffici del catasto erano stati bombardati e gli atti dai quali dedurre le proprietà immobiliari erano stati frequentemente smarriti nella fuga precipitosa o nel periodo del profugato. Dopo avere espletato le pratiche burocratiche lo Stato si impegnò a risarcire con il “coefficiente 7” i danni dimostrati dai richiedenti, i quali per iniziare i lavori, in attesa dell’erogazione delle somme, chiesero prestiti in banca. Tuttavia nel 1921, una nuova legge stabiliva che il coefficiente fosse ridotto

Negli anni ‘30 i nuovi governanti costruirono l’imponente Ossario, situato sul Colle del Leiten. Il progetto del monumento, realizzato dall’architetto Orfeo Rossatto, rispecchia lo stile gradito al regime, gli enormi archi richiamano i fasti dell’impero romano, alla cui grandezza il fascismo voleva richiamarsi. In quel periodo questa costruzione rappresentava l’unico lavoro disponibile nella zona, non ci si stupisce quindi, esaminando il grafico sotto riportato che dagli anni ‘20 fino alla seconda guerra mondiale vi sia stata una nuova

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a sei, con rimborso senza erogazione di denaro ma con titoli pubblici, che poi il rimborsato avrebbe venduto . Purtroppo all’atto della vendita i profughi subirono una perdita secca sul loro valore nominale. Considerando l’effetto della diminuzione del coefficiente, e dalla perdita sofferta all’atto della vendita dei titoli, l’importo effettivamente pervenuto agli sfollati fu di poco superiore alla metà di quanto stabilito nel 1919. In pratica, visto che i nostri padri avevano già iniziato a costruire, indebitandosi, e che i denari pervenuti furono modesti rispetto a quanto preventivato, molti si trovarono fortemente indebitati. Il pesante lavoro di ricostruzione fu per la maggior parte il frutto dell’attaccamento alla terra d’origine, della caparbietà del lavoro e del sacrificio dei nostri padri, ben più che dell’intervento pubblico. Non erano ancora conclusi i lavori di ricostruzione che il 28 ottobre 1922 la Marcia su Roma, permise al Partito Fascista di instaurare una dittatura ventennale.

e consistente ondata migratoria. Infine, a partire dagli anni ‘50 e per oltre un ventennio, molti nostri compaesani hanno dovuto abbandonare la terra d’origine, alla ricerca di lavoro e di benessere emigrando in moltissimi paesi, sia in Europa che negli altri continenti. Oggi sono quindi molte le persone che hanno parenti all’estero, o i cui genitori hanno lavorato per qualche anno lontano dall’Italia e tra loro anch’io. In ricordo di tutti gli emigranti, tra cui mio padre Libero Rossi.

1. Lobbia - Bonato “Il ritorno dal Profugato”, pag. 13-14 75

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Riferimenti Bibliografici

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• MENTESE Giovanni, Memorie Istoriche della Chiesa Vicentina, Vicenza, Ist. S. Gaetano, vol. II°;

• MINTO Agostino, Guida storica delle chiese parrocchiali ed oratori della città e della diocesi di Padova, Ed. di Don Francesco Sartori;

• BORTOLI Giancarlo, Gallio Vicende di Uomini e di Paese, Stampato per conto dell’Amministrazione Comunale di Gallio 1990 - 1995, presso la Tipografia Moderna di Asiago nel 1995;

• MATTALIA Umberto, La Guerra dei Forti sugli Altopiani, Gino Rossato Editore, 1994;

• Gallio 1915-18 Dramma di un Paese, Autori Vari, Stampato per conto dell’Amministrazione Comunale di Gallio 1986, presso la Tipografia Moderna di Asiago nel 1986;

• LOBBIA Nico - BONATO Sergio, Il Ritorno dal Profugato, Istituto di Cultura Cimbra - Roana (VI), 2008;

• BAÙ Amerigo, Stoccareddo il Paese dei Baù, Editrice Veneta 2008.

Fotografie gentilmente fornite dall’archivio storico Dal Molin.

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