Speciale Ciclosporina - Quaderni Psoriasis n.1

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I Quaderni di Psoriasis n. 1 - Speciale ciclosporina

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egli ultimi venti anni la ciclosporina è stata utilizzata in tutto il mondo in numerose patologie dermatologiche, dove la sua attività immunomodulatrice o immunosoppressiva, a seconda delle dosi usate, si è rivelata utile per la gestione di forme cliniche anche gravi. Talora, anzi, ha rivoluzionato l’approccio terapeutico di forme particolarmente gravi, dove il rapporto rischio/beneficio è risultato molto favorevole. Fra la gran mole di lavori scientifici originali fin qui prodotti, mancava tuttavia un buon compendio degli usi dermatologici della ciclosporina, e dalla constatazione di questa lacuna è nato il compendio pratico sugli usi dermatologici della ciclosporina che viene qui pubblicato come Quaderno della rivista Psoriasis. La sua realizzazione è stata possibile sommando le esperienze cliniche degli Autori con una estesa metanalisi della letteratura scientifica, e il suo scopo dichiarato è fornire utili indicazioni pratiche per la gestione clinica del paziente, corredate da una sintetica bibliografia consigliata. Uno strumento di reference agile, ma senza dubbio prezioso per il clinico, quasi un prontuario da mantenere a portata di mano.

La ciclosporina nelle patologie autoimmuni di interesse dermatologico A. Altomare, G. Altomare Editoriale

Fernando Folini

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Quaderni di Psoriasis nascono nel 2011 per ospitare lavori monografici di maggiore consistenza rispetto ai lavori clinici abitualmente pubblicati nelle pagine della rivista, ma soprattutto hanno lo scopo di costruire nel tempo una serie di strumenti utili come reference e aggiornamento organico per lo specialista. Revisioni critiche di temi specifici, strumenti clinici per la diagnosi, la terapia, la gestione del paziente; approfondimenti su classi di farmaci o farmaci singoli, protocolli e linee guida. L’ambito di partenza è il medesimo della rivista Psoriasis, e come questa vede un necessario allargamento di prospettiva. Determinato dalla evoluzione delle ricerche sulla psoriasi, che hanno condotto a inquadrarla come manifestazione di una malattia sistemica che può presentarsi con psoriasi cutanea, artropatia, onicopatia, sindrome metabolica, malattie infiammatorie a carico dell’apparato digerente. I Quaderni di Psoriasis rifletteranno quindi lo stato delle conoscenze acquisite, con un approccio interdisciplinare utile a ricondurre i differenti approcci disciplinari all’unicità del paziente e della sua malattia. ISBN 9788872660898

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I Quaderni di Psoriasis n. 1 La ciclosporina nelle patologie autoimmuni di interesse dermatologico Andrea Altomare Unità Operativa Dermatologia I.R.C.C.S. Istituto Ortopedico Galeazzi Università degli Studi di Milano Gianfranco Altomare Responsabile Dermatologia I.R.C.C.S. Istituto Ortopedico Galeazzi Università degli Studi di Milano

© 2011 Editoriale Fernando Folini un marchio di - an imprint of Fernando Folini Productions Il Battaglino, I-15052 Casalnoceto (AL) e-mail: edifolini@edifolini.com Indirizzo Internet: www.edifolini.com Progetto grafico copertina: Bob Noorda Progetto grafico interni: Emanuela Reggiani Grafica e impaginazione: TOTEM di Astolfi Andrea Segreteria editoriale: Maria-Chiara Panizza Redazione: Enrica Ferrari Finito di stampare nel mese di febbraio, 2011 presso Tipografia E. Canepa, Spinetta Marengo (AL) ISBN 9788872660898

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La ciclosporina nelle patologie autoimmuni di interesse dermatologico

Andrea Altomare Gianfranco Altomare

Editoriale Fernando Folini

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I Quaderni di Psoriasis

Indice

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. Compendio pratico La ciclosporina nelle patologie autoimmuni di interesse dermatologico Introduzione Meccanismo d’azione Effetti avversi Impiego (registrato e off-label) di ciclosporina nelle patologie dermatologiche immunomediate Alopecia areata Dermatite atopica Dermatomiosite Granuloma anulare Lichen ruber planus Lupus eritematoso Malattia di Behçet Malattie bollose autoimmuni Orticaria autoimmune Pioderma gangrenoso Pitiriasi lichenoide cronica Sarcoidosi Sindrome di Sweet Psoriasi Bibliografia consigliata

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Compendio pratico

La ciclosporina nelle patologie autoimmuni di interesse dermatologico N

egli ultimi venti anni la ciclosporina è stata utilizzata in tutto il mondo in numerose patologie dermatologiche, dove la sua attività immunomodulatrice o immunosoppressiva, a seconda delle dosi usate, si è rivelata utile per la gestione di forme cliniche anche gravi. Talora, anzi, ha rivoluzionato l’approccio terapeutico di forme particolarmente gravi, dove il rapporto ri-

schio/beneficio è risultato molto favorevole. Fra la gran mole di lavori scientifici originali prodotti, manca tuttavia un buon compendio degli usi dermatologici della ciclosporina ed è da questa constatazione che siamo partiti per realizzare questo lavoro, che trae origine dalla somma delle nostre esperienze cliniche con una estesa metanalisi della lettera-

tura scientifica. Il suo scopo è fornire indicazioni pratiche per la gestione clinica del paziente, rimandando a specifici approfondimenti gli aspetti più puntuali e le analisi minute. Abbiamo quindi cercato di fare cosa utile corredandolo di una bibliografia consigliata, dove presentiamo i lavori che riteniamo più interessanti e/o importanti su ogni specifico argomento.

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Introduzione L

a ciclosporina (originariamente denominata ciclosporina A o CsA) è un undecapeptide a conformazione ciclica (da qui il prefisso “ciclo-”) (figura 1) per la prima volta descritto agli inizi degli anni Settanta nelle spore (“-sporina”) del fungo Tolypocladium inflatum. La prima e tuttora principale indicazione all’impiego di ciclosporina è nell’ambito della trapiantologia allogenica come farmaco immunosoppressivo antirigetto; l’esperienza ottenuta in questo campo ha però permesso nel corso degli anni di estendere il suo impiego nel trattamento di svariate patologie immunomediate. In ambito dermatologico, per esempio, la ciclosporina trova valida applicazione nella terapia di numerose malattie, oltre

che in virtù dei diversi e articolati effetti sul sistema immunitario che verranno discussi in seguito, anche in funzione dell’ottimo rapporto rischio/beneficio, dell’estrema duttilità delle indicazioni e soprattutto della scarsità di effetti avversi. È noto che la ciclosporina rappresenta il farmaco di prima scelta per la terapia della psoriasi volgare di grado da moderato a grave, in pazienti che non rispondano più ai trattamenti topici e/o alla fototerapia. La sua approvazione per tale indicazione risale al 1993. Sarebbe però estremamente riduttivo non considerare l’ampio spettro di possibilità di impiego di tale farmaco in numerose altre patologie autoimmuni con manifestazioni esclusivamente dermatologiche e sistemiche con coinvol-

gimento cutaneo. Di seguito presentiamo un elenco (in ordine alfabetico) delle principali malattie autoimmuni di interesse dermatologico, nelle quali la terapia con ciclosporina è indicata o per le quali è stato proposto un suo impiego: • Alopecia areata • Dermatite atopica • Dermatomiosite • Granuloma anulare • Lichen planus • Lupus eritematoso • Malattia di Behçet • Malattia di Darier • Malattie bollose autoimmuni • Orticaria autoimmune • Pioderma gangrenoso • Pitiriasi lichenoide cronica • Pitiriasi rubra pilare • Prurito nodulare • Reazioni avverse da farmaci • Sarcoidosi • Sindrome di Sweet • Sindrome ipereosinofila • Stomatite aftosa • Vasculiti leucocitoclasiche La presente trattazione si focalizza sulla gestione pratica, con riferimenti anche all’esperienza personale, di quelle patologie autoimmuni con interessamento cutaneo (esclusivo e non) nelle quali l’impiego di ciclosporina si è dimostrato efficace, sia in monoterapia sia in associazione ad altri trattamenti.

Fig. 1 Struttura della ciclosporina.

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Meccanismo d’azione

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a ciclosporina (CsA) è in grado di diffondere passivamente attraverso le membrane cellulari, legandosi quindi a un recettore citosolico, la ciclofillina (CpN), proteina appartenente alle immunofilline. Il complesso CsA-CpN si lega, a sua volta, alla calcineurina inibendola. La calcineurina è una proteina citosolica con attività fosfatasica dipendente dalla concentrazione intracellulare di calcio. Attraverso il suo legame con la calmodulina infatti il calcio presente all’interno della cellula attiva la calcineurina, la cui attività fosfatasica principale è quella di defosforilare il fattore di trascrizione NFAT (Nuclear Factor of Activated T-cells). In condizioni fisiologiche, la defosforilazione di NFAT provoca un cambiamento conformazionale del fattore stesso, tale da consentirne il legame con un’importina, che

ne determina il trasferimento nel nucleo. All’interno del nucleo (in presenza di cofattori derivati dall’attivazione di altre cascate di segnale) NFAT si lega al DNA inducendo la trascrizione di numerosi geni tra cui per esempio quello per l’interleuchina 2 (IL2) e quello per la catena γ del recettore per l’IL2 (che passa dalla forma costitutiva a bassa affinità αβ alla forma ad alta affinità αβγ), entrambi fondamentali per l’attivazione dei linfociti T. L’inibizione farmacologica della calcineurina, operata dalla ciclosporina, blocca l’attivazione delle cellule linfocitarie e causa uno stato di immunosoppressione “selettiva” che previene per esempio lo sviluppo di reazioni di rigetto nei pazienti trapiantati. Tale effetto della ciclosporina è reversibile e il farmaco non ha né proprietà mielotossiche né proprietà mutagene.

La calcineurina è pressoché ubiquitaria nell’organismo (costituisce lo 0,1-0,4% di tutte le proteine del citosol), il che spiega gli effetti terapeutici molteplici (e quelli indesiderati) della ciclosporina. Oltre alla già descritta inibizione della sintesi di IL-2 e alla conseguente inibizione dell’attivazione dei linfociti T, tale farmaco riduce anche l’attivazione delle cellule B T-dipendenti e quindi la produzione di anticorpi; riduce inoltre l’adesione all’endotelio vascolare dei neutrofili, con conseguente effetto antinfiammatorio, e inibisce l’attività dei mastociti. Conseguentemente vi è riduzione di tutte le citochine prodotte dalle cellule immunitarie la cui attività, come abbiamo visto, viene inibita dalla ciclosporina (TNFα, IFNγ, IL‑3, IL-4, IL-5, IL-6, IL-17, etc.).

state dimostrate dopo periodi di almeno 2 anni di trattamento continuo al dosaggio di 2,5-6 mg/kg/die e la loro gravità correlava con la durata del trattamento. Per tale ragione, si raccomanda di evitare cicli estremamente prolungati di terapia continuata o, in caso contrario, di controllare più assiduamente la funzione renale. L’ipertensione arteriosa è un’altra condizione frequentemente causata dalla CsA. Se la pressione diastolica presenta stabilmente valori uguali o superiori a 95 mmHg, è necessario ridurre il dosaggio; in caso di mancato rientro alla normalità si può ricorrere a un trattamento anti-

pertensivo, preferibilmente con nifedipina. Anche se la CsA è considerata un agente immunosoppressivo, il rischio di infezione o di neoplasie non sembra frequente, per lo meno in base ai dati finora disponibili. Neoplasie cutanee maligne sono state descritte solo in soggetti che erano stati precedentemente sottoposti a vari cicli di fototerapia o PUVA-terapia. Pertanto, in pazienti trattati con queste modalità terapeutiche si sconsiglia l’uso, contemporaneo o in tempi diversi, della CsA. La frequenza di neoplasie nei soggetti trapiantati che fanno uso di CsA non è superiore a quella osservata per altri trattamenti. Il ri-

Effetti avversi

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li effetti indesiderati legati all’impiego di ciclosporina sono tempo- e dose-dipendenti. I più frequenti e conosciuti sono sicuramente quelli a carico del rene. L’aumento della creatininemia e della kaliemia sono segni di danno renale (reversibile) e devono essere perciò controllati frequentemente. Se la creatininemia supera del 30% i valori di base (e la filtrazione glomerulare è ridotta di oltre il 20%), la CsA andrà ridotta di 0,5-1 mg/kg/die finché i valori rientrano nella normalità, altrimenti il trattamento dovrà essere sospeso. Una volta sospeso il farmaco, la nefropatia non è progressiva. Alterazioni strutturali a livello renale sono

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schio di neoplasia nei trapiantati potrebbe tra l’altro essere condizionato dagli alti dosaggi del farmaco e dall’associazione con altri agenti immunosoppressivi. La tossicità della CsA è spesso legata all’uso contemporaneo di altri presidi terapeutici che possono ridurne il metabolismo e aumentarne di conseguenza i livelli plasmatici. Di contro, altre sostanze capaci di esaltare il metabolismo epatico della CsA ne abbassano le concentrazioni attive e possono quindi ridurne l’efficacia.

La formulazione in microemulsione (Sandimmun-Neoral®) rende più costante e regolare l’assorbimento della CsA e maggiore biodisponibilità. In tal modo vengono mantenute elevate per più tempo concentrazioni farmacologicamente attive del farmaco, consentendo un’azione più rapida ed efficace, ma allo stesso tempo può aumentare il rischio di tossicità. La determinazione della ciclosporinemia non è considerata attualmente utile né necessaria, anche grazie al miglior profilo farmacocinetico

raggiunto con la nuova formulazione, e può essere riservata tutt’al più a pochi casi selezionati (per esempio in caso di sospette interazioni con altri farmaci). Il trattamento con CsA è di solito ben tollerato e accettato dai pazienti. Il farmaco non è né mielotossico né teratogeno, anche se sconsigliato in gravidanza, ancorché non si abbiano segnalazioni di danni fetali (terapia raccomandata).

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Impiego (registrato e off-label) di ciclosporina nelle patologie dermatologiche immunomediate Alopecia areata

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on il termine “alopecia” si indica in senso letterale la completa assenza di peli in un distretto corporeo che normalmente li possiede, ma per estensione viene usato anche per indicare un semplice diradamento dei peli stessi o, in regioni come il capillizio, una loro trasformazione in peli folletti cosmeticamente insignificanti. L’alopecia areata (o area celsi) appartiene al gruppo delle alopecie acquisite non cicatriziali, insieme ad altre patologie quali, per esempio, l’alopecia androgenetica e il telogen effluvium. Presenta un’incidenza di 17 casi/100.000 abitanti/anno, senza predilezioni di sesso; circa il 60% dei casi si manifesta prima dei 20 anni, eccezionalmente può essere presente alla nascita. L’incidenza è aumentata nei soggetti atopici e in questi casi la prognosi è più sfavorevole. È probabilmente una malattia multifattoriale ed eterogenea, im-

plicante una predisposizione genetica e meccanismi autoimmunitari diretti contro antigeni espressi dai componenti dell’annesso pilifero. Il soggetto con alopecia areata può presentare altre affezioni a patogenesi autoimmune, come la vitiligine, l’anemia perniciosa e malattie a carico della tiroide. In alcuni pazienti la componente psicologica partecipa inconfutabilmente allo scatenamento della patologia. Aspetti clinici La malattia si manifesta con una caduta improvvisa dei capelli e/o dei peli a livello di un’unica chiazza (nel 20% circa dei casi) o in più zone (60%); tali chiazze appaiono ben circoscritte, solitamente di forma circolare (figure 2 e 3), di dimensioni variabili, con tendenza all’estensione centrifuga. Per effetto della progressione della patologia, l’intero cuoio capelluto può risultare denudato (alopecia areata tota-

le, 5% dei casi). Questa forma può associarsi alla caduta di tutti i peli del corpo, definendo così il quadro clinico denominato alopecia areata universale (5% di tutti i casi). In generale, la cute alopecica non presenta alcun segno di infiammazione o di alterazione epidermica. Manca la sintomatologia soggettiva. Nelle forme gravi sono frequenti le alterazioni ungueali: depressioni puntiformi, striature, opacità e avvallamenti delle lamine, e talora perdita completa di una o più unghie. Reperti di laboratorio La diagnosi è clinica. Possono essere eseguiti nei casi dubbi (molto rari) l’esame istologico e/o il tricogramma. Non si accompagna ad alterazioni degli esami ematochimici, da richiedersi unicamente per escludere la presenza di una concomitante tiroidite autoimune.

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Fig. 3 Localizzazione alla barba. Fig. 2 Alopecia areata del capillizio.

Impiego di ciclosporina L’evoluzione della malattia è imprevedibile; senza trattamento si osserva la guarigione spontanea in circa un terzo dei casi dell’adulto, pertanto è opportu-

no astenersi in un primo tempo da trattamenti potenzialmente nocivi. La persistenza delle chiazze per oltre 1-2 anni riduce la possibilità di ricrescita, oltre i 5 anni si consiglia l’astensione terapeutica.

La terapia con ciclosporina, sebbene rapidamente efficace, è poco utilizzata perché gravata da effetti collaterali e da una frequente altrettanto rapida ricaduta alla sospensione del trattamento. Recentemente sono stati proposti nuovi schemi terapeutici per le forme più gravi (alopecia totale e universale) che prevedono l’impiego associato di ciclosporina e metilprednisolone. Risultati incoraggianti sono stati osservati soprattutto con la somministrazione di ciclosporina al dosaggio di 2,5 mg/kg/die per un periodo di 5-8 mesi in associazione a metilprednisolone 500 mg e.v. per 3 giorni/mese. Tale trattamento si è dimostrato efficace e non gravato da recidiva della patologia alla sospensione.

Dermatite atopica

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a Dermatite Atopica (DA) è un’affezione di natura eczematosa, geneticamente determinata, con andamento cronico o cronico-recidivante, con caratteristiche cliniche eterogenee e variabili a seconda dell’età del paziente, ma sempre intensamente pruriginosa. I primi sintomi compaiono solitamente durante l’infanzia (50-60% dei casi diagnosticati entro il 1° anno di vita). La patologia persiste fino all’età adulta in meno di un terzo dei pazienti colpiti in età pediatrica. La dermatite atopica ha pertanto una prevalenza del 10-20% nei bambini e dell’1-3% negli adulti; questi dati sono in progressivo aumento. Esiste una lieve predilezione per il sesso femminile. La patogenesi della dermatite atopica risulta essere molto complessa e non ancora del tutto chiarita. Fattori genetici collaborano con fattori ambientali nel determinare quelle che sono le 3 caratteristiche principali di

questa patologia, e cioè: l’abnorme sensibilità al prurito, le anomalie immunologiche (predominanza dei linfociti Th2 sui Th1) e le alterazioni della barriera epidermica (come vedremo in seguito, la DA colpisce prevalentemente le aree dove lo strato corneo è più sottile). Questi elementi generano uno stato di “iperattività infiammatoria della cute” a stimoli esterni e interni al paziente: i cosiddetti fattori scatenanti, i quali con meccanismi immunomediati e non provocano le riacutizzazioni della patologia. I principali fattori scatenanti sono: gli aeroallergeni, gli agenti infettivi, sostanze o materiali irritanti a contatto con la cute, fattori climatici e ambientali, lo stress psichico. Discusso è ancora il ruolo degli alimenti. Aspetti clinici Come accennato in precedenza, il quadro clinico della DA è estremamente variabile a se-

conda dell’età del paziente. Criterio diagnostico fondamentale è però la presenza del prurito che accompagna sempre questa patologia, indipendentemente dagli anni di vita del soggetto affetto (figura 4). Dermatite atopica del lattante e dei primi 2 anni di vita Caratteristica di questa fase sono le classiche chiazze di eczema acuto, che si presentano come lesioni eritematose, edematose, con desquamazione fine e a volte essudanti, ricoperte da squamo-croste, a margini sfumati. Le sedi tipiche sono il viso (fronte, guance e mento) e il capillizio, ma anche il tronco e gli arti (figure 5 e 6). In rari casi si instaura uno stato eritrodermico. Frequente a questa età è la sovrainfezione batterica (solitamente da Stafilococco aureo) delle chiazze (“impetiginizzazione”); in questo caso l’essudazione si presenta sierosa e gialla-

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Fig. 4 Lesioni da grattamento in paziente affetta da DA; cute diffusamente secca (“xerotica”) e lichenificata.

Fig. 5 DA dell’età infantile: lesioni eczematose del volto nelle sedi tipiche; da notare il caratteristico risparmio dell’area determinata dalle pieghe naso-labiali.

stra, raramente si accompagna a rialzo termico. Le riacutizzazioni hanno una durata variabile da alcuni giorni a settimane, e la patologia procede a poussées senza l’aspetto di affezione cronica, tipica delle epoche successive.

Dermatite atopica del bambino e dell’adolescente Le lesioni eczematose in quest’epoca della vita interessano più spesso le pieghe (pieghe dei gomiti, cavi poplitei e collo) e/o determinate sedi tipiche, come il dorso delle mani, i polsi, le caviglie, i ca-

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Fig. 6 DA dell’età infantile: lesioni eczematose del volto e degli arti superiori.

pezzoli e i solchi retroauricolari. Le lesioni assumono un aspetto meno essudante e più infiltrato (lichenificazione = aumento di spessore dell’epidermide, la quale risulta dura, secca, con accentuazione dei normali solchi e rilievi), perché sono più persistenti e spesso croniche (figure 7, 8, 9 e 10).

Fig. 7-10 DA del bambino e dell’adolescente: lesioni e sedi tipiche.

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Sono tipiche le riaccensioni stagionali, per lo più in autunno e in inverno.

Fig. 11-12 DA dell’adulto: placche lichenificate accompagnate da papule eritematose di pochi millimetri di diametro, escoriate alla sommità a causa del grattamento cronico.

Fig. 13 Piega di Dennie-Morgan.

Fig. 14 Ipercheratosi follicolare.

Dermatite atopica dell’adulto La malattia assume ancora maggior tendenza alla persistenza. Si osservano placche lichenificate a volte accompagnate da papule eritematose di pochi millimetri, ben definite, ecoriate alla sommità per il grattamento intenso (figure 11 e 12). In questa fase il prurito può infatti interessare l’intera superficie cutanea, che appare xerotica. Oltre alle sedi già citate per le altre epoche della vita, che comunque possono essere interessate anche nell’età adulta, in questa fase le regioni corporee maggiormente interessate sono: il dorso delle mani, la nuca, lo scroto e le caviglie. Le forme più gravi possono assumere, nei casi estremi, aspetti eritrodermici o più frequentemente di “prurigo lichenificata” (figura 4). A qualsiasi età, poi, possono essere presenti alcuni segni clinici caratteristici che si accompagnano alle classiche lesioni eczematose. Questi segni sono secondari rispetto alle manifestazioni cliniche fin qui descritte, ma sono molto utili per porre la diagnosi definitiva di dermatite

atopica e a volte rappresentano delle vere e proprie “stigmate” per il paziente atopico. Secondo la vecchia classificazione di Hanifin e Rajka del 1980, oggi non più utilizzata, questi segni venivano raccolti sotto il nome di criteri diagnostici minori. Tra questi ricordiamo: la piega sottopalpebrale di Dennie-Morgan (figura 13), la già citata secchezza/xerosi cutanea diffusa, l’ipercheratosi follicolare (figura 14), la pitiriasi alba (figura 15) e il dermografismo bianco (figura 16).

Fig. 15 Pitiriasi alba del volto.

Fig. 16 Alopecia areata del capillizio.

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Reperti di laboratorio I livelli sierici di IgE totali sono aumentati nella maggior parte dei pazienti (PRIST test) e approssimativamente l’85% risulta positivo al RAST test, cioè la ricerca di IgE specifiche dirette verso determinati allergeni. In questo caso, la dermatite atopica viene definita “estrinseca”, ma esiste anche la possibilità che il paziente affetto presenti valori normali di IgE totali o specifiche: si parlerà allora di dermatite atopica “intrinseca”. La maggior parte dei pazienti presenta anche aumento del numero di eosinofili nel sangue periferico, rilevabile con un semplice emocromo. Sono stati studiati molti altri “marcatori solubili” di patologia, come citochine, leucotrieni, molecole di adesione e proteine contenute nei granuli dei polimorfonucleati e dei mastociti, ma nessuno di questi ha attualmente un ruolo codificato nella pratica clinica. Impiego di ciclosporina Nelle fasi di quiescenza della malattia, il paziente dovrà evita-

re i fattori scatenanti e mantenere la giusta idratazione della cute con emollienti specifici. Per riacutizzazioni modeste è molto utile l’impiego di steroidi locali e soprattutto degli inibitori topici della calcineurina. Nelle forme più gravi e non controllabili con la sola terapia locale, trovano indicazione svariati trattamenti sistemici e la fototerapia. L’efficacia e la sicurezza della terapia con ciclosporina nella dermatite atopica grave è ben documentata sia negli adulti sia nei bambini, anche a lungo termine. Il farmaco viene impiegato a una dose iniziale d’attacco di 4-5 mg/kg/die per 2 settimane, per poi passare alla terapia di mantenimento a dosaggio inferiore (1,5‑3 mg/kg/die) per 6-12 mesi. In alcuni soggetti la malattia recidiva alla sospensione del farmaco, ma l’osservazione secondo la quale tali recidive sarebbero meno gravi rispetto all’esordio della patologia ne suggerisce la somministrazione intermittente (cicli di 8-12 settimane al dosaggio di 2,5-5 mg/kg/die). La terapia delle forme gravi di dermatite atopica è stata lette-

ralmente rivoluzionata dall’introduzione della ciclosporina. Il suo meccanismo d’azione nella DA è ancora in gran parte sconosciuto, tuttavia è possibile ritenere che il farmaco agisca a livello dei fenomeni di trascrizione delle citochine coinvolte nei processi infiammatori cutanei. Appare infatti ormai chiaro che, come accennato in precedenza, l’elemento fisiopatologico fondamentale della malattia è essenzialmente rappresentato dall’espansione di cellule Th2 e dalla produzione delle relative citochine (IL-4, IL-13, IL-5). Tuttavia, se queste ultime sono cruciali per dare inizio a un quadro di DA, durante i fenomeni di cronicizzazione diventano determinanti anche altre citochine, quali IFNγ, prodotte dai linfociti Th1. I già citati effetti della ciclosporina sul sistema immunitario, tra cui l’inibizione dell’espansione e della proliferazione dei linfociti T, della sintesi di alcune citochine (tra cui IL-4 e IL-5) e della liberazione dei mediatori da parte dei mastociti, possono pertanto spiegare la sua efficacia nel trattamento di questa patologia.

dell’adulto, dermatomiosite paraneoplastica, dermatomiosite giovanile, dermatomiosite associata ad altre patologie del connettivo) e altre forme più rare. Anche per questa patologia è stata dimostrata una predisposizione genetica la quale, in associazione all’esposizione ai raggi ultravioletti e/o a infezioni virali (o alla presenza di una neoplasia nelle forme paraneoplastiche), è alla base di una perdita di tolleranza verso il “self” da parte del sistema immunitario del paziente, con formazione di autoanticorpi ed espansione dei linfociti T autoreattivi; questa “sregolazio-

ne” immunitaria, attraverso vari processi patogenetici, porta alle manifestazioni cliniche della patologia.

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Dermatomiosite

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a dermatomiosite è una malattia rara (5 casi per milione di abitanti, con prevalenza del sesso femminile) ma grave; si colloca al terzo posto tra le connettiviti maggiori, dopo il lupus eritematoso (vedi in seguito) e la sclerodermia. In realtà con il termine “dermatomiosite” si fa riferimento a un gruppo eterogeneo di malattie infiammatorie che interessano la muscolatura scheletrica e la cute con differenti manifestazioni cliniche e reperti di laboratorio. La classificazione di queste patologie comprende 5 quadri principali (polimiosite, dermatomiosite

Aspetti clinici Manifestazioni cutanee L’interessamento cutaneo è un elemento indispensabile per poter porre diagnosi di dermatomiosite; quando questo è assente, si parla di polimiosite. Nel 70% dei casi l’esordio della patologia è cutaneo. Le lesioni elementari caratteristiche sono: l’eritema eliotropo (così chiamato per il peculiare

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Fig. 17 Eritema eliotropo palpebrale associato ad edema in paziente con dermatomiosite.

Fig. 18 Nella stessa paziente di Fig. 17, papule di Gottron localizzate sulla cute sovrastante le articolazioni interfalangee prossimali e distali.

colorito rosso-lilla), che predilige le zone fotoesposte, in particolare le palpebre, l’edema periorbitale (figura 17), l’ipercheratosi, localizzata soprattutto alle mani, le teleangectasie periungueali e le papule di Gottron (figura 18). Queste ultime sono piccole papule violacee, rotondeggianti, localizzate alla superficie dorsale o dorso-laterale delle articolazioni interfalangee o metacarpofalangee; vengono considerate patognomoniche e sono presenti nel 70% dei pazienti affetti da dermatomiosite. Altre manifestazioni cutanee tipiche della dermatomiosite sono le chiazze eritemato-violacee associate ad aree atrofiche o teleangectasiche, localizzate più frequentemente in modo simmetrico a gomiti, ginocchia e regioni malleolari mediali (segno di Gottron). Con il termine “segno dello scial-

le” si indica invece la presenza di chiazze eritematose, con alterazioni pigmentarie, teleangectasie e aree atrofiche (poichilodermia) nelle regioni del collo, delle spalle e alla radice degli arti superiori. Possono completare il quadro clinico cutaneo della dermatomiosite alcune manifestazioni comuni anche alle altre connettiviti e quindi aspecifiche, come il fenomeno di Raynaud (spasmo arteriolare che interessa le estremità del corpo), la calcinosi cutanea (depositi sottocutanei di sali di calcio), la formazione di bolle, la presenza di porpora cutanea, di chiazze sclerodermiche, di lesioni mucose, etc. Manifestazioni muscolari e sistemiche La debolezza muscolare è un elemento essenziale, ma l’inte-

ressamento della muscolatura scheletrica può essere assente (10% dei casi) o subclinico, quindi rilevabile soltanto per mezzo degli esami di laboratorio (vedi capitolo seguente). Nella fase acuta può essere doloroso. Sono tipicamente coinvolti in modo simmetrico i muscoli prossimali, in particolare quelli del cingolo scapolare e pelvico. Solo in fase tardiva sopraggiunge atrofia muscolare. La miosite può colpire la muscolatura mimica e interessare anche i muscoli che governano la deglutizione, provocando disfagia, e la respirazione. Non esiste alcuna correlazione con l’estensione delle lesioni cutanee e la gravità del coinvolgimento muscolare. Il quadro clinico generale della dermatomiosite può essere complicato da manifestazioni extracutanee (più frequenti nella forma giovanile); possono essere interessati in particolare l’apparato respiratorio (polmonite interstiziale, bronchiolite obliterante, etc.), quello cardiaco (anomalie della conduzione, aritmie, miocarditi, etc.), il tratto gastroenterico e l’apparato oculare. Reperti di laboratorio Il rilevamento di alterazioni degli enzimi di derivazione muscolare è uno dei presupposti principali per poter porre diagnosi di dermatomiosite. I livelli di creatinafosfochinasi (CPK) correlano anche con l’andamento clinico della malattia. L’innalzamento della concentrazione ematica di tale enzima però non è specifico, perché CPK aumenta anche in seguito a traumi o a esercizio muscolare, e nelle fasi iniziali della malattia i suoi livelli possono essere normali. Più sensibile, soprattutto agli esordi, è la determinazione dell’escrezione urinaria di creatina, che può raggiungere anche 1g/24 ore. Per la diagnosi corretta del coinvolgimento muscolare sono fondamentali l’elettromiografia (EMG),

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che presenta tracciati caratteristici, e la biopsia muscolare, da eseguirsi su un muscolo colpito clinicamente o il cui coinvolgimento sia stato rivelato dall’EMG. La ricerca di anticorpi circolanti specifici presenta scarso interesse dal punto di vista diagnostico; gli anticorpi anti-Mi-1 e anti-Mi-2 sono altamente specifici per la dermatomiosite, ma sono presenti solo nel 10 e nel 20% dei casi, rispettivamente; gli anticorpi anti-Jo-1 sono invece più specifici per la polimiosite. Il quadro istologico cutaneo non è caratteristico e anche l’immunofluorescenza diretta riveste un ruolo secondario per la diagnosi. In definitiva, per poter formulare la diagnosi di dermatomiosite è utile il ricorso ai criteri diagnostici di Bohan et al. (1977), che in pratica riassumono quanto detto finora. Secondo tali criteri è possibile porre una diagnosi certa se, oltre alle lesioni cutanee tipiche, il paziente presenta altri 3 dei seguenti aspetti peculiari della malattia: astenia progressiva della muscolatura simmetrica prossimale, miopatia infiammatoria alla biopsia muscolare, livelli elevati degli enzimi mu-

scolari e quadro compatibile con miopatia all’esame elettromiografico. La diagnosi di dermatomiosite è invece probabile se vengono soddisfatti altri 2 dei suddetti criteri, ed è infine possibile se ne viene soddisfatto solo 1, sempre in presenza di lesioni cutanee tipiche. Dal momento che la forma paraneoplastica rappresenta circa il 60% di tutte le dermatomiositi, è d’obbligo eseguire uno screening per escludere eventuali neoplasie associate in tutti i pazienti affetti, da ripetersi ogni 6 mesi per 3 anni dalla diagnosi. I tumori più frequentemente rilevabili in associazione a dermatomiosite sono: carcinoma ovarico, polmonare, mammario, gastrico, uterino e del colon. Per definizione, la dermatomiosite paraneoplastica presenta un’evoluzione legata al trattamento del tumore. Impiego di ciclosporina L’approccio terapeutico è condizionato dall’entità del quadro clinico cutaneo e muscolare, dall’eventuale associazione di una neoplasia e dalla presenza di coinvolgimento viscerale. In prima battuta, la terapia della dermatomiosite è fondata sull’impiego di corticosteroidi siste-

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mici per periodi di tempo anche prolungati (2-3 anni); qualora gli effetti indesiderati della corticoterapia si facciano troppo impegnativi e/o si manifesti una certa resistenza all’azione degli steroidi, è necessario ricorrere ad altri trattamenti, quali il metotressato, l’azatioprina o la ciclofosfamide. Il razionale biologico all’uso della ciclosporina nella dermatomiosite/polimiosite è rappresentato dall’inibizione della proliferazione dei linfociti T e delle citochine da questi prodotte. La ciclosporina viene impiegata soprattutto nei bambini al dosaggio di 2,5 mg/kg/die e nelle dermatomiositi acute dell’adulto, non rispondenti ai corticosteroidi e ai farmaci immunosoppressivi sopraindicati, alla dose di 5 mg/kg/die, rappresentando una valida alternativa terapeutica. In particolare l’efficacia di questo farmaco è stata dimostrata sulla componente muscolare. Altre opzioni sono rappresentate dalla somministrazione e.v. di immunoglobuline e dal micofenolato mofetile; recentemente sono state proposte terapie con i farmaci anti-TNF o anti-CD20 (rituximab).

Granuloma anulare

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l granuloma anulare è una dermatite granulomatosa cronica, che si manifesta con elementi nodulari, più spesso localizzati alle mani, ai gomiti e alle ginocchia, frequentemente raggruppati in configurazioni ad anello. È di riscontro abbastanza comune e si osserva nel sesso femminile con una frequenza lievemente maggiore rispetto a quello maschile. Qualsiasi epoca della vita può essere colpita, ma circa i due terzi dei casi compaiono prima dei trent’anni.

È un’affezione che viene classificata nei granulomi cutanei a palizzata, così definiti perché si presentano istologicamente come reazioni infiammatorie granulomatose nodulari che si dispongono a palizzata attorno a focolai di alterazione del tessuto conettivo dermo-epidermico. L’eziologia del granuloma anulare è ignota. Esistono forme familiari. Nelle forme generalizzate o a evoluzione prolungata, è opportuno un dettagliato inquadramento diabetologico, dal mo-

mento che in queste forme appare frequente l’associazione di un diabete mellito latente o clinicamente manifesto. L’evoluzione delle lesioni è imprevedibile, ma sempre benigna. Le forme tipiche guariscono spontaneamente nel volgere di alcuni mesi (fino a 2-3 anni). Aspetti clinici La presentazione clinica è molto variabile. Nella sua forma tipica localizzata, il granuloma anulare è costituito da piccoli noduli duri,

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Fig. 19 Granuloma anulare localizzato.

Fig. 21 Granuloma anulare disseminato.

Fig. 20 Localizzazione tipica al dorso della mano.

intradermici, rotondeggianti, ben delimitati, non dolenti, del colorito della cute normale, eritematosi o violacei. Con il tempo le lesioni si moltiplicano e si dispongono in anelli, completi o incompleti, che si allargano in senso centrifugo (figura 19). Queste lesioni si localizzano abitualmente sulle superfici dorsali e sui lati delle dita, sul dorso delle mani (figura 20) e dei piedi, sulle sporgenze articolari degli arti, sulle orecchie, sulla nuca. La forma localizzata è frequente nei bambini e negli adolescenti. Il granuloma anulare generalizzato si osserva solitamente nei bambini piccoli o negli adulti con più di 40 anni di età e si manifesta con decine o centinaia di ele-

menti di 1-2 mm di diametro che vanno dal colore della cute normale al violaceo. Talora queste lesioni rimangono isolate, altre volte formano molteplici anelli completi o incompleti, che si allargano in senso centrifugo. L’eruzione è abitualmente simmetrica; sono colpiti le superfici flessorie degli arti, il collo, le spalle e il dorso, molto più raramente il volto, le regioni palmo-plantari e le mucose visibili (figura 21). Esistono altre forme più rare, che sono il granuloma anulare sottocutaneo, perché le lesioni sono più profonde rispetto alle forme fin qui descritte, e il granuloma anulare perforante, in cui sono presenti ulcerazioni. Esiste anche una forma fotosensibile, che si localizza nelle zone fotoesposte. Eccezionali le forme eritematose circinate, in cui manca una chiara infiltrazione. Reperti di laboratorio I risultati degli esami di laboratorio sono solitamente normali,

sebbene si possa riscontrare, come accennato in precedenza, un’intolleranza glucidica o un franco diabete mellito, soprattutto nei pazienti con le forme generalizzate. L’istologia è variabile a seconda delle diverse fasi di evoluzione delle lesioni. Impiego di ciclosporina In ragione del carattere spontaneamente risolutivo delle lesioni, raramente è richiesta una terapia. Per le forme estese e/o atipiche i trattamenti più efficaci e sicuri, secondo l’esperienza della nostra Clinica, sono la fototerapia UVA-1, eccezion fatta ovviamente per le forme fotosensibili, e la ciclosporina, al dosaggio di 4 mg/kg/die per 8-12 settimane, riducendo gradualmente la dose ogni 2 settimane prima della sospensione, con un miglioramento clinico atteso dopo 6 settimane di trattamento.

Lichen ruber planus

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l Lichen Planus (LP) è un’affezione cutanea e/o mucosa benigna, frequente (prevalenza 0,5%), spesso cronica e recidi-

vante; abitualmente sulla cute si manifesta con papule violacee di forma poligonale, che possono confluire in placche e che risolvo-

no con transitori esiti pigmentari. Il prurito è sempre molto intenso. Non ha predilezione né di razza né di sesso e si osserva di solito

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Fig. 22-23 Lichen ruber planus: lesioni papulari tipiche nelle sedi classiche; le singole papule confluiscono in placche di varie forme.

nata con luce radente, di colore variabile dal rosso-rosa al violaceo scuro, a seconda della fase di evoluzione, del diametro di 1‑3 mm. La superficie appare lievemente depressa al centro ed è percorsa da esili strie grigiastre, formanti il cosiddetto reticolo di Wickam. Dopo la regressione della papula, compare una pigmentazione peculiare di colore grigio-brunastro persistente. Le papule possono rimanere isolate o possono confluire in placche ovalari dai contorni irregolari, policiclici, a volte “disegnando” anelli (lichen anulare), strie (lichen lineare e lichen zosteriforme) o arabeschi. Le sedi corporee più colpite sono la superficie anteriore dei polsi e degli avambracci, gli arti inferiori e la regione lombare; il viso è generalmente risparmiato (figure 22 e 23). Il prurito, come abbiamo detto, è uno dei sintomi cardinali della malattia. Il grattamento da esso indotto favorisce l’insorgenza di nuove papule disposte in strie lineari (fenomeno di Koebner). Esistono forme atipiche, così definite perché possono presentare morfologia atipica delle pa-

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pule (follicolari, vescico-bollose, erosive, etc.), per la disposizione delle lesioni e per la sede in cui si manifestano. Il lichen planus colpisce le mucose nei due terzi dei casi, più frequentemente quelle buccali; questa localizzazione può rappresentare anche l’unica manifestazione della patologia. L’interessamento mucoso spesso evolve più cronicamente rispetto a quello cutaneo. Si manifesta con lesioni bianche di aspetto reticolato, soprattutto a livello della porzione postero-inferiore delle guance e sulla lingua (figura 24). Nel 10% dei pazienti sono presenti, infine, alterazioni ungueali; occasionalmente si verifica la caduta di una o più unghie. Reperti di laboratorio La diagnosi è solitamente facile in base ai soli dati clinici. Nelle forme clinicamente atipiche, l’aspetto istologico, che è patognomonico, conferma la diagnosi. Non esistono altri criteri diagnostici. È raccomandato eseguire la ricerca dell’HCV-RNA nel siero dei pazienti per i quali si formula la diagnosi di lichen planus.

in individui adulti, con un picco di incidenza intorno alla quarta decade; molto rara in soggetti con meno di 10 anni di età. L’eziologia non è nota; i casi familiari sono di eccezionale riscontro. Le argomentazioni più convincenti attualmente sono a favore di una causa autoimmune. L’associazione con un’epatopatia cronica è di frequente riscontro, in particolar modo con l’epatite cronica attiva HCV-correlata. Aspetti clinici La lesione elementare è una papula di consistenza dura, poligonale, di aspetto brillante se illumi-

Fig. 24 Lichen planus mucoso: localizzazione alla porzione postero-inferiore delle guance.

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Impiego di ciclosporina La prognosi è favorevole nella maggior parte dei casi; le lesioni regrediscono, a volte spontaneamente, dopo un decorso di 12-15 mesi; le recidive, talora a distanza di diversi anni, insorgono nel 15-20% dei casi. Esistono tuttavia forme croniche che decorrono a tempo indefinito, con possibili evoluzioni ipertrofiche o erosive a livello della cute e delle mucose. In queste forme e, in generale, nelle forme più gravi si rende necessaria la terapia sistemica.

La ciclosporina viene impiegata con successo nelle forme recidivanti o particolarmente aggressive (lichen erosivo) di lichen planus e rappresenta una valida alternativa nei casi che non rispondono alla terapia steroidea o nei quali tale terapia è controindicata. Il dosaggio consigliato è di 5 mg/ kg/die per 6-8 settimane, riducendo la dose di 50 mg ogni due settimane prima della sospensione, con miglioramento atteso dopo 4 settimane di terapia. La ciclosporina è particolarmente indicata, secondo la nostra

esperienza, anche nelle forme HCV-correlate, poiché è stato dimostrato che tale farmaco è in grado di indurre la riduzione della carica virale. Questa azione inibitoria sulla replicazione virale è dose-dipendente e sembra non essere correlata all’azione immunosoppressiva del farmaco, che invece andrebbe a inibire direttamente l’attività enzimatica della ciclofillina, cruciale nel processo di maturazione delle proteine virali.

pegno sistemico, ma di minor gravità rispetto al LES. Esistono peraltro forme di LEC, come il lupus panniculitis/lupus profundus o il chilblains lupus, in cui sono rare o possibili le manifestazioni internistiche.

attento screening per un possibile coinvolgimento sistemico. Le manifestazioni legate ad alterazioni vascolari, in particolare, sono sempre associate a un LES con possibilità di impegno splacnico grave e prognosi infausta; appartengono a questo gruppo le vasculiti leucocitoclasiche, le tromboflebiti, il fenomeno di Raynaud, l’orticaria vasculite, le ulcerazioni, le gangrene periferiche, la livedo reticularis e le teleangectasie. Altre manifestazioni non specifiche, non associate ad alterazioni vascolari, sono le alopecie non cicatriziali (telogen effluvium, alopecia areata), la sclerodattilia, l’orticaria, le calcinosi cutanee, le lesioni mucose (ulcerazioni), le alterazioni della pigmentazione, il lichen planus, etc. Di seguito tratteremo le manifestazioni cutanee specifiche per ciascuna forma di lupus eritematoso.

Lupus eritematoso

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l Lupus Eritematoso (LE) è una malattia autoimmune a eziologia sconosciuta, ma certamente multifattoriale, intervenendo in essa fattori genetici, immunologici e anche ambientali, in particolar modo le radiazioni UV. In base al decorso della patologia, si distinguono tre forme di lupus eritematoso, cronico, subacuto e acuto, che presentano differenze per quanto riguarda le manifestazioni cliniche, i criteri diagnostici, l’impegno sistemico e di conseguenza l’approccio terapeutico. Sono possibili evoluzioni dall’una all’altra forma e quadri clinici overlap. Il Lupus Eritematoso Cronico (LEC), nella sua forma classica “discoide”, presenta manifestazioni esclusivamente cutanee, mentre il Lupus Eritematoso acuto o Sistemico (LES) può colpire pressoché tutti gli organi. Nel LES l’interessamento cutaneo è presente nel 20% dei pazienti all’esordio della malattia, mentre può comparire durante il suo decorso nel 60-70% dei casi. Nello SCLE (Subacute Cutaneous Lupus Erythematosus), o lupus eritematoso subacuto, possono essere presenti segni di im-

Aspetti clinici Nelle varie forme di lupus si distinguono, secondo la classificazione di Gilliam, manifestazioni cutanee “specifiche”, i cui aspetti clinici e istologici sono patognomonici della malattia, consentendo una diagnosi sicura di LE, e “non specifiche”, in quanto possono presentarsi al di fuori della malattia lupica, soprattutto ma non esclusivamente, nel contesto di altre connettiviti (dermatomiosite, sclerodermia). Le manifestazioni specifiche sono l’espressione dell’aggressione della giunzione dermo-epidermica e dello strato basale da parte del processo autoimmune. Quelle aspecifiche, invece, sono dovute a una vasculite da immunocomplessi, a una vascolopatia di tipo differente o ancora a una reazione tissutale più complessa; esse sono a volte indicatrici dell’attività sistemica della malattia, e la loro presenza impone pertanto la necessità di un

Lupus eritematoso cutaneo cronico Il LEC non è una malattia rara nella pratica dermatologica. La forma più comune, non solo tra quelle cutanee, ma in generale tra le diverse varietà di lupus eritematoso, è il LED (Lupus Erite-

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matoso Discoide), così definito per l’aspetto tipico delle lesioni. Il sesso femminile è più frequentemente coinvolto e per questo motivo si ritiene che fattori ormonali contribuiscano all’eziopatogenesi della malattia. Colpisce soprattutto gli adulti, in particolar modo tra i 30 e i 50 anni, ma nel 2% dei casi esordisce sotto i 10 anni di età. Fattori scatenanti, oltre ai già citati raggi UV, possono essere il freddo, i traumi fisici e il fumo di sigaretta. L’esordio è progressivo e il decorso è, per definizione, cronico con evoluzione cicatriziale delle lesioni. Le manifestazioni specifiche del LED sono chiazze rotondeggianti e ben delimitate (“discoidi”), non dolenti, localizzate nelle zone fotoesposte. Si distinguono una forma localizzata, con una o più lesioni in genere non simmetriche al volto, al capillizio (dove provocano sempre un’alopecia cicatriziale) e al collo, e una forma disseminata che coinvolge anche le spalle, gli arti superiori e il dorso delle mani; questa variante può evolvere nel 20% dei casi in un LES. Le chiazze del LED comprendono tre lesioni fondamentali che si combinano variamente tra loro: l’eritema, che è di tipo congestizio e a volte si associa a teleangectasie, l’ipercheratosi localizzata in corrispondenza degli osti follicolari, che punteggia l’eritema e conferisce alla chiazza un aspetto “picchiettato” bianco e ruvido alla palpazione, e l’atrofia cicatriziale, più tardiva, che predomina al centro delle lesioni ed è la causa dell’alopecia (figura 25). Nel 25% dei casi sono presenti manifestazioni mucose, più raramente ungueali. Varianti più rare di LEC sono il lupus tumidus nel quale le lesioni sono eritemato-edematose, ma mancano sia l’ipercheratosi follicolare sia l’atrofia, il lupus ipertrofico/verrucoso con lesioni papulo-nodulari ipercheratosiche, il lupus panniculitis in cui

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Il lupus eritematoso discoide diviene spontaneamente inattivo nel 40% dei pazienti dopo un periodo da 1 a 5 anni.

Fig. 25 Lupus eritematoso discoide: lesioni classiche. Ben visibile l’eritema e l’ipercheratosi osteofollicolare in alcune chiazze; assenza di atrofia (più tardiva).

sono presenti esclusivamente noduli sottocutanei fissi (panniculite lobulare), il lupus profundus, che associa alla panniculite della forma precedente le tipiche lesioni del discoide, e il chilblains lupus caratterizzato da chiazze violacee, infiltrate, pruriginose o doloranti alle estremità del corpo esposte al freddo (dita di mani e piedi, talloni, naso, padiglioni auricolari). Il 20% dei pazienti con quest’ultima forma sviluppa un LES. È importante sottolineare che circa il 25% dei pazienti affetti da LES manifesta lesioni cutanee tipo LED e che nel 15% dei casi queste lesioni ne costituiscono la manifestazione clinica d’esordio. Infine, un paziente con LED localizzato ha comunque il 5-10% di possibilità di evoluzione verso la forma sistemica.

Lupus eritematoso subacuto Si tratta di un aspetto anatomoclinico di LE, che si manifesta in pazienti presentanti particolari caratteristiche genetiche (HLADR3) e sierologiche (presenza di anticorpi anti-Ro/SS-A nel 7090% dei casi). Lo SCLE è 4 volte più frequente nel sesso femminile, con un rapporto ancor più sbilanciato rispetto al LEC. Le lesioni cutanee possono essere papulo-desquamanti o placche anulari policicliche (a volte le due manifestazioni coesistono nello stesso paziente) e sono disseminate, spesso simmetricamente, nelle zone fotoesposte: volto, scollato, parte superiore del dorso e superfici estensorie degli arti superiori (figura 26). Contrariamente al LED, manca l’ipercheratosi follicolare e le lesioni risolvono senza esiti cicatriziali. Nei pazienti anziani spesso può essere causato dall’assunzione di farmaci, quali: i diuretici tiazidici, i calcio-antagonisti, gli ACEinibitori, i beta-bloccanti, i sali d’oro, la penicillamina, l’interferone, la terbinafina, la procainamide, gli anti-TNFα. Malgrado la possibile presenza di segni clinici o biologici di diffusione sistemica, il rischio di manifestazioni internistiche gravi

Fig. 26 Lupus eritematoso subacuto: placche policicliche confluenti.

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(renali o neurologiche) è minore che nel LES. Lupus eritematoso sistemico È una malattia multisistemica con interessamento di diversi organi viscerali. Le manifestazioni cutanee nel LES (specifiche e non) sono presenti nel 20% dei casi al momento della diagnosi e si possono presentare durante il decorso della malattia nel 60-70% dei pazienti. Anche questa forma è più frequente nel sesso femminile, con una prevalenza 8 volte superiore a quella maschile nei soggetti di pelle chiara e 5 volte in quelli di pelle scura. La fascia di età più colpita è quella che va dai 18 ai 35 anni. Le lesioni cutanee specifiche sono rappresentate da chiazze eritematose o eritemato-edematose, a volte maculo-papulose, senza atrofia né ipercheratosi follicolare, localizzate tipicamente al dorso del naso e agli zigomi (aspetto a “farfalla”), ma anche alla fronte, al mento e allo scollato; caratteristico è il risparmio delle pieghe nasolabiali (figura 27). Talora l’interessamento è monolaterale. Possono essere colpite anche le regioni palmo-plantari e le superfici interne di gomiti e ginocchia. Queste lesioni provocano una sensazione di “cociore” ma non sono mai pruriginose; sembrano seguire il ritmo dell’attività della malattia,

Fig. 27 Lupus eritematoso sistemico: eritema a “farfalla” tipico, con coinvolgimento del dorso del naso e degli zigomi, risparmiate le pieghe nasolabiali.

che ha un decorso acuto, e scompaiono senza lasciare cicatrici. Talvolta sono possibili addirittura scollamenti bollosi (forme bolloso-necrotiche). Come già accennato in precedenza, nel LES sono frequenti le lesioni cutanee aspecifiche, soprattutto quelle legate ad alterazioni vascolari. Tutti gli organi e apparati possono essere coinvolti nel LES, in particolar modo l’apparato muscolo-scheletrico, con mialgie, artralgie e artriti non erosive (il 90% dei pazienti lamenta sintomi articolari), il cuore, con pericarditi ed endocarditi, il polmone, con pleuriti e polmoniti interstiziali, il rene, con il quadro caratteristico della nefropatia lupica, il sistema nervoso, con polineuropatie, epilessie e psicosi, e il sistema emolinfopoietico, con anemia emolitica, leucopenia, linfopenia, trombocitopenia e linfadenopatia. Si associano quasi sempre astenia, cefalea, febbre, perdita di peso e disturbi gastrointestinali. Reperti di laboratorio Il laboratorio è di fondamentale importanza per il clinico nella diagnosi e nella gestione del lupus eritematoso in tutte le sue forme. La diagnosi si avvale di criteri clinici, istopatologici e immunopatologici. Nel LED la clinica è solitamente sufficiente per formulare una diagnosi definitiva; nei casi dubbi, l’esame istologico può essere dirimente. Nelle forme tipiche, gli esami ematochimici non mostrano alterazioni di rilievo perché, come abbiamo detto, l’impegno sistemico è generalmente assente. Possono essere presenti anticorpi anti-nucleo (ANA) a basso titolo nel 30-40% dei pazienti; in percentuale maggiore (70-75%) nelle forme più gravi, come il lupus profundus. Questo non esime il medico dall’effettuare comunque delle indagini di laboratorio perché esiste, come già riferi-

to, la possibilità che un LES si manifesti con le lesioni cutanee del LED e che un LEC evolva in una forma sistemica. I pazienti da monitorare con maggiore attenzione, perché presentano il rischio di evoluzione in LES, sono quelli con proteinuria maggiore di 0,4 g/l, con ematuria, con artralgie (2 volte alla settimana per almeno 3 mesi) e con presenza di ANA ad alto titolo (maggiore o uguale a 1:320). Inoltre l’aumento della VES e/o la comparsa di alterazioni dell’emocromo (anemia, leucopenia, trombocitopenia, etc.) possono essere indicativi di un iniziale coinvolgimento sistemico. È perciò fondamentale la sorveglianza clinica e paraclinica con visite e controlli annuali in tutti i pazienti con diagnosi di LEC. Un esame importante per porre diagnosi di lupus eritematoso e per differenziarlo nelle sue varie forme è l’immunofluorescenza diretta (lupus band test). Questa indagine risulta positiva in sede di lesione cutanea nell’80-90% dei pazienti con LEC e con LES, mentre solo nel 50% dei pazienti affetti da SCLE. Reperto specifico per il LES (e, con minore frequenza, per lo SCLE) è la positività del test anche su cute sana fotoesposta (50% dei casi) e coperta (30% dei casi). Anche la diagnosi lupus eritematoso subacuto si basa sulla clinica e sull’esame istologico ma, rispetto al LEC, è di fondamentale importanza anche la sierologia. Il marker sierologico specifico per lo SCLE è la presenza degli anticorpi antiRo/SS-A, che sono positivi nel 70-90% dei pazienti. Gli ANA sono solitamente presenti nel 60-80% dei casi, con positività degli anticorpi anti-DNA nativo (anti-ds-DNA) nel 10% dei casi; tali anticorpi sono sempre assenti nel LEC. Nello SCLE vi può essere positività anche per gli anticorpi anti-La/SS-B, con una frequenza del 30-50%, e del fattore reumatoide (30%

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dei pazienti). Molto importante è la ricerca di segni clinici e biologici di un possibile coinvolgimento sistemico; più frequente rispetto ad altri indicatori di interessamento viscerale è il riscontro nello SCLE di leucopenia. Questo dato, insieme alla presenza di lesioni papulo-squamose, di ANA maggiori di 1:160 e di anticorpi anti-ds-DNA, sono segni prognostici sfavorevoli di possibile evoluzione in LES. La diagnosi di lupus eritematoso sistemico si basa invece sulla presenza, contemporanea o successiva, di elementi atti a soddisfare almeno 4 degli 11 criteri proposti dall’Associazione dei Reumatologi Americani (ARA), che sono: l’eritema a “farfalla”, l’eritema discoide, la fotosensibilità (rash conseguente all’esposizione a raggi UV, osservata dal paziente o dal medico), le ulcere mucose, le artriti non erosive interessanti almeno 2 articolazioni periferiche, le sierositi (pleurite o pericardite), le

alterazioni della funzionalità renale, le alterazioni neurologiche (convulsioni o psicosi), le già descritte alterazioni ematologiche, la presenza di anticorpi anti-dsDNA ad alto titolo o di anticorpi anti-SM (specifici per il LES) o anti-fosfolipidi, la presenza di ANA ad alto titolo. La sorveglianza dei pazienti affetti da LES si basa essenzialmente sulla clinica, sulla valutazione delle condizioni del rene, sui livelli sierici del complemento e degli anticorpi anti-DNA nativo. Impiego di ciclosporina L’approccio terapeutico alle varie forme di lupus eritematoso è sostanzialmente simile e deriva, innanzitutto, dal riscontro di un eventuale coinvolgimento degli organi viscerali. I pazienti devono essere primariamente istruiti sui rischi legati alla fotoesposizione e al fumo di sigaretta, raccomandando l’astensione da entrambi. La terapia locale si basa sull’uso di

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corticosteroidi a media/elevata potenza, mentre quella sistemica si avvale di molte alternative, quali gli antimalarici di sintesi (attivi nella prevenzione e nel trattamento delle lesioni cutanee), i corticosteroidi, il dapsone, la talidomide (che sono i farmaci di scelta), il metotressato, l’aziatropina, la ciclofosfamide, il micofenolato mofetile e più recentemente il rituximab. La ciclosporina trova indicazione nel trattamento di tutte le forme di lupus eritematoso, svolgendo il suo effetto terapeutico mediante l’inibizione della IL-2 e di numerose altre citochine coinvolte nella patogenesi della malattia. Viene impiegata al dosaggio di 3-5 mg/kg/die spesso in associazione con altri farmaci antinfiammatori o immunosoppressivi, e offre il vantaggio di limitare l’uso dei corticosteroidi. La ciclosporina si è dimostrata efficace anche nel trattamento della nefropatia lupica e dell’anemia emolitica lupica.

Malattia di Behçet

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a malattia di Behçet è un’affezione plurisistemica, considerata come una vasculite a eziologia ignota. Deve il nome al dermatologo turco Hulusu Behçet che nel 1937 descrisse una triade che associava aftosi orale, aftosi genitale e uveite. Da allora numerosi altri segni e sintomi sono stati associati a questa patologia, soprattutto per quanto riguarda le localizzazioni viscerali, ma le manifestazioni cutaneo-mucose costituiscono tuttora elementi fondamentali dei criteri diagnostici internazionali attualmente definiti. È una sindrome rara, con una prevalenza di 5-10 volte maggiore nel sesso maschile e con esordio più frequente nella terza

decade. È ubiquitaria, ma particolarmente frequente nel bacino del Mediterraneo e in Giappone (la “via della seta”). L’esistenza di forme familiari e persino neonatali sottolinea l’importanza dei fattori genetici (HLA-B5 riscontrato nel 60-80% dei casi, a seconda degli studi). L’intervento di fattori ambientali è possibile: l’ipotesi che la malattia sia la conseguenza di un’infezione virale è oggi abbandonata a vantaggio della possibilità che tale sindrome sia il risultato di una reazione ritardata a un’infezione da streptococco, con un meccanismo di reattività crociata. La malattia di Behçet evolve per imprevedibili riaccensioni successive, più o meno regressive,

nel corso delle quali un nuovo organo può essere interessato. Il rischio maggiore è la possibile cecità dovuta all’uveite. La patologia può anche portare a delle conseguenze mortali. È un elemento prognostico favorevole l’adesione rigorosa del paziente alla terapia farmacologica per tutta la durata del trattamento. Aspetti clinici La malattia di Behçet causa afte orogenitali e manifestazioni diverse: cutanee, oculari, nervose, articolari e vascolari. Le manifestazioni cutaneo-mucose comprendono l’aftosi buccale, quelle genitali, le pseudofollicoliti e i noduli dermo-epidermici a tipo eritema nodoso.

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Fig. 28 Malattia di Behçet: aftosi della mucosa orale.

Le afte della mucosa orale sono costantemente presenti e possono restare a lungo le uniche manifestazioni della malattia; sono indistinguibili dalle afte volgari, non cioè correlate alla sindrome di Behçet (figura 28). Le afte genitali colpiscono il 60% dei pazienti e interessano prevalentemente lo scroto; lasciano cicatrici permanenti, che costituiscono un importante elemento per la diagnosi quando la malattia è quiescente. Le pseudofollicoliti necrotiche sono pustole non follicolari, sterili precedute da uno stadio papulovescicolare; sono l’equivalente cutaneo delle afte e si localizzano sia sugli arti sia sul tronco (figura 29). Possono essere riprodotte da iniezioni durante la fase attiva (test patergico). Per quanto riguarda le altre manifestazioni, l’uveite, per lo più generalizzata, è presente nel 60% dei pazienti e rappresenta un aspetto tipico e grave della malattia di Behçet, in quanto le sue riaccensioni progressive la-

Fig. 29 Malattia di Behçet: pseudo follicoliti.

sciano esiti irreversibili che sono causa di cecità. Si possono inoltre avere manifestazioni a livello neurologico (meningoencefalite o meningoencefalomielite), articolare, vascolare (trombosi venose), cardiaco, pleuropolmonare e intestinale (lesioni simili al morbo di Crohn). Reperti di laboratorio Nella malattia di Behçet non vi sono alterazioni specifiche degli esami ematochimici, se non come indice del coinvolgimento sistemico e quindi dipendenti dalle manifestazioni cliniche della patologia. Esistono dei criteri che permettono di formulare con certezza la diagnosi di malattia di Behçet; questi prevedono la presenza obbligatoria di ulcerazioni orali ricorrenti, recidivanti almeno 3 volte in un anno, in associazione ad almeno 2 delle seguenti manifestazioni: ulcerazioni genitali ricorrenti, lesioni oculari (uveite o vasculite retinica), lesioni cutanee (eritema nodoso o pseudofollicoliti) e positività al test della patergia descritto in precedenza. Impiego di ciclosporina La patogenesi della malattia è ancora in gran parte sconosciuta. Alcuni dati suggeriscono un ruolo fondamentale giocato dai linfociti T. Questi ultimi, stimolati da antigeni di probabile origine batterica (o virale), come accennato

precedentemente andrebbero incontro a espansione, producendo IFNγ e chemochine (in collaborazione con i macrofagi) in grado di reclutare granulociti neutrofili in sede di lesione, la cui degranulazione provocherebbe il danno tissutale. È facile comprendere come la ciclosporina possa avere un ruolo determinante nell’inibire questo tipo di processo, dato il suo più volte citato meccanismo d’azione. Il farmaco è in grado di intervenire infatti non solo nelle prime fasi della risposta immunitaria, inibendo la risposta delle cellule T, ma anche successivamente riducendo l’afflusso dei neutrofili. Da un punto di vista clinico, la terapia della malattia di Behçet deve essere sostanzialmente volta a ridurre l’infiammazione, specialmente durante i primi anni di malattia ovvero quando possono insorgere più frequentemente i danni d’organo irreversibili. Accanto ai corticosteroidi sistemici vengono pertanto impiegati diversi immunosoppressori, fra cui la ciclosporina che rientra tra i farmaci di prima scelta per il trattamento di molte manifestazioni della patologia, in particolare le localizzazioni oculari e vascolari. L’impiego di ciclosporina deve essere il più precoce possibile, iniziando generalmente con dosi di 4-5 mg/kg/die che verranno gradualmente ridotte fino a identificare la dose minima efficace. La sospensione del trattamento va effettuata molto gradualmente, per evitare fenomeni di rebound, e soltanto quando vi siano evidenze a favore di una reale quiescenza della malattia. In generale, pertanto, la terapia viene sospesa dopo 2 anni dalla remissione, ma spesso bisogna continuare anche per periodi più lunghi, il che comporta la necessità di seguire con estrema attenzione il paziente per il maggior rischio di insorgenza di effetti indesiderati.

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Malattie bollose autoimmuni

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a formazione di una bolla può dipendere da un difetto del sistema di coesione tra il derma e l’epidermide (bolla sottoepidermica) o tra i cheratinociti (bolla intraepidermica). Tale difetto può essere primario, e quindi di origine genetica, o secondario, cioè di origine immunologica, metabolica o tossica. Le malattie bollose autoimmuni sono un gruppo eterogeneo di patologie che riconoscono come momento eziopatogenetico primario proprio un difetto del sistema di coesione (dermo-epidermica o intracheratinocitaria) su base immunologica. Appartengono a questa categoria di affezioni: il pemfigo nelle sue varie forme, tutte caratterizzate da bolle intraepidermiche, le malattie del gruppo del pemfigoide, la dermatosi a IgA lineari, la dermatite erpetiforme di Dühring e l’epidermiolisi bollosa acquisita (così definita per differenziarla dalle epidermolisi bollose ereditarie), che invece presentano scollamenti bollosi a livello della giunzione dermo-epidermica. I sistemi di coesione intracellulari o sottoepidermici sono strutture molto complesse, costituite da varie componenti proteiche che, nel caso delle suddette malattie, diventano bersaglio (antigeni self) di un processo autoimmune (autoanticorpi di classe IgG o IgA), in grado di provocare, sia direttamente sia indirettamente, un danno tissutale che si manifesta clinicamente con la formazione di bolle. Pemfigo Si distinguono due tipi di pemfigo autoimmune secondo la sede preferenziale del clivaggio intraepidermico: il pemfigo profondo, che comprende il pemfigo volgare e il pemfigo vegetante, nel quale il clivaggio è situato a livello sovrabasale dell’epider-

mide, e il pemfigo superficiale, che si distingue in pemfigo eritematoso (o seborroico) e pemfigo foliaceo, nel quale lo scollamento è più “alto” nel contesto dell’epidermide, e cioè a livello dello strato granuloso. Ciò avviene a causa dell’intervento di autoanticorpi con specificità diversa in ciascuna delle due forme, cioè per antigeni espressi, rispettivamente, negli strati basali e in quelli più alti dell’epidermide. I differenti livelli del piano di clivaggio rendono ragione dei differenti aspetti dei due tipi clinici di pemfigo autoimmune. Il pemfigo volgare è una malattia cutaneo-mucosa grave, mortale prima dell’avvento della corticoterapia, che colpisce soprattutto i soggetti tra i 40 e i 70 anni di età. Esordisce solitamente in modo insidioso con lesioni erosive al cavo orale (figura 30), più frequentemente, alle mucose genitali o in sede congiuntivale, oppure con lesioni cutanee essudative e crostose. Il riconoscimento di tali manifestazioni e una conseguente diagnosi precoce possono modificare radicalmente il decorso della patologia, grazie all’impiego di trattamenti farmacologici aggressivi che in questa fase risultano molto più efficaci. Dopo settimane o mesi dall’esordio localizzato, si manifesta la classica eruzione bollosa generalizzata. La bolla del pemfigo

Fig. 30 Pemfigo volgare: erosioni al cavo orale.

Fig. 31 Pemfigo volgare: bolla flaccida, a contenuto limpido, che insorge su cute non eritematosa.

volgare è caratteristicamente a contenuto limpido e insorge su cute non eritematosa (figura 31), si rompe rapidamente e lascia un’erosione la cui riparazione può essere molto lenta. L’eruzione è poco pruriginosa e si distribuisce a tutto il tegumento, prediligendo le aree sottoposte a maggior pressione. Nel pemfigo infatti la pressione o lo sfregamento della pelle determinano il distacco degli strati epiteliali superficiali (segno di Nikolski). Lo stato generale è compromesso, talora in maniera sproporzionata all’estensione delle lesioni cutaneo-mucose. Gli antigeni epidermici bersaglio degli autoanticorpi del pemfigo volgare sono la desmogleina 3 presente a livello sia cutaneo sia mucoso, e la desmogleina 1 presente solo nella cute, che sono due proteine costituenti i desmosomi, cioè uno dei principali complessi di adesione dei cheratinociti. Il pemfigo vegetante è invece una variante della patologia caratterizzata da chiazze ipertrofiche “umide”, essudanti e crostose, localizzate prevalentemente alle pieghe maggiori; può essere colpita anche la mucosa orale. Le lesioni ipertrofiche possono essere la conseguenza della riepitelizzazione delle erosioni postbollose del pemfigo volgare (forma di Neumann), oppure possono essere successive a chiazze

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pustolose (forma di Hallopeau). Come nel volgare, gli anticorpi IgG circolanti sono rivolti contro le desmogleine 1 e 2. Il pemfigo eritematoso, definito anche “seborroico” per le localizzazioni tipiche al volto e al tronco (zone seborroiche), si presenta solitamente con chiazze eritemato-squamo-crostose, talvolta pruriginose, che rappresentano l’evoluzione di effimere bolle superficiali. Le mucose sono generalmente rispettate. Il segno di Nikolski è spesso nettamente evidenziabile nelle vicinanze delle suddette chiazze. Gli autoanticorpi IgG, in questo caso, sono diretti contro la desmogleina 1, che viene espressa preferenzialmente negli strati più superficiali dell’epidermide ed è assente a livello delle mucose. Questo spiega il clivaggio a livello del granuloso e le conseguenti bolle sottocornee tipiche di questa forma, che abbiamo definito “superficiale”, e anche l’assenza di manifestazioni mucose. Il pemfigo eritematoso è pertanto considerato meno grave di quello volgare ed è generalmente localizzato. Secondo molti Autori, il pemfigo foliaceo altro non sarebbe se non una forma disseminata di pemfigo eritematoso. È di eccezionale riscontro in Europa; esistono delle forme endemiche in alcune regioni del Brasile, della Colombia e del Nord Africa. Nel pemfigo foliaceo le chiazze eritematose essudanti squamocrostose, descritte in precedenza, diffuse su tutto il tegumento, confluiscono fino a determinare un quadro di eritrodermia esfoliativa essudativa. Anche in questo caso le mucose sono rispettate. L’antigene bersaglio degli autoanticorpi IgG è sempre la desmogleina 1. La gravità di questa forma è simile a quella del pemfigo volgare. Esistono delle varietà di pemfigo che si possono presentare con le caratteristiche sia delle

forme profonde sia di quelle superficiali, anche nello stesso paziente; si tratta del pemfigo erpetiforme, del pemfigo IgA e di quello paraneoplastico. Il pemfigo erpetiforme si presenta clinicamente come la dermatite erpetiforme di Dühring (che tratteremo più avanti), dalla quale si differenzia per il tipo di autoanticorpi coinvolti – IgG e non IgA come nella dermatite erpetiforme – e per il livello del clivaggio, che è intracheratinocitario come nelle altre patologie del gruppo del pemfigo autoimmune. La diagnosi differenziale tra le 2 forme è possibile per mezzo dell’esame istologico e di indagini immunopatologiche (discusse in seguito). Il pemfigo a IgA è un’entità rara che si può presentare con quadri clinici variabili, tipo pemfigo foliaceo o volgare, o anche come una pustolosi subcornea. La grossa differenza rispetto alle forme fin qui descritte è rappresentata dalla classe di autoanticorpi coinvolti che sono IgA, sempre diretti contro la desmogleina 1 e 3. Infine, il pemfigo paraneoplastico è caratterizzato dalla presenza di autoanticorpi diretti contro un particolare complesso di antigeni epidermici appartenenti principalmente alla famiglia delle plachine, proteine che insieme alle desmogleine contribuiscono alla composizione dei desmosomi. Viene denominato paraneoplastico in ragione della sua frequente associazione a proliferazioni linfoidi maligne, in particolare, e anche a tumori solidi. È una patologia grave sia per la neoplasia associata che per l’entità e la resistenza ai trattamenti delle lesioni cutanee e soprattutto mucose. Malattie bollose autoimmuni sottoepidermiche Le dermatosi bollose autoimmuni sottoepidermiche costituiscono un gruppo di malattie acqui-

site caratterizzate dalla presenza di autoanticorpi che vanno a fissarsi in vivo a livello delle proteine di struttura che assicurano la coesione dermo-epidermica; la conseguenza clinica principale di questo fenomeno è, come già spiegato, la formazione di bolle, dovute allo scollamento focale non più intracheratinocitario – come nelle varie forme di pemfigo – ma a livello della giunzione tra derma ed epidermide. Si distinguono attualmente 6 diverse patologie appartenenti a questa categoria. Il pemfigoide bolloso è sicuramente la patologia più frequente di questo gruppo, rappresentando oltre il 70% di tutte le malattie bollose autoimmuni sottoepidermiche; è caratteristico dell’età avanzata (oltre i 70 anni). Dopo un esordio con manifestazioni aspecifiche, tipicamente prurito, chiazze eczematose od orticariodi, insorgono le bolle che, a differenza di quelle del pemfigo, appaiano tese, sono spesso di grandi dimensioni e generalmente insorgono su cute eritematosa. Si associano macule, papule, croste ed erosioni conseguenti alla rottura delle bolle (figure 32 e 33). Il prurito è molto marcato. Le lesioni insorgono simmetricamente più spesso sulle regioni flessorie degli arti, sulla superficie anteromediale delle cosce e sull’addome. La mucosa orale è colpita nel 10-20% dei casi. Il se-

Fig. 32 Pemfigoide bolloso: tipiche bolle tese, a contenuto limpido, insorte su cute eritematosa. Il “tetto” delle bolle è costituito dall’intera epidermide.

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Fig. 33 Pemfigoide bolloso: lesioni orticariodi diffuse ed erosioni crostose conseguenti alla rottura delle bolle.

gno di Nikolski è negativo. La prognosi del pemfigoide bolloso è tendenzialmente riservata, sia per quanto concerne le manifestazioni cutanee (possibilità di resistenza alla terapia e di recidive), sia in termini generali (mortalità a 1 anno compresa tra il 12 e il 30%). Nel pemfigoide bolloso è ormai chiaramente dimostrato che il bersaglio degli autoanticorpi è l’emidesmosoma, che è il costituente fondamentale delle strutture che assicurano la coesione dermo-epidermica. In particolare, le molecole riconosciute a livello dell’emidesmosoma dagli autoanticorpi, che anche in questa patologia sono di classe IgG, sono denominate BP230 e BP180. Il pemfigoide cicatriziale è invece caratterizzato dalla predilezione per le mucose e dal susseguente sviluppo di cicatrici atrofiche (da qui il nome). È più raro, ma anch’esso più frequente nelle età avanzate. Ha evoluzione cronica, lentamente ingravescente. La mucosa del cavo orale è interessata nell’80-90% dei casi da un aspetto di gengivite erosiva, nella maggior parte dei casi, alla quale si possono aggiungere elementi bollosi i quali, rompendosi, lasciano erosioni che ripa-

rano con esiti cicatriziali e talora con formazione di sinechie. Può aversi inoltre un’estensione alla faringe e/o alla laringe con sintomi di disfagia, disfonia e difficoltà respiratorie. La localizzazione congiuntivale (50-70% dei casi) esordisce con una congiuntivite con marcata iperemia per poi evolvere verso una forma erosiva, con possibile comparsa di aderenze fra congiuntiva bulbare e palpebrale. Col tempo viene coinvolta la cornea, che si vascolarizza e va incontro a opacizzazione, con rischio di cecità. Quelle oculari sono sicuramente le manifestazioni potenzialmente più gravi del pemfigoide cicatriziale. Discretamente frequente (15% dei pazienti) è infine la localizzazione ai genitali esterni, che si può manifestare con una balanite o una vulvite bollosa, a volte bollosa e successivamente sinechiante. Per quanto riguarda le lesioni a carico della cute (osservate nel 23% dei casi), esse possono essere analoghe a quelle del pemfigoide bolloso, ma in genere meno numerose e localizzate; la loro evoluzione è sempre atrofico-cicatriziale. L’herpes gestationis (o pemfigoide gravidico) è una forma clinica particolare di pemfigoide bolloso che insorge durante la gestazione (dopo il primo trimestre) o dopo il parto, solitamente nel corso della prima gravidanza. Tende a regredire spontaneamente a distanza di 1 o 2 mesi dal parto. Può recidivare, generalmente con forme più gravi e più precoci, alle gravidanze successive. Non sono stati dimostrati incrementi del rischio di aborto né di mortalità perinatale. Gli autoanticorpi coinvolti in questa forma sono IgG rivolti contro l’antigene BP180, che è rappresentato anche nella placenta, ma espresso solo dopo il primo trimestre; l’autoimmunizzazione potrebbe conseguire, pertanto, alla perdita della tollerabilità nei suoi confronti.

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Fig. 34 Dermatite erpetiforme: eruzione simmetrica tipica ai gomiti.

La dermatite erpetiforme (di Dühring) viene classificata in questo gruppo di affezioni, anche se in realtà è una patologia con lesioni cutanee di tipo vescicolare più che bolloso. Nella quasi totalità dei casi si associa all’enteropatia glutine-sensibile (celiachia), seguendone il decorso. È una patologia caratterizzata da intenso prurito e da un’eruzione papulo-vescicolare simmetrica, che predilige le superfici estensorie degli arti, i gomiti (figura 34), le ginocchia e i glutei. Le bolle vere e proprie sono rare, per lo più di piccole dimensioni e disposte in raggruppamenti erpetiformi. Le manifestazioni cliniche del malassorbimento (diarrea cronica, dolori addominali, dimagramento) sono nella pratica di raro riscontro. La malattia è cronica, con rare remissioni spontanee; se non trattata, procede per riaccensioni successive. L’eziopatogenesi della dermatite erpetiforme non è del tutto chiarita. È noto che il danno tissutale è innescato da anticorpi di classe IgA che si depositano nel derma; è probabile che IgA anti-gliadina e anti-transglutaminasi tissutale, prodotti a livello enterico, riconoscano a livello della giunzione dermo-epidermica degli antigeni simili (transglutaminasi epidermica, reticolina) e pertanto si localizzino a questo livello. La dermatosi a IgA lineari è, tra le malattie bollose autoimmuni

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sottoepidermiche, la più frequente nell’infanzia. Il deposito di immunoglobuline a livello della giunzione dermo-epidermica è lineare (da qui il nome), mentre nella dermatite erpetiforme il deposito è granulare all’apice delle papille dermiche, come vedremo in seguito nei reperti di laboratorio, a proposito dell’immunofluorescenza diretta. Nel bambino soprattutto l’aspetto clinico è molto stereotipato, con lesioni per lo più a carattere vescicolare disposte a coccarda o in piccoli raggruppamenti erpetiformi, senza particolare predilezione di sede. Nell’adulto, oltre a questa presentazione tipica, l’eruzione cutanea può essere più polimorfa, con bolle di dimensioni variabili, a volte disposte in raggruppamenti erpetiformi che possono insorgere su cute sia indenne sia eritematosa. Il prurito non è costante e l’interessamento mucoso, se presente, è solitamente grave, con manifestazioni che ricordano il pemfigoide cicatriziale. L’Epidermolisi Bollosa Acquisita (EBA), infine, è un’affezione molto rara, caratterizzata dalla sintesi di autoanticorpi (IgG) diretti contro il collagene di tipo VII, che è un componente delle fibrille di ancoraggio del derma superficiale: il clivaggio in questa patologia è pertanto molto profondo. L’EBA è una malattia che interessa soprattutto l’adulto, sebbene siano stati descritti casi pediatrici. La presentazione tipica dell’EBA è la forma definita cronica acrale, che si manifesta con lesioni bollose insorgenti su cute indenne, soprattutto nelle aree del corpo sottoposte a sfregamento, come il dorso delle mani (figura 35), i gomiti, le ginocchia e i calcagni. Tali bolle possono essere indotte anche da traumatismi minimi e risolvono lasciando cicatrici atrofiche. Frequentemente si associano distrofie ungueali e interessamento delle mucose. L’EBA si

Fig. 35 Fig. 35a - Dermatosi ad IgA lineari: lesioni “a coccarda” del dorso. Fig. 35b - Epidermolisi bollosa acquisita: forma acrale cronica.

associa nel 70% dei casi al morbo di Crohn. Reperti di laboratorio La diagnosi delle malattie bollose autoimmuni si avvale di accertamenti peculiari che devono essere effettuati in laboratori specializzati. In primo luogo, è utile eseguire l’esame citologico del materiale raccolto per raschiamento dal fondo di un’erosione e dal tetto di una bolla (citodiagnostico di Tzanck). Questo esame può servire come elemento orientativo prima della biopsia e fornisce informazioni importanti in tempi molto brevi. Nelle patologie del gruppo del pemfigo sono visibili le cosiddette cellule acantolitiche, cioè cellule arrotondate con nucleo grande e citoplasma condensato alla periferia, che derivano dai cheratinociti che hanno perso la loro coesione con le altre cellule epidermiche per lisi primitiva dei desmosomi (fenomeno che è stato descritto in precedenza). Nelle altre patologie bollose autoimmuni si rilevano principalmente cellule infiammatorie, in particolare gli eosinofili nel pemfigoide e i neutrofili nella dermatite erpetiforme. L’esame istologico effettuato su prelievo bioptico proveniente da una lesione bollosa permette di distinguere tra i differenti livelli del clivaggio ed è sempre necessario per una diagnosi differenziale definitiva tra le varie patologie bollose.

L’esame all’immunofluorescenza diretta (IFD) di un frammento bioptico escisso da cute peribollosa e congelato in azoto liquido riveste un’importanza fondamentale nella diagnosi di queste malattie che, come abbiamo visto, sono tutte caratterizzate dalla presenza di depositi di immunoglobuline (e anche di frazioni del complemento) a livello delle diverse strutture cutanee. Gli anticorpi vengono coniugati con fluoresceina e quindi cimentati con il pezzo bioptico, che viene poi analizzato al microscopio ottico a luce ultravioletta. Gli autoanticorpi marcati si depositano a livello della specifica struttura cutanea contro la quale sono diretti, andando a delineare dei pattern caratteristici per ciascuna affezione bollosa. Nelle patologie del gruppo del pemfigo si rinvengono depositi di immunoglobuline (soprattutto IgG, o IgA nel pemfigo a IgA) alla superficie dei cheratinociti, configurando il tipico aspetto “a maglie di rete” (figura 36). Nelle forme superficiali, lo stesso aspetto è riscontrabile prevalentemente negli strati alti dell’epidermide, mentre nel pemfigo paraneoplastico si associano anche depositi lineari o granulosi, discontinui, di IgG e frazione 3 del complemento (C3) lungo la giunzione dermo-epidermica. Nella dermatite erpetiforme possiamo osservare, come già anticipato, depositi granulari di IgA all’apice delle papille dermiche (figura 37). La dermatosi a IgA lineari deve in-

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Fig. 36 IFD nel pemfigo volgare: le IgG marcate si depositano lungo la superficie dei cheratinociti (aspetto “a maglie di rete”).

Fig. 37 IFD nella dermatite erpetiforme: le frecce indicano i depositi granulari di IgA all’apice delle papille dermiche.

vece il nome proprio al suo aspetto immunopatologico, caratterizzato da un deposito lineare e continuo di IgA lungo la giunzione dermoepidermica. Infine, la diagnosi differenziale mediante IFD tra pemfigoide bolloso ed EBA, entrambi caratterizzati da depositi lineari di IgG lungo la giunzione, è possibile attraverso alcuni particolari accorgimenti nell’esecuzione della tecnica. L’immunofluorescenza indiretta è concettualmente simile al test precedente, ma tecnicamente è l’opposto dell’IFD. In questo caso è il siero del paziente a essere saggiato con un substrato (solitamente un tessuto eterologo) che esprima tutti i possibili (auto-)antigeni bersaglio. Pertanto gli autoanticorpi eventualmente presenti nel siero si fissano ai loro bersagli (le proteine cutanee) presenti nel substrato. Rispetto all’IFD, che è solo qualitativa, l’immunofluorescenza indiretta è anche quantitativa perché, attraver-

so diluizioni progressive del siero da saggiare, consente di definire il titolo degli anticorpi circolanti. Oltre a rappresentare una conferma dei risultati ottenuti con l’esame diretto, questa tecnica permette quindi di monitorare l’andamento clinico della patologia e la risposta al trattamento attraverso la fluttuazione del titolo stesso. Le tecniche di immunostampa (Western blot, ELISA, etc.) sono invece impiegate per determinare la specificità degli autoanticorpi circolanti nei confronti degli antigeni cutanei in esame (desmogleina 1 e 3 nel pemfigo volgare, BP180 e BP230 nel pemfigoide bolloso, etc.). Queste tecniche sono molto sensibili e specifiche, e superiori all’immunofluorescenza indiretta sia per la diagnosi sia per il followup delle varie affezioni. Nella dermatite erpetiforme, la ricerca di anticorpi circolanti anti-membrana basale epidermica risulta costantemente negativa tanto all’immunofluorescenza indiretta quanto con il Western blot. La presenza di enteropatia associata, che risulta asintomatica nel 95% dei casi, è confermata dall’esame istologico sulla mucosa intestinale, ma può essere spesso messa in evidenza con la ricerca nel siero del paziente di anticorpi anti-transglutaminasi, anti-endomisio e antigliadina.

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Le indagini ematochimiche standard non presentano alterazioni utili alla diagnosi o al follow-up delle patologie bollose autoimmuni; solo nel pemfigoide bolloso si può frequentemente riscontrare un’ipereosinofilia anche marcata, talvolta associata a un innalzamento delle IgE sieriche. La clinica, l’esame istologico e l’impiego mirato delle tecniche immunopatologiche rendono possibile la diagnosi differenziale tra le diverse forme. Impiego di ciclosporina Prima dell’avvento dei corticosteroidi, il pemfigo volgare era quasi inevitabilmente mortale; il pemfigo foliaceo, invece, aveva esito infausto nel 60% dei casi. La terapia steroidea rappresenta tuttora il trattamento di scelta per queste forme. La ciclosporina è indicata nelle forme resistenti o per ridurre l’impiego di corticosteroidi. Nel pemfigo paraneoplastico la ciclosporina è invece proposta da alcuni Autori come trattamento di scelta da preferire, cioè, in prima istanza agli steroidi. La figura 38 presenta un caso di pemfigo erpetiforme resistente alla terapia steroidea, trattato efficacemente con ciclosporina al dosaggio di 4 mg/kg/die; i primi risultati sono riscontrabili già dopo 2 settimane.

Fig. 38 Pemfigo erpetiforme (a sinistra): l’immagine di destra mostra la stessa paziente dopo solo 2 settimane di terapia con ciclosporina al dosaggio di 4 mg/kg/die.

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Per quanto riguarda le patologie bollose sottoepidermiche, la ciclosporina svolge un ruolo secondario rispetto agli steroidi o, per alcune forme, al dapsone, a esclusione dell’epidermolisi bol-

losa acquisita. L’EBA è generalmente molto complessa da trattare, poiché i pazienti sono spesso refrattari a tutti i trattamenti proposti (corticosteroidi, azatioprina, colchicina, metotressato e

ciclofosfamide). La ciclosporina, al contrario, ha dimostrato una buona efficacia, portando a un rapido controllo delle manifestazioni cutanee e mucose al dosaggio di 4-6 mg/kg/die.

Orticaria autoimmune

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e dermatiti del gruppo dell’orticaria (dal latino urtica, che significa ortica) sono patologie di frequente riscontro, accomunate sul piano clinico da una tipica manifestazione eruttiva cutanea caratterizzata dal “pomfo”, lesione elementare che corrisponde a edema dermico circoscritto. L’orticaria è il risultato di meccanismi complessi, al centro dei quali intervengono i mastociti e l’istamina. Il primo passo dal punto di vista patogenetico è infatti la degranulazione dei mastociti e la conseguente liberazione da parte di queste cellule dei cosiddetti mediatori, tra cui appunto l’istamina. I meccanismi attivanti la degranulazione mastocitaria vengono distinti in immunologici (ipersensibilità reaginica, IgG anti-recettore ad alta affinità per le IgE, immunocomplessi e attivazione del complemento, citochine) e non immunologici (farmacologico, attivazione del complemento, difettosa regolazione dei mediatori, fenomeni locali). Una volta liberati, i mediatori, soprattutto l’istamina, determinano l’insorgenza e l’evoluzione delle lesioni orticariose attraverso modificazioni vascolari (vasodilatazione) e infiltrazione locale di diversi tipi di cellule infiammatorie (linfociti, polimorfonucleati neutrofili ed eosinofili). Sulla base dei vari meccanismi implicati nella degranulazione mastocitaria, l’orticaria può quindi presentare numerose cause, che in alcuni casi sono banali e facilmente riscontrabili, mentre

altre volte risultano poco accessibili agli accertamenti diagnostici. Una volta che sono state scartate tutte le possibili cause note, l’orticaria viene definita idiopatica, che in realtà è un termine che testimonia l’insufficienza delle nostre conoscenze. Per esempio, l’evidenziazione nel siero di pazienti affetti da orticaria cronica di autoanticorpi IgG diretti contro il recettore ad alta affinità per le IgE (FcεRI) o contro le IgE fissate sulla superficie dei mastociti (vedere sopra nei meccanismi attivanti la degranulazione) ha permesso di definire autoimmuni circa la metà delle orticarie prima classificate come idiopatiche. L’orticaria autoimmune è una forma di orticaria cronica che può essere, nelle sue forme più gravi, estremamente invalidante per il paziente e inoltre risulta spesso resistente ai trattamenti. Aspetti clinici L’orticaria autoimmune si manifesta con eruzioni pomfoidi non distinguibili dalle altre forme tipiche di orticaria cronica. Per definizione, tali eruzioni sono monomorfe, fugaci, migranti e pruriginose. L’eruzione viene definita monomorfa in quanto costituita esclusivamente da pomfi che confluiscono a formare lesioni più estese ma ben delimitate, dai contorni arrotondati e policiclici. Variabili nelle dimensioni (da alcuni millimetri a 10, 20 o anche più centimetri) e di numero, queste lesioni assumono un colorito roseo, più mar-

cato alla periferia che al centro (figura 39). La palpazione consente di apprezzare una superficie liscia e una consistenza elastica, legata all’importante componente edematosa. Ciascun elemento compare improvvisamente e persiste per alcuni minuti o per qualche ora prima di scomparire senza lasciare traccia: l’eruzione è pertanto definita fugace (N.B.: la cronicità della manifestazione si riferisce esclusivamente al decorso dell’affezione e non all’evoluzione dei pomfi). Mentre su una zona del tegumento le lesioni risolvono, ne compaiono altre in altri distretti: tale comportamento clinico viene definito migrante. I pomfi sono sempre accompagnati da intenso prurito. È possibile, così come in altre forme di orticaria, la presenza di angioedema, cioè la diffusione dell’edema nell’ipoderma, più frequentemente nei distretti caratterizzati da lassità del tessuto

Fig. 39 Eruzione orticariosa: lesioni pomfoidi classiche.

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sottocutaneo (palpebre, labbra, genitali esterni, mucose), ma anche in altre sedi. Questa orticaria profonda è caratterizzata da tumefazione consistente alla palpazione e colorito pallido, può essere estesa e persistente e si accompagna a sensazione di tensione più che a prurito. L’insorgenza di angioedema all’estremità cefalica deve far temere un coinvolgimento faringolaringeo potenzialmente letale se non trattato tempestivamente. Reperti di laboratorio Dopo aver posto diagnosi di orticaria cronica (è fissato arbitrariamente a 6 mesi il limite temporale che separa le forme acute da quelle croniche), è importante ricercare il fattore causale, essendo però consapevoli del fatto che la maggior parte dei casi di orticaria cronica rimane “idiopatica”. Non esiste un consenso riguardante gli accertamenti da eseguire in tal senso; è opportuno pertanto effettuare

scelte adeguate ai singoli casi e aggiungere opportunamente di volta in volta ulteriori accertamenti in funzione delle circostanze. Così, se esistono argomenti in favore di un’orticaria da cause sistemiche, sono raccomandate una biopsia cutanea per esame istologico e una per immunofluorescenza, come anche valutazioni più generali (emocromo con formula, funzionalità epatica e renale, marker dell’epatite, marker neoplastici, ANA, anticorpi anti-tiroidei, RX torace, etc.). Se l’anamnesi o le manifestazioni associate suggeriscono un’orticaria da causa allergica o fisica (orticaria da pressione, solare, acqua genica, etc.) sono rispettivamente indicate una valutazione allergologica e i test di provocazione. Test rapido e affidabile per l’orticaria autoimmune è quello eseguito tramite iniezione intradermica di siero autologo del paziente (test intradermico con siero autologo). Il procedimento

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è semplice: si esegue un prelievo ematico in una provetta e si attende che la parte liquida (siero) si separi da quella corpus colata, quindi si procede con l’iniezione intradermica di 0,1 cc di siero non diluito del paziente. Dopo 30 minuti si effettua la lettura della reazione. Se il test è positivo, è possibile porre diagnosi di orticaria autoimmune con una sensibilità che va dal 65 al 71% e con una specificità che va dal 78 all’81%, a seconda dei diversi Autori. L’entità della risposta correla con la gravità della malattia. Impiego di ciclosporina La ciclosporina rappresenta una valida alternativa terapeutica nei casi di orticaria autoimmune refrattaria alla terapia con antistaminici. Il dosaggio iniziale consigliato è di 4-5 mg/kg/die e la terapia deve essere protratta per almeno 6 mesi. La risposta clinica è attesa entro 4 settimane dall’inizio del trattamento.

Pioderma gangrenoso

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l pioderma gangrenoso è una patologia rara che viene classificata, insieme a diverse altre condizioni morbose (tra cui la sindrome di Sweet, che verrà trattata successivamente), tra le dermatosi neutrofile, così definite in quanto accomunate dall’infiltrazione cutanea quasi esclusiva da parte di polimorfonucleati neutrofili, in assenza di agenti infettivi. Le dermatosi neutrofile sono spesso associate a una malattia sistemica, specialmente emopatie e malattie infiammatorie intestinali, oppure si accompagnano a lesioni neutrofile a localizzazione viscerale (ascessi asettici degli organi profondi); pertanto, vengono oggi considerate come manifestazioni cutanee di una cosiddetta “malattia neutrofila”,

il che impone un’attenta ricerca del possibile coinvolgimento sistemico. Il livello della localizzazione dell’infiltrato nel contesto della cute e l’intensità delle distruzioni tissutali ad opera delle diverse sostanze liberate dai neutrofili determinano la presentazione clinica delle varie dermatosi neutrofile, che potranno manifestarsi come pustolosi superficiali, scollamenti vescico-bollosi dermoepidermici, edemi subepidermici massivi e conseguenti placche infiammatorie (come nella sindrome di Sweet) oppure, infine, come una necrosi tissutale che distrugge l’epidermide e il derma superficiale, come avviene nel pioderma gangrenoso. Il pioderma gangrenoso rappresenta pertanto la forma ulcerati-

va delle malattie neutrofile, in quanto è caratterizzata da una o più ulcerazioni croniche della cute; si associa molto spesso a una patologia interna e a volte può rivelare la malattia sottostante. Aspetti clinici Ciascuna lesione all’esordio solitamente si presenta come un nodulo doloroso, che successivamente si ulcera al centro, o come una pustola di grosse dimensioni, che evolve sempre in senso ulcerativo. L’ulcerazione che progredisce per estensione centrifuga è superficiale, a contorni circolari nettamente delimitati da un orletto che sembra tracciato con il compasso e margini sottominati. Mancano le linfoadenomegalie e la linfangite. Il dolore è variabile, talvolta molto

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intenso; le mucose sono raramente interessate. Le lesioni possono insorgere in sede di trauma (patergia). Le lesioni risolvono lentamente, in diversi mesi o anni, con esiti cicatriziali (cicatrice “cribriforme”, che consente la diagnosi retrospettiva). Il quadro clinico del pioderma gangrenoso è piuttosto variabile in relazione alla sede, all’estensione, alla profondità e all’evoluzione delle lesioni. Esiste una forma ulcerativa caratterizzata in genere da un unico elemento di grandi dimensioni (fino a 10-20 cm), che spesso risulta associata a una patologia infiammatoria cronica dell’intestino (morbo di Crohn o rettocolite ulcerosa). La cosiddetta forma pustolosa invece è costituita da un’eruzione pustolosa con lesioni multiple, con aspetti simili alle pustolosi neutrofile subcornee accennate in precedenza, ma connotata da maggior aggressività ed evoluzione ulcerativa (figura 40), per la componente vasculitica; anche questa forma risulta più spesso associata a malattie intestinali. Si distingue poi una forma più profonda nodulare, una forma bollosa ed emorragica, cui si può associare un’emopatia (leucemia) e una forma granulomatosa superficiale localizzata (a volte definita “vegetante”), caratterizzata da ulcerazione superficiale a margini non sottominati, non dolorosa e scarsamente evolutiva. Tutte le regioni corporee possono essere colpite, ma esiste una predilezio-

Fig. 40 Pioderma gangrenoso, forma pustolosa: le pustole rompendosi esitano in ulcerazioni emorragiche; localizzazione al malleolo interno in un paziente affetto da morbo di Crohn.

ne per gli arti inferiori; le mucose sono generalmente risparmiate, ma un loro coinvolgimento è possibile e a volte massivo. In più della metà dei casi il quadro clinico è complicato dall’associazione di una patologia interna, senza una relazione patogenetica apparente. Il pioderma a volte rivela la malattia sottostante, in altri casi costituisce un evento intercorrente nel decorso di una patologia già nota, della quale può seguire il decorso. Il controllo della malattia associata non sempre porta alla guarigione delle manifestazioni cutanee. Le associazioni più comuni sono rappresentate da patologie gastroenteriche (colite ulcerosa e morbo di Crohn), artrite reumatoide e artriti sieronegative, gammopatie (in particolare gammopatia monoclonale a IgA) e leucemie, soprattutto mieloide acuta o cronica; più raramente tumori solidi, diabete ed epatiti croniche. Sono state descritte associazioni poco comuni o rare con svariate altre patologie. Reperti di laboratorio La diagnosi di pioderma gangrenoso è essenzialmente clinica e si basa sulla presenza di lesioni ulcerative sterili (almeno all’esordio, perché poi sono possibili sovrainfezioni) con i tipici bordi sottominati, sull’esclusione di altre patologie ulcerative (infezioni, ulcere trofiche, vasculiti, etc.), sull’evidenziazione all’esame istologico di un infiltrato dermico ricco di neutrofili con segni di vasculite e sull’eventuale presenza di una patologia interna associata. La risposta clinica delle lesioni a un trattamento sistemico immunosoppressivo rappresenta un’importante conferma della diagnosi. Non esistono alterazioni specifiche degli esami di laboratorio. Sono sempre presenti un aumento della velocità di eritrosedimentazione (VES) e del numero dei leucociti circolanti.

Impiego di ciclosporina Nei pazienti con una sottostante patologia interna, il trattamento deve focalizzarsi non solo sulle manifestazioni cutanee, ma anche e soprattutto sul disordine sistemico anche se, come già anticipato, non sempre alla risoluzione di quest’ultimo consegue la guarigione del pioderma gangrenoso. Le terapie locali delle ulcere sono poco efficaci, a esclusione dell’impiego degli inibitori topici della calcineurina. Sebbene i corticosteroidi sistemici rappresentino il trattamento di scelta, la ciclosporina risulta molto efficace nel trattamento del pioderma gangrenoso, anche nei casi più gravi e/o non rispondenti alla corticoterapia. Miglioramenti significativi sono visibili già entro poche settimane (figura 41) di trattamento al dosaggio 4-6 mg/kg/die, con una remissione della malattia prevista in 1-3 mesi. Alcuni casi richiedono una terapia di mantenimento a basso dosaggio. Molto efficace è anche l’associazione di ciclosporina a 3 mg/kg/die con cortisonici sistemici. Recentemente è stato anche descritto il caso di una forma acuta e progressiva di pioderma gangrenoso refrattario alla terapia steroidea, trattato con successo tramite infusione endovenosa di ciclo-

Fig. 41 Pioderma gangrenoso: l’immagine raffigura lo stesso paziente di figura 40 dopo solo 15 giorni di terapia con ciclosporina al dosaggio di 4 mg/kg/die.

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sporina al dosaggio di 3 mg/kg/die per 7 giorni consecutivi. Una prospettiva interessante è rappresentata dalle terapie con

anticorpi anti-TNFα; attualmente impiegati con successo nel trattamento della colite ulcerosa e del morbo di Crohn, questi agen-

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ti si sono dimostrati efficaci anche nel pioderma gangrenoso.

Pitiriasi lichenoide cronica

L

a pitiriasi lichenoide è una malattia a eziologia ignota caratterizzata dall’insorgenza di una particolare manifestazione cutanea di tipo papuloso. Tale manifestazione può essere cronicamente presente e si parla allora di Pitiriasi Lichenoide Cronica (PLC), può insorgere acutamente (Pitiriasi Lichenoide e Varioliforme Acuta - PLEVA), oppure può decorrere in forma iperacuta (PLEVA ulceronecrotica). Esistono forme intermedie di questi differenti aspetti della medesima malattia e lesioni caratteristiche delle diverse forme possono coesistere nello stesso paziente. L’eziologia è ignota. Diversi Autori hanno sottolineato la possibile associazione con alcuni agenti infettivi (infezioni virali o batteriche delle alte vie respiratorie, mononucleosi da EBV, toxoplasmosi e infezione da HIV), ipotizzando il coinvolgimento di una reazione immunologica e/o da ipersensibilità all’agente infettivo stesso nel determinismo delle lesioni cutanee, che sono il risultato di una vasculite linfocitaria superficiale. La PLC è sicuramente la forma più frequente; è caratteristica del giovane adulto, con una certa predilezione per il sesso maschile. Aspetti clinici La lesione fondamentale della pitiriasi lichenoide cronica è una papula asintomatica di consistenza relativamente dura, di colore rosso-brunastro, del diametro da 2 a 10 mm e superficie liscia che, evolvendosi, tende ad allargarsi e ad appiattirsi, e

viene ricoperta da una squama aderente al centro e distaccata ai margini, che può essere rimossa in blocco con un colpo di curette. Ogni singola lesione risolve in 4-6 settimane, talvolta lasciando un esito ipocromico, soprattutto nei pazienti di pelle scura (figure 42 e 43); le lesioni possono confluire in elementi di maggiori dimensioni. L’eruzione delle papule procede per gettate subentranti e pertanto, nello stesso soggetto, coesistono lesioni a vari stadi evolutivi. Il decorso è cronico e recidivante. Le sedi del corpo maggiormente interessate sono il tronco e le regioni prossimali degli arti, in modo simmetrico, generalmente con risparmio delle regioni palmo-plantari e del volto; occasio-

nali le localizzazioni mucose e al cuoio capelluto. Non vi è compromissione delle condizioni generali. La dermatosi insorge spesso durante il decorso di un’influenza o di una malattia batterica febbrile. La PLEVA (o malattia di MuchaHabermann) esordisce in modo improvviso ed è caratterizzata da papule edematose, a volte con aspetto emorragico, che evolvono in piccole lesioni ulcerative e quindi crostose, e risolvono con cicatrici varioliformi. Dopo uno o più accessi la malattia tende alla risoluzione, ma è possibile la transizione alla forma cronica. La PLEVA ulcero-necrotica è una forma iperacuta, rara, che colpisce soprattutto i bambini e rappresenta una variante grave della precedente, con compromissione dello stato generale. Reperti di laboratorio La diagnosi di pitiriasi lichenoide in tutte le sue forme è clini-

Fig. 42 Pitiriasi lichenoide cronica: lesioni papulose in vari stadi evolutivi ed esiti ipopigmentari in una paziente somala; localizzazione tipica alla radice degli arti inferiori [Clinica Dermatologica della Fondazione I.R.C.C.S. Policlinico San Matteo – Università di Pavia].

Fig. 43 Pitiriasi lichenoide cronica in paziente caucasico: papule rossobrunastre in diverso stadio evolutivo.

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ca. Il quadro istologico è caratteristico e simile in tutte le forme, anche se nelle varianti acute le compromissioni sono maggiori; permette la conferma diagnostica. Nella forma iperacuta il laboratorio mostra aumento aspecifico degli indici di flogosi. È utile la ricerca dell’eventuale focolaio infettivo.

Impiego di ciclosporina In primo luogo bisogna ricercare ed eliminare i possibili fattori scatenanti. Le possibilità terapeutiche sono molteplici: fototerapia UVB-nb o UVA-1 (se disponibile, fotochemioterapia [PUVA-terapia]), cortisonici topici, tetracicline o eritromicina, metotressato, ciclosporina e retinoidi.

La ciclosporina e gli altri trattamenti sistemici sono riservati alle forme più gravi o estese. Nella PLC l’impiego di ciclosporina a dosaggi bassi (3 mg/kg/die) porta a una riduzione graduale delle manifestazioni e accorcia il decorso della malattia, che senza trattamento può protrarsi anche per 1 o 2 anni; il miglioramento è atteso dopo 3 settimane dall’inizio della terapia.

delle tubercolosi) o un corpo estraneo. Non è ancora stato identificato però l’antigene che causa la formazione dei granulomi sarcoidei. Nelle forme attive di malattia si può osservare un aumento dei linfociti T CD4+ attivati negli organi colpiti, con aumentata produzione di IL-2. In contrasto si osserva un deficit di linfociti T circolanti; questo è spiegabile con il sequestro di queste cellule (insieme ai macrofagi) nei siti di infiammazione, dove vanno a costituire il granuloma sarcoideo.

ma appaiono giallastri alla vitropressione; interessano prevalentemente il viso, le spalle, il torace e gli arti superiori e possono assumere disposizione anulare (figura 44) o serpiginosa.

Sarcoidosi

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a sarcoidosi è una patologia sistemica nella quale le lesioni cutanee sono presenti nel 1040% dei casi; a volte costituiscono l’unica manifestazione della malattia. Nelle forme con coinvolgimento interno, le manifestazioni dermatologiche possono essere molto importanti per la diagnosi. È universalmente diffusa, ma è più frequente in alcune parti del mondo (paesi nordici, razza negroide, Antille); colpisce più spesso la donna con un picco di frequenza tra i 40 e i 50 anni. Sono possibili anche se rare le forme familiari, soprattutto nella razza nera. Le forme a insorgenza giovanile sono più gravi, sebbene fortunatamente poco frequenti. Istologicamente si può osservare che tutte le lesioni cutanee e viscerali della sarcoidosi sono costituite da piccoli noduli di cellule epitelioidi circondati da una fitta corona di linfociti e macrofagi; questa struttura prende il nome di “granuloma”. Il granuloma è una lesione proliferativa che si forma in risposta a un’infiammazione cronica di tipo infettivo, come per esempio nella tubercolosi, o non infettivo, come i granulomi da corpo estraneo. Solitamente l’agente che ha causato l’infiammazione cronica e quindi il granuloma si trova al centro dello stesso, sia esso un agente infettivo (micobatterio

Aspetti clinici L’interessamento cutaneo nella sarcoidosi si distingue in lesioni specifiche e aspecifiche. Le manifestazioni specifiche sono di tipo nodulare o in placca, di consistenza dura, a superficie liscia o moderatamente desquamante, di colorito dal giallo ocra al rosso-bruno, al violaceo, non pruriginose. Esistono anche forme più rare in cui la sarcoidosi si presenta con lesioni maculari desquamanti, papulo-necrotiche, ulcerative, alopeciche. Le lesioni nodulari possono essere micronodulari (1-3 mm di diametro), isolate o multiple, talvolta eruttive, oppure macronodulari (5-10 mm). In entrambi i casi i noduli sono duri e lisci, di colorito rosso-bruno o violaceo,

Fig. 44 Sarcoidosi cutanea: lesioni nodulari; a sinistra: micronoduli del viso, a destra: le lesioni disposte in forma anulare.

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Fig. 45 Sarcoidosi: lupus pernio.

Risolvono con cicatrici piane teleangectasiche. Talora possono essere presenti noduli di grosse dimensioni, solitamente in numero di 1 o 2, di forma emisferica, localizzati ai lati della piramide nasale, sulla fronte o sulle guance, disseminati di teleangectasie; questa variante prende il nome di angiolupoide (di Brocq-Pautrier). Le placche invece si localizzano prevalentemente sulle spalle, in regione glutea e sulle cosce; sono infiltrazioni diffuse, con superficie spesso disseminata da noduli e con bordi abitualmente serpiginosi. Il lupus pernio (figura 45) è una manifestazione specifica di più raro riscontro. È costituito da noduli o placche di colorito violaceo, distribuiti simmetricamente sul naso, sulle guance, sui padiglioni auricolari e, talora, anche sul dorso delle mani e delle dita.

Altre manifestazioni specifiche sono le nodosità profonde (sarcoidi ipodermici) e le forme posttraumatiche, cioè sarcoidi che si manifestano in sede di pregressi traumatismi o cicatrici chirurgiche. Possono essere presenti alterazioni ungueali. L’eritema nodoso è invece una manifestazione aspecifica di sarcoidosi. Può rappresentare l’esordio della malattia e, in questo caso, generalmente la sarcoidosi ha un’evoluzione più benigna. L’eritema nodoso è una piodermite con andamento acuto o subacuto che si manifesta con sintomi generali (febbre, dolori articolari, astenia, etc.) e con nodosità ipodermiche, più spesso localizzate agli arti inferiori. Oltre che alla sarcoidosi, può associarsi a infezioni batteriche, virali o micotiche, all’assunzione di determinati farmaci e ad altre malattie sistemiche, come per esempio la colite ulcerosa e il morbo di Crohn. La malattia può colpire qualsiasi organo o apparato, ma più spesso i polmoni (adenopatie ilari bilaterali e alterazioni parenchimali), il fegato (epatomegalia), la milza (splenomegalia), i linfonodi, gli occhi (cheratocongiuntivite, uveite posteriore e iridociclite), le ghiandole salivari (ipertrofia) e le ossa delle mani e dei piedi.

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malattia, ma può dare falsi positivi nel 10% dei casi. Esiste un test, non ancora entrato nella pratica clinica, denominato di Kveim-Siltzbach, che risulta essere positivo fino al 92% dei casi di sarcoidosi. È un test cutaneo in cui tessuto splenico proveniente da un paziente con sarcoidosi viene iniettato nella cute del soggetto che si sospetta essere affetto. Questo test, insieme alla determinazione dei livelli sierici dell’ACE, dovrebbe permettere di risolvere i casi dubbi, in cui la clinica e l’istologia non sono sufficienti a porre diagnosi definitiva. Anche la radiografia del torace è un esame importante, sia per la diagnosi sia per la prognosi della malattia. A seconda degli organi e degli apparati coinvolti, si renderanno necessarie ulteriori indagini da valutare caso per caso.

Reperti di laboratorio Il 60% dei pazienti con malattia attiva presenta un innalzamento dei valori dell’enzima angiotensin-convertasi (ACE), i cui livelli correlano con l’estensione della

Impiego di ciclosporina Il trattamento di scelta per le forme di sarcoidosi con coinvolgimento viscerale è la corticoterapia sistemica. Sono stati proposti numerosi trattamenti generali, tra cui gli antimalarici di sintesi, il metotressato e la talidomide, con risultati molto variabili. Alcuni Autori hanno proposto anche la terapia con ciclosporina, ma anche in questo caso i risultati non sono concordi. Nella sarcoidosi tale trattamento deve essere impiegato alla dose di 5 mg/kg/die con risultati attesi almeno 3 settimane dopo l’inizio della terapia.

sa del derma superficiale da parte di polimorfonucleati neutrofili in assenza di infezione. La patogenesi è ignota. L’affezione

è spesso isolata ma può associarsi, come già detto a proposito del pioderma gangrenoso e delle altre dermatosi neutrofile,

Sindrome di Sweet

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efinita anche “dermatosi acuta febbrile neutrofila”, la sindrome di Sweet è caratterizzata da un’infiltrazione improvvi-

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a diverse condizioni patologiche interne. La sindrome di Sweet è diffusa in tutto il mondo e non ha predilezione di razza. Si riconoscono 3 varianti di questa patologia, caratterizzate da differenze epidemiologiche e di presentazione clinica: la forma classica, o idiopatica, che è la più frequente e può associarsi a infezioni delle alte vie respiratorie o del tratto gastroenterico, a malattie infiammatorie croniche intestinali o alla gravidanza; la forma paraneoplastica, che viene così definita in quanto l’esordio e/o le riaccensioni della patologia si associano alla presenza di una neoplasia; e la forma farmaco-indotta che consegue all’assunzione di determinati farmaci, in particolare con fattori di crescita emopoietici (per il trattamento delle leucemie), ma anche antibiotici, antiepilettici, antipertensivi, contraccettivi orali o retinoidi. La sindrome di Sweet idiopatica e farmaco-indotta colpiscono prevalentemente le donne tra i 30 e i 50 anni. La forma paraneoplastica invece non ha predilezione di sesso e solitamente si associa a leucemia mieloide acuta o ad altre emopatie maligne, ma anche a tumori solidi. L’eziologia della sindrome di Sweet non è nota. Aspetti clinici Le lesioni cutanee tipiche sono rappresentate da papule o noduli di colorito rosso o rosso-violaceo (figura 46) o anche da placche dermiche e ipodermiche infiltrate. Queste lesioni sono dolorose, limitate di numero o molteplici, asimmetriche all’esordio e poi simmetriche. Queste manifestazioni sono spesso accompagnate da sintomi sistemici quali febbre (fino a 40 °C), artralgie e congiuntivite. Le condizioni generali possono essere molto compromesse, tanto che a volte il paziente vie-

pigmentazione residua rivela l’ubicazione delle pregresse lesioni cutanee. Le ricadute non sono eccezionali (quasi il 50% dei pazienti); in caso di recidiva le lesioni si riproducono nelle medesime localizzazioni. Manifestazioni extracutanee possono coinvolgere le ossa, il sistema nervoso centrale, il tratto gastroenterico, la milza, il fegato e il polmone.

Fig. 46 Sindrome di Sweet: papule e noduli multipli con localizzazioni, nella stessa paziente, al tronco e alla superficie estensoria dell’arto superiore.

ne ricoverato d’urgenza in ospedale. Una fase prodromica con febbre e malessere generale può precedere l’eruzione cutanea di circa 1-3 settimane. Le sedi predilette sono il viso e la nuca, la superficie estensoria degli avambracci, il dorso delle mani e delle dita, il tronco (più raramente il dorso) (figura 46). Nelle forme farmaco-indotte e paraneoplastiche vi è anche interessamento degli arti inferiori e della mucosa orale. Può essere presente patergia con lesioni che insorgono in sede di iniezioni o di traumi recenti. In generale le manifestazioni della sindrome di Sweet associata a neoplasie sono più gravi. La fase di stato dura 4-5 settimane. La guarigione spontanea si realizza in 4-6 settimane; una

Reperti di laboratorio Le alterazioni classiche rilevabili con le indagini di laboratorio sono l’aumento della VES e la leucocitosi periferica con aumento dei neutrofili. Nelle forme paraneoplastiche vi può anche essere anemia e anormalità del numero di piastrine, mentre i neutrofili possono essere in percentuale normale o addirittura ridotta. Nelle forme con coinvolgimento renale è spesso evidenziabile proteinuria. La diagnosi si basa sulla presenza di lesioni cutanee tipiche per aspetto e sede e sull’esame istologico, che mostra un infiltrato dermico costituito soprattutto da neutrofili in assenza di vasculite. Questi dati rappresentano i 2 criteri maggiori ai quali, per una diagnosi certa, si devono aggiungere almeno 2 criteri minori tra: presenza dei prodromi descritti o di una patologia associata (malattia infiammatoria cronica intestinale, emopatia maligna, infezioni, tumori solidi) o di gravidanza, febbre maggiore di 38 °C e malessere generale, aumento degli indici di flogosi (VES o PCR) leucocitosi e neutrofilia e, infine, risposta rapida al trattamento con corticosteroidi o con ioduro di potassio. Impiego di ciclosporina Solitamente i cortisonici sistemici esercitano un effetto immediato e spettacolare. Altri farmaci attivi sono lo ioduro di potassio, la colchicina, l’indometacina e l’acitretina. Anche la ciclospo-

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rina, da sola o in associazione ai corticosteroidi, mostra una buona efficacia nel controllo delle manifestazioni della sindrome di Sweet. Il dosaggio raccomandato, se impiegata da sola, è di 4-5 mg/kg/die (figura 47).

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Qualsiasi trattamento deve essere proseguito per almeno 3‑4 settimane, quindi il dosaggio deve essere ridotto lentamente e in modo progressivo per evitare le recidive o l’effetto rebound, entrambi molto frequenti. Fig. 47 Sindrome di Sweet: l’immagine mostra la stessa paziente della figura 46 dopo 4 settimane di terapia con ciclosporina al dosaggio di 4 mg/kg/die.

Psoriasi

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alattia infiammatoria a carattere cronico-recidivante, su base genetica, condizionata dal sistema immunitario, caratterizzata da un’aumentata proliferazione epidermica che nella forma volgare, cioè la modalità espressiva più comune, porta alla formazione di chiazze eritematose tondeggianti o ovalari, a margini netti, ricoperte da squame argentee, lamellari, compatte, poco aderenti e facili a sfaldarsi. Tutte le parti del corpo possono essere interessate dalla psoriasi, esistono però delle zone in cui la malattia si localizza elettivamente, come capillizio, gomiti, ginocchia, regione lombo-sacrale (zone estensorie), e può essere associata a prurito e bruciore. Considerata fino a qualche tempo fa una patologia di esclusivo interesse dermatologico, viene giustamente interpretata oggi come una malattia a carattere sistemico per il coinvolgimento di molteplici organi e apparati con pesanti ripercussioni sulla vita sociale e di relazione. La psoriasi viene riscontrata nello 0,3-4,6% della popolazione mondiale. Risulta essere meno frequente nelle popolazioni che vivono nelle aree tropicali e subtropicali rispetto a quelle che risiedono alle latitudini più temperate. La razza bianca appare più colpita, mentre lo sono meno quella orientale e in particolare la razza nera. Dai pochi dati epi-

demiologici italiani pare che circa il 2,7% della popolazione adulta sia colpito dalla psoriasi e di questi circa il 10% sia colpito da una forma grave con un impatto significativo sulla qualità della vita dei pazienti. La storia naturale della malattia prevede possibili peggioramenti nei mesi invernali e in seguito a stress psicologici, mentre i mesi estivi con l’esposizione al sole possono indurre anche miglioramenti clinici consistenti. Alla comparsa della psoriasi concorrono infatti una predisposizione genetica e l’influenza di fattori ambientali, quali il fumo di sigaretta, l’assunzione di alcuni farmaci specifici, il consumo di alcol, gli agenti infettivi, etc. I traumi possono indurre la comparsa delle lesioni (isomorfismo reattivo o fenomeno di Koebner). La patogenesi è immunomediata con coinvolgimento del sistema immunitario innato (cellule presentanti l’antigene: Plasmocitoid Dendritic Cells, neutrofili, monociti) e adattativo (attivazione linfociti T-memoria e secrezione di citochine e monochine di tipo Th1, Th17, Th22, IL 12, IL23, TNFα, IFNγ, con attivazione di altri stipiti cellulari e altre citochine a formare un network cellulare-molecolare molto complesso) in cui fattori genetici di suscettibilità interagiscono con fattori ambientali scatenanti che portano a un’iperproliferazione ed errata

differenziazione dei cheratinociti. Dal punto di vista genetico, la psoriasi deve essere considerata un modello poligenico con una modalità di trasmissione ereditaria complessa. I loci associati con la malattia sono stati definiti PSORS (PSORiasis Susceptibility), si trovano sul braccio corto del cromosoma 6 (p21), contengono geni HLA-B e HLA-C (Cw6) e alcuni codificano per proteine espresse a livello dell’epidermide (come la corneodesmosina). Una recente scoperta, alla quale hanno contribuito genetisti italiani, ha permesso di individuare nel cromosoma 1 l’assenza dei geni LCE3B e LCE3C, ai quali è attribuita l’importante funzione di protezione da aggressioni esterne da parte di batteri, virus, stress chimici e fisici, con ripristino delle funzioni di difesa della cute. Tale scoperta deve essere considerata una conferma che la malattia sia geneticamente trasmessa e che i “traumi” svolgano un ruolo importante nell’insorgenza delle lesioni (isomorfismo reattivo) (figura 48). Aspetti clinici Psoriasi volgare Come già accennato in precedenza, rappresenta la forma di psoriasi più comune (80% dei casi). È caratterizzata da chiazze o placche eritematose con tonalità variabile dal roseo al

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Fig. 48 Lesione psoriasica su cicatrice da parto cesareo: fenomeno di Koebner.

Fig. 49 Psoriasi volgare: lesione tipica.

rosso intenso, a margini arrotondati netti, sovente riconoscibile alla periferia, ricoperte da squame di colorito biancastro madreperlaceo, tipicamente pluristratificate, di dimensioni e spessore ineguali: piccole e fini di tipo pitiriasico più frequentemente lamellari o rupioidi (figura 49). Il numero e le dimensioni delle lesioni è estremamente variabile e in casi estremi può coinvolgere tutto il tegumento (PsO eritrodermica). Le lesioni possono presentarsi in ogni regione della superficie corporea, ma tipicamente si riscontrano sulle superfici estensorie, spesso in maniera simmetrica. La malattia però comprende diverse forme alle quali corrispondono altrettante diverse manifestazioni. Psoriasi del cuoio capelluto Il cuoio capelluto è frequentemente coinvolto nei pazienti affetti da psoriasi volgare e può rappresentare l’unica sede colpita. Le lesioni eritematose, arrotondate a margini netti, sono ri-

Fig. 50 Psoriasi del cuoio capelluto.

coperte da squame bianco-argentee ma possono confluire a formare una vera e propria calotta che riveste tutto il capillizio spesso associate a lesioni squamo-crostose da grattamento (figura 50). A volte le lesioni si possono presentare come una corona eritematosa in sede frontotemporale e retroauricolare con diffusa desquamazione pitiriasica secca simil-furfuracea, tanto da rendere difficile la diagnostica differenziale dagli stati seborroici semplici del cuoio capelluto. Psoriasi del volto Il coinvolgimento del volto è considerato un indice di malattia estesa-grave. Caratteristico il coinvolgimento delle palpebre con piccole chiazze ricoperte da fine desquamazione; raramente si possono osservare piccole lesioni guttate isolate specie in corso di psoriasi eruttive. Manifestazioni esclusivamente localizzate nelle aree seborroiche (solchi naso-genieni, gabella, sopracciglia, conca del padiglione auricolare e regione retroauricolare), a volte accompagnate da interessamento presternale e mediodorsale (seboriasi), sono considerate come forme legate all’irritazione da parte di lieviti (Malassezie: specie globosa e restricta) in pazienti con evidente seborrea (fenomeno di Koebner). Psoriasi palmo-plantare Localizzazione frequente e a volte di difficile differenziazione da altre dermatiti quali quelle da

contatto irritativo o allergico e ipercheratosi di varia natura. Le lesioni insorgono specialmente nelle aree di pressione con chiazze nettamente delimitate ricoperte da squame giallastre o con elementi lenticolari (chiodi psoriasici) circondati da alone eritematoso. A volte l’aspetto ipercheratosico è diffuso, rendendosi più evidente in sede calcaneare o nelle eminenza tenar e ipotenar fino alla cute del polso, complicandosi con fissurazioni profonde dolorose e invalidanti. Il coinvolgimento della superficie dorsale delle dita è frequente e interessa il perionichio comportando una maggiore gravità delle alterazioni ungueali. Psoriasi ungueale Il coinvolgimento delle unghie è molto frequente (40-45% dei pazienti affetti da psoriasi volgare e fino all’87% di quelli con artropatia, dove può rappresentare l’unica manifestazione cutanea). Secondo alcuni Autori, l’unghia risulta funzionalmente legata alle strutture distali ossee, tendinee e legamentose delle falangi. Il tendine estensore delle dita in particolare, continuandosi con la matrice ungueale, dopo la sua inserzione nell’osso forma un sistema integrato con i legamenti. Il coinvolgimento dell’unghia può suggerire quindi un importante link tra psoriasi e artrite, spiegando così la gravità di alcune manifestazioni articolari. Le alterazioni più frequentemente interessano la lamina, con depressioni puntiformi (unghia a ditale da cucito, nail pitting) o con striature trasversali legate alla desquamazione di cellule paracheratosiche nelle porzioni prossimali della matrice. Si possono evidenziare inoltre discromie (leuconichie e aree rotondeggianti di colorito giallo-brunastro “a goccia d’olio”), ipercheratosi subungueale con sollevamento distale dell’unghia e aree di onicolisi fino alla completa distruzione della lamina.

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Psoriasi delle mucose Di rara osservazione. Può essere colpita la mucosa linguale in sede dorsale con aree di disepitelizzazione o aree eritematose e lisce per perdita delle papille, più frequente nelle psoriasi pustolose generalizzate (lingua a carta geografica) o con profonde solcature longitudinali (lingua scrotale). Il coinvolgimento delle (pseudo)mucose colpisce frequentemente il glande e/o il solco balano-prepuziale o la vulva, con lesioni eritematose a margini netti in genere non desquamanti e non infiltrate. Psoriasi delle pieghe (o invertita) Le lesioni in questa forma colpiscono le pieghe inguinali, sottomammarie, interglutee, ombelicali e con minor frequenza i cavi ascellari, specie nei soggetti obesi a causa del maggior sfregamento delle superfici cutanee. Le chiazze appaiono francamente eritematose, lisce, poco o nulla desquamanti. Psoriasi pustolosa La psoriasi pustolosa può essere localizzata o generalizzata. La lesione elementare è una pustola di grandezza variabile da 1 a 5 mm, biancastra, amicrobica, che generalmente evolve in una crosta giallastra. Esistono due varianti di psoriasi pustolosa localizzata: la psoriasi palmo-plantare di Barber e l’acrodermatite continua di Hallopeau. La prima è caratterizzata dalla comparsa a poussées di elementi pustolosi sul palmo delle mani e sulla pianta dei piedi, circondati da un alone eritematoso, associati a intenso prurito e sintomatologia urente; la seconda inizia generalmente con pustole peri- e subungueali che in un secondo momento convergono fra loro, formando delle squame che coinvolgono interamente le unghie e le falangi distali. Nelle forme più gravi si possono verificare feno-

meni di osteolisi che portano alla mutilazione dell’ultima falange. La psoriasi pustolosa generalizzata invece è una grave variante clinica che comprende un gruppo eterogeneo di manifestazioni, la più importante delle quali è la forma acuta di von Zumbush. Essa si manifesta con la comparsa improvvisa di numerose pustole superficiali bianco-giallastre, amicrobiche, che si raggruppano in ampie raccolte di pus alla periferia delle chiazze psoriasiche con evoluzione in croste brunastre. La superficie cutanea interessata è solitamente estesa anche per più del 60%, portando spesso a una condizione di sub-eritrodermia. È comune una forte compromissione dello stato generale con febbre elevata, poliartralgie, alterazioni elettrolitiche e ipoalbuminemia. Altre più rare forme pustolose generalizzate sono l’impetigo erpetiforme (tipica del terzo trimestre di gravidanza), la psoriasi pustolosa generalizzata anulare e la psoriasi pustolosa generalizzata esantematica. Psoriasi eritrodermica Scatenata principalmente da reazioni a farmaci (litio, β-bloccanti, interferon-α, antimalarici, antinfiammatori, tetracicline e ACE-inibitori), sospensione improvvisa di terapia steroidea topica e sistemica, infezioni acute o stress emozionali molto intensi. La psoriasi eritrodermica colpisce più del 90% della superficie corporea. Clinicamente è caratterizzata da eritema generalizzato, fine desquamazione superficiale, edema diffuso, fissurazioni e grave distrofia ungueale. Vi è intensa sintomatologia associata, con prurito, senso di freddo, limitazione nei movimenti e malessere generalizzato, talvolta complicato da febbre, linfoadenopatia superficiale, perdita di peso, disidratazione e oliguria. Se l’eritrodermia

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persiste per alcuni giorni, si possono manifestare ipoalbuminemia, iposideremia, iponatriemia, con ripercussioni importanti per la termoregolazione e l’emodinamica, fino ad arrivare a uno scompenso cardiocircolatorio. Temibili complicanze sono le infezioni sistemiche da stafilococco, che possono portare a uno shock settico, e le polmoniti di origine virale o batterica. Psoriasi del bambino Raro l’esordio nel primo decennio di vita e in questi casi l’anamnesi familiare è spesso positiva. La clinica è simile a quella dell’adulto, anche se le dimensioni delle lesioni sono di solito minori e vi è una prevalenza dell’eritema rispetto alla desquamazione (figura 51). Il volto è più colpito che nell’adulto, così come le aree intertriginose, gomiti, ginocchia, unghie e cuoio capelluto. Una variante tipica ed esclusiva dei bambini al di sotto dei due anni di età è la psoriasi dell’area del pannolino, con lesioni a margini netti, eritematose e che coinvolgono le pieghe inguinali. La forma più comune nei bambini è la psoriasi guttata, spesso preceduta da un’infezione faringea da streptococco.

Fig. 51 Psoriasi del bambino: lesioni di minori dimensioni rispetto alle forme dell’adulto e predominanza della componente eritematosa su quella desquamativa.

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L’eritrodermia, la psoriasi pustolosa e l’artrite psoriasica sono rarissime nell’infanzia. Psoriasi artropatica (PsA) Può essere definita come una osteo-artro-entesopatia infiammatoria associata con la psoriasi o con una predisposizione per la psoriasi, che può coinvolgere il compartimento osteoarticolare sia assiale sia periferico. È classificata fra le spondiloartriti sieronegative e presenta una vasta eterogeneità per tipo di presentazione (sintomi comuni ad altre spondiloartriti, all’artrite reumatoide o ad altre artropatie), decorso clinico e articolazioni colpite. Fino a qualche anno fa si riteneva che la PsA fosse un’artropatia relativamente benigna, con sinovite di breve durata e scarso danno articolare residuo. Oggi è considerata una malattia invalidante, associata a una significativa progressione radiologica e a una rilevante compromissione dello stato funzionale. I pazienti, nelle forme più comuni, presentano all’esordio un coinvolgimento asimmetrico delle articolazioni interfalangee distali, entesiti a vari livelli, con possibile interessamento della colonna vertebrale e/o delle articolazioni sacroiliache. Il coinvolgimento cutaneo e articolare spesso non sono contemporanei perché più frequentemente la psoriasi precede anche di anni l’interessamento delle articolazioni. Dal punto di vista radiografico, l’artrite psoriasica si manifesta principalmente con erosioni e apposizioni ossee che interessano le articolazioni distali, associati talvolta a infiammazione ed edema del periostio. Il coinvolgimento assiale può rimanere asintomatico per anni, colpendo più frequentemente il rachide cervicale e meno quello lombare. Il processo infiammatorio si estende alle articolazioni interapofisarie e ai legamenti intervertebrali con comparsa di ponti ossei fra

una vertebra e l’altra (sindesmofiti) con marcata perdita della mobilità del rachide. Sono stati proposti diversi criteri diagnostici, quelli di Moll e Wright del 1973 sono stati per anni i più utilizzati e discussi per la classificazione di questa forma di artrite. Ultimamente la Classification criteria of psoriatic arthritis (CASPAR) ha sviluppato dei nuovi e più adeguati criteri per definire la psoriasi artropatica con una specificità del 98,7% e una sensibilità del 91,4%. La PsA è presente in circa il 30% dei pazienti affetti da psoriasi e in un elevato numero di casi è responsabile di disabilità e riduzione della qualità della vita. Reperti di laboratorio La diagnosi si basa quasi esclusivamente sugli aspetti clinici della malattia e nei casi dubbi sull’esame istologico, non essendoci indagini specifiche di laboratorio. Impiego di ciclosporina La terapia sistemica della psoriasi viene riservata alle forme più gravi con estensione a più del 10% della superficie cutanea o all’interessamento di zone particolari (“problematiche”) come il volto, le mani e i genitali. I farmaci maggiormente impiegati sono: i retinoidi (acitretina), il metotressato, la ciclosporina A e da qualche anno i farmaci biologici anti-TNFα (etanercept, infliximab, adalimumab e ultimamente il golimumab solo per la psoriasi artropatica) o anti-IL12/23 (ustekinumab). L’utilità della CsA nel trattamento della psoriasi fu scoperta casualmente nel 1979 e da allora, in oltre 30 anni, si sono raccolte numerosissime testimonianze attestanti la sua efficacia in tutte le varianti cliniche della malattia. Le indicazioni principali sono rappresentate da: psoriasi eritrodermica, psoriasi pustolosa generalizzata, artropatia psoriasica e psoriasi generalizzata persistente.

Risultano responsive anche la psoriasi pustolosa palmo-plantare, le forme localizzate al cuoio capelluto e le distrofie ungueali. Al dosaggio di 3-5 mg/kg/die è un farmaco molto attivo e rapido nell’azione. Alcuni autori preferiscono partire da dosi quotidiane di 2,5 mg/kg, aumentandole gradualmente di 0,5 mg/kg/die ogni 2 settimane in caso di mancata risposta. Più elevato è il dosaggio, più rapida è la risposta clinica. Considerati gli studi più significativi, PASI 75 viene raggiunto in oltre il 76% dei pazienti trattati con 4-5 mg/kg/die in 1-2 mesi. Comunque è consigliabile non superare la dose di 5 mg/kg/die, al di sopra della quale aumenta notevolmente il rapporto rischio/beneficio. Una volta ottenuta la remissione clinica, che al dosaggio medio di 4 mg/kg/die si osserva in media entro 1-2 mesi di terapia, si deve passare a un dosaggio di mantenimento. In seguito la dose viene ridotta progressivamente fino a raggiungere quella più bassa ancora dotata di efficacia, cercando di mantenere il grado della malattia entro livelli contenuti. La CsA può essere utilizzata anche in modo intervallato, soprattutto in casi meno gravi. In ogni caso si consigliano cicli di trattamento per un periodo non superiore ai 6 mesi, da ripetersi successivamente in caso di recidiva, utilizzando il dosaggio che in precedenza si è mostrato efficace e tollerato. PASI 75 viene raggiunto invece in circa il 50% dei pazienti dopo 8 settimane di trattamento alla dose di 3 mg/kg/die. Recentemente sono stati pubblicati i risultati incoraggianti di uno studio (denominato PREWENT) riguardante l’impiego di ciclosporina al dosaggio di mantenimento di 5 mg/kg/die per 2 giorni consecutivi alla settimana per un periodo totale di 24 settimane, allo scopo di prolungare il periodo di remissione dalla patologia in pazienti già in terapia con tale farmaco.

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I Quaderni di Psoriasis

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I Quaderni di Psoriasis

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I Quaderni di Psoriasis n. 1 La ciclosporina nelle patologie autoimmuni di interesse dermatologico Andrea Altomare Unità Operativa Dermatologia I.R.C.C.S. Istituto Ortopedico Galeazzi Università degli Studi di Milano Gianfranco Altomare Responsabile Dermatologia I.R.C.C.S. Istituto Ortopedico Galeazzi Università degli Studi di Milano

© 2011 Editoriale Fernando Folini un marchio di - an imprint of Fernando Folini Productions Il Battaglino, I-15052 Casalnoceto (AL) e-mail: edifolini@edifolini.com Indirizzo Internet: www.edifolini.com Progetto grafico copertina: Bob Noorda Progetto grafico interni: Emanuela Reggiani Grafica e impaginazione: TOTEM di Astolfi Andrea Segreteria editoriale: Maria-Chiara Panizza Redazione: Enrica Ferrari Finito di stampare nel mese di febbraio, 2011 presso Tipografia E. Canepa, Spinetta Marengo (AL) ISBN 9788872660898

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psoriasis I Q UA D E R N I D I

I Quaderni di Psoriasis n. 1 - Speciale ciclosporina

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egli ultimi venti anni la ciclosporina è stata utilizzata in tutto il mondo in numerose patologie dermatologiche, dove la sua attività immunomodulatrice o immunosoppressiva, a seconda delle dosi usate, si è rivelata utile per la gestione di forme cliniche anche gravi. Talora, anzi, ha rivoluzionato l’approccio terapeutico di forme particolarmente gravi, dove il rapporto rischio/beneficio è risultato molto favorevole. Fra la gran mole di lavori scientifici originali fin qui prodotti, mancava tuttavia un buon compendio degli usi dermatologici della ciclosporina, e dalla constatazione di questa lacuna è nato il compendio pratico sugli usi dermatologici della ciclosporina che viene qui pubblicato come Quaderno della rivista Psoriasis. La sua realizzazione è stata possibile sommando le esperienze cliniche degli Autori con una estesa metanalisi della letteratura scientifica, e il suo scopo dichiarato è fornire utili indicazioni pratiche per la gestione clinica del paziente, corredate da una sintetica bibliografia consigliata. Uno strumento di reference agile, ma senza dubbio prezioso per il clinico, quasi un prontuario da mantenere a portata di mano.

La ciclosporina nelle patologie autoimmuni di interesse dermatologico A. Altomare, G. Altomare Editoriale

Fernando Folini

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Quaderni di Psoriasis nascono nel 2011 per ospitare lavori monografici di maggiore consistenza rispetto ai lavori clinici abitualmente pubblicati nelle pagine della rivista, ma soprattutto hanno lo scopo di costruire nel tempo una serie di strumenti utili come reference e aggiornamento organico per lo specialista. Revisioni critiche di temi specifici, strumenti clinici per la diagnosi, la terapia, la gestione del paziente; approfondimenti su classi di farmaci o farmaci singoli, protocolli e linee guida. L’ambito di partenza è il medesimo della rivista Psoriasis, e come questa vede un necessario allargamento di prospettiva. Determinato dalla evoluzione delle ricerche sulla psoriasi, che hanno condotto a inquadrarla come manifestazione di una malattia sistemica che può presentarsi con psoriasi cutanea, artropatia, onicopatia, sindrome metabolica, malattie infiammatorie a carico dell’apparato digerente. I Quaderni di Psoriasis rifletteranno quindi lo stato delle conoscenze acquisite, con un approccio interdisciplinare utile a ricondurre i differenti approcci disciplinari all’unicità del paziente e della sua malattia. ISBN 9788872660898

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