FATTO&DIRITTO- Dicembre 2012

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FATTO&DIRITTO- DICEMBRE 2012 a cura della Redazione di Fatto&Diritto. Editore: Avv. Tommaso Rossi - Direttore Responsabile: Talita Frezzi Vicedirettore: Eleonora Dottori- Redazione: Clarissa Maracci- Mosé Tinti- Avv. Valentina Copparoni- Avv. Sabrina Salmeri- Dott. Giorgio Rossi- Prof. Antonio Luccarini

******* ITALIA: La Cassazione conferma la condanna a Sallusti: ha ancora senso il reato di diffamazione? ROMA, 26 SETTEMBRE ’12 – Si potrebbero aprire le porte del carcere per l’ex direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, 55 anni, per un articolo firmato con uno pseudonimo sulla prima pagina di Libero nel 2007, che gli è valso la condanna per diffamazione aggravata, 14 mesi di reclusione, confermata oggi dalla Corte di Cassazione, nonostante il Procuratore Generale avesse chiesto l’applicazione delle attenuanti generiche. Ma ad Alessandro Sallusti, secondo quanto previsto per pene inferiori a 3 anni, e da noi già pronosticato alcuni giorni fa quando si parlava di carcere, verra’ ‘automaticamente’ sospesa l’esecuzione della pena detentiva dalla Procura della Repubblica di Milano, in attesa che presenti una richiesta di misura alternativa. ”Ho appena annunciato ai miei giornalisti che stasera mi dimetto”. ha commentato Sallusti. ”Mi rifiuto di essere rieducato da qualcuno, credo che l’affidamento deve avvenire per qualcuno che spaccia droga magari anche per qualche politico che ruba”, ha detto il direttore del Giornale, spiegando di non avere intenzione di chiedere l’affidamento ai servizi sociali. ”Mi rifiuto di chiedere la grazia al presidente Napolitano, perche’ credo che in quanto capo della magistratura italiana in questi 7 anni non abbia difeso a sufficienza i cittadini dall’invadenza di una giustizia politicizzata’ L’articolo incriminato. Sallusti rischia per un caso scoppiato nel 2007, quando era direttore responsabile di Libero. L’articolo, corredato da commento firmato con uno pseudonimo, riguardava indirettamente un giudice tutelare, Giuseppe Cocilovo, tirato in ballo nella vicenda choc di una tredicenne che il Tribunale di Torino aveva autorizzato ad abortire, e che poi aveva avuto bisogno di un ricovero in una clinica psichiatrica per le conseguenze della vicenda, raccontata inizialmente dalla Stampa e ripresa poi il giorno successivo, con grandi polemiche, da alcuni quotidiani tra cui proprio Libero. L’articolo con la cronaca della triste vicenda era a firma di Andrea Monticone, mentre il commento, firmato con lo pseudonimo “Dreyfus”, è quello che ha scatenato le polemiche. Tra le righe, con esagerazione, si scriveva “se ci fosse la pena di morte e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo, il giudice”. E sebbene non vi fosse il riferimento diretto del giudice tutelare del caso o non fosse riportato il nome, Cocilovo si sentì bersagliato e sporse querela, ritenendosi diffamato. Lo pseudonimo. Lo pseudonimo “Dreyfus” è il riferimento al celebre scandalo di fine Ottocento in Francia. Da mesi quella firma compariva sotto ai commenti di prima pagina, suscitando curiosità e chiacchiere sulla vera identità dell’autore. Voci non confermate volevano che dietro a “Dreyfus” ci fosse Renato Farina, ex vicedirettore di Libero che lasciò l’Ordine dei giornalisti per i suoi documentati rapporti con i servizi segreti. Ma lo pseudonimo equivale a una non-firma, pertanto dei contenuti dell’articolo rispondeva per legge il direttore responsabile del giornale, che nel 2007 era Alessandro Sallusti (vi rimase fino al luglio 2008). La condanna. Alessandro Sallusti fu condannato in primo grado a risarcire circa 5.000 euro al magistrato bersagliato nell’articolo. Ma il giudice fece ricorso e in appello il direttore fu condannato


a 14 mesi di carcere. La condanna, per omesso controllo e diffamazione aggravata a mezzo stampa, è stata emessa dalla prima sezione della Corte d’Appello di Milano il 17 giugno scorso, ma Sallusti oggi direttore del Giornale ne sarebbe venuto a conoscenza solo alcuni giorni fa. Condannato anche il giornalista che scrisse la cronaca del fatto, Andrea Monticone: in primo grado condannato a pagare 4.000 euro di ammenda e in secondo grado, condannato a un anno di carcere, con la sospensione della pena con la condizionale. In che consiste il reato di diffamazione a mezzo stampa? Quali aggravanti? Il reato di diffamazione, perseguibile a querela di parte, punisce con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a 1032 euro chiunque offende l’onore o il decoro di altri comunicando con più persone. La pena è aggravata (reclusione fino a due anni o multa fino a euro 2.065) se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto specifico e determinato ed è ulteriormente aggravata (reclusione da 6 mesi a 3 anni o multa non inferiore a 516 euro) se la diffamazione è compiuta a mezzo stampa, media televisivi o internet. Per quanto riguarda la diffamazione a mezzo stampa, esclude il reato il c.d. “diritto di cronaca” purchè sussistano contemporaneamente tre condizioni: che la notizia data sia vera, che esista un interesse pubblico alla conoscenza di quei fatti e che siano rispettati i limiti in cui tale interesse sussiste mantenendo l’informazione entro i confini dell’obiettività. In materia di diffamazione a mezzo stampa o comunque con ogni mezzo di pubblicità, poi, l’art. 596 del nostro codice penale prevede che il colpevole dei delitti di ingiuria e diffamazione non e’ ammesso a provare, a sua discolpa, la verita’ o la notorieta’ del fatto attribuito alla persona offesa (c.d. prova liberatoria).Tuttavia, quando l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la persona offesa e l’offensore possono, d’accordo prima che sia pronunciata sentenza irrevocabile, deferire ad un giuri’ d’onore il giudizio sulla verità del fatto medesimo. Quando poi l’offesa consiste nella attribuzione di un fatto determinato, la prova della verita’ del fatto medesimo e’ sempre ammessa nel procedimento penale: 1) se la persona offesa e’ un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisce all’esercizio delle sue funzioni; 2) se per il fatto attribuito alla persona offesa e’ tuttora aperto o si inizia contro di essa un procedimento penale; 3) se il querelante domanda formalmente che il giudizio si estenda ad accertare la verità o la falsità del fatto ad esso attribuito. Se la verità del fatto è provata o se per esso la persona, a cui il fatto è attribuito, è per esso condannata dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore della imputazione non e’ punibile (salvo che i modi usati non rendano comunque applicabili le disposizioni in materia di ingiuria e diffamazione). La Corte costituzionale, inoltre, con sentenza 14 luglio 1971, n. 175, ha stabilito che la cd. prova liberatoria deve ritenersi sempre ammessa allorché la diffamazione (con attribuzione di un fatto determinato) sia stata commessa nell’esercizio del diritto di cronaca, in quanto tale prova mira a dimostrare l’esistenza della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p. Perché è stato condannato anche il cronista che ha semplicemente riportato i fatti? In prima battuta è l’autore dell’articolo, perché è lui che riporta i fatti e li valuta. Il direttore ha una responsabilità di controllo che sfiora la responsabilità oggettiva. Come mai il giornalista è stato condannato nonostante nell’articolo non sia citato il nome del querelante? Perchè se dai fatti riportati emerge in maniera chiara il soggetto a cui ci si riferisce, è superfluo il fatto che via sia indicato il nome. Comunque fughiamo ogni dubbio e preoccupazione: Sallusti al 99% non andrà in carcere neanche un minuto, perché per ogni condanna a pena inferiore a 3 anni (come in questo caso) l’ordine di esecuzione viene sospeso per un periodo di 30 giorni entro cui il soggetto può richiedere l’applicazione di una misura alternativa (affidamento in prova, detenzione domiciliare, semilibertà) senza passare attraverso la detenzione in carcere. Ma ha ancora senso nel 2012 il reato di diffamazione, ed in particolare la forma aggravata- che


prevede il carcere- della diffamazione a mezzo stampa? A mio avviso no, è uno delle tante condotte che andrebbe depenalizzata, lasciando una tutela risarcitoria per gli eventuali danni patiti dal diffamato solo civilistica. Poi ci si lamenta che il processo penale è lento e ci si impiegano anni per giungere ad una sentenza! Certo che se i tribunali sono intasati di reati espressione di litigiosità civilistica e non di pericolosità sociale, è ovvio che il sistema giustizia penale si intasi. Mi lascia però al contempo molto molto perplesso la levata di scudi di tanti, anche politici, che oggi si ergono tutti a difensori del bersagliato Sallusti. Ma non sono forse gli stessi che ad ogni attacco che subiscono minacciano (e poi fanno) querele contro i giornalisti che scrivono? Ormai una delle prime difese del politico che vuol respingere al mittente le accuse che subisce (quando finisce, ahimé spesso, sotto indagine o processo) è quella di querelare chi ne parla. Un modo per dire al cittadino elettore: “vedi, non è vero nulla!” Tanto poi tra una decina di anni, quando il processo sarà terminato, nessuno si accorgerà dell’esito. Ecco, ai tanti che oggi difendono la libertà di stampa e gridano allo scandalo (ed in effetti lo è, per un paese civile) per quanto accaduto a Sallusti, io chiedo una sola cosa: coerenza. AVV. TOMMASO ROSSI Il boss di Gomorra accusato anche di disastro ambientale NAPOLI, 11 DICEMBRE ’12 – Acque avvelenate utilizzate per irrigare i campi e residenti che potrebbero aver assunto sostanze cancerogene da ormai venti anni: Francesco Bidognetti, detto Cicciotto ‘e mezzanotte, boss della camorra arrestato il 18 dicembre 1993, si trova nel carcere di Parma in regime di 41bis dove è stato raggiunto da un provvedimento di custodia. L’accusa è disastro ambientale: secondo gli inquirenti Bidognetti avrebbe cercato di favorire il clan dei Casalesi avvelenando le falde acquifere. Stando a quanto accertato, inoltre, la falda acquifera sottostante le discariche del Giulianese, nel napoletano, sarebbero inquinate il che significa che i residenti che per anni le hanno utilizzate per irrigare i campi, non solo nella zone limitrofe ma anche fuori dalla provincia, potrebbero aver assunto sostanze cancerogene. Secondo l’ordinanza della Dia di Napoli, che ha eseguito il provvedimento, il disastro si sarebbe protratto per almeno venti anni. Bidognetti avrebbe avvelenato le falde in modo da favorire lo smaltimento di rifiuti tossici, acque che sarebbero state utilizzare anche per scopi alimentari. Già quando venne arrestato, nel 1993, la sua attività criminale era legata allo smaltimento di rifiuti tossici, urbani e industriali. Grazie alle sue rivelazioni Cicciotto ‘e mezzanotte, nato a Casal di Principe nel 1951, nel 2008 furono emesse ben 52 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di altrettante persone, tra cui il figlio Raffaele. Il fatto che i destinatari del provvedimento erano affiliati al clan fu la causa scatenante di un’altra guerra di camorra. ELEONORA DOTTORI D: Quali reati si ravvisano? R: Nel caso in cui le acque siano state avvelenate o adulterate il reato di avvelenamento di acque prevede la pena della reclusione non inferiore a 15 anni. Il reato di disastro ambientale, è previsto dall’art. 434 c.p. E secondo la Cassazione consiste in una condotta diretta a cagionare un nocumento che metta in pericolo, anche solo potenzialmente, un numero indeterminato di persone. La pena sarebbe della reclusione da uno a 5 anni per la mera messa in pericolo e della reclusione fino a 12 anni se il disastro ambientale avvenisse. In questo ultimo caso la prescrizione sarebbe di 15 anni. D: In cosa consiste l’associazione a delinquere di stampo mafioso? R: L’”Associazione di Tipo Mafioso” vera e propria (art.416-bis c.p.). Quest’ultimo tipo di associazione prevede che gli associati si avvalgano della forza intimidatrice del vincolo associativo, inducendo un clima di omertà ed assoggettamento di chi vi entra in contatto, tanto potente da


agevolarne l’azione. Essa può tendere ad assumere il controllo di qualsiasi attività economica, compresi appalti, concessioni, autorizzazioni e servizi pubblici. Per definizione normativa può anche esplicarsi nel corso delle consultazioni elettorali, ostacolando od impedendo il libero esercizio del diritto di voto, per procurare illegittimamente voti a soggetti appartenenti all’associazione od esterni all’associazione stessa. Insomma, la norma del codice penale abbraccia un ampio numero di attività per cercare di punire le molteplici espressioni del fenomeno mafioso. Tanto che è esplicitamente previsto che rientri nel novero delle associazioni di stampo mafioso anche la “Camorra” o qualsiasi altra associazione “comunque localmente denominate” (ultimo comma dell’art.416-bis c.p.): evidentemente il legislatore, di fronte al sorgere di associazioni che operano con modalità mafiosa in tutto il territorio nazionale, ha inteso perseguire le modalità di azione dei sodalizi criminali, anche qualora fossero denominati in altra maniera o del tutto anonimi, come si può presumere che sia nel caso delle bande indicate nell’articolo. D: Qual’è la pena? R: L’art. 416 bis del codice penale punisce chiunque faccia parte di un’associazione di tipo mafioso formata da 3 o più persone con la reclusione da 7 a 12 anni mentre è prevista la reclusione da 9 a 12 anni per chi promuove, dirige o organizza l’associazione. Sono previste poi ipotesi aggravante ad esempio se l’associazione è armata (ossia ha la disponibilità di armi o materie esplodenti per il conseguimento delle finalità dell’associazione), se le attività economiche che l’associazione intendere assumere o controllare sono finanziate con il prezzo, prodotto o profitto di delitti. Tale disciplina si applica anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e a tutte le altre associazioni comunque denominate che perseguono i medesimi scopi delle associazioni di stampo mafioso avvalendosi anch’esse della forza intimidatrice del vincolo AVV.TOMMASO ROSSI 12 DICEMBRE 1969-12 DICEMBRE 2012: Per non dimenticare la strage di piazza Fontana 12 DICEMBRE 1969-12 DICEMBRE 2012, MILANO – E’ un giorno triste oggi, il giorno del dolore, il giorno di chi non dimentica. Sono passati 43 anni dalla Strage di piazza Fontana, conseguenza di un grave attentato terroristico compiuto nel centro di Milano. Oggi siamo qui per ripercorrere con la memoria quei drammatici istanti, per rileggere le pagine della storia con gli occhi nuovi di chi guarda al futuro con la speranza che gli errori del passato non vengano dimenticati, ne ripetuti. Era il 12 dicembre 1969, anni caldi in Italia. Tra il 1968 e il 1974 nella nostra penisola furono compiuti 140 attentati, tra i quali quello di piazza Fontana fu uno dei più sanguinosi insieme alla strage di Bologna (1980). La strage di piazza Fontana viene considerata come l’inizio della cosiddetta “strategia della tensione”. Erano le 16,37. Nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana scoppiò una bomba, 17 persone persero la vita (di cui 14 rimaste uccise sul colpo), altre 88 rimasero ferite. Nei primi attimi dopo l’attentato non ci si rese conto della reale natura della deflagrazione, infatti si ipotizzò che la deflagrazione fosse causata dallo scoppio della caldaia della banca. Le successive esplosioni e i segni evidenti dello scoppio di un ordigno tuttavia smentirono quasi subito le prime voci circolate e gettarono Milano e l’Italia intera nel dramma della realtà dei fatti. L’ordigno fu collocato in modo da provocare il massimo numero di vittime: sotto il tavolo, al centro del salone riservato alla clientela, di fronte all’emiciclo degli sportelli. Un’esplosione di immane potenza. Una seconda bomba venne rinvenuta inesplosa nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. Vennero eseguiti i rilievi previsti e successivamente la bomba venne fatta brillare, distruggendo così elementi probatori di possibile importanza per risalire all’origine dell’esplosivo e alla mano assassina. Una terza bomba esplose a Roma alle 16,55 dello stesso giorno, nel passaggio sotterraneo che collega l’entrata di via Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con quella di via di San Basilio, ferendo 13 persone. Altre due bombe esplosero a Roma tra le 17,20 e le 17,30, una davanti all’Altare della


Patria e l’altra all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento, in Piazza Venezia, ferendo 4 persone. In que tragico 12 dicembre furono registrati 5 attentati terroristici concentrati in un lasso di tempo di appena 53 minuti, che colpirono contemporaneamente le due maggiori città d’Italia: Roma e Milano. Sebbene la vicenda sia tuttora oggetto di controversie, le responsabilità di questi attacchi possono essere ricondotte a gruppi eversivi di estrema destra, che miravano a un inasprimento di politiche repressive e autoritarie tramite l’instaurazione di un clima di tensione nel paese. Le indagini. Le indagini puntarono a tutti i gruppi in cui potevano esserci possibili estremisti: furono fermate 80 persone, in particolare alcuni anarchici del Circolo anarchico “22 Marzo” di Roma tra i quali figura Pietro Valpreda e del Circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa” di Milano, tra i quali Giuseppe Pinelli. Il 12 dicembre l’anarchico Giuseppe Pinelli (già fermato ed interrogato con altri anarchici nella primavera 1969 per alcuni attentati, successivamente rivelatisi di matrice neofascista), venne fermato e interrogato in Questura. Il 15 dicembre, dopo tre giorni di interrogatori, Pinelli precipitò dal quarto piano della Questura di Milano e morì sul colpo. Fu aperta un’inchiesta giudiziaria – coordinata dal sostituto procuratore Gerardo D’Ambrosio – che etichettò la causa della morte in un “malore attivo” in seguito al quale l’uomo sarebbe caduto da solo, sporgendosi troppo dalla ringhiera del balcone della stanza. Venne eseguita l’autopsia, ma non fu mai pubblicata. Successivamente, fu accertato durante l’inchiesta che il commissario Calabresi non era nella stanza al momento della caduta (fatto contestato dagli ambienti anarchici in base alla testimonianza di uno dei fermati, Pasquale Valitutti). Furono rivenuti dei manifesti anarchici a Milano, in piazza Cordusio e nelle immediate vicinanze della banca di piazza Fontana. Il magistrato Ugo Paolillo, che indagò sulla strage, rese noto il fatto che si trattava di falsi manifesti utilizzati per depistare le indagini. Alcune settimane dopo giungerà la conferma dei servizi segreti. Il 16 dicembre venne arrestato anche un altro anarchico, Pietro Valpreda. L’uomo, indicato dal tassista Cornelio Rolandi come colui che era sceso quel pomeriggio dal suo taxi in piazza Fontana tenendo in mano una grossa valigia, ottenne anche la taglia di cinquanta milioni di lire disposta per chi avesse fornito informazioni utili. A Valpreda vennero contestati i reati di omicidio di quattordici persone e il ferimento di altre ottanta. Il “mostro” di piazza Fontana sembrava essere preso, l’Italia del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat sembrava tirare un sospiro di sollievo. Eppure, le dichiarazioni del tassista determinarono uno scenario poco plausibile e successive indagini portarono a ipotizzare la presenza di un sosia (tale Antonino Sottosanti, un ex legionario catanese, infiltrato nei circoli anarchici nei quali era conosciuto come “Nino il fascista”) che prenderà il taxi al posto di Valpreda. I processi. Le indagini e i sette processi che si susseguirono nel corso degli anni con imputazioni a carico di vari esponenti anarchici e di destra portarono tuttavia all’assoluzione di tutti gli imputati in sede giudiziaria. Alcuni esponenti dei servizi segreti verranno condannati per depistaggi; l’inchiesta del giudice Salvini affacciò anche un’ipotesi di connessione col fallito golpe Borghese. In 38 anni, non è mai stata emessa una condanna definitiva per la strage, anche se Carlo Digilio, neofascista di Ordine Nuovo, ha confessato il proprio ruolo nella preparazione dell’attentato e ottenuto nel 2000 la prescrizione del reato per il prevalere delle attenuanti riconosciutegli, appunto, per il suo contributo. Il 3 maggio 2005 la Corte di Cassazione ha assolto definitivamente gli ultimi indagati: Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni (militanti di Ordine Nuovo condannati in primo grado all’ergastolo) scrivendo però nella sentenza che con le nuove prove – emerse nelle inchieste successive al processo milanese nel 1972 e alla definitiva assoluzione nel 1987 – gli ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura sarebbero stati entrambi condannati. Attualmente non vi è alcun procedimento giudiziario aperto in quanto la condanna arriva tardiva, oltre al terzo grado di giudizio. Dopo molti anni, si discute ancora della morte di Pinelli. A metà degli anni novanta Carlo Digilio sostenne di aver ricevuto una confidenza in cui Delfo Zorzi gli raccontava di aver piazzato personalmente la bomba nella banca. Zorzi, trasferitosi in Giappone nel 1974, divenne un imprenditore di successo. Ottenne la cittadinanza giapponese che gli garantì poi l’immunità all’estradizione. La controinchiesta delle BR. Sulla strage di piazza Fontana anche le Brigate Rosse svolsero una loro inchiesta, rinvenuta il 15 ottobre 1974 in un loro covo a Robbiano, frazione di Mediglia, insieme ad altri materiali riguardanti gli avvenimenti politici e terroristici relativi agli anni Sessanta e Settanta. Solo una


minima parte del materiale sequestrato che riguardava Piazza Fontana fu messo a disposizione dei magistrati e successivamente questo materiale scomparve e venne forse parzialmente distrutto nel 1992. L’indagine delle BR è stata ricostruita grazie alle relazioni stilate dai carabinieri, a vario materiale ritrovato e alle testimonianze di un brigatista pentito. Originariamente l’indagine comprendeva anche un’intervista a Liliano Paolucci (colui che aveva raccolto la testimonianza di Cornelio Rolandi e l’aveva convinto a parlare ai carabinieri) e delle interviste di alcuni dirigenti del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa. Secondo la contro indagine delle BR, l’attentato era stato organizzato materialmente dagli anarchici, come atto dimostrativo, ma che solo per un errore nella valutazione dell’orario di chiusura della banca si trasformò in una strage. Esplosivo, timer e inneschi sarebbero stati forniti loro da un gruppo di estrema destra. Secondo questa ricostruzione, Pinelli si sarebbe suicidato perché sarebbe rimasto coinvolto involontariamente nel traffico di esplosivo poi utilizzato per la strage. Le Brigate Rosse mantennero segreti i risultati della loro inchiesta, per motivi di opportunità politica. L’inchiesta delle BR ebbe una rinnovata notorietà durante i lavori della Commissione Stragi. La maggior parte dei documenti dell’inchiesta condotta dalle Brigate Rosse su Piazza Fontana era divenuta intanto irreperibile, apparentemente persa nel 1980 nei trasferimenti tra le varie Procure e Tribunali, forse distrutta erroneamente nel 1992, in quanto ritenuta non significativa. Le vittime. Nel decimo anniversario della strage, in piazza Fontana venne posta una lapide commemorativa per ricordare le vittime della strage: Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Vittorio Mocchi, Luigi Meloni, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silvia, Attilio Valè, Gerolamo Papetti. Ogni 12 dicembre si svolgono manifestazioni per ricordare la strage e il 15 dicembre per commemorare Pinelli, appuntamenti ricorrenti e molto sentiti per la città di Milano e per tutta Italia. TALITA FREZZI Presunti illeciti edilizi sulla necropoli romana dell’Appia. Per il proprietario è tutto in regola ROMA, 13 DICEMBRE ’12 – Dalla strada tutto sembra normale, le foto aeree però mostrano ben altro. Stiamo parlando di un’area del parco Appia Antica Caffarella dove ha sede la splendida tenuta della Saita, della famiglia Pallavicini, una zona tra via di Porta Latina e via di Porta San Sebastiano a tutela integrata Grandi complessi archeologici e storico monumentali. Le foto aeree. Alberi e mura antiche coprono la tenuta perciò dalla strada sembrerebbe tutto normale ma le foto aeree del 2007 e del 2012mostrano inequivocabilmente una diminuzione dello spazio verde e l’esistenza di costruzioni in acciaio e vetro proprio dove prima il verde era sovrano. È stato l’ufficio abusivismo edilizio ad aver fatto un sopralluogo lo scorso mese di settembre e ed aver chiesto foto aeree “per studiare l’area e confrontare i rilievi aerei nel tempo” – spiega il comandante Antonio Di Maggio aggiungendo che “con le soprintendenze abbiamo accertato varie irregolarità ed illeciti”. Accanto alla storica dimora principale vi sarebbero altri tre fabbricati sotto ai quali, come spiega un archeologo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, si trovano i resti di “una necropoli monumentale romana in parte esplorata durante la costruzione di via delle Terme di Caracalla”. Presunto abuso edilizio. L’ufficio abusivismo edilizio avrebbe quindi provveduto a segnalare alla Procura della Repubblica un presunto illecito edilizio. Secondo quanto riferito dalla soprintendenza architettonica e archeologica all’ufficio abusivismo, cubature ed edifici non hanno alcuna autorizzazione come pure la realizzazione di manufatti. Vasche ornamentali trasformate in piscine. A quanto pare due vasche ornamentali, preesistenti in loco, sarebbero state trasformate in piscine andando a danneggiare, secondo gli esperti, la parte archeologica sottostante o comunque andando a interferirvi. Proprio qui, infatti, sorge l’Oratorio dei Sette dormienti e appena più in là un


colombario del I secolo D.C., insomma la parte monumentale più importante. Il proprietario si difende ma i tecnici chiederanno il ripristino originario dei luoghi. “Abbiamo presentato una Dia (Denuncia di Inizio Attività) e costruito su preesistenza grazie a un condono dell”84” spiega Moroello Diaz della Vittoria Pallavicini, figlio secondogenito del Duca Armando Diaz della Vittoria e della Principessa Maria Camilla. “Chiederemo il ripristino dello stato originario dei luoghi” incalzano i tecnici, poiché i tre fabbricati in questione nel 1986 (quando vennero presentate le domande per costruire in sanatoria) non esistevano. ELEONORA DOTTORI D: Abusivismo edilizio, di che si tratta e quali le pene previste? R: Per “abusivismo edilizio “ si intende quel comportamento in violazione della normativa edilizia ed urbanistica vigente r che viene sanzionato sia dal punto di vista amministrativo che penale.In particolare si concretizza nella realizzazione di opere edilizia senza concessione o in difformità dalla stessa, nell’abusiva lottizzazione di terreni e nelle mancata osservanza di prescrizioni normative e regolamentari. Dato il doppio binario sanzionatorio, amministrativo e penale, il sindaco ha l’obbligo di trasmettere alla Procura tutti gli atti relativi ad abusi edilizi perché questi, verificata la sussistenza di tutti i presupposti, soggettivi ed oggettivi, proceda con l’esercizio della relativa azione penale. I c.d. reati edilizi sono in genere suddivisi in tre diversi gruppi: l’ipotesi meno grave è costituita dalla inosservanza delle prescrizioni normative e regolamentari o della concessione;poi vi è l’edificazione in aree pianificate o vincolate in difformità dal titolo abilitativo ovvero in sua mancanza ed infine l’ipotesi più grave di abusivismo consiste nella lottizzazione abusiva. I reati di lottizzazione abusiva sono oggi disciplinati dall’ art. 30, comma 1 e l’art. 44 lett. c) del testo unico dell’edilizia (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380). Ai sensi dell’art. 30, comma 2 T.U. dell’edilizia si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio: 1) quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabiliti dalle leggi statali o regionali senza la prescritta autorizzazione (cd. lottizzazione abusiva materiale); 2) quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (cd. lottizzazione abusiva negoziale). Per quanto riguarda le pene, salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative, si applicano: a) l’ammenda fino a 10329 euro per l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal titolo iv T.U. Edilizia, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire; b) l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 5164 euro a 51645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione; c) l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 15493 euro a 51645 euro i nel caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio, come previsto dal primo comma dell’articolo 30. La stessa pena si applica anche nel caso di interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico,


archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso. La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi é stata lottizzazione abusiva dispone anche la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite; per effetto della confisca i terreni sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del comune nel cui territorio é avvenuta la lottizzazione. AVV.VALENTINA COPPARONI

Antonio Ingroia, il pm inquirente nella trattativa Mafia-Stato scenderà in politica PALERMO, 19 DICEMBRE, 2012 – Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo, inquirente nella Trattativa Mafia-stato, attualmente in Guatemala per un incarico ONU nonché giornalista pubblicista, ha inviato al Csm domanda di collocamento in aspettativa per motivi elettorali. Giornalista, delegato ONU, magistrato e politico. Lui si che è choosy. Secondo quanto riportato da tgcom, il magistrato palermitano tornerà dal Guatemala il 21 dicembre e spiegherà il suo programma politico in un’assemblea convocata al teatro Capranica di Roma. Il suo manifesto politico si intitolerà “Io ci sto”, e sarà sostenuto dai sindaci di Palermo e Napoli, rispettivamente Leoluca Orlando e Luigi de Magistris. <<L’alternativa di governo si costruisce con una forza riformista che ha il coraggio di un proprio progetto per uscire dalla crisi e rilanciare l’Italia finalmente liberata dalle mafie e dalla corruzione. Abbiamo come riferimento imprescindibile la Costituzione Repubblicana, a partire dall’art. 1 secondo cui il lavoro deve essere al centro delle scelte economiche. Per noi l’Unione Europea deve diventare autonoma dai poteri finanziari con organismi istituzionali eletti dai popoli ed e’ fondamentale il cambiamento della Casta politica e burocratica italiana mentre lo sviluppo del mezzogiorno è l’unica scelta per unificare il Paese>>. Il Manifesto”Io ci sto” – Riportiamo di seguito il decalogo contenuto nel Manifesto politico di Ingroia. 1) Vogliamo che la legalità e la solidarietà siano il cemento per la ricostruzione del Paese 2) Vogliamo uno Stato laico, che assuma i diritti della persona e la differenza di genere come un’occasione per crescere 3) Vogliamo una scuola pubblica che abbia sia per gli insegnanti che per gli studenti il criterio del merito, con l’università e la ricerca scientifica pubbliche non sottoposte al potere economico dei privati e una sanità pubblica con al centro il paziente, la prevenzione e il riconoscimento professionale del personale medico e infermieristico 4) Vogliamo una politica antimafia nuova che abbia come obiettivo ultimo non solo il contenimento, ma l’eliminazione della mafia, e la colpisca nella sua struttura finanziaria e nelle sue relazioni con gli altri poteri, a cominciare dal potere politico 5) Vogliamo che lo sviluppo economico rispetti l’ambiente, la vita delle persone, i diritti dei lavoratori e la salute dei cittadini e la scelta della pace e del disarmo sia la strada per dare significato alla parola ”futuro”. Vogliamo che la cultura sia il motore della rinascita del Paese. 6) Vogliamo che gli imprenditori possano sviluppare progetti, ricerca e prodotti senza essere soffocati dalla finanza, dalla burocrazia e dalle tasse 7) Vogliamo la democrazia nei luoghi di lavoro e ripristinare il diritto al reintegro sul posto se una sentenza giudica illegittimo il licenziamento 8) Vogliamo che i partiti escano da tutti i consigli di amministrazione, a partire dalla RAI e dagli enti pubblici e che l’informazione non sia soggetta a bavagli 9) Vogliamo selezionare i candidati alle prossime elezioni con il criterio della competenza, del


merito e del cambiamento 10) Vogliamo che la questione morale aperta in Italia diventi una pratica comune, mentre ci vogliono regole per l’incandidabilità dei condannati e di chi è rinviato a giudizio per reati gravi, finanziari e contro la pubblica amministrazione. Vogliamo ripristinare il falso in bilancio e una vera legge contro il conflitto di interessi. Ma quanti incarichi? – Il magistrato Antonio Ingroia, è procuratore aggiunto della Procura di Palermo, con funzione inquirente nella famosa trattativa Mafia-Stato, a lungo esposta nel nostro giornale. Come i lettori ricorderanno, agli inizi di Settembre, il magistrato, dopo aver chiesto il rinvio a giudizio per i numerosi indagati nella trattativa Mafia-Stato, ha annunciato di accettare un incarico ONU in Guatemala. In quel momento, non ci sono state particolari critiche dal mondo mediatico e da quello politico, poiché si pensava che tale scelta del CSM fosse dettata dall’esigenza di proteggere l’incolumità del magistrato. Di fatto, il 26 Luglio, il CSM aveva già dato il via libera “al collocamento fuori ruolo” di Ingroia, per andare a dirigere le indagini relative all’attività di narcotraffico in Guatemala, su incarico ONU. C’è da dire però che suonava un po’ strano che l’ONU andasse proprio a scegliere tra i nostri magistrati per dirigere l’attività di indagine, che non è propria dell’ONU visto che è un’organizzazione che promuove la cooperazione internazionale e l’unica attività di “indagine” svolta è quella di ricerca degli special rapporteurs inviati nei paesi dove si verificano violazioni dei diritti umani. Tuttavia, anche in questo caso, ci vuole il consenso dello stato per così dire “indagato”, per permettere la presenza di questi delegati ONU. Per dirlo in parole semplici, non ci sono narcotrafficanti da scovare, né da arrestare, né da processare poiché l’ONU non è un organo inquirente né giudiziario. Né tanto meno si serve di magistrati italiani per condurre queste fantomatiche indagini in Guatemala. Tuttavia, quello che è risultato ancora più strano è che il magistrato, dopo essersi messo giustamente al sicuro, appare nella tv italiana in collegamento dal Guatemala nel programma Servizio Pubblico facendo dichiarazioni sulla morte di Borsellino (“Borsellino è stato ucciso perché considerato un ostacolo alla trattativa, ma come faceva Cosa nostra a saperlo? Deve averlo saputo dallo Stato. Se la strage di via d’Amelio non è stata pensata, attuata, da uomini dello Stato, di certo lo Stato ne è stato complice. Questo posso dire di saperlo”.Inoltre all’imputato Calogero Mannino, presente in studio, ha detto: “Lei ha tradito Cosa Nostra ma fu risparmiato e al suo posto fu ucciso Paolo Borsellino per trattativa”). Ora, sebbene l’amore per la verità e la lotta alla mafia sono sentimenti che uniscono moltissimi italiani, apparire in tv facendo dichiarazioni sul processo mafia-stato ancora in corso, rivestendo la posizione di magistrato-non magistrato, è davvero singolare. E’ vero che i processi in Italia li fanno i media, ma vedere un magistrato in carica partecipare a questi siparietti mediatici, forse mina quello che avrebbe potuto essere il valore delle indagini della Procura di Palermo. Ma non finiscono qui gli incarichi di Ingroia: oltre al ruolo di magistrato e a quello di “inviato” all’ONU, egli è anche giornalista pubblicista (dal 18 maggio2012 ) grazie alla sua attività di editorialista nel Fatto Quotidiano, il giornale di Travaglio. Senza nulla togliere alle sue indiscusse capacità intellettuali, risulta legittimo chiedersi come l’attività di magistrato possa essere compatibile con quella del giornalista, se non per divieto dell’ordine, almeno per deontologia e coerenza personale. Spesso, nel nostro giornale, ci facciamo scrupoli sulle potenziali incompatibilità tra il mestiere dell’avvocato e quello dell’editorialista per questioni davvero piccole, un granello di sabbia rispetto alla trattativa mafia-stato. Arriva poi la dichiarazione di ieri, a confermare la seconda delle ipotesi: Ingroia scende in politica. Dunque ci si chiede, vorrà rimanere contemporaneamente magistrato, “inviato” ONU, e giornalista o a qualche cosa rinuncerà? Lui si che, per dirla con le parole della Fornero, è un vero choosy! CLARISSA MARACCI

ESTERO:


Depardieu dice “adieu” alla Francia di Ayrault PARIGI, 17 DICEMBRE 2012 – Troppa, la pressione fiscale in Francia. Almeno secondo il celebre attore Gérard Depardieu, che ha dovuto pagare una super tassa corrispondente al 75% dei suoi redditi. Non troppo sofferta, la decisione di trasferirsi in Belgio e rinunciare perfino al passaporto francese – lo comunica con una lettera al Primo Ministro , Jean-Marc Ayrault, pubblicata su Le Journal du Dimanche. Lettera nel quale l’attore prende spunto dalle accuse mossegli da Ayrault, che ha definito la sua decisione patetica. Depardieu un uomo patetico ? – <<Patetico, mi avete definito patetico? Com’è patetico. Sono nato nel 1948, ho iniziato a lavorare all’età di 14 anni come stampatore, come manutentore e poi come artista drammatico. Ho sempre pagato le mie tasse e le impose stabilite da tutti i governi in vigore. In nessun momento, ho mancato ai miei doveri. I film storici ai quali ho partecipato testimoniano il mio amore per la Francia e per la sua storia>> afferma il consumato attore con la classe che distingue gli affascinanti cavalieri e conti da lui interpretati. La vicenda giudiziaria del figlio - << Non ho più nulla da fare qui. Me ne vado perché Voi considerate che il successo, la creatività, il talento, e di fatto, la differenza, debbano essere sanzionate.>> aggiunge con rammarico, spiegando di non cercare approvazione né rispetto. <<Parto dopo aver pagato, nel 2012, l’85% di tasse sui miei profitti. Ma conservo lo spirito di questa Francia che era belle e che, spero, tale rimarrà.>> Depardieu sembra convintissimo a lasciare la sua terra, con la quale non ha più nulla a che spartire, tant’è che afferma di sentirsi un cittadino del mondo, anziché un patriota francese. Queste affermazioni risultano davvero scioccanti, data l’icona che rappresenta per il suo Paese. Sono molte, le ragioni che lo hanno portato a compiere questo passo, molte ed intime. Ne menziona una, tra le altre, la vicenda giudiziaria del figlio Guillaume, condannato a tre anni di carcere per due grammi di eroina, << quando vi sono altri che scappano al carcere per reati ben più gravi.>> Infine, conclude, << Ho pagato 145 milioni di euro di tasse in 45 anni, ho fatto lavorare 80 persone in imprese che hanno creato e diretto. Non sono da biasimare né da elogiare, ma rifiuto l’aggettivo patetico.>> Proprio come in uno dei suoi film, il grande Depardieu conclude la sua lettera-monologo con una domanda pungente ed elegante, che merita di essere riportata tale e quale: <<Qui êtes-vous pour me juger ainsi, je vous le demande monsieur Ayrault, Premier ministre de monsieur Hollande, je vous le demande, qui êtes-vous? Malgré mes excès, mon appétit et mon amour de la vie, je suis un être libre, Monsieur, et je vais rester poli./ Chi siete per giudicarmi in questo modo, domando a Voi, Sig. Ayrault, Primo ministro di Sig. Hollande, Vi domando, chi siete? Malgrado i miei eccessi, il mio appetito e il mio amore per la vita, sono un uomo libero, Signore, e rimarrò lucido.>> Gérdard Depardieu, Lettera al Primo Ministro CLARISSA MARACCI Usa, strage a scuola: esplosi cento colpi di pistola, 22 bambini tra i 29 morti CONNECTICUT (USA), 14 DICEMBRE ’12 – Gli Stati Uniti ripiombano nell’incubo che appena qualche mese fa ha fatto tremare con il folle che ha sparato all’impazzata dentro al cinema durante la prima del film “Batman”. Adesso la paura ha il volto della follia di un killer di soli 24 anni, papà di un bambino che frequenta la scuola elementare Sandy Hook Elementary School di Newtown. Proprio la scuola sarebbe teatro della tragedia. Sono stati sparati 100 colpi. Mentre drammatico è il bilancio delle vittime: 29 di cui 22 bambini, il preside e lo psicologo dell’istituto. Il killer, secondo


quanto riportato dalle tv locali, avrebbe fatto irruzione nella scuola elementare stamattina alle 9 (le 15 ora italiana) e avrebbe sparato a raffica in un’aula dell’asilo. Un’intera classe manca ancora all’appello, come scrive il quotidiano locale “The Hartford Courant”. Fonti citate dal quotidiano riferiscono che anche il killer 24enne sarebbe morto e che indossasse un giubbotto antiproiettili. Catturato un secondo uomo. Gran parte dei colpi, un centinaio, sono stati sparati in un’aula dell’asilo. Tra le vittime ci sarebbero anche degli addetti della scuola, molti anche i feriti. Secondo alcune fonti giornalistiche locali, sembra che il killer avesse due pistole, che sono state ritrovate dalla polizia. Ancora non è chiaro se si sia suicidato o se sia stato ucciso. Il suo corpo sarebbe ora riverso in una delle aule della scuola. Avrebbe cominciato a sparare dopo una discussione, ma i dettagli di questa assurda mattanza sono ancora pochi. La zona attorno alla scuola è stata isolata in via precauzionale. Dalla Casa Bianca il presidente Barack Obama viene costantemente aggiornato sugli sviluppi della strage. “Faremo tutto quello che è possibile e che serve per arginare la diffusione della armi da fuoco nel Paese. Ma di fronte a un evento così tragico, non è oggi il momento delle polemiche”. TALITA FREZZI D: Quali i reati contestati? R: In questo caso, secondo il nostro ordinamento potrebbero essere contestati i reati di omicidio plurimo aggravato (per le 29 vittime) più tentato omicidio per i feriti e il killer o i killer rischierebbero l’ergastolo. Potrebbe anche venire contestato il reato di strage se la polizia accertasse che oltre ad aver sparato sui bambini e sul personale della scuola, il killer abbia anche fatto esplodere ed esempio una bomba nell’edificio, estendendosi il rischio di morte a una pluralità di persone. AVV.TOMMASO ROSSI

Anna Politkovskaja: condannato l’ex poliziotto che fornì la pistola all’assassino . MOSCA, 15 DICEMBRE ’12 – Questa mattina uno degli attori dell’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja ha un volto: quello dell’ex poliziotto Dmitry Pavlyuchenkov, condannato per complicità da un Tribunale di Mosca a 11 anni, di cui 15 già trascorsi in carcere. La giornalista russa era stata trovata morta il 7 ottobre 2006, assassinata nell’ascensore del suo palazzo, mentre stava rincasando. La sua morte aveva suscitato scalpore e scandalo in quanto la stessa aveva più volte ricevuto minacce di morte e le voci su di un complotto, ordito dall’allora presidente russo Putin, si diffusero rapidamente: si pensava ad un killer professionista, assoldato allo scopo. Anna Politkovskaja era una giornalista fastidiosa per la Russia e per il suo presidente: profondo era il suo impegno a favore del rispetto dei diritti umani, più volte violati dai russi in Cecenia, così come era forte la sua opposizione al presidente Putin. Nei suoi articoli per il quotidiano russo Novaja Gazeta, condannava apertamente l’Esercito e il Governo russo per le atrocità e il mancato rispetto dello stato di diritto in Cecenia. Dal 1999, la donna ha pubblicato libri critici sulla conduzione della guerra in Cecenia, Daghestane Inguscezia: già nel 2001, è costretta a fuggire a Vienna in seguito a ripetute minacce ricevute via mail da Sergei Lapin (un ufficiale da lei accusato di crimini contro la popolazione cecena, poi arrestato e condannato nel 2005). La sua partecipazione alla causa cecena è ben radicata: spesso si reca in quella regione, visitando ospedali e campi profughi e molte sono le interviste agli stessi militari russi, nonché ad ufficiali, i quali vengono incontrati sempre di nascosto poiché le rivelazioni e le informazioni che trasmettono alla giornalista sono sgradite a Mosca e, nel caso fossero stati scoperti, rischierebbero la morte; la giornalista indaga anche sulle presunte connivenze degli ultimi due leader Primi Ministri ceceni, Akhmad Kadyrov e il figlio Ramsan, entrambi sostenuti da Putin. La fama e la considerazione della Politkovskaja aumenta al punto che essa stessa è tra i “negoziatori privilegiati” dalla guerriglia e la si trova in prima fila a condurre le trattative durante la crisi del Teatro Dubrovka (quando, nell’ottobre 2002, 40 terroristi ceceni


tennero sotto ostaggio circa 850 civili per 3 giorni, al termine dei quali le truppe russe, dopo aver utilizzato un agente chimico nel sistema di ventilazione, irruppero nel teatro provocando una carneficina con 129 vittime tra gli ostaggi e 39 tra i militanti ceceni). La Politkovskaja continua la denuncia dei maltrattamenti, delle torture, dei rapimenti, delle uccisioni degli innocenti civili ceceni. Nel settembre 2004, viene improvvisamente colpita da un malore e perde conoscenza: si pensa subito ad un avvelenamento, ma la dinamica di quanto accaduto non sarà mai chiarita. A fine del 2005 sente vicina la sua fine e a Vienna, durante una conferenza di Reporte Senza Frontiere, denuncia: “Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola ad essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare”. Non smetterà mai la sua campagna di denuncia: fino, appunto a quel 7 ottobre 2006, quando stava per pubblicare un altro lungo articolo sulle torture commesse dalle forze di sicurezza cecene legate al Primo Ministro Ramsan Kadyrov. Come già detto, dopo sei anni, si è arrivati oggi ad un verdetto in primo grado: c’è l’ex poliziotto che ha passato l’arma, mancano ancora chi ha premuto il grilletto e il mandante dell’omicidio (i sospetti non ufficiali sono addirittura su Putin, ma difficilmente in questo momento, il nuovo zar potrà essere in qualche modo toccato da questo procedimento). A questi grandi dubbi si aggiunge che niente assicura che questa sentenza troverà conferma in appello e, agli atti del tribunale, mancano ancora i moventi dell’assassinio. C’è un processo a parte che dovrà giudicare altre cinque persone dell’ambiente ceceno, dove Anna Politkovskaja aveva indagato con passione ed ostinazione: Lom-Ali Gaitukayev è accusato di aver organizzato l’omicidio e di aver ingaggiato per eseguirlo tre suoi familiari: i fratelli Rustam (sospettato di essere l’esecutore materiale), Ibragim e Dzabrail Makmudov, insieme ad un altro ex poliziotto, Sergei Khadzhikurbanov. E’ il secondo procedimento nei loro confronti: il 19 febbraio 2009 i tre fratelli erano stati assolti, prima che il ricorso della famiglia della giornalista uccisa e della pubblica accusa, facessero annullare il verdetto. Resta comunque la domanda, la risposta alla quale è la più importante: chi ha ordinato la morte di Anna Politkovskaja? MOSE’ TINTI Kabul, per le spose bambine afgane c’è il suicidio o la fuga KABUL 5 DICEMBRE 2012 – Devono essere fatti grandi sforzi per proteggere le bambine afgane, la metà delle quali sono sposate prima di compiere 15 anni – hanno affermato le Nazioni Unite giovedì. “Il matrimonio precoce è una violazione dei diritti umani e impatta tutti gli aspetti della vita di una ragazza” riporta lo statement adottato da alcune organizzazioni ONU. Il matrimonio delle bambine è definito quale ogni matrimonio contratto da una ragazza prima dei 18 anni, prima dunque che la ragazza sia psicologicamente pronta ad assumersi le responsabilità del matrimonio e fisicamente preparata a fare figli. Il rappresentate ONU per l’Afganistan, Jan Kubis, ha richiamato l’Afganistan ad “assicurare che tutte le misure necessarie siano adottate per rispettare i suoi obblighi internazionali nella protezione delle ragazze dal matrimonio precoce.” Infatti, la mortalità materna sembrerebbe legata all’età della madre. Il tasso di mortalità materna in Afganistan è di 327 su 100.000 nascite, uno dei peggiori al mondo. “Le bambine di 10-14 anni hanno molte più probabilità di morire durante la gravidanza o il parto rispetto alle ragazze di 20-24 anni.” Sembrerebbe che ancora una volta, il fattore determinate sia quello dell’accesso all’educazione. Basti pensare che secondo la legge Talebana in Afganistan dal 1996 al 2001, le ragazze non potevano ricevere alcuna educazione. Fortunatamente, i dati riportano che attualmente 3 milioni di ragazze frequentano attualmente la scuola, ma nelle aree rurali le barriere culturali e la mancanza di strutture impedisce ancora l’accesso all’educazione. La fuga o il suicidio – Spesso, l’unica soluzione per le bambine promesse in matrimonio in età precoce, il suicidio o la fuga sono l’unica soluzione. Proprio come raccontava Hosseini, nel suo romanzo “Mille Splendidi Soli”. Peccato che, anche la fuga è visto come un reato, per il quale le donne saranno incarcerate. Non si può scappare ad un marito violento. Secondo quanto riportato da Human Rights Watch, attualmente sono 500 le donne detenute in carcere per aver cercato di


scappare da un matrimonio imposto o da un uomo violento. Alcuni casi di suicidio si sono verificati proprio la settimana scorsa: Nasreen, 18 anni, di Kunduz, si è tolta la vita con un fucile da caccia. Fatima, di 17, è sopravvissuta al tentativo di suicidio e ha dovuto andare in tribunale per far annullare il fidanzamento ( la parola di una donna non vale quanto quella di un uomo – in questa interpretazione della Sharia – pertanto sono necessari 5 testimoni uomini a favore) . Esiste poi il feminicidio, spesso attuato dai familiari: tre giorni fa nella provincia di Kunduz, una ragazza è stata decapitata per essersi rifiutata di sposarsi. I suoi assassini sarebbero due pretendenti che avevano ricevuto il due di picche dalla famiglia della ragazza. Un altro caso che è fatto scalpore è accaduto il mese scorso quando una ventenneè stata decapitata dalla famiglia del marito per essersi rifiutata di prostituirsi, mentre lo scorso settembre cinque persone sono state arrestate per aver inflitto 100 frustate in pubblico a una 16enne accusata di avere una relazione. E’ chiaro che la legge sul divieto di violenza sulle donne è in vigore solo dal 2009, pertanto i numerosi casi che tutt’oggi si verificano sono ancora un retaggio culturale ed uno strascico naturale del regime talebano. Secondo l’ Oxfam,l’87% delle donne afghane ha riferito di aver subito violenza fisica, sessuale o psicologica. <<Distesa sul divano, con le mani tra le ginocchia, Mariam fissava i mulinelli di neve che turbinavano fuori dalla finestra. Una volta Nana le aveva detto che ogni fiocco di neve era il sospiro di una donna infelice da qualche parte del mondo. Che tutti i sospiri che si elevavano al cielo si raccoglievano a formare le nubi, e poi si spezzavano in minuti frantumi, cadendo silenziosamente sulla gente. “A ricordo di come soffrono le donne come noi” aveva detto. “Di come sopportiamo in silenzio tutto ciò che ci cade addosso”.>> Dal libro “Mille splendidi soli”, di Khaled Hosseini CLARISSA MARACCI Il Padreterno serve il caffè al Diavolo: la Turchia censura i Simpson ANKARA, 4 DICEMBRE ’12 – La Turchia di Erdogan invita l’emittente televisiva privata Cnbc-e a ciucciarsi il calzino: un calzino da circa 23.000 euro. Questo, infatti, sembra essere l’importo della multa inflitta per la trasmissione di una puntata dei Simpson “particolarmente blasfema ed offensiva dei valori religiosi”. “Sembra”, perché la Cnbc-e non ha ancora ricevuto effettivamente nessuna sanzione e si riserva qualsiasi commento per quando arriverà quel momento (la sanzione è certa; l’importo, invece, è al momento solo stimato). L’Alto Consiglio della Radio e della Televisione (Rtuk) ha incriminato non un’intera puntata, ma uno spezzone in cui appaiono Dio ed il Diavolo con fattezze umane: Satana ordinerebbe un caffè, che gli viene servito dal Padreterno. Questo particolare non può essere tollerato dal pubblico audiovisivo turco: “Uno dei protagonisti – si legge nel rapporto della Rtuk – sta abusando della fede religiosa di un altro per fargli commettere dei crimini. La Bibbia è data pubblicamente alle fiamme e in una scena Dio e il Diavolo sono ritratti in corpi umani”. Questo, secondo Rtuk, è da considerarsi “un insulto blasfemo”. Inoltre i Simpson avrebbero «incoraggiato i ragazzi a cominciare a bere durante le feste per il nuovo anno». Che i Simpson siano un cartone dissacrante è fuori dubbio, ma allo stesso tempo è in grado di trasmettere e comunicare in maniera intelligente valori condivisi nelle diverse società (ad es. il rapporto tra Marge e Homer, basato sul rispetto reciproco e su un’intesa straordinaria, dove i vari problemi sono sempre affrontati e risolti insieme, dovrebbe essere un modello per tutte le coppie, e si potrebbe continuare a lungo quest’elenco di buoni esempi), nonché di trattare temi delicati come la morte, la religione, l’omosessualità, questioni ecologiche, etc. Chiunque abbia mai visto i Simpson sa bene che non si tratta di un cartone per bambini, ma non perché canale di messaggi deprecabili e quindi lesivi della loro miglior crescita, bensì per la miriade di citazioni, critiche alla politica americana e mondiale, riferimenti storico-culturali, frecciatine ai disagi della nostra epoca, che necessitano per essere compresi di un bagaglio di esperienza e di conoscenza che i bambini non possono avere.


Ovvio che c’è anche il lato puramente comico, ragione per cui vengono trasmessi in un orario accessibile a tutti. Terminata questa breve perorazione in favore della famiglia più amata d’America e non solo, occorre andare a vedere cosa ci potrebbe essere dietro questa ennesima censura nel paese di Erdogan. La Turchia è oggi uno dei più affascinanti motori dell’economia mondiale: troppo ad Ovest per essere Asia, troppo ad Est per essere Europa, rifiutata dall’ Unione Europea e attratta dalla prospettiva di essere il primo paese dell’area islamica. 10 anni di potere di Erdogan hanno reso esplicita questa doppia anima turca: il premier turco aveva cercato sempre di far convivere progressismo e conservazione, coraggio ed impuntature quasi infantili (come quando agli inizi del 2000, aveva rischiato di vanificare gli sforzi compiuti per convincere gli europei, sostenendo le ragioni di chi gli chiedeva di ripristinare l’adulterio come reato penale). Con il passare del tempo, però, complice la scarsa lungimiranza europea causa dei rifiuti all’ingresso nell’Unione dello Stato turco, sembra che stia prevalendo l’anima islamista neoottomana, a discapito della vocazione europea. Ricordiamo che la Turchia era l’unico paese islamico amico di Israele, ma dopo l’operazione militare contro Gaza del 2008, il bisticcio tra Erdogan e Peres del 2009 (mentre era in corso l’operazione Piombo Fuso contro Hamas), l’assalto dei militari israeliani del 31 maggio 2010 (costato la vita a 9 cittadini turchi) alla nave turca Mavi Marmara su cui attivisti di Freedom Flottilla stavano portando aiuti umanitari a Gaza, e dopo l’espulsione dell’ambasciatore israeliano ad Ankara il 2 settembre 2011, i rapporti tra i due Stati si sono raffreddati. Ricordiamo, inoltre, che durante le rivolte della Primavera Araba, la Turchia si è sempre mossa da sostenitrice alle nuove forze che si andavano insediando alla guida dei Paesi arabi, garantendo loro appoggio e proponendosi come faro e guida. Tutto questo per cercare di capire le ultime spinte della Turchia, che sembra ormai più interessata a diventare il paese egemone dell’area islamica, piuttosto che una comparsa nello scacchiere europeo: la censura dei Simpson non è altro che una conseguenza di questa tendenza all’islamizzazione della società. “Non importa che il cartone animato sia il più longevo degli Stati Uniti, esportato in decine di Paesi e da tempo vero e proprio fenomeno di costume visto da milioni di adulti e bambini. L’offesa ai valori religiosi vale anche per un cartone animato” – ha affermato Erdogan difendendo la decisione della Commissione suprema – “Non è possibile trasmettere simili oscenità sulla televisione pubblica”. Non solo i Simpson sono stati oggetto di censura, ma anche una fortunatissima serie turca su Solimano il Magnifico, che ha più di 150 milioni di spettatori nei Balcani e nel Medio Oriente, rischia di essere cancellata. Infatti, proprio Erdogan ha minacciato di portare i suoi produttori davanti alla giustizia perchè la serie dà troppo rilievo a sesso e amori nell’harem del grande sultano e troppo poco alle sue conquiste territoriali (praticamente quello che succede anche nella serie “I Tudor”). La censura, fin troppo evidente, nei riguardi della televisione ha dato il via alle proteste dell’opposizione secolarista che da tempo accusa il premier di avere un’agenda segreta di islamizzazione del Paese che mina alle fondamenta il lascito laico del fondatore della Turchia moderna, il “padre della patria” Mustafa Kemal Ataturk. Tra le decisioni di Erdogan contestate quella di permettere alle donne di indossare il velo islamico all’Università. La recente storia ci insegna che il vento della Turchia può cambiare direzione e quindi nulla vieta di pensare che queste mosse potrebbero essere finalizzate ad avere un diverso potere contrattuale in un’eventuale successiva ripresa del negoziato per entrare a far parte dell’Unione Europea. Anche se, al momento, questa pare un’ipotesi lontana.


MOSE' TINTI

REGIONE: Italia Nostra, ricorso al TAR per il parere sul Parco Eolico ANCONA, 19 DICEMBRE ’12 – “I cittadini vogliono che il territorio ed il paesaggio, bene tutelato costituzionalmente, venga risparmiato anche dai progetti di rilevanza economica legati alle energie rinnovabili e che le leggi vengano rispettate da tutti”. A prendere la parola è Italia Nostra onlus, che in una nota fa sapere come “nelle Marche, colpevolmente, la Giunta ed il Consiglio Regionale hanno permesso troppo spesso l’occupazione del suolo agricolo da parte dei pannelli solari e in tema di rigassificatori offshore, hanno approvato la realizzazione dell’impianto dell’API di Falconara senza avere garanzie occupazionali sui dipendenti della raffineria; tanto è vero che da gennaio 2013 saranno posti in cassa integrazione centinaia di lavoratori dell’API. L’ultima forzatura – si legge ancora nel documento – è aver ricorso, in maniera a nostro parere inappropriato, al Consiglio dei Ministri per ottenere una autorizzazione unica che superasse il parere negativo dell’organismo dello Stato deputato alla salvaguardia del paesaggio: la Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici della Marche. È dal 2007 che tale organismo, insieme alla Regione Umbria interessata per contiguità territoriale, esprime il proprio parere negativo, determinante, su un impianto eolico della Comunità Montana di Camerino che prevede, sopra Colfiorito ma in territorio marchigiano, la costruzione di 17 torri eoliche di 105 metri in area vincolata per legge sotto l’aspetto paesaggistico ambientale”. Contro tale azione la Presidenza Nazionale di Italia Nostra a firma di Marco Parini ha incaricato l’avv. Tommaso Rossi del foro di Ancona di predisporre ricorso al Tar Marche con richiesta di sospensiva contro il decreto dirigenziale della Regione Marche che dispone l’inizio dei lavori. “Il ricorso – rende noto Italia Nostra – si basa sul principio che è nulla un’autorizzazione unica ottenuta in presenza di dissenso espresso dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici della Marche, in sede di conferenza di servizi, e che non poteva essere riaperta nel 2012, dopo quasi cinque anni, la conferenza di servizi iniziata nel 2007. Tale conferenza doveva essere considerata conclusa dopo l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica ad opera della Soprintendenza stessa nel 2009 ed invece è rimasta “congelata”. Inoltre non sono state affatto tenute in considerazione le modifiche indicate dalla Soprintendenza come necessarie al fine di ottenere un parere positivo di compatibilità paesaggistica, omettendo in maniera assoluta di valutare i fondamentali aspetti ambientali e paesaggistici connessi all’opera in oggetto”. Il ricorso, che vede il sostegno economico anche del WWF e di Federnatura, nonché di altre associazioni e di semplici cittadini, si affianca alla raccolta di firme per la proposta di legge di iniziativa popolare, sul governo del territorio regionale, predisposta dal Forum Paesaggio Marche al quale stanno aderendo migliaia di cittadini. Questa legge, se approvata nel testo proposto, impedirebbe in futuro la realizzazione di tali progetti in aree tutelate. L’udienza per valutare la richiesta di sospensiva è fissata avanti al TAR Marche per il 10 gennaio 2013. L’argomento è stato discusso in una conferenza stampa alla quale è intervenuto anche un rappresentante della Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici delle Marche. T.F. 30 anni fa la frana Barducci: Ancona sprofondò, e ora dimentica. Il 13 dicembre 1982, 20:45: Ancona sprofonda. 342 ettari di terreno, una profonda frattura franosa denominata “Barducci”, un enorme boato, black out, una grande frana profonda, denominata “Barducci”, e l’incubo di alcuni quartieri della città. Borghetto, Posatora e, in parte, Torrette. L’esteso movimento franoso danneggiò due ospedali e la Facoltà di Medicina dell’Università di Ancona, danneggiò o distrusse completamente 280 edifici, per un totale di 865 abitazioni, divelse la ferrovia e danneggiò la strada costiera su di un fronte di circa 2,5 chilometri. La frana causò danni


alla popolazione. Si verificò una vittima, anche se indiretta (un paziente dell’ospedale morto di arresto cardiaco mentre veniva trasferito in ambulanza), e 3.661 persone (1.071 famiglie) vennero evacuate dall’area colpita dal dissesto. Circa 500 persone rimasero senza lavoro. Fu fatta una stima del danno economico prodotto dalla frana: 1000 miliardi di lire. Ma nessuno fu mai in grado di fare una stima del danno provocato nel profondo a chi quel tragico evento lo visse in prima persona, a chi aveva investito una vita per una casa, ad una intera zona della città che voleva, doveva, essere un quartiere modello, fiore all’occhiello per una città che voleva essere grande. E invece è sprofondata. E continua a farlo, schiacciata dai giochi della politica e della cattiva gestione. La frana come monito, come emblema di una città costruita in parte su terreni sdrucciolevoli e insicuri. Monito non seguito, troppo presto dimenticata, accantonata come tragedia personale di chi l’ha vissuta sulla sua pelle, sulle sue mura domestiche o lavorative. Io c’ero quella sera, avevo 4 anni. E ricordo tutto di quei momenti. Ricordo persino che giocavo sul pavimento con i miei robot prima che una rombo squassasse la tranquillità di una famiglia, di un quartiere, di una città. Ricordo la gente per strada, disperata, i bimbetti come me avvolti in coperte di lana che piangevano in braccio alle mamme, ricordo gli uomini che facevano avanti e indietro nella casa distrutta e pericolante per recuperare le prime cose basilari, ricordo il freddo di quella notte, la confusione, la paura. Avevo 4 anni, e certi ricordi non si dimenticano. Così come il Natale passato lontano da casa, e la scoperta della precarietà umana. Che quando la scopri capisci di non essere poi così diverso da un terreno franoso. T.R. Diritto allo studio, occupato a oltranza l’Istituto musicale Pergolesi diAncona ANCONA, 13 DICEMBRE 2012 – L’Istituto Musicale Pergolesi di Ancona occupato a oltranza. Da ieri pomeriggio tutti – studenti, genitori e docenti – si oppongono con decisione e forza alla chiusura della scuola per mancanza di fondi attraverso un gesto di protesta eclatante, che possa sensibilizzare in primis il Ministero (che dovrebbe a breve prendere provvedimenti per tutti gli istituti c.d. ex pareggiati come il Pergolesi), ma anche le autorità locali data l’importanza che la scuola da anni riveste per la città dorica. Ieri pomeriggio prima dell’inizio dell’occupazione a oltranza dell’istituto (durante la quale saranno svolte una serie di iniziative culturali e musicali) si è tenuto un incontro al quale hanno partecipato il Direttore della scuola, il Comitato dei genitori degli alunni con il legale che li rappresenta avvocato Jessica Amicucci, poi Manuela Carloni (Cgil), Claudio Amicucci (Uil-Rua), l’avvocato Micioni, i docenti, gli studenti. Un confronto durante il quale si è fatto il punto sulla delicata e complessa situazione che, come sottolineato anche durante l’incontro, non solo è di natura economica, data la mancanza di fondi, ma anche e forse soprattutto di natura politica. “I docenti di concerto con le organizzazioni sindacali (Flc-Cgil,Uil-Rua, Cisl Università) hanno deciso in autonomia di continuare a fare le lezioni anche senza copertura finanziaria (non percepiscono lo stipendio da luglio 2012) perché vogliono tenere questa scuola pubblica viva e difendere il diritto allo studio degli studenti – fanno sapere dall’Istituto Musicale Pergolesi in una nota – durante l’assemblea verranno organizzate dagli allievi e dai docenti una serie di iniziative aggregative di carattere culturale e musicale. Lo scopo di quest’assemblea è di stimolare il Ministero a dare una risposta urgente alle gravissime problematiche nelle quali versa l’istituto”. Il commissario di nomina Ministeriale Anna Maria Bertini ha diffidato il direttore e il consiglio accademico ad avviare le lezioni, motivando la diffida con la mancanza di risorse. “Questa situazione – prosegue la nota – che ad Ancona è precipitata, si diffonderà presto a cascata nelle altre 20 istituzioni musicali italiane (i cosiddetti ex pareggiati) inseriti come i conservatori tra gli Issm (Istituti superiori di studi musicali) in quanto, dipendendo esclusivamente dalle risorse degli Enti locali, è sempre più difficile il sostegno da parte delle istituzioni stesse. Da 12 anni i suddetti ex pareggiati attendono la legge di riordino del settore prevista dalla legge 508/99 che prevede la loro statizzazione. Gli Enti finanziatori dell’Istituto Pergolesi di Ancona (Regione Marche, Provincia di Ancona, Comune di Ancona) hanno da tempo comunicato ufficialmente che


riprenderanno a erogare le risorse necessarie solo quando sarà avviato il processo di statizzazione”. Il comitato costituitosi per l’occupazione dell’Istituto, chiede al Ministero e alle Istituzioni preposte di portare a termine l’anno accademico 2012/2013 per garantire il diritto allo studio degli studenti che hanno già versato le rette e hanno iniziato a frequentare le lezioni nonostante la diffida del commissario; un parere scritto da parte del Ministro (già chiesto peraltro in maniera ufficiale, sulla legittimità della diffida da parte del commissario) e la garanzia che questa istituzione Pubblica possa continuare a operare e beneficiare della statizzazione come prevista dai disegni di legge (ddl 4822 a.c.) in discussione. “Docenti, genitori, studenti e Organizzazioni sindacali continueranno l’occupazione ad oltranza fino a quando non arriveranno risposte alle richieste”, concludono dall’istituto. Intanto, la battaglia in difesa dei diritti allo studio continua e infiamma il dibattito culturale, sociale e politico di Ancona. T.F. Musica e poesia a Montacuto: il percussionista Tony Cercola e lo scrittore Antonio D’Errico tra i detenuti ANCONA, 10 DICEMBRE ’12 – Oltre 200 detenuti del carcere dorico di Montacuto hanno assistito oggi pomeriggio all’esibizione del percussionista Tony Cercola e alla lettura delle poesia dello scrittore Antonio D’Errico. Quasi il 60% dei detenuti hanno chiesto ed ottenuto di poter partecipare all’evento che ha visto la presenza anche della direttrice del penitenziario, Santa Lebboroni, del comandante Gerardo D’Errico e degli agenti di polizia penitenziaria. L’incontro, fortemente voluto dal comandante D’Errico, fratello dello scrittore, è stata un’occasione straordinaria di incontro e confronto con la realtà carceraria di Montacuto. “L’occasione vuole essere l’augurio di Natale da parte dell’amministrazione del carcere ai detenuti, affinché i loro desideri possano realizzarsi” ha detto la direttrice Lebboroni. L’estro e la vivacità di Tony Cercola hanno subito fatto presa sul pubblico che ha seguito lo spettacolo con attenzione e partecipazione: già dalle prime note in diversi hanno raggiunto il palco per unirsi al percussionista suonando e cantando. Cercola ha affidato ad un detenuto tunisino un bongo africano e si è fatto accompagnare improvvisando una canzone del paese nordafricano “mischiata” al dialetto napoletano. Il percussionista partenopeo, che vanta collaborazioni con Pino Daniele ed Edoardo Bennato per citarne alcuni, è stato accompagnato con la chitarra da Francesco Di Vicino nella realizzazione di alcune tracce del suo ultimo cd “Voci scomposte”. Spazio, dicevamo, anche alla poesia con l’autore Antonio D’Errico (autore delle biografie di Finardi, Mimmo Cavallo e di Marco Pannella) che ha letto alcuni componimenti tratti dalla raccolta “Zenit”, scritta a quattro mani con Donato Placido. Accanto al palco non poteva mancare il volontario Andrea Celidoni, insegnante di musica ai detenuti, che ha dato appuntamento ai suoi alunni la mattina di Natale quando suoneranno in occasione della messa. Sia Cercola che D’Errico avevano già avuto modo di esibirsi in carcere, il primo a Poggioreale mentre l’altro ad Alba, questa di Montacuto è stata la loro prima volta insieme. “Scopo di queste iniziative è distribuire energie positive – spiega Cercola che ama definirsi un ‘percussoautore’ in quanto egli stesso scrive i testi che porta in musica – Va recuperata la parte femminile, quella più sensibile, che c’è in ciascuno di noi perché la violenza non serve a niente. Quando uscirete da qui non dovete essere più arrabbiati di prima: la musica vuole essere un mezzo per crescere e tirare fuori la parte più tenera dell’umanità”. “Il carcere è un luogo dove si incontrano le umanità – ha aggiunto D’Errico – Queste persone sono


già state giudicate e noi siamo qui per entrare in contatto con gli altri, siano essi diversi o uguali a noi. Questi istituti fotografano la realtà molto meglio di come la vediamo all’esterno”. ELEONORA DOTTORI

FOCUS: Sport e Diritti, 38 puntata.Un campione gentile alla ricerca del karma: Roberto Baggio. Di campioni del calcio italiano che quando ci pensi ti viene in mente la maglia azzurra della nazionale cucita addosso ce ne sono pochi. Riva, Zoff, Paolo Rossi e Roberto Baggio.Roberto Baggio, il fuoriclasse col codino che nei club ha sempre ricercato la proprio casa trovandola forse a fine carriera soltanto a Brescia. Il fuoriclasse col codino che in maglia azzurra ha acceso i cuori di milioni di tifosi nelle notte magiche di Italia ’90 accanto a Totò Schillaci e che da lì quella maglia non l’ha mai più svestita, amandola più di ogni altra, realizzando 27 gol in 56 presenze e giocando in tre edizioni dei Mondiali (1990, 94 e 98). Roberto “Roby” Baggio nasce a Caldogno nel 1967, i suoi primi calcio al pallone li tira nel cortile di casa, poi nella squadra della sua città e, a tredici anni, passa al Vicenza, dove inizia a dimostrare di non essere un ragazzino qualunque.A soli 16 anni esordisce in prima squadra, in serie B. Le grandi squadre presto si accorgoo di lui: passa alla Fiorentinta, per quasi 3 miliardi di lire nel 1986. Ed è subito chiaro che Roby sia fatto della pasta dei campioni. Grandi colpi di classe, seconda punta illuminata, trequartista dai piedi dorati e dal cervello veloce. I muscoli delicati sono il suo limite, Baggio è come un primo violino d’orchestra. Campione geniale e fragile, i suoi compagni debbono correre e portar legna anche per lui, ma quando si accende la lampadina i piedi rispondono sempre più veloci e precisi di ogni altro. E’ una gioia per i suoi tifosi, una croce per gli avversari, ma in fondo ogni amante del calcio si spella le mani ad applaudire il campione gentile col codino. Nel 1990 il grande acquisto della Juventus di Agnelli, che di campioni ne capiva. 25 miliardi di lire, i tifosi fiorentini in rivolta per il passaggio del loro idolo alla grande nemica bianconera. E’ tradimento. E’ l’estate del Mondiale italiano 1990. Le notti magiche, inseguendo il gol. Baggio, Vialli e Totò Schillaci trascinano l’Italia di Azeglio Vicini ad un passo dalla finale. Ma una sciagiurata uscita in presa alta di Walter Zenga recide il sogno ad un passo dal traguardo contro l’Argentina di Maradona che poi, dopo aver superato gli azzurri ai rigori, vincerà la finale contro la Germania. Dopo i Mondiali, inizia la sua avventura con la Juve che porta i bianconeri alla conquista di uno scudetto, una coppa Italia e una Coppa UEFA. Baggio è un campione diverso da tutti gli altri: gentile in campo ma anche nella vita, a volte fragile come i suoi muscoli. Nella prima sfida contro la sua Fiorentina, Baggio rinuncia a calciare un calcio di rigore e alla fine della partita, coperto di applausi e fischi, va a salutare i suoi ex tifosi ricevendo una sciarpa viola. Baggio è il campione che ricerca la pace interiore nel Buddhismo e nella caccia in Argentina, non ama la ribalta. Ama sua moglie Andreina da sempre, una donna normale e semplice come lui, il campione. Nel 1992-93 con Trap in panchina Baggio trascina la Juve alla conquista della coppa UEFA e lui vince il Pallone d’oro e il FIFA World Player. Tra il 1992 e il 1995 sono tanti gli infortuni che gli ostacolano la definitiva consacrazione come uno dei giocatori più forti di sempre: costola fratturata, tendinite, pubalgia, lesione del tendine del ginocchio destro e distorsione al ginocchio sinistro. L’avventura con la Juventus si avvia alla conclusione, forse la Vecchia Signora non ha dimostrato la giusta pazienza nel coccolare il suo campione ferito, forse l’ascesa del nuovo astro bianconero Alessandro Del Piero ha oscurato il


genio del “Codino”. Nel 1994 è l’anno del Mondiale USA, con Arrigo Sacchi in panchina. Il momento forse più difficile della carriera del Codino. Sacchi lo imbriglia dentro i suoi schemi rigidissimi, a volte lo sostituisce insiegabilmente umiliandone il talento, ma Roby è sempre il migliore e tra alti e bassi trascina l’Italia alla finale col Brasile. 0 a 0 dopo i tempi regolamentari e i supplementari, si va ai rigori, destino beffardo con cui deve fare i conti ogni campione. “Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Un giocatore le vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia...” Cantava Francesco De Gregori. L’immagine di Roby Baggio che piange guardando verso il cielo, il cielo verso cui ha calciato il suo tiro dal dischetto dopo l’errore del capitano Franco Baresi, è uno di quei momenti in cui il calcio fa rima con la vita, e i Campioni sono déi feriti che si accorgono di essere mortali. Nel 1995, pagato 18,5 miliardi di lire, Roby passa al Milan di Fabio Capello con il quale il rapporto non è affatto idilliaco. Stretto nella morsa di altri campioni come Savicevic e Weah, Roby viene insistentemente sostituito o lasciato in panchina dal tecnico di Pieris, riuscendo a fatica a trovare la forma migliore e quei lampi del suo genio si fanno via via più sporadici. Non venne convocato da Sacchi per gli Europei del 1996, Baggio è schiacciato dall’avvento del calcio tutto muscoli e velocità, ripartenze e gioco a zona del predicatore calvo. Dopo l’Europeo del 1996 sulla panchina del Milan arrivò l’uruguagio Oscar Tabarez che decise di puntare di nuovo su Roby. Ma dopo poche partite Tabarez fu esonerato, e al suo posto arrivò Arrigo Sacchi, l’allenatore certo meno amato da Roby, che lo aveva messo ai margini anche dall’amata nazionale italiana. Nel 1997 tornò in panchina rossonera Fabio Capello, che disse chiaramente di non voler più puntare sul Codino, considerato ormai un campione al tramonto. Baggio passò al Bologna, nella speranza di ritrovare il posto il Nazionale per i Mondiali del 1998 in Francia. A Bologna con Ulivieri, nonostante alcune incomprensioni col tecnico toscano, Roby ritrova la fiducia del pubblico, dei compagni e di se stesso soprattutto. Record di marcature, 22 gol, il Bologna mai così in alto, e Cesare Maldini che lo richiama per i mondiali transalpini. In quella stessa estate si trasferì all’Inter di Gigi Simoni e Ronaldo. Fu una stagione travagliata, con ben 3 cambi di allenatore sulla panchina e il gravissimo infortunio del “Fenomeno” carioca. Nella stagione successiva arriva in panchina Marcello Lippi, altro allenatore intransigente che decide ben presto di rinunciare al talento di seta di Roby per puntare a muscoli e collettivo. A fine stagione Baggio fu di nuovo costretto a svuotare il suo armadietto e cercare un’altra squadra in grado di apprezzarlo e farlo sentire a casa, dopo che anche Dino Zoff- nonostante la spinta popolare- aveva rinunciato a lui nelle convocazioni per gli Europei di Olanda 2000. Baggio, stupendo un po’ tutti, firma un biennale con il semplice ed intelligente che capisce l’unica cosa che costruire la squadra attorno a lui, l’unico in grado di grandi squadre come Arsenal e Real Madrid: vuole l’azzurro per i mondiali del 2002.

Brescia di Carletto Mazzone. Un allenatore si può fare con un campione come Roby: fare la differenza. Baggio rifiuta offerte di restare vicino casa, e vuole riconquistare

Nella sua prima stagione il Brescia si qualifica per la Coppa Intertoto, ottiene risultati insperati sotto la sapiente regia del capitano Roby Baggio che regala lampi meravigliosi di classe calcistica assieme al giovane Andrea Pirlo, lanciato proprio da Mazzone a Brescia. Nell’anno successivo, che porta al Mondiale, inizia in maniera splendida la stagione segnando otto gol in 9 partite. Ma poi arriva la doccia fredda: lesione al tendine del ginocchio e legamento crociato. Si teme per la sua carriera. Dopo soli 77 giorni dall’operazione, tanti sacrifici e


determinazione, inseguendo il sogno azzurro come un ragazzino alle prime armi, Roby torna in campo, a tre giornate dalla fine. Il destino gli mette di fronte la “sua” Fiorentina, e dopo due minuti dal suo ingresso in campo, ritrova il gol, salvando poi iil Brescia dalla retrocessione all’ultima di campionato. Ma il Trap, nonostante tutto, non lo convoca per i Mondiali di Korea. Nelle due stagioni successive continua a giocare nel Brescia e, anche grazie ai suoi gol, fa raggiungere alla squadra la qualificazione per l’Intertoto. Il 14 marzo 2004 durante la partita contro il Parma, mette a segno il suo duecentesimo gol in Serie A. Il 16 maggio 2004, ultima giornata della stagione 2003-2004 Roby Baggio è in campo a San Siro per la sua ultima partita, dopo aver annunciato il ritiro. Esce dal rettangolo verde a cinque minuti dalla fine: l’intero stadio gli tributa un applauso lunghissimo, come in ogni Stadio da quando Roby ha annunciato il ritiro. Paolo Maldini, capitano rossonero, lo abbraccia con sincero affetto a nome di tutti gli sportivi cui Baggio ha regalato un sogni. Anzi mille sogni, che sempre si infrangevano, e ogni volta con coraggio, determinazione e classe, in campo come nella vita, Roby Baggio trovava la forza di far rinascere. T.R. FOCUS: Storie di Sport e Diritti nell’Anno Olimpico. 4^puntata-La tragedia di Superga:il destino portò via il grande Torino A volte accadono cose che ci pongono davanti il grande e beffardo dilemma della vita. Per qualcuno è il volere di Dio o del Destino, per altri solo la mano incontrollabile della sorte che si accanisce in maniera incomprensibile regalando dolore. In questa giornata di Pasqua di resurrezione, vogliamo ricordare il grande Torino che la tragedia di Superga ha destinato all’imperitura vita eterna, nella memoria degli amanti dello sport, in una sorta di ascesa nell’Olimpo eterno degli dei con maglietta e pantaloncini. Era il 4 maggio 1949. L’aeroplano FIAT G.212 della Avio Linee Italiane decolla alle 9,40 da Lisbona, con a bordo i giocatori del Torino, che la sera prima avevano disputato un incontro amichevole contro il Benfica, per festeggiare l’addio al calcio del capitano dei lusitani José Ferreira. A bordo del velivolo c’erano anche tre tra i migliori giornalisti sportivi italiani dell’epoca, che narravano le gesta del grande Torino: Renato Casalbore, Renato Tosatti e Luigi Cavallero. Il grande Torino era l’emblema dell’Italia che si era riuscita a risollevare dai terribili anni della guerra, del fascismo, della fame e della miseria. Il grande Torino aveva vinto 5 scudetti consecutivi dalla stagione 1942-’43 alla stagione 1948-’49 e dava dieci undicesimi alla nazionale azzurra. Capitano e faro indiscusso di quella squadra mitica, che aveva fatto del campo sportivo Filadelfia il proprio tempio, era Valentino Mazzola, il numero 10, padre di Ferruccio e Sandro. La squadra titolare, quando ancora si imparavano a memoria le formazioni e i calciatori avevano maglie dalla 1 alla 11, era: Bacigalupo; Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Il clima a bordo era festoso, la notte prima era stata di celebrazione e festa, il ritorno a casa sarebbe stato, come sempre, accolto da entusiasmo e tifosi. Il tempo su Torino è pessimo quel maledetto giorno. Alle 16:55 l’aeroporto di Aeritalia informa il pilota della situazione meteo: nubi quasi a contatto col suolo, rovesci di pioggia, forte vento di libeccio a raffiche, nebbia, visibilità di non più di 40 metri. La torre chiede al pilota un riporto di posizione. Dopo qualche minuto di silenzio alle 16:59 arriva la risposta: “Quota 2.000 metri. QDM su Pino, poi tagliamo su Superga“. Colle di Superga, Basilica a 669 metri i altitudine, il destino attende il Grande Torino per portarlo in braccio alla gloria. Forse anche un guasto all’altimetro, forse una deriva dovuta ad una forte raffica di vento che spostò l’aereo dall’asse di discesa e lo allineò , invece che con la pista di atterraggio, con la collina di Superga. O, forse, la mano di Dio, non quella di Maradona, ma di un dio beffardo che non amava il calcio, che attendeva che fosse fatta la sua volontà. Alle 17,03 lo schianto contro il terrapieno posteriore della Basilica di Superga. Delle 31 persone a bordo dell’aereo non si salvò nessuno. Il


compito di identificare le salme fu affidato all’ex CT della nazionale Vittorio Pozzo, che sarebbe a sua volta dovuto partire per quella trasferta. La tragedia sconvolse l’Italia. Il grande Torino fu proclamato vincitore del campionato di calcio; gli avversari e lo stesso Torino, per le rimanenti partite, schierarono i ragazzi delle formazioni giovanili. Il giorno dei funerali quasi un milione di persone scesero per le strade di Torino per tributare l’estremo saluto ai campioni granata. Un urlo di amore e passione, come quello che ogni domenica li accompagnava sul prato verde del Filadelfia. Un urlo questa volta strozzato di dolore e morte per accompagnare nei campi smisurati dei Cieli quella squadra di campioni. TOMMASO ROSSI Musica & Diritto- Il Signor G. Giorgio Gaber, né di destra né di sinistra “Un’idea, un concetto, un’idea, finché resta un’idea è soltanto un’astrazione. Se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione” Nel corso degli anni tante etichette sono state attribuite al grande Giorgio Gaber, “anarchico”, “vate dei cani sciolti” e tante altre che in qualche modo hanno cercato di rappresentare ed in qualche modo di “inscatolare” la sua personalità eccentrica,istrionica, ironica, forse a volte scontrosa ma sempre tesa alla massima espressività. Forse tutte insieme riescono a dare un’immagine più vicina al vero Giorgio Gaber o forse non bastano. Nei suoi spettacoli del “teatro-canzone” che soprattutto nel corso degli anni ’70 hanno percorso in lungo e largo i teatri d’Italia parole, musica, gestualità ed una voce inconfondibile che risuona in testa anche dopo la fine degli spettacoli sono portati alla massima potenza ed espressione fondendosi e creando un legame con il pubblico quasi estasiato. I costumi e le abitudini dell’uomo-medio venivano trattati con sagacia, ironia molto personale e sferzante, quasi tragi-comica. Il Signor G. Giorgio Gaber (all’anagrafe Giorgio Gaberscik) nasce a Milano il 25 gennaio 1939 da una famiglia veneta. Sin da piccolo la sua salute è abbastanza cagionevole tanto che un infortunio al braccio sinistro gli procura una sorta di paralisi e per curarsi inizia a suonare la chitarra. L’incontro con la musica, seppur dovuto ad una situazione non felice, è subito magia e scintille: qualche anno dopo frequenta già un famoso locale vicino al Duomo di Milano , il Santa Tecla, dove conosce Adriano Celentano ed Enzo Jannacci con cui diventa grande amico. Incontra anche Mogol che gli procura un importante incontro con la casa discografica Ricordi con cui incide il suo primo disco. Inizia poi a suonare in qualche locale e club di periferia cercando di guadagnare qualcosa per frequentare la facoltà di economia che, però, poi in seguito abbandona. E’ però nei primi anni ‘60 che la sua popolarità comincia a crescere, partecipa a quattro edizioni di Sanremo ma anche a caroselli e programmi televisivi. Di questo periodo “La Ballata Del Cerruti”, “Torpedo Blu”, “Barbera E Champagne” ed ancora “Non Arrossire” e “Le Strade Di Notte”. A “Canzonissima” del 1969 si presenta con il brano “Com’è Bella La Città”, un inno e quasi una canzone d’amore per la sua Milano. Pian piano nei suoi testi si presenta sempre più spesso l’impegno politico ma anche la sensibilità sociale che poi diventeranno linfa vitale per la sua arte. Gaber guarda il mondo in cui vive con un certo distacco, è sempre critico e sente ben presto che forse soltanto il teatro può essere il palcoscenico giusto per lui e ciò che vuole esprimere. Certamente la scelta del teatro è una scelta che porta con sé un preciso significato, quello di prendere le distanze dalla “piazza” dove inizialmente anche lui si era trovato a condividere idee ed entusiasmo. Politicamente sempre di sinistra, Gaber è sempre rimasto in qualche modo un libero pensatore, polemico e forse per qualcuno anche scomodo. E’ nel 1970 che Paolo Grassi lo invita al teatro Piccolo di Milano. Qui nasce il suo “teatrocanzone”. Lo spettacolo ”Il Signor G.” è subito un recital di successo, il primo di una lunga serie con cui lavorerà anche con l’amico e collaboratore Sandro Luporini (“Dialogo Tra Un Impiegato E Un Non So”, “Far Finta Di Essere Sani”, “Anche Per Oggi Non Si Vola”, “Libertà Obbligatoria”,


“Polli D’allevamento”, “Io Se Fossi Gaber”, “Parlami D’amore Mariù”). Il “Signor G.” è un personaggio che non recita più un ruolo o meglio recita se stesso. Dirà su di lui : “ è una persona piena di contraddizioni e di dolori”, un signore come tutti … è un signor Gaber, che sono io, è Luporini, noi, insomma, che tentiamo una specie di spersonalizzazione per identificarci in tanta gente”. Il Signor G. racconta storie di marginati della società, ma anche di amore, speranza che a volte diventano disillusione che vivono in una Milano che passa dagli anni turbolenti di fine anni ’60 fino ai difficili anni di piombo fino agli anni ’90. Il teatro diventa la sua ragione di vita, non va più in televisione e non incide dischi per molto tempo, ma pubblica le registrazioni dei suoi spettacoli fatti di canzoni, parole e monologhi. Prova anche con la prosa, in “Il Grigio” e in “Aspettando Godot”, allestito con Jannacci nel 1991. Nel 2001 torna però al mercato discografico con “La Mia Generazione Ha Perso”, disco dai toni se possibili ancora più disillusi e carico di disincanto. Decide di ritornare anche nel piccolo schermo ospite del vecchio amico Celentano. Nel 2003 la malattia che da lungo tempo affligge lo porta via e la camera ardente viene allestita al Piccolo Teatro di via Rovello, un omaggio dovuto ad un grande uomo ed artista; in suo nome e ricorso è stata creata la Fondazione Giorgio Gaber che nel 2004 ha creato anche il Festival teatro canzone Giorgio Gaber. Il suo ultimo disco dal titolo eloquente , “Io Non Mi Sento Italiano”, esce postumo nel 2003. Una sorta di testamento in cui il Signor G. ha racchiuso tutta la sua disillusione ma anche la voglia di rimanere sempre e comunque un uomo veramente libero. A volte è stato anche accusato di “qualunquismo” ma il realtà Gaber ha sempre cercato di rifiutare la “massificazione”, ha cercato di essere sempre intellettualmente vivo ed attivo, quasi arrabbiato, senza essere travolto dal conformismo che tende ad appiattire tutto e tutti, quel conformismo che, come lui stesso cantava, ha portato alla sconfitta la sua generazione. “Esistono due modi di far spettacolo: o vai sul palcoscenico per farti vedere (e quindi affermi te stesso), o ci vai perché cerchi una comunicazione col pubblico. Non dico che con noi in teatro si formi un’appartenenza, ma certo nasce qualcosa che ne fa parte. Sa perché alla fine io grido, faccio queste smorfie, ho queste reazioni? Perché mi vergogno, e mi vergogno perché sono stupito di questo riconoscimento che avviene tutte le sere su cose che io e Luporini abbiamo in qualche modo scoperto per noi stessi. È questo che rende il mio mestiere uno dei più belli che si possano fare. Cosa volere di più, per 120 sere all’anno? (Giorgio Gaber). VALENTINA COPPARONI ROCK & DIRITTO- 8 dicembre 1980: muore John Lennon “Hey, Mr Lennon?” Queste le ultime parole sentite da John Lennon la sera dell’8 dicembre del 1980 prima di morire sotto cinque colpi di pistola calibro 38 sparati da Mark Chapman, cui aveva autografato solo qualche giorno prima la copertina di un disco. Quella sera per molti verrà ricordata come la sera della morte di un pezzo della musica. Lennon si trova a New York insieme Yoko Ono, sua moglie ma anche sua musa artistica. Dopo essere scesi dalla loro limousine, mentre Yoko Ono si affretta ad entrare nel Dakota, lussuoso palazzo nell’ Upper West Side in cui risiedono da quasi otto anni, Lennon viene fermato da un giovane che lo chiama da dietro le spalle. E’ questione di un attimo, il tempo per John di girarsi e Chapman spara uno, due, tre, quattro, cinque colpi di pistola che gli portano via la vita alle 23.07 dell’8 dicembre 1980. La follia di Chapman non si ferma. Rimane immobile ad osservare, come in stato di trans o di estasi, la tragica scena e non soddisfatto tira fuori ed inizia a leggere un libro che ha con sé “Il giovane Holden”, romanzo di Salinger sull’ alienazione degli adolescenti, il cui personaggio centrale, Holden Cauldfield, probabilmente gli è da ispirazione per il gesto. Quando arriva la polizia nemmeno tenta di fuggire. Appena viene ammanettato farnetica soltanto “Ho agito da solo” , “Lennon doveva morire”.


La notizia fa subito il giro del mondo e la reazione è di quelle che rimangono nella storia. Fan di Lennon, dei Beatles e della loro musica si riversano davanti il Dakota a New York ma anche in altre parti del mondo per rivolgere una preghiera, un ultimo saluto a Lennon . Un modo forse per sentirsi tutti più uniti di fronte ad un pezzo della storia della musica portato via cosi tragicamente ed inaspettatamente. Sin dall’inizio delle indagini la ricostruzione della personalità Chapman, cittadino statunitense per un po’ guarda giurata ad Honolulu, offre l’immagine di uno squilibrato, con un passato da tossicodipendente e di ricoveri in una struttura ospedaliera per malati di mente, ossessionato da Lennon e dalla musica dei Beatles in cui lo stesso sembra aver trovato rifugio nei momenti di buio patologico e di solitudine. Una ossessione quella per Lennon che lo porta anche a sposarsi con una donna giapponese che molto probabilmente gli ricorda Yoko Ono. Viene incriminato per omicidio di secondo grado e condannato oltre che all’ergastolo anche ad una pena aggiuntiva di 20 anni di reclusione. Nel 2000 e poi all’incirca ogni 2 anni presenta una richiesta di scarcerazione che il sistema statunitense chiama c.d. sulla parola, ma tutte sono respinte ed ancora oggi Chapman sta scontando la sua pena nella prigione di massima sicurezza della città di Attica nello stato di New York. Il destino anche in questo caso sembra avere un ruolo molto strano. Infatti lo stesso Lennon ha dedicato ai detenuti della prigione di Attica, tra i quali oggi c’è il suo assassino, un suo brano (“Some Time in New York City, Attica State”) Chapman dopo l’omicidio di Lennon viene sottoposto a diverse perizie psichiatriche ed alle domande sul perché di tanto odio nei confronti dell’ex componente dei Beatles risponde sempre con delle accuse rivolte allo stesso Lennon colpevole, a suo dire, di diffondere soprattutto con la canzone “Imagine” un messaggio di speranza in un futuro senza più religioni (per lui fervente cristiano non è accettabile) e di predicare l’abolizione della proprietà privata ma di essere invece lui stesso simbolo della ricchezza. Una delle canzoni più belle di Lennon e di tutti i tempi, “Imagine”, sembra firmare la condanna a morte per lo stesso cantante. O forse no. Recentemente è emersa una nuova teoria sulla sua morte, una delle tante teorie complottistiche che attribuiscono a CIA ed FBI un ruolo di primo piano nell’uccisione di Lennon. L’autore Phil Strongman infatti sostiene che Chapman è stato solo un burattino nelle mani della CIA per volere di fanatici della estrema destra americana , che sarebbe stato reclutato ed addestrato dalla CIA durante i suoi viaggi in tutto il mondo e che probabilmente la CIA stessa avrebbe plagiato la mente di Chapman, somministrandogli droghe apposite e usando l’ipnosi inducendolo ad uccidere Lennon. Complotti o meno, ciò che resta di John Lennon, e che non potrà mai essere uccisa, è la sua musica. Ed il modo migliore per ricordarlo, almeno per chi scrive, è il testo della sua canzone “Imagine”: “Immagina non ci sia il Paradiso prova, è facile Nessun inferno sotto i piedi Sopra Immagina che la gente viva al presente…

di

noi

solo

il

Cielo

Immagina non ci siano paesi non è difficile Niente per cui uccidere e morire e nessuna religione Immagina che tutti vivano la loro vita in pace… Puoi dire che sono un sognatore ma non sono il solo Spero che ti unirai anche tu un giorno e che il mondo diventi uno Immagina un mondo senza possessi mi chiedo se ci riesci senza necessità di avidità o fame La fratellanza tra gli uomini Immagina tutta le gente condividere il mondo intero…


Puoi dire che sono un sognatore ma non Spero che ti unirai anche tu un giorno e che il mondo diventi uno”

sono

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solo

VALENTINA COPPARONI

SALUTE (a cura del Dott. Giorgio Rossi): ‘Non fare autogol’: la prevenzione del tumore fin da piccoli I nostri ragazzi ignorano completamente il concetto di prevenzione . Sette ragazzi su 10 non sanno che il 40% dei tumori si previene fin da giovanissimi adottando semplicemente dei sani stili di vita . Al XIV Congresso Nazionale dell’AIOM ( Associazione Italiana di Oncologia Medica ) recentemente tenutosi a Roma sono stati riferiti, al riguardo , dati preoccupanti . In Italia due ragazzi su 5 , tra i 14 e i 17 anni , consumano regolarmente alcol fuori pasto ; la fascia di età tra i 18 e i 24 anni è considerata la più a rischio per quanto riguarda le bevute compulsive del fine settimana con un diciottenne su 7 che si ubriaca. Un milione e centomila giovani tra i 15 e 24 anni fumano regolarmente , il 23% di loro consuma fino 24 sigarette al giorno con un costante aumento del tabagismo tra le ragazze che rappresentano il 16% contro il 21% dei ragazzi. E poi un’alimentazione sbilanciata ed una vita eccessivamente sedentaria , fanno si che l’Italia detenga un record negativo : siamo la nazione in Europa con la più alta percentuale di bambini ed adolescenti in sovrappeso , circa 300 mila pari a ben il 36%. Stili di vita errati provocano danni alla salute che poi si presentano anche a distanza di 20 o 30 anni . La prova di ciò è rappresentato dall’abbassamento dell’età media di alcuni tipi di tumore e della comparsa di alcuni tumori , come quelli indotti da fumo , tra le donne che in precedenza ne erano quasi esenti . Ed è per questo preoccupante scenario che l’AIOM organizza per il terzo anno consecutivo la campagna denominata “ NON FARE AUTOGOL “ in cui un calciatore della massima serie ed un medico oncologo vanno nelle scuole ad insegnare agli adolescenti come seguire stili di vita corretti per combattere quelli che nella campagna vengono definiti come i “sette vizi capitali “ : fumo, alcol, sedentarietà, alimentazione sbilanciata,eccessiva esposizione al sole ed alle lampade solari, sesso non protetto e doping. Mediante messaggi semplici ma fondamentali lanciati dai loro idoli sportivi ,l’obiettivo è quello di riuscire a convincere i ragazzi che la lotta al cancro si inizia a combattere sin dalle più giovani età . “NON FARE AUTOGOL “ gode del patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Comitato Olimpico Nazionale Italiano ( CONI),della Federazione Italiana Gioco Calcio(FIGC) e della Federazione Medico sportiva Italiana ( FMSI). DOTT. GIORGIO ROSSI

Speciale ‘DIRITTO 180′. Viaggio per immagini e dati alla scoperta della Legge Basaglia Nonostante siano ormai passati 34 anni dall’attuazione della legge Basaglia ed i progressi in materia di disturbo mentale siano molti, è importante ricordare ancora oggi cosa era un manicomio e come tali patologie venivano trattate prima dell’entrata in vigore della legge 180, benché non sia facile risalire alla verità sulle pratiche che venivano messe in atto all’interno di questi istituti. Ilaria Dottori, assistente sociale, ci racconta il contesto storico prima dell’attuazione della Legge 180 e cosa è cambiato con l’intervento di Franco Basaglia. Le immagini a corredo del testo sono state scattate dal fotografo Nicola Gronchi all’ex ospedale psichiatrico di Volterra. Sappiamo che in passato il disturbo mentale era un patologia poco conosciuta e, come molte altre


patologie appena nate e poco studiate, generava paura e talvolta portava all’isolamento del malato. Il ricovero all’interno dei manicomi era usanza nota dell’epoca ma delle pratiche messe in atto all’interno ben poco ci è dato sapere con certezza; alcune fonti descrivono i manicomi come luoghi in cui i malati pativano sofferenze di vario genere, luoghi quindi finalizzati al contenimento della persona malata che veniva allontanata dalla propria famiglia e alla quale erano confiscati i beni. Come detto, però, non vi è certezza di ciò che accadeva all’interno degli istituti manicomiali. Ci sono molte versioni, alcune delle quali contrastanti: fonti non confermate parlano di elettroshock forzato, altre di docce fredde ed altre ancora di lobotomia ma non sappiamo esattamente se tali metodi venissero davvero applicati, se lo fossero in alcuni casi o se, invece, tutto ciò sia solo il frutto della “fantasia” dei racconti degli ospiti di questi istituti e della società dell’epoca, mossa dalla rivoluzione culturale degli anni ’60 che ha portato alla chiusura di queste strutture. In tale periodo, infatti, era diffusa la concezione che la malattia mentale necessitasse di approfondimenti scientifici e che, quindi, il malato andasse non solo curato ma anche ascoltato e compreso. In questo momento storico cominciano a diffondersi le prime pellicole cinematografiche sulla psicanalisi portando una maggiore consapevolezza su questo argomento. Non è un caso che proprio in questo contesto si sviluppa la legge Basaglia e si diffonde la “rivoluzione culturale” che la stessa porta con sé. La legge 180 si basa sul presupposto che la malattia mentale sia la risultanza dell’interazione di una serie di fattori; relazionali, ambientali, culturali e sociali poiché la malattia si manifesta sempre come una frattura con il contesto sociale. La malattia, infatti, è una frattura con la realtà dalla quale derivano forti difficoltà di inserimento sociale e ciò comporta l’isolamento della persona. Proprio per questo motivo è fondamentale recuperare questo aspetto e il trattamento della malattia non può escludere le attività rivolte al sociale. I principi ispiratori della legge 180 sono la prevenzione e la riabilitazione, due aspetti fino a quel momento non considerati, poiché nel primo caso si pensa a dei luoghi ove il soggetto possa rivolgersi appena iniziano a manifestarsi i primi sintomi, e nel secondo caso si vuole attuare tutta una serie di accorgimenti che facciano in modo che il paziente, nonostante la gravità della malattia, non peggiori. Inoltre la nuova legge coinvolge la famiglia del malato, le sue condizioni sociali ed ambientali. Franco Basaglia parte dall’esigenza dimigliorare la gestione e la custodia dei malati ed è da questo principio che nasce la critica radicale all’istituzione del manicomio come luogo di emarginazione e l’obbligo di restituire la dignità al malato come persona, abbandonando l’etichetta di malato mentale. «Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento, il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale ([...]); viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo.» (Franco Basaglia, 1964) La grande innovazione di questa Legge è quella di identificare il malato come un essere umano portatore di difficoltà derivanti dai vari contesti nei quali è inserito (sociale, familiare, ambientale) e quindi mettere al centro dell’intervento la persona. «Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un


altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione.» (Franco Basaglia) Fine prima parte. Eleonora Dottori (con la collaborazione della Dott.ssa Ilaria Dottori( (FOTO : Ph. Nicola Gronchi©)

DIRITTO ALLA CULTURA (a cura del Prof. Antonio Luccarini): Il chiaro di luna di Ludwig Van Beethoven “Noi, esseri finiti, personificazioni di uno spirito infinito, siamo nati per avere insieme gioie e dolori; e si potrebbe quasi dire che i migliori di noi raggiungono la gioia attraverso la sofferenza” (L.V. Beethoven) Per chi come me ha” dialogato” in qualche modo, anche se in passato, con lo strumento del pianoforte, Beethoven rappresenta un punto fermo. Gli spartiti della sua musica sono il ricordo più vivo di quegli anni che riemergono di tanto in tanto impolverati, ma non nei ricordi. In questi giorni ricorre l’anniversario della nascita di questo genio della musica, nato a Bonn in Germania il 16 dicembre 1770. Il padre è tenore nella cappella arcivescovile purtroppo, però, è afflitto da problemi di alcolismo che non rendono facile l’infanzia e l’adolescenza del giovane Beethoven le cui straordinarie capacità musicali, evidenti sin da piccolo, vengono in qualche modo sfruttate dal padre che cerca di renderlo un nuovo Mozart. A 14 anni viene assunto come organista dall’arcivescovo Maximilian Franz, fondatore dell’Università di Bonn, che frequenta per un po’. Per perfezionarsi si trasferisce poco dopo nella vivace Vienna dove si racconta che incontra proprio Mozart; dopo una pausa dovuta al lutto per la morte della madre, vi ritorna per rimanervi fino alla morte affermandosi come eccellente musicista dotato di una straordinaria capacità di scrivere musica più libera dagli schermi tradizionali, con maggiore audacia espressiva sicuramente frutto di un mondo interiore vasto e ricco. Verso il 1798 purtroppo arrivano i primi sintomi della sordità che nel tempo peggiora costringendolo a vivere sempre più isolato e ad abbandonare la sua carriera di concertista. Beethoven vive questa complessa malattia in maniera molto difficile, il suo carattere già molto introverso diventa comprensibilmente più cupo anche se è comunque dotato di una forza spirituale che rimane immensa. Tale aspetto emerge in alcune opere di questo periodo come la Terza Sinfonia, intitolata Eroica, la Quinta e la Sesta (la Pastorale). Credo che sia difficile immaginare il mondo di chi vive senza suoni tanto più se si è un musicista e le note sono i colori della propria vita e la solitudine in cui Beethoven si chiude giorno dopo giorno fa naufragare anche la sua vita sentimentale. Non si sposa nonostante i progetti di nozze e sviluppo un forte sentimento paterno nei confronti del nipote Carl. Agli inizi del 1800 tre nobili mecenati di Vienna si innamorano del genio musicale di Ludwing e decidono di garantirgli uno stipendio annuo anche senza vivere a Vienna. In questi anni compone una delle più belle sonate “Al chiaro di luna” ma anche “Appassionata” oltre ai famosi concerti per pianoforte e orchestra nn. 3, 4 e 5, le sue prime sette Sinfonie; i primi undici Quartetti per archi. Ormai la sordità è quasi completa e il musicista riesce a comunicare con il mondo che lo circonda solo scrivendo dando vita ai celebri “quaderni di conversazione” con cui dialoga con gli amici. Adora le passeggiate in campagna perchè forse solo queste riescono a dargli quella pace che non ha o meglio che la sordità gli ha tolto. Nonostante la sua salute sia molto cagionevole e non solo per l’udito, Beethoven conserva sempre un’incredibile ed ammirevole fiducia, se così non fosse stato egli non avrebbe potuto scrivere un capolavoro come la Nona Sinfonia che contiene il celebre Inno


alla gioia, un invito alla fratellanza universale. Forse è proprio nel periodo della massima maturità artistica che la sua espressività si allontana maggiormente alle forme classiche dando vita e respiro ad uno stile unico, ad una musica da molti definita “assoluta”. Beethoven muore a Vienna nel 1827. Si racconta che durante il funerale al quale partecipa un’immensa folla commossa (tra cui anche il musicista Franz Shubert che 31 anni dopo vorrà essere sepolto accanto), una vecchietta risponde a un viaggiatore di passaggio che chiedeva chi fosse deceduto: “Come, non lo sapete? E’ morto il generale dei musicisti!“. VALENTINA COPPARONI Il mondo secondo Emily Dickinson “Dì tutta la verità ma dilla obliqua Il successo sta in un circuito Troppo brillante per la nostra malferma delizia La superba sorpresa della verità Come un fulmine ai bambini chiarito Con tenere spiegazioni La verità deve abbagliare gradualmente O tutti sarebbero ciechi” Ricorre in questi giorni l’anniversario della nascita di una straordinaria poetessa, Emily Dickinson, nata il 10 dicembre 1830 ad Amherst, nel Massachusetts, dove trascorre tutta la sua infanzia. Secondogenita di Edward Dickinson, noto e stimato avvocato che diventa deputato del Congresso americano e di Emily Norcross, donna dalla personalità molto fragile, riceve dalla famiglia un’educazione che per quell’epoca è sicuramente molto completa oltre che libera. Dal 1840 al 1947 frequenta la Amherst Academy poi le scuole superiori a South Hadley che però è costretta ad abbandonare dopo solo un anno perché si rifiuta di professarsi pubblicamente cristiana. Emily sin da adolescente mostra un carattere molto complicato, sfaccettature contraddittorie ed una fierezza unica. A soli 23 anni però, apparentemente senza motivo, qualcosa la porta a scegliere una vita del tutto isolata dal mondo, a chiudersi in se stessa e nel suo mondo fatto di parole e poesia. Un isolamento volontario, che nessuno forse è riuscito a comprendere fino in fondo, forse per qualche delusione d’amore o forse per delusioni dal mondo esterno, tanto da trovare rifugio e protezione soltanto nell’arte della poesia, della sua poesia. Si affaccia al mondo poche volte, nel 1855 con un viaggio a Washington e pochi e brevi soggiorni a Filadelfia, Boston e Cambridge. Una personalità cosi complessa le regala poche ma importanti amicizie, considera quasi maestri Benjamin Newton, praticante nello studio legale del padre e il reverendo Charles Wadsworth, con cui ha un’intensa corrispondenza,un legame intenso che si interrompe bruscamente alla partenza del reverendo per la California, evento che segnerà profondamente l’animo già fragile e sensibile di Emily. Del tutto assorta nel suo mondo, Emily inizia un periodo molto ricco per la sua vena poetica che si alimenta di studi da autodidatta ma soprattutto di una grande spirito riflessivo ed introspettivo. Da sola ama contemplare la natura o meglio il piccolo giardino verde della casa di suo padre, ama meditare sui grandi temi biblici, perdersi nella lettura del suo amato Shakespeare, di Keats, Browning, Emerson, Elizabeth Barrett, Emily Brontë, ma soprattutto ama scrivere. Nel 1857 un altro importante incontro, quello con lo scrittore e filosofo Ralph Waldo Emerson.La poetessa diventa amica anche con Samuel Bowles, direttore dello “Springfield Daily Republican” giornale su cui saranno pubblicate anche alcune sue poesie. Qualche anno dopo decide di far uscire dal suo mondo isolato almeno alcuni dei suoi versi cosi invia quattro poesie a Thomas Higginson, critico dell’”Atlantic Monthly”. Questo ne rimase affascinato e al contempo sconcertato , un modo nuovo di scrivere che


apre tra i due una lunga corrispondenza fino all’incontro nella casa di Amherst. Anche dall’incontro personale Higginson rimane affascinato ma anche consapevole che forse per quell’epoca il fuoco della poesia di Emily era troppo ardente fatto di semplicità in un contesto in cui si preferiva maggiore ricercatezza e raffinatezza. Tra il 1864 e il 1865 Emily Dickinson trascorre alcuni mesi dalle cugine a Cambridge, nel Massachusetts per curare una malattia agli occhi che , se possibile, la isola ancora di più ma non intellettualmente. Ama circondarsi di poche persone e mantenere con esse una vivida corrispondenza epistolare, essenziale ma viva ed intensa. Leggendo alcune delle sue poesie sembra esserci sempre una continua oscillazione tra ansia ed estasi, spirito riflessivo e desiderio di vivere in qualche modo le emozioni che essa sente affrontando temi di quotidianità, amore per la natura e quelli grande attualità che, nonostante l’ isolamento volontario, la Dickinson conosce e sa affrontare con lucidità. “Fammi un quadro del sole posso appenderlo in camera mia e fingere di scaldarmi mentre gli altri lo chiamano “Giorno!”. Disegna per me un pettirosso – su un ramo così sognerò di sentirlo cantare e quando nei frutteti cesserà il canto ch’io deponga l’illusione. Dimmi se è vero che fa caldo a mezzogiorno se sono i ranuncoli che “volano” o le farfalle che “fioriscono”. E poi, sfuggi il gelo sopra i prati e la ruggine sugli alberi. Dammi l’illusione che questi due – ruggine e gelo non debbano arrivare mai!” Emily Dickinson è considerata da molti tra i più grandi lirici moderni. Al momento della morte solo 7 poesie erano state pubblicate, ma ciò che questa straordinaria poetessa ha lasciato è un bagaglio di ben 1775 componimenti poetici che, dopo essere stati a lungo nascosti e quasi protetti dalla stessa poetessa, sono stati ritrovati scritti su foglietti ripiegati e cuciti con ago e filo contenuti tutti in un raccoglitore. Un mondo che per molto tempo è rimasto isolato come la stessa Emily e che solo dopo la sua morte ha potuto essere universalmente apprezzato ed amato soprattutto dal 1955, anno in cui esce la prima e completa edizione critica delle sue opere. Emily Dickinson muore di nefrite nello stesso luogo in cui è nata, ad Amherst, nel Massachusetts, il 15 maggio 1886 all’età di 56 anni. In tanti anche oggi sono affascinati dalla sua arte ed è citata anche in una canzone di Simon & Garfunkel, “The dangling conversation” che le hanno dedicato un altro brano, “For Emily, whenever I may find her…“ VALENTINA COPPARONI La perenne tentazione sognante di Francesco Musante


“La perenne tentazione della vita è quella di confondere i sogni con la realtà”. Sono le parole del re del rock Jim Morrison a guidare la ricerca stilistica, artistica ed emozionale di Francesco Musante, l’artista genovese delle forme morbide, dei colori vivi, delle linee fluide che confondono realtà, fantasia, immaginazione in un tuffo consapevole e maturo nei sogni dell’infanzia. In queste giornate fredde, il cuore si riscalda davanti alle opere di Francesco Musante, in mostra alla Rocca di Senigallia. Musante nasce a Genova nel 1950, un diploma al Liceo Artistico e poi alla sezione distaccata Albertina di Belle Arti di Torino. Negli anni Settanta, in piena contestazione studentesca, si iscrive alla Facoltà di Filosofia di Genova e frequenta i corsi di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara. Le prime sperimentazioni artistiche arrivano nel 1967, ricerche astratte su grandi campiture di colore. Un anno dopo le sue opere sono già esposte in mostre collettive. Arrivano i concorsi di pittura, i riconoscimenti. Il pennello degli anni ’69-’70 risentono dell’influenza della Pop Art e dei Combine Paintings di Rauschenberg: nei suoi quadri si leggono chiari i riferimenti all’America, attraverso l’uso innovativo di scritte e l’inserimento di oggetti e legni. Novità. Consacra la vita all’arte definitivamente nel 1971. Pittore, scultore e ceramista, nel 1973 fa il suo esordio con una collettiva e una personale tenutasi alla Galleria Il Quadrifoglio di La Spezia. E’ l’anno del boom, l’inizio di un lugno e fortunato percorso artistico che lo vede anche come incisore (dal 1983 compare infatti nei cataloghi delle “Incisioni originali italiane e straniere dell’800 e moderne” della Libreria Antiquaria di Dino e Paolo Prandi). Fino alla metà degli anni Settanta, Musante frequenta Torino. Nella Galleria Sperone entra in contatto con artisti dell’Arte Povera, tra cui Penone. Ma nel ’75 cambia rotta. Musante si dedica alla pittura figurativa. Dal fascino delle figure femminili ispirate a Klimt e alla Secessione Viennese, attingerà per anni con diverse tecniche pittoriche dall’acquarello, all’olio, al collage, all’incisione riversando la sua creatività su diversi supporti come tela, legno, ceramica, lastra, carta. Lavori originali, diversi dall’arte cui il mondo era abituato. Musante approda a Roma, Genova, La Spezia, Milano e Odessa (Urss). Sono gli anni dell’Antologia di Spoon River e di “Alice nel Paese delle meraviglie” di Lewis Carrol. Negli anni ’80 inizia il lavoro con la grafica e gli acquerelli. Agli occhi non sfuggono i primi spunti narrativi e fantastici che contraddistinguono la sua opera dal 1985 fino ad oggi: compaiono i suoi “omini” come saltati fuori da un libro di fiabe e inseriti in contesti pieni di oggetti, personaggi e parole. Le opere di Musante sono un tuffo nell’immaginazione, dove le atmosfere sono colorate, leggere. Influisce nel suo lavoro l’illustrazione di diversi libri di racconti e favole. Dal 1971 colleziona oltre 400 mostre personali nelle maggiori città italiane e all’estero (partecipa all’8° International Triennal of Committed Graphics Arts in the German Democratic Republic di Berlino; al Salon de la Jeune Peinture al Grand Palais di Parigi; all’Interarte di Valencia, al Biaf di Barcellona, Lineart International Art Fair a Gent; “The Artist and the Book in 20th Century” al Museum of Modern Art di New York…). Una lunga carriera segnata da un movimento artistico e intellettuale, che ancora oggi lo porta a essere uno degli artisti figurativi contemporanei più interessanti. Senigallia sta ospitando la sua personale “La Magia dei Sogni”, alla Rocca Roveresca (fino al 4 novembre). Dipinti, illustrazioni, sculture e costumi disegnati da Musante per l’allestimento della “Boheme” rappresentata al teatro Carlo Felice di Genova. Un’esposizione nata dalla sinergia instaurata con le edizioni Cartilia, che mostra come la creatività di questo artista sia legata all’amore per il libro, per la scrittura, per lo stesso alfabeto. La fluidità dei tratti di Francesco Musante sembra raccontare una lunga storia in cui i colori, le parole e le forme rievocano la bellezza pulita dell’infanzia, i suoi sogni candidi, le illusioni di chi si affaccia al mondo con occhi nuovi e ingenui. Gli occhi di chi crede ancora. Le forme sono morbide come sculture di zucchero filato, la parole contaminano il colore e gli spazi come soldatini di piombo in fila, schierati nel cammino del fantasticare davanti all’opera. I personaggi sono quelli dell’immaginario del mondo dell’infanzia, sirene, cuori, trenini, omini, animaletti, poeti, lune, aquiloni, finestre e strade infinite che si perdono e si intrecciano raccontando una storia che tutti, almeno una volta nella vita, vorremmo vivere. E non solo nei nostri sogni. TALITA FREZZI


Rabbits, il delirio onirico di David Lynch «In una città senza nome, bagnata da una pioggia incessante, tre conigli convivono con un terribile mistero». Detta così sembra l’incipit di un romanzo giallo, o di un film noir. E’ invece soltanto l’inizio di un viaggio geniale e delirante di David Lynch all’interno della medio-borghesia occidentale, fatta di stereotipi e discorsi vuoti e privi di senso. Rabbits (Conigli) è una serie di 8 cortometraggi della durata di circa 6 minuti ciascuno, scritta e diretta da Lynch nel 2002. Rabbits narra la storia di 3 conigli che sembrano tanto umani (Suzie, Jack e Jane) interpretati e doppiati da Naomi Watts, Scott Coffey e Laura Elena Harring, che già avevano accompagnato Lynch nell’incubo cerebrale di Mulholland Drive, meraviglioso film del regista australiano del 2001.. Una vita che si strasforma in sit-com, e come esse diventa sciocca e inutile. La famiglia dei conigli umani così assurdi ed vuoti diventa il centro della scena di una scatola mediatica che è la televisione. Dove le parole sono di plastica e le risate finte meccanizzate accompagnano senza alcun nesso logico le sconclusionate discussioni dei conigli. Il tutto nel luogo fisico centro della vita domestica della famiglia occidentale: il divano. La scena è fissa, divano, asse da stiro, un telefono e la porta di ingresso. Inquadratura fissa, fotografia tagliente, luci emozionali e soffuse, dimensione teatrale. Ma l’atmosfera intorno sembra lugubre, misterioso presagio di una fine incombente quanto inattesa dai protagonisti. Il sonno della ragione genera mostri. E la stupidità ucciderà prima la televisione, poi il genere umano. Alienazione, rapporti falsi, sentimenti plastificati. E i conigli dalle orecchie d’asino sembrano un monito che Linch rivolge all’uomo. Reagisci uomo, impara il valore delle cose, dai senso alla tua vita, non seguire banalmente la rotta tracciata dagli altri. I Conigli si stanno impadronendo della società, i conigli si stanno impadronendo della tua famiglia. I conigli si stanno impadronendo di te. Alcuni spezzoni degli episodi di Rabbits sono inseriti nel lungometraggio dello stesso Lynch, “Inland Empire”, e diventano una sorta di filo conduttore al viaggio nella mente del capolavoro di Lynch, e in generale di tutta la sua filmografia. Dove mai si comprende dove si viva il sogno e dove si sogni la vita. T.R.

DIRITTO DI REPORTAGE: Il lungo cammino per la libertà: Viaggio in Birmania 1^ PUNTATA- Strano paese la Birmania, ricco di tradizioni secolari e di contrasti, di dominazioni, di lotte per la libertà, ma anche e soprattutto di grandissima religiosità. Forse la vera libertà che il popolo birmano ha trovato orgogliosamente e mantenuto contro ogni forma di dominazione terrena è proprio la libertà dello spirito. Il Buddhismo è di gran lunga la prima religione del Paese con oltre l’85% dei fedeli, ma ci sono anche minoranze cristiane, induiste, animiste e musulmane.


La Birmania ora non è più Birmania, ma Myanmar. Così han voluto i militari nel 1989, ma il popole e il resto del mondo continua a chiamarla Birmania o Burma. I Birmani furono oggetto dell’imperialismo inglese, ed annessi all’impero anglo-indiano coloniale nel 1824. Furono loro a costruire le modeste ed insufficienti infrastrutture di cui il paese dispone. La separazione dall’impero anglo-indiano, avvenuta nel 1937, causò in Birmania la nascita di movimenti indipendentisti e di aspre e sanguinose lotte. Fu poi l’alleanza stretta da Aung San- il mitico generale buono, padre di Aung San Suu Kyi- con i Giapponesi a dare la svolta, durante la seconda guerra mondiale, per l’affrancamento dall’Inghilterra. Ma ben presto il Giapponesi si dimostrarono ben peggiori di chi li aveva preceduti, e Aung San strinse una nuova alleanza con le truppe inglesi. Nel 1947 fu votato il primo presidente della Birmania libera, ma dopo pochi mesi fu assassinato da un complotto di militari che poi presero il potere adottando un regime assolutamente chiuso verso la modernizzazione e la democrazia. Solo grazie alla meravigliosa e potentissima battaglia di non violenza e compiuta dagli intellettuali della Lega nazionale per la Democrazia e dall’emblematica figura di Aung San Suu Kyi, donna delicata ma fortissima, la Birmania si sta avviando lentamente verso una maggiore democraticità del Paese e si sta negli ultimi anni aprendo all’occidente. Il viaggio inizia da Yangoon, che gli Inglesi avevano snaturato chiamandola Rangoon. Ex capitale, ora non più, ma solo dal punto di vista amministrativo. E’ la città più grande, ricca e moderna della Birmania. In questi giorni si prepara alla prima visita ufficiale da rieletto Presidente degli Stati Uniti di Obama. Ma nelle strade, tra la gente, la percezione di questo evento è molto modesta, scandita solo dal merchandasing bieco di qualche maglietta con la faccia buona di Mr. Barack Obama. La città dà un senso di attesa, imminente, di una modernità che sta per arrivare. Modernità in salsa cinese, ma sempre assai diversa e lontana da ciò che è stata la Birmania finora. Essa è tradizione, religiosità, dedizione al lavoro duro e al sacrificio, grande dignità e decoro, gentilezza e sempre, sempre, un sorriso per tutti. Le persone sono meravigliose: ogni bimbo, ogni donna dal viso colorato da una strana pasta che protegge la pelle e la orna, esprimono una compostezza, una grandissima dignità e pudore, timidezza e la gioia di chi ha realmente sofferto. Sembra tutto venuto da un tempo lontanissimo e intriso di sacralità. Le strade pullulano di vita: traffico caotico, colori, sporcizia, odori, cibo croccante, invitante e solo in certe occasioni igienicamente discutibile. Si mangia assai bene in ogni angolo della città, spendendo assai poco. Riso, noodles (tipo le nostre tagliatelle, senz’uovo ovviamente ma riso o soia), pollo in quantità industriale e sapori forti, piccanti e assai speziati che è impossibile non accompagnare con una buona birra Tiger (thailandese) o, meglio, Myanmar, la birra nazionale. La grandiosità della Shwedagon Paya, una pagoda buddista completamente dorata con dei diamanti imrpessionanti per valore e dimensioni, dà l’idea di una città che ha conosciuto anche una ricchezza straordinaria. La Birmania è piena di giacimenti minerari e di pietre prezione. Forse per questo l’Occidente comincia così tanto ad interessarsi a lei. E poi è nelle condizioni in cui si trovava la Cina una trentina di anni fa. La libertà è alle porte, e con essa i consumi. Ci sarà uno straordinario boom di modernizzazione, nuovi bisogni, consumi, spese, soldi; e questo i Paesi sviluppati lo sanno benissimo. Monti in macchina per uscire da Yangoon, e dopo pochi chilometri di strade tutto sommato accettabile, ti rendi conto che la sensazione precedente è in realtà un’utopia cittadina limitata e forse non realizzabile. Di certo non per tutti. Villaggi davvero impressionanti, casa costruite sul nulla di canne di bambù e caucciù, dove l’acqua non arriva e stagnano pozza che sembrano risaie. E si confondono con esse, distanti pochissimi metri dai centri abitati della campagnia. Migliaia di negozietti di alimentari, che non capisci bene se si vendono e comprano tra loro, o forse la realtà non è affatto lontana da un’economia di baratto. Ma ogni piccola comunità umana ha una sua pagoda dedicata al Buddha, dove l’oro non manca mai, avvolto in genere da lucette lampeggianti


come quelli che si incontrano nei banchetti natalizi cinesi nelle nostre città. Difficile non uscire da un mercato paesano della Birmania con del buon cibo stuzzicante fritto. Difficile anche non uscire con un senso di irrealtà, un peso al cuore ma che non diventa mai compassione, prontamente bilanciato com’è da quella straordinaria fierezza e dignità che ogni volto sporco trasuda. T.R.

Il tempio di Preah Vihear. Il simbolo della civiltà Khmer (di Cristiano Quagliani) Cambogia e Terra. Terra rossa e sottile che finisce prima o poi di invaderti sia fuori che dentro, di entrarti in ogni lembo di pelle. E’ questa la sensazione che si ha viaggiando attraverso il territorio cambogiano: un paese dove le strade sono delle lunghe e interminabili strisce rosse di terra battuta e dove la polvere alzata dal passaggio di camion, motorini e pickup finisce prima o poi di coprirti la faccia e annebbiarti la vista. A quel punto, ecco la visione celestiale, lo stupore che si materializza dopo ore di attesa, il tramite tra cielo e terra. In cima a un’alta falesia facente parte della catena dei monti Dangrek si erge il “Sacro santuario” ovvero il tempio di Preah Vihear, vero simbolo di un intero popolo, il popolo khmer. Il tempio, costruito nel IX secolo, è un classico tempio – montagna ovvero la rappresentazione stilizzata del Monte Meru, la casa degli dei. Ma andiamo con ordine. Gennaio. Stagione di caldo secco e intenso nella città di Siam Reap. Dopo una settimana passata tra le meraviglie di Angkor (ovvero tra i templi più magnificenti costruiti dalla civiltà khmer) decidiamo di dirigerci verso il tempio di Preah Vihar proprio al confine tra Cambogia e Thailandia. La contrattazione avviene al night market di Siam Reap :si presenta da subito estenuante e difficile ma alla fine riusciamo ad affittare una macchina con guida ad un prezzo accettabile per coprire i 300 km che ci separano dai monti Dangrek al confine thailandese. La strada in verità non è molta: arrivare fino alla città di Anlong Veng non ci comporta particolari disagi. La parte più dura però sono gli ultimi 100 km. Passata Anlong Veng (cittadina segnata inevitabilmente dal passaggio in ritirata dei khmer rossi e dalle loro razzie anti-governative) cominciamo una strada tortuosa e senza segnaletica diretta al tempio. La gente dei villaggi che incontriamo è molto gentile e spontanea: ci segnala con grandi gesti (a mò di guide turistiche) la presenza dei cartelli con su scritto “danger mines” . Purtroppo quella delle mine in Cambogia è ancora una piaga aperta: in molti terreni rurali vicino a questi villaggi infatti sono ancora presenti mine inesplose che creano ogni anno vittime e amputati. Servono circa 3 ore e mezza per fare 100 km: a questo punto manca solo la scalata alla montagna alta 525 metri dove sorge il tempio. Lasciamo la nostra “acciaccata” Toyota d’ordinanza e ci mettiamo nel cassone di un pickup per l’ultimo tratto: una salita vertiginosa che ci porta all’ingresso del tempio. Nel cassone con noi ci sono militari, donne con provviste e bambini: tutti cercano un appiglio per non cadere nel ripidissimo tratto in salita. Scesi dal pick up incontriamo turisti proveniente dal versante thailandese del confine: macchine fotografiche pronte allo scatto della vita, bambini dispettosi e ombrellini per proteggersi dal sole. Per loro il tragitto è stato agevole: la Thailandia ha pensato bene di costruire una superstrada (con pedaggio di 400 baht circa 8 euro) che portasse direttamente al tempio. La zona di ingresso al tempio è militarizzata: le bandiere di Thailandia e Cambogia si muovono all’unisono sui pennoni ma in realtà nascondono tensioni e odii mai sopiti tra i due popoli. I militari cambogiani hanno un loro campo con torrette d’avvistamento proprio sull’altura dove è situato il tempio: da qui osservano e tengono sotto controllo i movimenti dell’esercito thailandese. E’ ormai dagli anni sessanta che i due paesi rivendicano la proprietà del tempio: la questione è ritornata alla


ribalta nel luglio del 2008, quando il Preah Vihear è stato inserito dall’UNESCO tra i patrimoni dell’umanità. Per i cambogiani, il tempio è un simbolo molto importante sia per cultura, sia per rivalsa politica nei confronti dei nemici del siam (ovvero il popolo thai). Raggiungiamo la spianata di ingresso al tempio dopo aver percorso una scalinata infinita: di fronte a noi compare la prima “gopura” decorata di ingresso (ovvero la porta). Forte è la sensazione di trovarsi davanti all’ingresso della prima casa come nella saga dei cavalieri dello zodiaco. Il complesso del tempio infatti si estende per 800 metri: passata la prima gopura, ne arrivano altre 4 in successione fino ad arrivare alla parte più alta del tempio. Tutto è intervallato da antiche biblioteche, sale per le offerte ai re e giardini pensili segni di una civiltà antica magnificente e raffinatissima. Al tramonto siamo finalmente alla meta del nostro viaggio: di fronte a noi, dopo una giornata di “espiazione” sia fisica che morale, ci troviamo davanti il panorama mozzafiato delle pianura cambogiana. Non più polvere, ma aria rarefatta purissima: una sensazione quasi di onnipotenza ci pervade. Probabilmente la stessa che animava il sovrano khmer Jayavarman II nelle sue visite al Preah Vihear, il luogo dove poteva parlare con gli dei. CRISTIANO QUAGLIANI


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