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di Giorgio Barberis

È finito il Sessantotto

È finito il Sessantotto. Riflessioni introduttive di Giorgio Barberis (Università del Piemonte Orientale)

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Perché un altro volume sul Sessantotto, che si va ad aggiungere ad una bibliografia ormai sterminata? Che cosa resta ancora da dire, a più di mezzo secolo da quegli anni formidabili, pieni di idee e speranza, ma anche di contraddizioni e disillusioni? L’opinione di chi scrive, unitamente a quella delle autrici e degli autori dei saggi qui raccolti, è che ci sia ancora molto su cui riflettere in relazione a quella stagione decisiva, che ha segnato in profondità - tra cesure inattese ed eredità sorprendenti - la storia contemporanea del nostro Paese e del globo intero. Il titolo del libro che state leggendo - È finito il Sessantotto , nel quale confluiscono ricerche e dibattiti riconducibili - come bene spiegano la Prefazione di Corrado Malandrino e il saggio introduttivo di Stefano Quirico, La nostra ricerca sul Sessantotto: metodologia e temi - al Laboratorio di Storia, Politica, Istituzioni (LaSPI) dell’Università del Piemonte Orientale1 , trae spunto da una canzone del cantautore romano Paolo Pietrangeli, tratta dall’album Karlmarxstrasse del 1974 (riportata integralmente a chiusura del volume). Si tratta di una filastrocca ironica, ma anche malinconica e arrabbiata, con la quale l’autore di Contessa e di Valle Giulia, pietre miliari della canzone politica e di protesta, prende congedo da quell’anno mirabile, che è “finito con un botto” - chiaro riferimento alla strage di piazza Fontana , con la repressione del movimento e gli ideali “ripiegati in tasca” . Eppure sono rimaste tante cose, che fanno del ‘68 una data spartiacque e dei movimenti e delle istanze di quell’epoca un riferimento imprescindibile per comprendere il nostro presente. Ed è ciò che cerchiamo di fare in queste pagine

Dopo la parte introduttiva, il volume si articola in due distinte sezioni, una dedicata ai “luoghi” e l’altra ai “temi” del Sessantotto; sezioni che ovviamente non hanno alcuna ambizione di esaustività - le riflessioni proposte dalle autrici e dagli autori dei saggi sono solo una piccola selezione tra un’infinità di opzioni possibili , ma che nel contempo si propongono

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di delineare un originale percorso di lettura, capace di dar conto della pluralità di voci, di sensibilità, di obiettivi, di critiche, di aspirazioni, di illusioni e disillusioni di una generazione che voleva “cambiare il mondo” (e che almeno in parte ci è riuscita).

Il primo dei “luoghi” che incontriamo nei saggi raccolti nel volume è il capoluogo lombardo, sede di un vivace e variegato mondo underground sul quale si sofferma il contributo di Nicola Del Corno, Alle radici del ’68 italiano: il movimento beat a Milano. Come ben mostra l’autore, nelle manifestazioni beat e provos s’intrecciavano tematiche esistenziali provenienti dal modello americano degli hippies e concrete battaglie politiche a favore di maggiori diritti civili, non con l’obiettivo di “prendere il potere” , ma con l’idea di combattere, mediante le “armi” della provocazione e della non violenza, la società tradizionale con i suoi valori obsoleti e i suoi orizzonti limitati (sintetizzati nell’angusto modello della società delle 3M, ossia “moglie/marito, mestiere, macchina”). Del Corno da un lato mostra come la prospettiva di benessere materiale e di quieto vivere, caratterizzante l’Italia del boom economico, non potesse in alcun modo corrispondere alle aspettative di coloro che volevano ribaltare in profondità i paradigmi sociali “in senso pacifista, libertario, anticapitalista e anticonformista” , ma dall’altro lato evidenzia anche come la rapida politicizzazione della cultura giovanile nel ’68 abbia spinto inevitabilmente ai margini dell’ondata protestataria la dimensione meramente controculturale del mondo beat.Tuttavia, se un certo integralismo ideologico tende ormai a negare legittimità politica a comportamenti “scanzonati e individualistici” , e perciò considerati “borghesi” , una significativa continuità fra movimento beat e contestazione giovanile pare innegabile, con chiari punti di contatto quali la critica alla società dei consumi, l’internazionalismo pacifista, l’antiautoritarismo. A dividere, invece, è soprattutto il nodo complesso della violenza politica, totalmente irrelata alla provocazione situazionista.

L’antiautoritarismo, quale nucleo politico caratterizzante del movimento sessantottino, è al centro anche del saggio di Francesco Ingravalle, Il movimento studentesco antiautoritario del 1968 in Italia. Trento e Torino. Dopo un’analisi generale della rivolta degli studenti, l’autore foca-

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lizza la propria attenzione su due delle sedi principali di tale mobilitazione, ossia la Facoltà di Sociologia di Trento e la Facoltà di Lettere e Filosofia a Torino, nella sede di Palazzo Campana, ed esamina alcuni documenti politici prodotti dal movimento studentesco, che mettono radicalmente in questione l’istituzione universitaria, ma anche - più in generale - il modello socio-economico sia del capitalismo liberista occidentale, sia del capitalismo statal-burocratico orientale (considerati, almeno da un parte del movimento, due facce della medesima medaglia). Con il rifiuto del controllo “totalitario” della vita sociale, si delinea dunque una visione antiautoritaria costruita dialogicamente nella teoria e sperimentata concretamente nella prassi, pur con alcune inevitabili contraddizioni.

Anche il contributo di Stefano Parodi - Il Sessantotto genovese; il Movimento studentesco di Fisica - che ci conduce, appunto, nel capoluogo ligure, e in particolare all’Istituto di Fisica, prende le mosse dall’analisi di alcuni documenti eterogenei sull’attività degli studenti genovesi, che rappresentano non solo una preziosa testimonianza “delle lotte, dei sogni e, talvolta, delle ingenuità” di tutta una generazione di scienziati in formazione, ma anche un generoso tentativo di compiere un’elaborazione teorica originale, che è di grande interesse per la fase storica che stiamo vivendo oggi. In quei testi, infatti, si ritrova una lucida discussione circa il ruolo della scienza e dello scienziato (e del “tecnico”), e una riflessione lungimirante sul rapporto tra scienza e potere (da quello accademico a quello politico) e sui rischi, molto concreti - allora come ora - di strumentalizzazione, economica ancor più che politica, del sapere scientifico, che diventa il mezzo per rendere “oggettive” , e quindi razionalmente, “scientificamente” inevitabili, quelle che sono semplicemente “scelte” politiche. Per quegli studenti consapevoli, riformare l’ università diventa quindi indispensabile al fine di “formare dei ‘ricercatori-tecnici-cittadini’non asserviti al potere (di qualsiasi natura)” e avvertiti della responsabilità che grava sulle spalle degli scienziati, “soprattutto nel momento in cui le scoperte scientifiche rendono possibile la costruzione di armi sempre più distruttive” . La presunta “neutralità della scienza e della tecnica” è, in realtà, fortemente condizionata dagli inte-

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ressi economici, ed è pienamente funzionale al mantenimento di un certo sistema di potere, che diventa “oggettivo” , si ipostatizza, e marginalizza il pensiero critico e la ricerca e la pratica di alternative politiche. Con l’ampio saggio di Cesare Panizza, Una derrota pírrica: il Sessantotto messicano, ci spostiamo invece al di là dell’Atlantico, e più nello specifico in Messico, che rappresenta un caso per molti aspetti esemplare. Vi è un’immagine che più di tutte è considerata rappresentativa del ’68 a Ciudad de México, sede in quell’anno dei Giochi Olimpici: il celebre gesto degli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos, sul podio dei duecento metri insieme all’australiano Peter Norman, con loro solidale, che all’atto della premiazione, quando risuona l’inno statunitense, alzano il pugno guantato, nel saluto delle Black Panthers, a evocare - al di là della generica solidarietà fra tutti i soggetti allora in lotta a livello globale “le rivolte dei ghetti neri delle città statunitensi, piuttosto che le proteste degli studenti messicani” . Era il 16 ottobre. Solo due settimane prima, però, aveva avuto luogo una tragedia immane, che è un po’ più scolorita nel ricordo degli occidentali, ma vivissima nella memoria del popolo messicano: la matanza di Tlatelolco, con centinaia di morti tra gli studenti in piazza, vittime della brutale repressione del governo. Un momento di svolta nella storia del Paese, e infatti, come ci ricorda l’autore, lo slogan “ el dos de octubre nunca se olvida ” riecheggia ancora oggi nelle manifestazioni di piazza.Ad essere analizzati nel saggio sono l’intero ciclo delle mobilitazioni studentesche e i lunghi anni Sessanta messicani, che per molti aspetti iniziano già nella seconda metà dei Cinquanta e finiscono ben addentro ai Settanta.Amobilitare le persone non è tanto, o comunque non è solo la denuncia dell’“imperialismo gringo” , né rivendicazioni specifiche in ambito studentesco, quanto piuttosto motivazioni etiche, quali “l’ira di fronte alle ingiustizie scontate, l’ansia di partecipazione civica, la fame di modernità politica, il voltastomaco per il nazionalismo da operetta, la constatazione delle continue violazioni da parte del potere dei più elementari diritti umani”2 .

Se il movimento studentesco fu duramente represso, la sconfitta fu soltanto di breve periodo - una derrota pírrica, appunto, secondo l’efficace formula coniata da Carlos Fuentes, osservatore direttamente coin-

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volto in quegli avvenimenti3 , e le istanze di liberazione che l’avevano percorso si disseminano nella società e portano al pettine i nodi irrisolti -

“dalla questione femminile a quella indigena, da quella di un libero sindacalismo al peso intollerabile della disuguaglianza economica e sociale, a quella di una informazione realmente indipendente” - di una società in trasformazione e ancora lontana da una democratizzazione effettiva del sistema politico e da una pacificazione del conflitto sociale, anche oggi, malgrado significativi progressi, non del tutto compiuta.

L’ ultimo saggio di questa sezione - Contestazioni, circoli culturali e teatro in Alessandria - ci riporta in Italia, questa volta in periferia. L’autore,Alberto Ballerino, prende in esame la vivace attività, negli anni Sessanta e all’inizio del decennio successivo, di gruppi e circoli culturali attivi inAlessandria, quieto capoluogo di provincia nel Basso Piemonte4 , che in quel periodo vive in realtà una stagione di grande fermento. Un caso per diversi aspetti esemplare di quanto accade in moltissime città del nostro Paese, in cui le istanze del Sessantotto non rimangono confinate nei grandi centri e nelle sedi universitarie, ma si irradiano in modo più diffuso e capillare, pur in contrasto con le “resistenze” dei valori tradizionali e delle abitudini consolidate. Il testo si propone anche di evidenziare il ruolo che quei circoli culturali, insieme al nuovo protagonismo del mondo giovanile, hanno avuto nell’originale scelta istituzionale di avviare il primo esperimento in Italia di gestione del Teatro civico attraverso una municipalizzata di servizi relativi allo spettacolo e alla cultura.

La sezione sui “temi” si apre con il contributo di Luciana Ziruolo, intitolato La scuola italiana nella critica del Sessantotto. Nodo cruciale nella mobilitazione degli anni Sessanta, il mondo della scuola subisce vaste e profonde trasformazioni, di cui l’autrice dà conto, evidenziandone gli aspetti positivi, ma senza ometterne criticità e limiti. “Aben vedere - si sottolinea opportunamente nel testo - vi fu un eccesso di fiducia nella capacità dell’istruzione di cancellare le ineguaglianze di classe. L’espansione della scolarità negli anni Sessanta, con l’accesso all’istruzione di ceti prima esclusi, avviene in un sistema che continua a essere rigido e fortemente selettivo. Gli studenti, notevolmente cresciuti di nu-

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mero, nel 1968 arrivano in università e si scontrano con strutture inadeguate ad accoglierli: un’ università insufficiente sia dal punto di vista quantitativo, sia dal punto di vista qualitativo” . Torna qui il tema dell’autoritarismo, in relazione in questa occasione con la struttura scolastica nel suo complesso, volta a trasmettere una cultura che si limita a riprodurre il sistema dominante. Da qui parte la contestazione, che ottiene importanti traguardi, mettendo per molti aspetti in crisi il modello elitario gentiliano, ma non riuscendo comunque a creare le condizione necessarie a soddisfare le aspirazioni diffuse di mobilità sociale, né a incidere in profondità sui modelli formativi e sulla struttura della società.

Il saggio di Graziella Gaballo, Il ’68 e le donne, parte da un presupposto molto chiaro: quando parliamo di generazione del Sessantotto, in realtà, “parliamo della ‘doppia storia’ di una generazione: una storia di uomini e una storia di donne, che daranno vita a due percorsi diversi” , con molti tratti comuni (in particolare l’antiautoritarismo, l’antistituzionalismo e una forte valorizzazione della soggettività), ma anche con delle peculiarità che vanno analizzate attentamente. In particolare, occorre riflettere - come fa l’autrice - su un nodo centrale, ossia sul rapporto tra le lotte degli anni Sessanta e il movimento femminista successivo. Studenti e studentesse volevano “cambiare insieme il mondo” e criticavano “la morale borghese” , ma “nella pratica dell’attività politica e delle relazioni rispuntava la disparità” . Il cambiamento nei costumi modifica solo in parte i vecchi rapporti di potere tra i sessi, e l’ uguaglianza tra essi è un traguardo ancora lontano. Si fa strada, allora, l’idea di “capovolgere il dogma secondo cui la rivoluzione doveva essere di classe e generazionale e non di genere, perché essa avrebbe automaticamente portato con sé anche il riscatto femminile (Non c ’è liberazione della donna senza rivoluzione), sostenendo che invece la liberazione della donna non poteva e non doveva essere rinviata fino a dopo la rivoluzione, ma doveva iniziare subito (Non c ’è rivoluzione senza liberazione della donna)” . Molte militanti decisero, infine, di separarsi dai loro compagni di lotta, mettendone in discussione la visione complessiva della società e intraprendendo percorsi originali. Proprio questa scelta del separatismo, osserva Gaballo, “permise di operare una rottura radicale con le forme e i linguaggi tradi-

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zionali della politica” , e aprì la strada al femminismo degli anni Settanta, “ ultimo movimento politico di quegli anni a fare la sua comparsa sulla scena politica e sociale, ma anche quello che lasciò sul lungo periodo il segno più profondo nella società, nei comportamenti, nei costumi, nelle mentalità” . Ne conseguono un più radicale senso della libertà femminile, un rigetto definitivo della struttura “patriarcale” dei rapporti sociali, significative conquiste normative e giuridiche, ma anche l’elaborazione di un concetto forte di “differenza” , rivendicata ora come valore. L’ universalità del soggetto maschile, con il suo ordine simbolico, viene messa in discussione alla radice, lasciando un’eredità preziosa alle nuove generazioni.

Due saggi sono poi dedicati al rapporto tra il cattolicesimo, con le sue istituzioni e suoi variegati movimenti, e la contestazione sessantottina, nonché alle eredità che quella mobilitazione ha lasciato nel mondo cattolico, latamente inteso.

Più in particolare, il contributo di Stefano Tessaglia, Giudicare il Sessantotto: Chiesa cattolica e immagine della contestazione, prende le mosse dal Concilio Vaticano ii, che ha trasformato in profondità la realtà ecclesiale e ha dato un contributo decisivo per “liberare energie, rivendicazioni e bisogni del popolo cristiano” . In relazione più specificamente alla critica e al dissenso, che si diffondono ampiamente anche tra i cattolici, l’autore si sofferma sulle prese di posizione e gli interventi di Paolo vi - in cui convivevano “parole di altissimo e quasi mistico ottimismo insieme con espressioni di paterna delusione e amarezza, con rari spunti di polemica e pungente ironia” - e sulle cronache e le riflessioni nell’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede. Uno sguardo particolare, attento e severo, sulla mobilitazione giovanile e sulle tensioni che attraversano la società italiana, con un richiamo alla necessità di “riforme” ma con il contestuale netto rifiuto di istanze troppo radicali e rivoluzionarie.

Anche il saggio di Vittorio Rapetti, L’ eredità del ’68 nel cattolicesimo italiano, evidenzia il rinnovamento ecclesiale, sociale e politico che si è verificato negli anni Sessanta, ed esplora gli intrecci tra mondo cattolico e contestazione, con adesioni e censure, entusiasmi e condanne senza ap-

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pello. Al di là di contrapposizioni anche molto forti, resta comunque innegabile “ una robusta connessione” tra il movimento del Sessantotto e una parte significativa del cattolicesimo italiano, che “si prolunga nei decenni successivi, nelle persone, negli approcci culturali e negli schemi mentali di giudizio” . Il testo propone appunto una lucida rassegna dei principali nodi critici e delle “eredità” del movimento culturale e politico della contestazione, che - ben lungi dall’essere compatto e organico - intreccia sensibilità, atteggiamenti, stili di vita - teorie e prassi, potremmo dire - anche molto distanti, e che includono, non certo in una posizione marginale, esperienze e istanze apertamente cristiane, che giungono - carsicamente - fino ad oggi.

Il saggio di Ferruccio Ponzano - intitolato L’ economia italiana nel 1968 e oggi. Un confronto - ricostruisce, infine, il quadro economico degli anni Sessanta nel nostro Paese, tratteggiando il contesto “materiale” nel quale si realizza la mobilitazione studentesca prima e operaia poi, e mettendolo in rapporto al quadro attuale. Un focus specifico è dedicato all’industria automobilistica, cruciale per l’economia italiana, e alla questione “epocale” della disuguaglianza, che in quegli anni di lotta e fermento viene di molto ridotta, e che è invece assai più acuta oggi, peraltro in un quadro economico di crescente sofferenza.

La “questione operaia” ritorna anche nel contributo di Marco Revelli, incluso nella Postfazione, a chiusura del volume, dopo l’originale approfondimento di Roberto Lasagna, Cinema e Sessantotto. Immaginazione e motociclisti al potere. Il critico cinematografico alessandrino5 propone qui una rassegna - quantitativamente limitata ma qualitativamente ricchissima - di registi e di film legati, cronologicamente o idealmente, al Sessantotto. Ritroviamo così, fra gli altri, Bernardo Bertolucci e Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana, con la sua Meglio gioventù, e lo straordinario Elio Petri de La classe operaia va in paradiso, Michelangelo Antonioni e Jean-Luc Godard, fino alla cinematografia americana, con capolavori come Easy Rider, un vero e proprio “film-manifesto” dell’essenza autentica del Sessantotto “in chiave di cambiamento e libertà senza condizionamenti” . Un passaggio sul cinema “operaio” si ritrova anche nel contri-

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buto, già richiamato, di Marco Revelli, che ripercorre rapidamente i trionfi - nel decennio successivo al Sessantotto - e poi il fragoroso e repentino crollo (dal 1980 in avanti) del “lavoro” al cospetto del capitale, e si chiude con una riflessione - alla quale rimandiamo - che restituisce perfettamente il senso di questo nostro volume. Sì, il Sessantotto è finito, ma studiarne la storia, i valori, le lotte e le conquiste, come anche le contraddizioni e i limiti, è quanto mai utile non solo per comprendere in profondità quell’esperienza per molti aspetti unica, ma anche per orientarci nel nostro tempo inquieto.