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di Stefano Quirico

Giorgio Barberis

La nostra ricerca sul Sessantotto: metodologia e temi

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di Stefano Quirico (Università del Piemonte Orientale)

Come spesso accade alla ricerca scientifica, specialmente nel momento in cui intende uscire dal ristretto ambito accademico e intercettare le priorità del dibattito pubblico, la ricorrenza del 50° anniversario del Sessantotto ha costituito un potente stimolo per riportare l’attenzione su quel complesso tornante della storia novecentesca.Anche il Laboratorio di Storia, Politica, Istituzioni (LaSPI) dell’Università del Piemonte Orientale ha aderito a un’iniziativa tanto più significativa, quanto più la vicenda sessantottesca resta impressa nella memoria collettiva, ma con il dichiarato obiettivo di resistere alle sirene reducistico-agiografiche che talvolta risuonano nell’opera di ricostruzione di quegli eventi. In questo senso sono state concepite tre iniziative pubbliche: il seminario “Studi e ricerche sulla democrazia: dal dopoguerra al Sessantotto” , tenuto l’11 ottobre 2017 in concomitanza con il cinquantenario della morte di Ernesto Guevara (9 ottobre 1967); l’incontro “1968-69: Movimento studentesco e lotte operaie” , promosso il 30 novembre 2018 in collaborazione con l’Associazione Città Futura e con il patrocinio della CGIL-Camera del Lavoro di Alessandria6; il convegno “Il Sessantotto: un fenomeno globale tra storia, politica e istituzioni” , svoltosi il 4 aprile 2019 e diviso in due sessioni, l’ una ospitata dal Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali e l’altra dall’Associazione Cultura e Sviluppo di Alessandria.

Il percorso di ricerca del LaSPI, come già precisato nella prefazione del presente volume, ha assunto fin dal principio una connotazione disciplinare prevalente, quella della storia del pensiero politico. Richiamandone lo specifico approccio metodologico, ci si è proposti di individuare alcune “parole d’ordine” del Sessantotto, allo scopo di ricucire i fili e restituire le sfumature del “discorso” politico intessuto da scritti e interventi riconducibili ai movimenti e agli intellettuali che avevano forgiato lo spirito dell’epoca. Da questa indagine è scaturito un vero

È finito il Sessantotto

e proprio Vocabolario politico, pubblicato a cura di Corrado Malandrino e Stefano Quirico sulla rivista “Il Pensiero Politico” nel 20187 .

In tale sede si è reso immediatamente necessario un chiarimento storico-interpretativo della nozione stessa di “Sessantotto” , troppo spesso associata esclusivamente alla contestazione studentesca e in particolare alle sue manifestazioni più vibranti, come il Maggio francese. Lungi dal voler negare il rilievo simbolico di quella stagione, il saggio introduttivo di Malandrino la rilegge come apice di un fenomeno politico, sociale e culturale di più ampia portata e durata, che affonda le proprie radici nei fermenti di varia natura riscontrabili nella società europea e occidentale quanto meno dalla metà degli anni ’60. Nel contempo, sarebbe riduttivo far coincidere la fine del Sessantotto con la conclusione delle agitazioni più clamorose che gli diedero concretamente corpo: il terreno dissodato dai protagonisti della vicenda sessantottesca è stato coltivato nel decennio successivo, culla di una serie di riforme e trasformazioni sociali e istituzionali in cui si sono riverberate idee e mentalità consacrate dal pensiero critico del Sessantotto8 .

Da questa duplice constatazione Malandrino ricava il concetto di “lungo Sessantotto” , più adatta ad abbracciare l’esteso arco temporale descritto dal fenomeno e, soprattutto, il suo impatto di medio periodo. Limitando l’analisi alla società italiana, è innegabile che alcuni mutamenti nella costituzione formale e materiale del paese maturati negli anni Settanta sarebbero stati meno incisivi – o addirittura impossibili – in assenza della cesura sessantottesca. L’adozione dello Statuto dei Lavoratori, l’attivazione effettiva delle amministrazioni regionali e le riforme dell’ordinamento scolastico e universitario appaiono più o meno diretta emanazione del Sessantotto. Nella medesima direzione si muove il saggio di Tiziana C. Carena e Francesco Ingravalle, che indica nella parola d’ordine dell’“antipsichiatria” il grimaldello culturale offerto dal Sessantotto per scardinare l’oppressiva e a tratti disumana struttura degli ospedali psichiatrici italiani9 .

Rendendo il giusto omaggio al caso dell’Italia, la ricerca promossa dal LaSPI ha inteso mettere in luce il carattere eminentemente transnazionale del Sessantotto. È il contributo di Giorgio Barberis sul “dissenso”

Giorgio Barberis

a evidenziare che tale concetto, pur declinandosi in forme e contesti differenti, costituisce l’elemento qualificante ed esprime la natura più intima di quell’esperienza. Caratterizzandosi come manifestazioni di contrarietà e opposizioni che non provengono dall’esterno, ma nascono all’interno di una comunità, la teoria e la pratica del dissenso si diramano in molteplici direzioni, mobilitando studenti e operai nelle democrazie liberali occidentali e dando voce, per converso, alla disillusione emergente nei paesi schiacciati dall’autoritarismo sovietico. E nessuna istituzione incarna l’idea di transnazionalità meglio della Chiesa Cattolica, la cui opera e predicazione viene in certa misura ridisegnata dal Concilio Vaticano II nella prima metà degli anni Sessanta, cui seguono le Encicliche Gaudium et Spes (1965) e Populorum Progressio (1967). Se i contenuti di tali testi – da leggere anche in connessione con l’azione innovatrice messa in campo da sacerdoti e gruppi cattolici di base – ne testimoniano la prossimità ad alcune istanze liberatrici sessantottesche, le loro date di gestazione e pubblicazione avvalorano una volta di più l’interpretazione riassunta nella formula del “lungo Sessantotto”10 .

Autentica architrave del pensiero sessantottesco è, inoltre, la critica della democrazia, che ne problematizza il legame con la moderna teoria liberale della rappresentanza. Nel mirino dei contestatori è la mediazione quale strumento della decisione politico-parlamentare, ma anche come pietra angolare dei sistemi organizzativi e deliberativi in ambito partitico, sindacale e aziendale. Con la figura del “rappresentante” il discorso del Sessantotto non identifica un soggetto più maturo e consapevole rispetto alla massa popolare, ma – al contrario – il componente di un’oligarchia che avoca indebitamente a sé la facoltà di adottare gli indirizzi generali della vita collettiva. Nella visione sessantottesca, questi ultimi dovrebbero viceversa essere l’oggetto di una discussione pubblica aperta a tutti gli interessati, in cui riecheggino in qualche modo i fasti dell’antica democrazia ateniese. Non è casuale che l’“assemblea” , cui è dedicata la voce del Vocabolario redatta da Filippo M. Giordano, divenga una sorta di icona della democrazia praticata dal Sessantotto in nome di una riscoperta del diritto-dovere degli individui ad autodeterminarsi in tutte le sfere della propria esistenza, dalla famiglia all’ università11 .

È finito il Sessantotto

È certamente sintomatico che, nella temperie sessantottesca, il modello della democrazia liberale-rappresentativa venga preso di mira negli Stati Uniti, suo luogo d’elezione sia nel ricordo del dibattito svoltosi nel momento fondativo della repubblica americana – che esaltava la rappresentanza come risorsa indispensabile per il buon funzionamento dell’esperimento democratico inaugurato dopo l’indipendenza –, sia nella prospettiva della guerra fredda in corso nel XX secolo. Lo scontro ideologico con il blocco sovietico è fra le ragioni che contribuiscono a sdoganare una concezione sempre più scarna e formale della democrazia, di cui la scienza e teoria politica statunitense si fa promotrice nel cuore del Novecento, enfatizzando e legittimando il ruolo delle élites in un quadro democratico ridotto per lo più a competizione elettorale fra minoranze orientate alla conquista del potere politico.

Ma è proprio dai campus americani che partono i più celebri atti d’accusa contro la degenerazione politico-sociale dell’Occidente, dalla Dichiarazione di Port Huron approvata nel 1962 dagli Students for a Democratic Society (SDS), alla pubblicazione di One Dimensional Man di Herbert Marcuse nel 1964. Con largo anticipo rispetto all’Europa, come mostra il saggio di Giovanni Borgognone, gli Stati Uniti divengono l’epicentro di una protesta che, nei suoi risvolti politici, auspica il ripensamento della democrazia su basi partecipative. E a differenza di quanto accadrà di lì a poco nel Sessantotto europeo, permeato dei retaggi di dottrine rivoluzionarie di ascendenza marxista, nel caso americano l’invocazione della partecipazione dal basso alle scelte politiche resta nella sostanza compatibile con le premesse del pensiero democratico moderno12 .

A rinfocolare le tensioni interne ai paesi avanzati è, in quella fase, anche il grido di dolore che si leva dal Terzo Mondo e denuncia lo sfruttamento in atto da parte dell’Occidente, ma rifiuta contestualmente di allinearsi al comunismo di matrice sovietica. È una nuova concezione della rivoluzione mondiale a guidare Ernesto Guevara e gli altri esponenti di punta delle variegate correnti politico-culturali unite dalla convinzione che il fulcro di un progetto rivoluzionario capace di riscattare l’ umanità e superare le profonde diseguaglianze che la affliggono si

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situi nelle aree meno sviluppate, come ci ricorda il contributo di Italia M. Cannataro13 .

Nell’ottica terzomondista, infatti, le popolazioni che risiedono nelle periferie del globo sono vittime di dinamiche imperialiste non più riconducibili all’archetipo leninista e primonovecentesco, ma specifiche dell’epoca bipolare e coerenti con il riassetto delle relazioni internazionali prodotto dal secondo dopoguerra.

Stretta nella tenaglia della guerra fredda e oscurata dalle retoriche del terzomondismo, l’Europa non trova uno spazio autonomo nel discorso politico sessantottesco. Nel saggio dello scrivente, anzi, prende forma l’idea che, tra le parole d’ordine del Sessantotto, sia opportuno annoverare anche una “non Europa” , con lo scopo di rimarcare il disinteresse dei protagonisti di quell’epopea per lo sviluppo politico unitario del vecchio continente14 . Il che può apparire comprensibile nella misura in cui, in quel torno di tempo, è la sinistra tradizionale – prima socialista e poi comunista – a entrare nell’orbita dell’integrazione eurocomunitaria, inizialmente patrimonio esclusivo delle forze democristiane e liberaldemocratiche. Se, dunque, il diverso giudizio sulla costruzione europea può configurarsi come ennesimo fattore di distinzione dai partiti progressisti storici, risulta però paradossale che nelle prime file del movimento sessantottesco operino personalità come Daniel Cohn-Bendit e Joschka Fischer, i quali, a cavallo tra XX e XXI secolo, si segnaleranno per una spiccata sensibilità eurofederalista15 . E su questa curiosa genealogia, che rinvia anche alla marcata propensione europeista presente nel pensiero ecologista contemporaneo, varrebbe probabilmente la pena di ritornare in futuro, esaminandone più attentamente i contorni.

Oltre al Vocabolario politico appena rievocato, la ricerca del LaSPI sul Sessantotto è all’origine di due ulteriori articoli in cui chi scrive ha esaminato la reazione di alcuni noti studiosi e intellettuali dell’Europa novecentesca davanti alla sfida sessantottesca nei confronti della teoria della democrazia16 . I profili dei personaggi coinvolti – RaymondAron, Norberto Bobbio, Ralf Dahrendorf e Nicola Matteucci – coprono l’ampia gamma di tonalità interne al coevo pensiero liberale, dalle sue va-

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rianti moderate, se non conservatrici, a quelle più aperte al dialogo con la cultura socialdemocratica. Non è sorprendente che tutte le figure menzionate si ergano a protezione del principio della rappresentanza, quale condizione ineludibile per la realizzazione degli ideali democratici in età contemporanea, e si prodighino a confutare, tramite argomenti diversi e complementari, gli istituti di democrazia diretta o delegata – dall’assemblea al mandato imperativo – che il Sessantotto riporta agli onori del dibattito politico.

D’altra parte, non può essere ignorata la differenza che intercorre tra le risposte dure, stizzite e talvolta irridenti di liberali a tutto tondo come Aron e Matteucci e le posizioni assunte dagli altri due pensatori presi in considerazione. L’ uno, Dahrendorf, ha alle spalle una militanza nella SPD e non si sottrae al confronto pubblico con i leader del Sessantotto tedesco, a partire da Rudi Dutschke. L’altro, Bobbio, si sforza di coniugare la ferma difesa dottrinaria del modello democratico-rappresentativo con acute valutazioni circa i limiti concreti denotati dalla sua attuazione. È anche lo shock generato dalla contestazione studentesca, che lo tocca persino nell’ambito familiare, a persuadere il filosofo torinese dell’opportunità di intraprendere negli anni ’70 e ’80 la famosa e articolata riflessione sulle “promesse non mantenute” dalla democrazia, in cui troveranno riscontro talune delle critiche sessantottesche. E anche tale circostanza, pur non potendo evidentemente colmare il solco che separa i fondamenti liberaldemocratici della cultura bobbiana dalla radicalità politica del Sessantotto, rende ragione della funzione non puramente iconoclastica, ma anche feconda e costruttiva che alcuni lasciti e provocazioni ideali di quest’ ultimo hanno saputo rivestire nella seconda metà del secolo scorso.

Innestandosi su questa solida base, i saggi riuniti nel presente volume completano la ricerca collettiva, approfondendone l’interesse per alcuni dei temi già affrontati – tra cui il versante cattolico del movimento sessantottesco –, arricchendola di nuovi spunti e concentrandosi in particolare sui contesti nei quali il fenomeno ha attecchito. Il richiamo ad alcune aree del nostro paese, unito al resoconto sulla variante messicana, rende plasticamente la natura polimorfa del

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