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Ormai è troppo tardi
L’EDITORIALE ORMAI È TROPPO TARDI
LUCA SARACHO, 4F
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Ebbene sì ragazzi miei, la Corea colpisce ancora! Non dico ciò solamente in virtù del fatto che, su questo stesso numero del giornalino del nostro liceo, ben due distinti articoli spendono qualche parola sul fenomeno di massa che si è rivelato essere Squid Game (di cui potrete trovare una più dettagliata trattazione nell’articolo edito da Stefano Rovere, sfogliando solamente qualche pagina di questo volume). Lo dico soprattutto perché la serie dei record targata Netflix, che ha tenuto incollati agli schermi di televisioni e non solo un numero stimato di 132 milioni di persone in tutto il mondo nelle sole prime tre settimane dalla sua uscita, è solo l’ultimo esempio di un fenomeno culturale ormai ben consolidato, indicato da taluni col neologismo “hallyu”, che in coreano significa “onda (culturale) della Corea”. Da PSY ai celeberrimi BTS, dal pluripremiato Parasite al record-breaking Squid Game: dalla musica al mondo dello spettacolo, il globo oramai non sembra più poter far a meno dell’intrattenimento orientale. È proprio sull’ultima testimonianza di questa Korean Wave (additata da alcuni come esempio della stretta interconnessione offerta dalla globalizzazione, da altri come tentativo di omologazione culturale dell’intera popolazione mondiale) che io voglio concentrare una breve analisi. E non tanto sulla qualità costruttiva o sui messaggi proposti nei 9 episodi di Squid Game, quanto più su una controversia sorta in ambito genitoriale come reazione a questa serie: l’emulazione di comportamenti potenzialmente violenti nella nostra gioventù. Risale a pochi giorni fa, infatti, il lancio di una petizione sulla piattaforma Change. org finalizzata a fermare la serie sudcoreana, accusata di essere alla base di una drammatica diffusione di gesti violenti tra i più piccoli, tra i quali addirittura (e tenetevi forte, questa è proprio preoccupante) imitare con le mani il possesso di una pistola! Tralasciando il ridicolo di alcune segnalazioni, alcuni genitori han-
no espresso la propria apprensione sulla diffusione del programma in seguito a testimonianze di bambini che, avendo preso parte “allo Squid Game” (qualunque cosa significhi) con i loro amichetti, in caso di sconfitta, avevano subito la punizione di vedere i propri zainetti rovesciati o per terra o addirittura fuori dalla finestra dell’aula scolastica. Se si dovesse stare a tali testimonianze, si arriverebbe subito alla conclusione che il mondo sta andando a rotoli, che il giorno del Giudizio si sta avvicinando, che nelle case degli italiani (e in verità degli uomini di tutto il mondo) trovino rifugio bestie feroci e assetate di sangue, la cui violenza viene fomentata dai poteri forti che controllano le varie piattaforme multimediali. Mi si scusi il tono poco velatamente iperbolico che ho utilizzato, nessuna giovane belva famelica si aggira nelle nostre dimore (per ora). Gli unici che risiedono nelle nostre case sono le medesime persone che urlano magna cum voce al lupo, fingendo di non sapere che il lupo è sopraggiunto proprio a causa loro. Il vero problema non è che Squid Game sia potenzialmente nocivo ai nostri figli (e lo è, tanto che la visione del prodotto è vietata ai minori di 14 anni), ma il fatto stesso che questi ultimi, completamente sprovvisti della maturità mentale per poter scorgere attraverso la violenza il messaggio profondo della pellicola (nella fattispecie, una critica al sistema capitalistico che io ho trovato scialba, poco originale e dimenticabile, ma questo è il mio modestissimo parere), siano entrati a contatto con questi contenuti. Non so se ce ne si sia resi conto, ma queste segnalazioni implicano che bambini che non hanno ancora raggiunto la prima decade di età abbiano visionato scene di mutilazioni ai limiti dell’immaginabile, di grafiche sezioni di cadaveri compiute da trafficanti di organi umani, di tentate violenze sessuali e addirittura di palesi accenni alla necrofilia. Questa non è una serie adatta alla visione di un pubblico così giovane: se avviene l’esposizione a questi contenuti, gli unici a cui è imputabile la responsabilità sono proprio i genitori, a cui è intestato l’account Netflix o, più in generale, i dispositivi multimediali impropriamente utilizzati dai figli. E non si cerchi a questo punto di distogliere la propria colpa, sostenendo che sia inappropriato che violenze del genere vengano riproposte con una tale leggerezza in prodotti così facilmente accessibili ai giovani. Codesto moralismo becero e codardo non fa altro che mettere in luce quanto incompetente si stia pian piano rivelando l’attuale generazione genitoriale. Discostandoci non di molto dalla già citata “onda coreana” e spostandoci invece in ambito nipponico, è innegabile che la violenza sia un elemento essenziale nell’intera produzione di manga, per citare un esempio. Da Shingeki no Kyojin (meglio noto al pubblico col nome di Attack on Titan, o de L’Attacco dei Giganti) a Jujutsu Kaisen, da Tokyo Ghoul per arrivare al monumentale Berserk, la violenza costituisce un sostrato irrinunciabile ai fumetti che moltissimi fra noi amano. Eppure non mi pare che i notiziari riportino di un
numero pressoché infinito di aggressioni perpetrate quotidianamente da estimatori di queste prodotti letterari. Lo stesso Giappone, patria dell’antecedente culturale da cui ha avuto origine il tanto discusso Squid Game, l’immortale Battle Royale, possiede uno tra i tassi di criminalità più bassi al mondo, con un trend addirittura in calo. Ciò è motivato dal fatto che la violenza in tali opere ha una duplice dimensione, che ad una prima analisi potrebbe risultare contraddittoria. Da un lato, infatti, essa possiede un forte effetto straniante, con il quale il lettore riesce concretamente a percepire il divario incolmabile che divide la vita reale dal mondo fantastico in cui egli si immerge per una decina di minuti a capitolo. Dall’altro, invece, essa possiede uno straordinario effetto d’immedesimazione, grazie al quale lo spettatore riesce a sperimentare per scorta tutte le emozioni e gli stati d’animo provati dai protagonisti dei vari manga e manwha, sopprimendo in tal modo le passioni dannose per la comunità celate nel suo interiore. Millenni addietro sarebbe stata definita catarsi da un certo Aristotele, una medicina prescritta all’intera comunità di cittadini dallo stesso Stato; oggi, per inettitudine, alcuni la vorrebbero far passare come un’immorale minaccia. Squid Game da solo non ha scatenato ex abrupto una folle ondata di violenza: ha solo destato l’attenzione di adulti dormienti, che non si erano minimamente sforzati di pensare quali sarebbero stati i rischi di lasciare nelle mani inesperte di bambini, neanche di ragazzi, armi quali gli smartphones senza un’accorta supervisione e senza un puntuale ammonimento circa le modalità con cui usufruirne. Ormai è troppo tardi per cercare di reinstaurare un dialogo attivo tra genitore e figlio, tra autorità adulta e gioventù: il danno è già stato fatto. Come teorizzava Machiavelli nel XXV capitolo del suo Principe, le tragedie accadono poichè l’uomo è incapace di prevenirle, non è in grado di innalzare dei solidi argini in vista dell’impetuosa inondazione di “fiumi rovinosi”. Mi si chiede una soluzione alla crisi genitoriale nell’epoca di internet, degli smartphones, di Squid Game? Non so sinceramente che dirvi. Una cosa tuttavia è certa: ormai è troppo tardi.