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Dark Pills: Mille nell’oscurità
ILARIA MARTUCCI, 2D
Non sapevo perché mi trovassi lì. Un attimo prima uscivo dal mio piccolo appartamento in un vecchio e decadente condominio situato nell’inquinata zona industriale per recarmi alla mia seconda seduta dallo psicologo, mentre qualche secondo dopo chiudevo la portiera della mia inusuale e sgargiante automobile rosso fuoco, che faceva a pugni con la mia personalità scialba. Non sapevo che cosa fosse successo e perché mi trovassi in quel luogo, che faticai a riconoscere tanto era in rovina. Era come se avessi avuto un blackout: non ricordavo niente di quello che mi era successo prima di arrivare lì. Guardai l’orologio che avevo al polso: era quasi mezzogiorno. Eppure, la luce del sole era così debole che pensai si stesse avvicinando la sera. Nuvoloni neri, arrabbiati e dagli ampi ghigni, riempivano il cielo ovunque si guardasse. Davanti a me un cancello rappresentava l’ingresso di una grande villa dall’ampio giardino, il tutto circondato da mura di pietra. Ci volle tanto a riconoscere quel luogo: il cancello era arrugginito e spezzato in molti punti, quasi come se qualcosa di estremamente affilato e resistente lo avesse tagliato, le mura erano sporche e ricoperte di verdognolo muschio, mentre il giardino, una volta curato scrupolosamente,
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aveva l’aria di essere completamente malato. Il tronco di alberi, arbusti e piante era mollemente piegato, quasi non si trattasse di legno ma di un materiale elastico e pieghevole. Le loro foglie erano dello stesso colore del muschio che ricopriva non solo l’antica muraglia, ma anche le pietre che costeggiavano il vialetto che portava all’ingresso della villa. Quest’ultima apparteneva ad un mio zio, fratello di mio padre, che era deceduto da poco. Non vedevo né lui né la sua famiglia da un paio di mesi. In quel momento non riuscivo a ragionare. In effetti diversi miei parenti avevano provato a contattarli ma avevano sempre trovato la segreteria. La loro casa si trovava a decine e decine di chilometri dal mio appartamento, motivo in più per cui non ero andato a trovarli nei precedenti due mesi, e un fatto che mi sollevava ulteriori inquietudini: se ero partito da casa mia a mezzogiorno del 21 febbraio, come facevo a trovarmi nello stesso giorno alla stessa ora davanti a quella villa? Non credevo nel teletrasporto. La mia mente era tormentata, atterrita, sconvolta. Non sapevo perché mi sentissi improvvisamente in quel modo. Demoni sembravano infiltrarsi negli intrecci dei miei pensieri, sporcandoli di grondante e densa ansia che non mi faceva ragionare con lucidità, una paura inspiegabile che blocca la gola come catrame. Il corpo sudato e il battito accelerato, il respiro arrancante. Che cosa era successo in quel luogo? Come aveva fatto una bellissima e sontuosa villa di campagna a ridursi in quello stato in così poco tempo? Che cosa era successo? Che cosa era successo? Quella domanda rimbombava così forte nella mia testa che non riuscivo a sentire nient’altro. Forse la stavo anche pronunciando ad alta voce. Mi incamminai controvoglia lungo il vialetto, l’aria sembrava premere sui timpani, impedendomi di sentire alcun suono. O forse era la paura. Il grande portone di quercia aveva un buco largo quanto la mia testa, dai bordi frastagliati, come mangiucchiati da centinaia di piccole bocche. Sfiorai il legno con le dita e poi aprii il portone, che si richiuse alle mie spalle. Non c’erano suoni. Per questo motivo, quando sentii un sonoro rumore metallico, che rimbombò nel silenzio della villa, mi si gelò il sangue. Una consapevolezza: non potevo più uscire. Non sembrava entrare alcuna luce dal buco del portone, come se il debole baglio-
re del sole si fosse completamente spento. Le mie gambe si muovevano da sole e risalivano nell’oscurità la scala di marmo che portava al piano superiore. Qualcosa mi trascinava, non di certo la mia volontà. Tutti i mobili, i corrimano e i quadri erano mangiucchiati. Arrivai ad un grande soggiorno collegato ad un lungo corridoio. Tutto era immerso nel buio. Improvvisamente, una delle sei lucette di uno dei tanti lampadari si illuminò. Qualcuno potrebbe pensare che l’immagine potesse avermi trasmesso speranza. Non fu così. Quella debole luce illuminò una scena alquanto inquietante. In fondo al corridoio, un fagotto era appeso a decine di… corde? Erano corde quelle che tenevano quella cosa sospesa in aria? Erano dello stesso materiale del fagotto che, man mano che mi avvicinai, distinsi come un ammasso di migliaia di fili perlacei. D’un tratto, un grido disumano lacerò il silenzio. Dolore, immenso dolore. Una voce stridula, angosciata. Proveniva dal fagotto, che ora si dimenava e si muoveva. Gli girai intorno fino a che non incontrai un’immagine inquietante. Un bambino si dimenava con disperazione, intrappolato: occhi rossi e spalancati dal terrore, pelle cerea quasi grigia disseminata di decine di punture rosse e sanguinolente. Non sembrava che mio cugino mi vedesse, continuava ad usare tutte le forze che aveva in corpo per cercare di fuggire e urlare, fino a che, velocemente come si era svegliato nel buio, si spense. Gli occhi si rovesciarono, la sua voce morì e la testa ciondolò inerte sul petto. Era morto. Non c’era più silenzio ormai, sebbene il bambino avesse smesso di urlare. Sentivo un brusio, di maligni sussurri, e uno scalpiccio, come di piccoli piedi sui muri, che provenivano da tutte le direzioni nel buio. La luce del lampadario illuminava solo una piccola porzione del corridoio, come i fari che a teatro illuminano gli attori, e oltre quel cerchio di luce, le pareti non si intravedevano, tanto che avrei potuto pensare di essere in una stanza enorme e non alla fine di un corridoio. Poi, un velo gorgogliante e stropicciato coprì la luce sopra di me pian piano. Sapevo una cosa. Sapevo che le stesse bocche che avevano fatto il buco nella porta, che avevano mangiucchiato i mobili e che avevano fatto quelle punture a mio cugino – e non solo lui probabilmente – , ormai si trovavano intorno a me. I mostri si
nascondevano nelle tenebre. Dimenticai come respirare. Mi voltai lentamente verso il fagotto, dal quale avevo distolto la mia attenzione per guardarmi intorno, come se i miei occhi ne fossero calamitati. Quella forza che mi aveva portato in quel luogo e che mi aveva costretto ad entrare e salire le scale, ora comandava anche il mio sguardo. Lo vidi sulla schiena di mio cugino. La perfidia che emanava sembrava rendermi capace di vedere al buio. Enorme, peloso. Occhi crudeli rilucevano come stagni neri e profondi di notte alla pallida luce della luna. Chele appuntite e schioccanti, sporche di sangue. Un pungiglione nero, come il resto del corpo della bestia, colante di gocce verdi. Otto zampe lunghe. Ragni. Dal nulla, attaccarono. Migliaia, milioni, miliardi. Bestie. Li sentivo ridere. Corsi. Non seppi neanche come, ma corsi come un pazzo, giù per le scale, consapevole che decine di quelle cose mi si aggrappavano ai vestiti, alla pelle perfino. Vidi il portone d’ingresso, non avevo mai avuto così tanta disperazione in corpo. Il cuore sembrava esplodere. Ad un metro dal portone, le gambe divennero molli, il sonno una fortissima tentazione. Caddi davanti all’ingresso, con la mano pensate come un macigno che cercava di aggrapparsi al buco nel legno. Feci solo in tempo a vedere su di essa una grande puntura, che imputridiva a vista d’occhio la carne. Liquido di morte. Poi svenni.