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Faber nostrum: un De André che ci fa male
FABER NOSTRUM
UN DE ANDRÉ CHE CI FA MALE
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PIETRO CATTANEO, 3bb
Vi è mai capitato di soffermarvi sui graffiti che, senza ormai farci quasi più caso, leggete quotidianamente sulle pareti dei bagni del nostro Majo? Io li ho sempre guardati con un misto di ammirazione e disorientamento, come si guarda a tutto ciò che è eterno, ma solo per un po’. Mi affascinano le ultime parole lasciate negli anni dai maturandi e le poesie scarabocchiate sul momento, persino quando frammiste alle onnipresenti imprecazioni e forme falliche. Questa settimana è capitato di stupirmi - sì ragazzi, mi sono stupito mentre ero in bagno - nel leggere alcuni versi dimenticati su una di quelle pareti: “Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior”. Per quei pochi che non lo sapessero, si tratta dei versi con cui si conclude la celebre Via del Campo di Fabrizio De André, canzone del 1967 che tratta della miseria che imperversava in uno dei tanti carruggi di Genova, città natia del cantautore. Questi versi giacevano lì, abbandonati, tra la turca e la scritta “lui è il mio frero!”, e in me qualcosa hanno un po’ smosso. Non saprei dire con certezza se fosse sempre stata lì o se rappresentasse una new entry tra le parole seminate su quei muri. Se per prima cosa ho notato l’ilarità di tali versi, che in qualunque altro posto sarebbero suonati ben meno ironici (di letame ne avran già visto parecchio, immagino, ma ben pochi fiori), mi sono poi chiesto cosa avesse spinto il loro misterioso portavoce a immortalarli lì. Mi sono chiesto perché il sottoscritto torni ciclicamente a sfogliarne l’intera dis-
cografia. Mi sono chiesto quale esigenza abbia portato sedici autori tra i maggiori esponenti dell’Indie italiano a generare, nel 2019, il cover album Faber Nostrum, che a venti anni dalla morte dell’autore suonava - e suona tuttora - ancora attuale. Mi sono chiesto: cos’aveva in più Faber? Ora, Fabrizio De André non è mai stato uno sconosciuto nel nostro Paese. Classe ’40, morì nel 1999 con 38 anni di carriera musicale alle spalle. Volente o nolente, la vita che condusse fece parlare ininterrottamente di lui e molti fattori contribuirono affinché il suo nome corresse sulla bocca di tutti: dall’amicizia con l’attore Paolo Villaggio (sì, proprio quello di Fantozzi), con cui condivideva le simpatie anarchiche, al sequestro di 117 giorni che subì sui monti sardi, da cui oltretutto trasse poi ispirazione per scrivere la bellissima Hotel Supramonte. Fabrizio de André faceva anche molto scandalo. Spesso si ricordano le interviste in RAI e in RSI, costantemente censurate perché l’artista faceva uso di superalcolici in diretta. Anche “La Città Vecchia”, versione genovese e cantautorale dell’omonima poesia di Umberto Saba, fu censurata in due suoi versi per il gergo scurrile. O ancora, ci fu scalpore nel sapere che la canzone che egli reputava «la più importante che avesse mai scritto», Amico Fragile, fosse stata scritta dentro uno stanzino in una notte di ubriachezza. Negli anni ’70, dopo la Strage di Piazza Fontana, fu persino sorvegliato dai servizi segreti, che per via delle sue posizioni politiche lo credettero simpatizzante delle Brigate Rosse, ipotesi questa ad oggi smentita. Il carattere schivo e l’iniziale repulsione per il palcoscenico dell’artista, però, fugarono fortunatamente ogni possibilità che il personaggio pubblico prendesse il sopravvento sul poeta, che mantenne sempre il proprio criptico stile anticonformista. Prova ne è il fatto che, ad oggi, tra i giovani solo pochi disadattati - come il sottoscritto – ne ricordino ancora i molti scandali; è invece molto più larga la fetta di pubblico che si lascia carpire dalla sua trascinante poetica. Chiediamocelo: perché? In primis, la poliedricità linguistica di De André spiazza chiunque per la propria ineccepibilità. Basti ascoltare il modo in cui tradusse dall’americano, dall’inglese antico e dal francese, in cui adattò poesie italiane da Angiolieri a Saba, o in cui vantò con
nonchalance esperimenti musicali in genovese, napoletano e sardo. Probabilmente di italiano ne sapeva qualcosina. Ma mai si accontentò: in Creuza de Mä, del 1984, l’intenzione iniziale di Faber e del collega Mauro Pagani era addirittura quella di usare il “grammelot”, una nuova lingua che avrebbero dovuto coniare di proprio pugno, poi rimpiazzata in realtà dal più genuino genovese. Un’altra cosa trarrei da questa insaziabile ricerca: Faber sapeva lasciarsi ispirare, ma non solo. Inseguiva, cacciava incessantemente l’ispirazione, nella cui ricerca volle a tutti i costi avere un ruolo attivo. Anche a costo di “vivere male per scrivere bene” - per citare il suo collega, più contemporaneo, Nicola Albera, alias Nitro. Il coraggio. Il coraggio rappresenta un ulteriore pilastro del suo stile. Fu in grado di impiegare la propria capacità stilistica per toccare quella fetta di vita tanto scomoda da far male. Non si tratta solo di parlare di attualità e di politica in un XX secolo che volge al termine, no. Certo, Ottocento rappresenta una delle più ironiche e squisite critiche al sistema capitalista che la musica italiana abbia mai prodotto, così come Fiume Sand Creek ci racconta la crudità dei genocidi degli Indios, senza mostrare alcuno scrupolo nello straziare le nostre coscienze; tuttavia, sono solo segnali di una sensibilità capace di spingersi ben oltre. Tale sensibilità emerge in album come Anime Salve, la “lode alla solitudine” di Faber, in cui ci racconta di uomini lontani dal mondo, perché ne sono stati scacciati o si sono arroccati su sé stessi. Oppure ne troviamo traccia in Non al Denaro, non all’Amore, né al Cielo, album liberamente ispirato dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, che immagina le epigrafi di defunti, raccontandone la vita, la morte e i pensieri. In queste e in molte altre opere viene esplorata un’umanità rivoluzionaria, tanto introspettiva quanto sociale: da una parte, viene data voce ad aspetti dell’uomo che non possono essere espressi che con la poesia, perché irrazionali e radicali, come la poesia stessa; dall’altra, ci viene sbattuto in faccia un angolo di mondo a noi estraneo, ma del tutto vicino. De André più di una volta votò se stesso al racconto degli ultimi e, da ateo irremovibile che era, arrivò persino a rifarsi a messaggi evangelici, che altro non fecero che sostenere la sua battaglia per i soli e per i di-
menticati. Nel 1988, Fabrizio dichiarava al quotidiano ligure Il Secolo XIX: «Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste, e l’illusione di poter partecipare in qualche modo a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane». La virtù principale di Fabrizio De André, infatti, non è denunciare o farci riflettere - questo è un pregio che molti suoi colleghi hanno-, è piuttosto la capacità di suscitarci, con un ascolto, un “Ahia” viscerale, un sentore di umanità profondo e imprescindibile, sia questo di natura sociale o introspettiva. De André era indubbiamente un personaggio controverso, anzi: oggi il rischio è quello di renderlo nell’immaginario collettivo una figura bidimensionale, trovandoci ad osannarlo in maniera quasi ossessiva e cieca. Tuttavia, conosceva se stesso e gli altri con una profondità che ben pochi artisti han potuto vantare. È forse per questo che noi giovincelli, nell’animo in nulla diversi dai nostri predecessori, ancora ci troviamo inevitabilmente attratti da versi così. E forse è per questo che riconosciamo un che di immortale nell’esperienza poetica cui comunemente ci riferiamo sotto il nome di “Fabrizio De André”. Sono infatti versi come “Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior”, o “Se non sono gigli / son pur sempre figli, / vittime di questo mondo” ad ambire all’immortalità sui nostri muri e nelle nostre viscere. E sono certo che questo valga più, per Faber, dei molti premi che gli abbiamo accreditato.