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Sacrificare la propria umanità
LUCA SARACHO, 4F
I can add colours to the chameleon, Change shapes with Proteus for advantages, And set the murderous Machiavel to school. Can I do this, and cannot get a crown? Tut, were it farther off, I’ll pluck it down. (William Shakespeare, Henry VI, Part III)
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Nella lunga storia delle vicissitudini umane, nel lungo susseguirsi di regni e imperi, carestie e guerre, nell’immemore presenza dell’uomo su questa disgraziata e dilaniata terra, poche opere hanno posseduto una fama tanto diabolica, tanto spregevole, tanto controversa quanto quella che Il Principe di Machiavelli ha posseduto sin al giorno d’oggi. A chi non verrebbe in mente l’immagine dello spregiudicato e cinico politico pronto a compiere qualsiasi azione si renda necessaria al raggiungimento dei propri fini, nel momento in cui si faccia accenno alla parola “machiavellico”? A chi non si paleserebbe dinnanzi agli occhi il ritratto del celebre duca Valentino, quel famoso Cesare Borgia che parve essere incarnazione vivente degli ideali del principe machiavellico, pronto a tradire il più solenne dei giuramenti pur di mantenere la stabilità politica? L’aura di cui è ammantato ancora oggi il nome di uno dei più grandi pensatori politici non solo della nos-
tra letteratura, ma dell’umanità intera, Niccolò Machiavelli, è tutt’ora indissolubilmente associata all’idea del turpe e del malvagio, dell’immorale e del diabolico, tantoché il titolo dell’opera fu messo al bando sin dal primo Index librorum prohibitorum del 1559, redatto sotto il pontificato di Paolo IV Carafa. Eppure, nonostante l’avversione concepita nel corso di cinque secoli, la voce del Machiavelli pare non essersi mai affievolita. Se i versi tersissimi, armonicissimi, equilibratissimi al limite della più assoluta rarefazione poetica di un Petrarca o di tutta quella tradizione di petrarchisti cinquecenteschi che portarono all’esasperazione un’intera produzione letteraria, fino ad arrivare alla maniera e al concetto, al puro virtuosismo formale di un barocco quale Marino, paiono muti, cristallizzati, troppo distanti dal nostro pensiero e dal nostro gusto per essere minimamente uditi o tantomeno apprezzati, il periodare semplice e compatto, caratterizzato da una sobrietà e chiarezza dagli echi atticisti, quale appunto quello di Machiavelli, pare invece urlare gelido direttamente alla nostra coscienza. Nato nel Cinquecento, Il Principe è un’opera che descrive l’uomo, di tutti i luoghi e di tutte le epoche. Le interpretazioni che sono state date riguardo agli scritti e all’uomo Machiavelli sono innumerevoli, non di rado antitetiche. Ci fu chi vide nelle pagine del Principe la normalizzazione e anzi la promozione di qualsiasi forma di spietata nefandezza ai fini delle ambizioni personali: addirittura lo si arrivò a considerare un manuale atto ad istruire il futuro tiranno del domani. Oppositore di questa opinione fu invece Baruch Spinoza, il quale vide nelle parole lasciateci in eredità dal filosofo e politico fiorentino un monito per i posteri, una lucida descrizione del modo in cui aspiranti despoti avrebbero tentato di ottenere l’indiscusso controllo sulle loro vite. Nella trattazione scolastica e manualistica dell’autore, alla fine del terzo anno di liceo, si suole sempre enfatizzare l’importanza di Machiavelli quale padre della scienza politica moderna, precursore del metodo scientifico sperimentale, massimo teorico della “verità effettuale” e, assieme a Guicciardini, di quell’ideale di “ragion di stato” che, laddove perverrà (si riporti alla mente la Francia di Richelieu e Mazzarino), segnerà
l’alba di un nuovo modo di condurre la guerra e la politica, facendo grandi gli stati moderni. Ciononostante, credo che si sia sempre oscurata, o per lo meno ridimensionata, la vera grandezza dell’opera. La lettura per me più significativa del Principe è quella di un dramma personale, totalmente interiore, nato dal crudele contatto con la realtà. Una disillusione, una salda volontà nel voler vedere la realtà per com’è effettivamente, disadorna da qualsivoglia idealizzazione e moralismo. Si consideri per un momento il mondo in cui Machiavelli si trovò a dover vivere. Un mondo formalmente guidato dai più alti e casti valori imposti da una millenaria tradizione etico-morale che affondava le proprie radici sin nei trattati filosofici d’aurea età romana; un mondo in cui gli specula principis imponevano intransigentemente ai rampolli delle casate nobiliari un ossequio etereo e diafano delle più lodevoli virtù morali. Ma che effetti aveva sortito una così mirabile produzione etica, proprio nella culla della civiltà rinascimentale e prima ancora di quella classica, se non quello di costanti guerre e conflitti? Cos’era l’Italia nel XVI secolo se non un costante teatro di guerra, in cui il fratello irrorava il terreno del sangue del proprio fratello, in cui potenze straniere si fronteggiavano con i loro vili eserciti, all’insegna del detrimento e della sofferenza della povera gente di queste terre? A cosa era servita la costruzione di fantomatici stati ideali, di abbaglianti utopie, se nella “verità effettuale della cosa” il comportamento dei sovrani tradiva costantemente tale sogno, tale illusione? È proprio in questa luce che dovrebbe essere letto Il Principe: come il risveglio da un lungo ed inconsistente sogno; una presa di coscienza sofferta e travagliata. Ne è riprova la sua paradigmatica impostazione dilemmatica, il susseguirsi di una condizionale ideale e di un’avversativa reale che caratterizza l’argomentare dell’autore. Si veda per esempio l’incipit del capitolo XVIII, quello che nella storia ha suscitato la più accesa indignazione presso il pubblico, in cui riecheggia con distinto fragore il doloroso contrasto tra utopia e realtà: “Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede, per esperienzia ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose,
che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.” Pensate al dolore che provò Machiavelli nel dover rinnegare il più romano dei concetti, quello della fides, celebrato da Virgilio e Catullo, da Livio e Cicerone, dagli “antiqui huomini” da cui aveva ricevuto “amorevolmente” gli insegnamenti, quel “cibo” di cui si pasceva nello studio serale dei classici che, egli scrisse al Vettori, “solum è mio e ch’io nacqui per lui”. Eppure, trattenendo il dolore, alzando il viso in cielo per evitare che le lacrime potessero rigargli il volto, Machiavelli commise il più grande parricidio nella storia della letteratura, tanto da far sembrare poca cosa il Parmenicidio di Platone. Fu così che egli scelse la via dell’amoralità. Non dell’immoralità, ma dell’amoralità: decise non di infrangere, bensì di prescindere dai precetti comportamentali che erano stati rovina dell’intera penisola. Nacque in questo modo la separazione tra politica e morale; anzi, oserei dire che in questo modo nacque il primato della politica sulla morale. Potrà sembrare singolare come citazione, ma come disse Armin Arlert nell’episodio 25 di Shingeki no Kyojin, intitolato “Le mura”, “Solo chi è pronto a rinunciare a ciò a cui tiene di più sarà in grado di cambiare le cose.” Machiavelli, come il suo ipotetico principe avrebbe dovuto fare, rinunciò alla morale, alla rettitudine, al sapere dei padri e degli antichi, alla propria umanità pur di offrire a questa (tuttora) martoriata penisola un futuro. Nondimeno non gli si volle dare ascolto; e qui oggi ci ritroviamo.
Riflessioni suscitate dalla prima traccia delle Olimpiadi di Lingue e culture Classiche