Ticino Management Donna: Autunno 2022

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FOCUS

Il valore del linguaggio

TENDENZE

Fashion Week, tutti i colori di Milano

ARTISTI

Universi creativi per tutti i sensi

Spazi d’autore, linee teatrali

DESIGN
N.90 • Autunno 2022 - Fr. 12 / Euro 12
Sofa / Pierre Armchair / Ambra Coffee Table/ Bonsai
MILANO
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CHIUSURA REDAZIONALE: 3 ottobre 2022

ALFABETI DA LEGGERE

Dell’ultima ora, sì, ma dall’eco planetaria. Una notizia che apre nuovi scenari. Il Nobel per la Medicina quest’anno è andato al biologo svedese Svante Pääbo. Una sorta di archeologo del Dna. Ha rivelato infatti le differenze genetiche che distinguono gli esseri umani dagli ominidi, inaugurando la paleogenomica. Grazie a lui, potremo forse scoprire che cosa ci rende veramente umani. Di sicuro, il linguaggio. In dotazione all’essere umano a seguito di una mutazione avvenuta tra 200 e 120mila anni fa.

L’essenza dell’umano. Oggi sono circa 140 le lingue ufficialmente riconosciute, anche se in realtà ne esistono migliaia, si stima tra 5 e 10mila, a dipendenza del confine che si pone tra lingua e dialetto. È vero, il linguaggio è parola, ma anche molto di più. Suono e immagine. Emozione e razionalità. Cultura e scienza. Politica e moda. Comunicazione, verbale e non verbale.

La moda, per esempio, con il suo personale lessico. Lo abbiamo esplorato in vari articoli dedicati alle tendenze attuali e a quelle per la prossima primavera-estate. Il servizio esclusivo dalle sfilate della Fashion Week milanese sintetizza estro e gusto degli stilisti più amati. Non mero sfoggio, l’abbigliamento parla di identità culturale, mostra i segni di un’epoca, con il suo retaggio storico e le sue proiezioni nel futuro; non si limita a svelare i materiali e le forme che vestono i corpi, ma di quei corpi esprime le individualità che, nel loro insieme, fanno la società. In tal senso, la moda è antropologia.

Anche altri linguaggi permettono agli individui di comunicare. Il dialogo nelle relazioni umanitarie; il digitale, che si fa minaccia cybernetica e guerra d’informazione; l’arte, che sia poesia o provocazione.

Su tutto, l’immagine, con il suo dominante codice di comunicazione, binario e virtuale, sempre ipertestuale, votato alla contaminazione di canali e forme. Lo dimostra anche una disciplina tradizionale come la danza. Fondata sul qui e ora, sul corporeo. Sempre più pronta a sperimentare per lanciare riflessioni sulla realtà contemporanea.

Un esercizio con cui si è confrontato questo Ticino Management Donna, edizione d’autunno. Stagione del rientro scolastico e tempo perfetto per la riflessione. Perché ne siamo certi, non sono solo parole.

Simona Manzione
EDITORIALE

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FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE

Involuzione o evoluzione?

Cambiamenti della lingua: naturale trasformazione o regressione?

Affermazione vo ' cercando

L'italiano, lingua ufficiale della Confederazione: realtà sfaccettata.

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La vertigine della traduzione

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La sede della parola

Alle origini neurologiche del mistero del linguaggio.

CASTELLO DI TARASP, CANTON GRIGIONI

Sempre e in eterno

Anna Seiler

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Pari ancora dispari

Analizzare il divario di genere a livello di salari e rendite pensionistiche.

Che genere di malattia?

La sfida di parlare di malattie legate al genere, fra pregiudizi e consuetudini.

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Vittime designate

Le donne pagano la sessualizzazione della violenza su e dietro lo schermo.

L'abito fa il monaco

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All’antropologia della moda il compito di indagare il ruolo dell’abbigliamento.

A fianco dei più vulnerabili

Barbara Schmid-Federer ai vertici di Croce Rossa Svizzera e Pro Juventute.

Un amore subdolo

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Insidie cyber

Fra esplosioni di violenza e false riconciliazioni, un ciclo inesorabile. 6

Le intersezioni tra politica e sicurezza informatica: una questione nevralgica.

43 OPINIONI
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28 SOCIETÀ
Alle origini della filantropia in Svizzera la generosità di una donna. 16
Creatura anfibia, in parte scrittore e in parte critico, il traduttore gioca la sua partita con la lingua.
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STILI E

TENDENZE

Ad alta intensità

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Tendenza fitness molto in voga, gli allenamenti a intervalli ad alta intensità.

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Elisir di bellezza senza tempo

In piena rivoluzione femminile, il primo istituto di bellezza a Lugano.

Autunno, perBacco!

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Il mood di stagione: capi avvolgenti, ma con un twist inaspettato.

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Anteprime di moda

Reportage dalle sfilate della Milano Fashion Week.

Creatività secondo natura

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PASQUALE BRUNI

Una finestra sul lago

A Gandria, una cantina secolare trasformata in dimora di famiglia.

Un design misurato

Originali soluzioni progettuali per la zona notte e giorno.

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I gioielli di Eugenia Bruni. Anima delicata, passionale e sensuale.

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Parigi diffonde colori

Le collezioni di Maison&Objet Paris svelano le nuove tendenze décor.

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Il dinamismo della danza

Una disciplina che sa muovere e lanciare riflessioni sul contemporaneo.

Dalle passerelle ai musei

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Weekend autunnali nelle grandi città visitando le mostre dedicate alla moda.

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C'era una volta...

I castelli svizzeri. Dalle fortezze alle atmosfere fiabesche o più stravaganti.

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Seduzione d'Oriente

Legno, colori naturali, funzionalità e ordine per lo spazio cucina.

CULTURA

Liberatoria, giocosa e potente

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Niki de Saint Phalle, un’outsider che ha conquistato il grande pubblico.

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Tra le nuvole

Jean, Sophie e Marguerite protagonisti alla Fondazione Arp di Ronco dei Fiori.

Vibrazioni armonizzanti

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La prima edizione della Bissone Harp Competition, con importanti presenze svizzere e internazionali.

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FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE

Non frontiere politiche o geografiche, né barriere sociali: “I confini del mio linguaggio, sono i confini del mio mondo”.

Forse l’enunciato più famoso e spendibile di un’opera complessa come il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Non occorre entrare nel merito, per avvertirne in tutta la sua vertigine la limpida rivelazione. Un’evidenza che si tende a dimenticare. Nella sua stratificazione di elementi lessicali, morfologici e sintattici, è il linguaggio a permettere di formulare un pensiero e di condividerlo, di sviluppare una nuova idea, sostenere una tesi, argomentare una posizione o, semplicemente, esprimere un sentimento al di là di gesti e sguardi. Di dire dunque, ma anche di fare. Più che uno strumento, l’essenza distintiva dell’umano. A partire dal mistero che lega, nel segno linguistico, il significante al significato, ovvero l’elemento grafico o acustico e il concetto o l’oggetto che rappresenta. Certo, un neurologo può scientificamente indicare le aree del cervello che sovrintendono alla sua elaborazione, ma ciò non toglie l’interrogativo profondo su cosa sia il linguaggio umano.

Nella tradizione biblica, Dio stesso a ffi da ad Adamo il compito di dare un nome ad animali e cose: pur creati, non potrebbero altrimenti essere detti ed esprimere il loro significato. Solo uno dei tanti esempi possibili tra le narrazioni cosmogoniche, così come ogni scuola filosofica si è confrontata con quello che è sempre stato uno dei temi capitali, ben prima che nascessero i linguisti di professione.

Oggi si lamenta un impoverimento del linguaggio che colpisce tanto il bagaglio lessicale, quanto la strutturazione del discorso - e non vale solo per l’italiano - mentre l’inglese impone la sua tecnocrazia a suon di neologismi. Congiuntivi e subordinate latitano. Si perdono le sfumature, ma anche concatenazioni logiche essenziali al senso. Tutta colpa del digitale, con il suo mix ipertestuale, sempre più sbilanciato su immagini e audio? Rimpiangere i bei tempi andati significherebbe limitarsi a una lettura superficiale della trasformazione in atto, specie per una lingua come l’italiano, a lungo ristretta a un’élite, prima che proprio i media - allora tv e radio - la nazionalizzassero de facto. D’altronde la lingua è e resta materia viva. In che misura ancora sia percepita come fondamentale, lo mostra il terreno della questione di genere, con la ricerca di una parità che sconfina non di rado nell’ipercorrettismo. Quanto una lingua possa essere disciplinata dall’alto, da accademici e politica, quanto siano invece i parlanti a farla, è una delle domande che si è posto Ticino Management Donna in questo Focus dedicato alle competenze linguistiche. Più che risposte, si vogliono off rire spunti di riflessione. Che toccano anche la traduzione, altro fondamentale processo di interpretazione e comunicazione di cui si tende a sottovalutare la valenza, quando comode App risolvono in un clic. Senza dimenticare che, come italofoni in Svizzera, viviamo una peculiare situazione, confrontati alla ricchezza di prospettive di una nazione plurilinguistica, dove l’italiano va però tutelato, lingua madre solo dell’8,4% della popolazione, come si impegnano a fare la Confederazione stessa e il Forum per l’italiano in Svizzera.

INVOLUZIONE O EVOLUZIONE?

Come interpretare i cambiamenti della lingua? Trasformazione

fisiologica di uno strumento vivo, che riflette i mutamenti sociali, oppure sintomo di una regressione non solo delle capacità espressive ma anche di ragionamento e intellettuali?

L’unica certezza: non sono solo parole

Si calcola che il lessico medio di un italofono ammonti a settemila lemmi contro le 145mila voci che segnala il dizionario. Il 90% dei discorsi quotidiani è costruito ricorrendo a un bagaglio minimo di duemila parole. Un’enorme sproporzione. Termini come acribia, facondia, irretire, recalcitrante, solerte o velleità - non particolarmente specialistici - vengono sempre meno usati, tanto da aver spinto lo Zanichelli a inserirli fra le 3.126 #paroledasalvare nell’iniziativa lanciata ante pandemia. A luglio è poi stato finalmente inaugurato il Museo nazionale della lingua italiana, naturaliter a Firenze. Un’istituzione che non si vuole un monumento alla lingua, ma dinamica, forte di una strumentazione tecnologica interattiva e di una vivace programmazione.

L’eventuale impoverimento lessicale non sarebbe che la prova più palese di una più ampia regressione delle competenze linguistiche, complice l’irruzione di quello che a tutti gli

È vero che una lingua ricca, precisa e ben padroneggiata permette di esprimere pensieri più complessi, in modo più chiaro, ma questo non autorizza a considerare qualunque allentamento della norma come una dimostrazione di impoverimento cognitivo collettivo

11 FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE DI SUSANNA CATTANEO
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effetti si qualifica come un nuovo strumento di comunicazione, il digitale, con la sua natura ipertestuale che premia immagini e audio a discapito dello scritto, tutt’al più ridotto a forme sloganistiche (dunque a loro volta iconiche) o prosaicamente vicine al parlato. A questa visione si contrappone chi, ricordando invece come la lingua sia materia viva, esorta a un’analisi meno superficiale e disfattista: evoluzione fisiologica e non involuzione culturale. D’altronde qualcosa vorrà pur dire se persino il sorvegliatissimo accento della regal dizione di Elisabetta II è cambiato costantemente nel suo lungo regno, come attestano le registrazioni dei tanti discorsi ufficiali, a partire dal primo celeberrimo del 1947, molte volte riecheggiato in questi giorni. Innegabilmente, il passaggio alle varietà digitate ha segnato l’italiano degli ultimi due decenni. «La diffusione di internet e della messaggistica ha improvvisamente riavvicinato alla lettura e alla scrittura moltissime persone della ‘generazione della televisione’, che a volte abbandonava il contatto con la lingua scritta con la scuola senza più recuperarlo nel corso della vita», ricorda Laura Baranzini, linguista e ricercatrice dell’Osservatorio linguistico della Svizzera italiana (Olsi). «Si è trattato di adattare la lingua scritta a usi anche estremamente informali, dialogici, con tempi di reazione rapidissimi e condizioni di interazione per certi versi più simili a quelle del parlato informale. Questo da una parte ha prodotto una semplificazione del sistema e l’innalzamento della soglia di tolleranza di fronte allo scostamento dalla

norma linguistica codificata, ma dall’altra ha fatto nascere nuove forme espressive, nuovi usi linguistici, un ampio repertorio lessicale nuovo e nuovi rituali pragmatici», evidenzia la linguista, che è anche docente all’Istituto di studi italiani dell’Usi.

In sostanza si è amplificato un processo che, nel caso dell’italiano, era cominciato a inizio secolo scorso quando, su impulso dell’unificazione politica, da lingua prevalentemente scritta e riservata a un’élite intellettuale è diventato lingua di tutti, adattandosi all’uso vivo, quotidiano, anche parlato di una comunità linguistica molto più ampia, modellandosi su tratti fonologici, morfosintattici e lessicali molto diversi a seconda del sostrato dialettale delle zone.

«Vero è che una lingua usata da tutti sarà verosimilmente meno colta, meno complessa e meno normata, ma non significa che non continuino a essere impiegate anche le varietà più alte e controllate. Si nota una naturale tendenza a considerare come meno corretto, meno completo e meno bello ciò che si discosta da quello che si conosce, senza rendersi conto che la lingua su cui si costruisce la propria percezione della norma

FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE

è essa stessa il risultato di semplificazioni, slittamenti di significato, neologismi, reinterpretazioni di strutture esistenti», puntualizza Laura Baranzini, invitando a non usare le categorie estetiche nella valutazione linguistica: un’opera letteraria può essere più o meno bella, ma una parola o un’espressione non hanno un valore intrinseco a livello estetico, se non per il singolo individuo.

«Si tratta, come spesso capita, di distinguere: è vero che una lingua ricca, precisa e ben padroneggiata permette di esprimere pensieri più complessi, in modo più chiaro, e che lavorare sulla capacità espositiva è fondamentale per migliorare anche le doti argomentative e ragionative, ma questo non autorizza a considerare ogni cambiamento linguistico come prova di involuzione o qualunque allentamento della norma come dimostrazione di impoverimento cognitivo collettivo», afferma la ricercatrice.

Il fatto che per l’italiano non esista un’istituzione linguistica con potere normativo paragonabile all’Académie française e la Real Academia Española (l’Accademia della Crusca, pur nata prima, verso il 1583, proprio attorno alla questione linguistica, non detiene alcun ruolo normativo) ha un suo importante riflesso anche nell’accoglienza più generosa degli anglicismi, che per contro l’istituzione francese e spagnola hanno esplicito mandato di limitare.

«Di fatto, nel caso dell’italiano è l’uso ripetuto da parte di alcune ‘autorità implicite’, come media, comunicati ufficiali e discorsi politici, a contribuire alla loro diffusione e standardizzazione. A conferma di ciò, la situazione si presenta piuttosto diversa nell’italiano parlato in Svizzera. Qui, in tempi recenti, abbiamo visto diffondersi l’uso del telelavoro contro lo smart/homeworking in Italia o del certificato Covid o vaccinale contro il greenpass italiano», nota la ricercatrice dell’Olsi. In epoche precedenti altre lingue hanno avuto un peso analogo all’odierno inglese, ed è il loro lessico ad aver colonizzato altri idiomi. Quando poi le innovazioni in un campo specialistico sono strettamente legate a una lingua, i termini che le indicano vengono integrati come tecnicismi senza sostituire il corrispettivo, ma aggiungendo la forma specialistica: ad esempio, se posta elettronica è un sintagma troppo lungo, l’abbreviazione posta non sarebbe abbastanza specifica, mentre email ha il vantaggio della brevità e mail risolve l’ambiguità proprio grazie al fatto di essere un anglicismo. «Nella storia recente l’inglese ha mostrato la sua posizione dominante in ambito tecnologico e informatico, ma in passato il francese ha lasciato molte tracce nel lessico della danza, della moda o della cucina, per non parlare dei

ANCHE NELL’ERA DEL DIGITALE BIBLIOTECHE E LIBRERIE

RIMANGONO LUOGHI DI INCONTRO CON PAROLE, LIBRI E PENSIERI FONDAMENTALI. A DESTRA, LA MODERNISSIMA

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FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE
DI SINGAPORE. A SINISTRA, I TRE PADRI DELLA LINGUA ITALIANA, DANTE, BOCCACCIO E PETRARCA, AL CENTRO DEL RITRATTO DI SEI POETI TOSCANI DI VASARI, 1544 Photo by Arif Riyanto on Unsplash

Se la norma linguistica è pur sempre determinata socialmente, ci si può interrogare sull’opportunità di alcuni interventi calati dall’alto. Si prenda un recente casus belli, il linguaggio di genere, dove si è arrivati non solo a proporre l’uso di cariche e professioni al femminile, ma anche l’adozione di una desinenza neutra, lo schwa, in sostanza un simbolo (ǝ) che identifica la vocale intermedia nel sistema fonetico, proposta da alcuni collettivi femministi e Lgbtq+ per sottrarsi al binarismo linguistico. «Non si tratta quindi di una richiesta ‘dall’alto’ e, in ogni caso, si può sempre discutere di nuove soluzioni. Da anni si è smesso di dire negro senza che ci sia stata una legge apposita: soluzioni alternative e l’emergere di una consapevolezza riguardo alla connotazione che stava caratterizzando questo termine sono bastati per cambiare l’uso dei parlanti. Per i termini di professione al femminile sarà solo questione di tempo: le resistenze sono dovute esclusivamente alla mancanza di abitudine e all’ideologizzazione della discussione», osserva Laura Baranzini.

Intanto, nella nuova edizione del suo vocabolario, la Treccani ha compiuto un primo importante passo, accogliendo tutta una serie di aperture alla parità di genere: forme al femminile di cariche e professioni, aggettivi nella doppia uscita per esteso e in ordine alfabetico, dunque con bella a precedere bello e l’abolizione delle spiegazioni stereotipate (“la mamma cucina, il papà lavora”).

termini in italiano entrati in altre lingue in ambito gastronomico o musicale», precisa la linguista. Forse gli italofoni della Svizzera tendono a dimenticarlo, ma il loro italiano (Isit) presenta un numero considerevole di differenze rispetto a quello standard. «Si tratta di differenze presenti in tutte le varietà di lingua, anche quelle più formali e controllate, rendendole di fatto percepite come standard. Questo non succede per le altre varietà diatopiche in Italia, dove la permeabilità della lingua più sorvegliata ai tratti regionali è minima. In Svizzera invece possiamo leggere in testi ufficiali, o sentire al telegiornale, cassa malati, a dipendenza, casa anziani, trattanda, chinarsi su, a tutti i fuochi o spagnolette», esemplifica la ricercatrice dell’Olsi che, istituito nel 1991 dal Consiglio di Stato del Cantone Ticino e finanziato con l’Aiuto federale per la lingua e cultura italiana, proprio sui diversi aspetti di questa realtà linguistica concentra i propri progetti di ricerca. «Nel caso dell’Isit, all’influsso del sostrato dialettale si aggiungono i tratti che derivano dal forte contatto con le altre due lingue ufficiali, francese e tedesco, e una tendenza alla conservazione di tratti più arcaici. L’italiano della Svizzera deve poi descrivere una realtà sociale e politica molto diversa da quella italiana; tutti questi aspetti lo hanno portato a sviluppare un’ampia terminologia propria, similmente all’inglese parlato negli Stati Uniti o in Australia, fatte le debite proporzioni per numero di parlanti», prosegue Laura Baranzini.

Di fronte a una tale complessità del sistema e alla realtà dell’uso che si riflette in una sorta di doppia norma parallela, resta da domandarsi come debba porsi la didattica, che tuttora continua ad affidarsi all’apparente sicurezza delle regole. In un momento in cui ci si concentra sul superamento dei livelli in materie come tedesco e matematica o ci si interroga sul rafforzamento delle discipline Stem, si finisce per sottovalutare come l’italiano, traversale all’apprendimento di tutte le materie, andrebbe problematizzato. «Non ho dubbi: l’insegnamento della lingua risulterebbe arricchito e più efficace se si spostasse verso un approccio linguistico-descrittivo e non puramente normativo. Sarebbe utilissimo, secondo me, partire dalle competenze che il parlante nativo già possiede per sviluppare una meta-riflessione sulla lingua, in modo da aumentare la consapevolezza linguistica dei cittadini e quindi la loro autonomia espressiva. A fianco si potrebbe naturalmente continuare a insegnare anche le regole delle varietà più formali», conclude Laura Baranzini. Senza dimenticare che la padronanza di una lingua non si ferma al rispetto delle norme ortografiche o morfosintattiche, ma sollecita competenze testuali e cognitive più ampie: capire un discorso, saper organizzare un pensiero complesso esprimendolo in modo articolato e coerente, cogliere i contenuti centrali di un ragionamento e le gerarchie delle varie componenti al suo interno, tutto questo costituisce la parte fondamentale della competenza linguistica complessa, che ha senz’altro bisogno della conoscenza di parole, suoni e regole grammaticali di una lingua, ma che ha una portata ben più profonda.

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La parità di genere passa dalla lingua

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AFFERMAZIONE VO’ CERCANDO

Èla terza lingua ufficiale. A parlare italiano è l’8,4% della popolazione svizzera. Dal punto di vista legislativo, è una delle lingue nazionali minoritarie meglio tutelate al mondo, mentre sul suo uso come lingua ufficiale permane una situazione sfaccettata, con una grande differenza fra il parlato e lo scritto. Presente a livello di testi di legge o comunicati stampa, più limitata ne è invece la valenza comunicativa a livello orale.

Quanto al ruolo dell’italiano nel sistema educativo svizzero, la realtà nei vari Cantoni diverge. Nelle scuole dell’obbligo - con l’eccezione dei Cantoni Grigioni e Uri - è offerto solo a partire dalla scuola media come materia facoltativa o opzionale. Per quanto riguarda il livello post-obbligatorio, la situazione risulta lacunosa in riferimento alla formazione professionale, mentre è ancora insegnato nei licei. A livello delle cattedre di italianistica in Svizzera, sono aumentati i posti di seconda fascia a discapito di quelli di prima fascia.

16 FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE DI SIMONA MANZIONE
Tassello importante dell’identità del Paese, l’italiano è garantito dalla Confederazione a livello legislativo, ma l’uso effettivo come lingua ufficiale è ancora una realtà sfaccettata, con diverse incoerenze. A tutelare l’idioma di Dante, dieci anni fa nasceva il Forum per l’italiano in Svizzera

Il Decreto federale sul programma di legislatura 2019-2023 del 21 settembre 2020 prevede l’Adozione del piano d’azione per la promozione del plurilinguismo e delle lezioni sulla lingua e la cultura d’origine, con la collaborazione dei Cantoni

Marco Romano consigliere nazionale, responsabile dell’Intergruppo parlamentare italianità

L’offerta di corsi di lingua e cultura italiana extracurricolari mostra una realtà molto diversificata. È questa l’istantanea scattata dallo studio ‘La posizione dell’italiano in Svizzera: uno sguardo sul periodo 2012-2020 attraverso alcuni indicatori’, curato da ricercatori dell’Osservatorio linguistico della Svizzera italiana, del Dipartimento formazione e apprendimento della Supsi e dell’Alta scuola pedagogica dei Grigioni su mandato del Forum per l’italiano in Svizzera.

Il Forum, costituito dieci anni fa a Zurigo per iniziativa del Cantone Ticino e del Canton Grigioni, e quest’anno vincitore del Premio per il Federalismo 2022, ha come scopo la corretta collocazione dell’italiano nel quadro del plurilinguismo costituzionale della Svizzera, che deve essere una realtà effettiva.

Vi hanno aderito finora trentotto organizzazioni, dedite alla promozione e alla valorizzazione della lingua e cultura italiana nel Paese. Per concretizzare le proprie attività il Forum, il cui comitato è presie-

L’intervento congiunto di Ticino e Grigioni ha spesso rafforzato le diverse prese di posizione del Forum in difesa dell’italiano, ad esempio in ambito federale, nell’applicazione della legge sulle lingue o nel rispetto dei concordati che regolano l’insegnamento dell’italiano nelle scuole svizzere

Tatiana Crivelli vicepresidente del Comitato del Forum per l’italiano in Svizzera

duto dal consigliere di Stato Manuele Bertoli, ha istituito cinque gruppi di lavoro che si occupano di altrettanti aspetti: Italiano lingua ufficiale svizzera, Gli svizzeri conoscono la lingua italiana, Cultura italiana e svizzero-italiana in Svizzera, Quadrilinguismo svizzero e le sfide della globalizzazione, Media di lingua italiana presenti oltralpe. A distanza di dieci anni dalla costituzione del Forum, e con l’impegno costante dei diversi gruppi di lavoro, a che punto siamo con la tutela dell’italiano?

«La promozione e la difesa del plurilinguismo sono impegni senza fine. Un ‘moto perpetuo’ a tutela di un elemento distintivo del nostro Paese, tanto declamato e studiato, ma troppo spesso poi nella pratica relativizzato, talvolta sacrificato», esordisce il consigliere nazionale Marco Romano, che per il Comitato del Forum è responsabile dell’Intergruppo parlamentare italianità, «Il Forum ha avuto il pregio di stimolare ulteriormente il ‘fare rete’, in una dinamica nazionale, dei vari attori coinvolti, istituzioni e

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FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE
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© Sabine Biedermann

Un MUNDI tutto per la lingua italiana

AFirenze, è stato inaugurato lo scorso luglio il primo Museo interamente dedicato alla lingua italiana. Il nome Mundi (latino, ‘del mondo’) fa riferimento al senso di globalità dell’italiano oggi, ma anche al suo rapporto con il mondo classico. Sono in mostra alcuni ‘monumenti’ della storia dell’italiano: tra gli altri, la prima edizione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo e la Quarantana dei Promessi Sposi. Il primo Museo Nazionale dell’Italiano, di cui si sta ancora completando l’allestimento, permetterà di esplorare la lingua da molte prospettive. La visita consentirà di ricostruire ‘la vita’ dell’italiano, nel suo crescere da volgare locale a lingua nazionale e nel suo progressivo affermarsi come grande lingua di cultura europea. Il Mundi evidenzia fin dal nome l’idea dell’italiano come ‘lingua del mondo’, ricca delle influenze e delle relazioni che nel corso dei secoli l’hanno plasmata e legata a molte altre lingue.

personalità attive al di sopra dei confini linguistici. Un lavoro permanente di condivisione di informazioni e di coordinamento di prese di posizione a livello nazionale».

Un impegno incessante a tutela dell’italiano è ciò che occorre anche secondo Tatiana Crivelli, vicepresidente del Comitato del Forum, responsabile per le cattedre di italianistica nelle università svizzere: «Obiettivo fondamentale del Forum, iscritto all’articolo 2 del suo statuto, è la corretta collocazione dell’italiano nel quadro del plurilinguismo costituzionale della Svizzera, che deve essere una realtà effettiva Un obiettivo ambizioso, che non si esaurisce in interventi puntuali, ma richiede un’azione costante. In tal senso, proprio perché il Forum ha unito in questo sforzo incessante le migliori energie disponibili in molti ambiti (politica, cultura, comunicazione,

ecc.) ha già assolto un compito fondamentale: dare visibilità e valore alla componente italofona della Svizzera. A questo risultato, tuttavia, il Forum ha da aggiungere una lunga serie di azioni mirate, che vanno dagli interventi in difesa della lingua italiana laddove questa venga ingiustamente trascurata (nell’amministrazione pubblica, nelle scuole, nei musei, o altrove), fino alle azioni politiche (mozioni, consultazioni, dichiarazioni, ecc.) e di promozione attiva dell’italiano (concorso per le gioventù, convegni, dibattiti, ricerche, pubblicazioni, ecc.). Il premio per il Federalismo recentemente ricevuto dal Forum riconosce per l’appunto l’ampiezza e l’incisività della sua azione», osserva Tatiana Crivelli. Quali i prossimi passi a livello istituzionale verso una sempre maggiore affermazione della lingua e della cultura italiana? «Il Decreto federale sul programma di legislatura 2019-2023 del 21 settembre 2020 all’art. 8 - obiettivo 7 n.38 prevede l’Adozione del piano d’azione per la promozione del plurilinguismo e delle lezioni sulla lingua e la cultura d’origine, con la collaborazione dei Cantoni», nota Marco Romano, «Al momento purtroppo non è disponibile una panoramica completa dei provvedimenti già attuati dalla Confederazione per promuovere il plurilinguismo. Nel marzo 2022 l’Ufficio federale della cultura e il Centro scientifico di competenza per il plurilinguismo dell’Università di Friburgo hanno messo a concorso un mandato per effettuare una rilevazione dei diversi provvedimenti. Sarà, finalmente, la prima tappa della valutazione della politica in materia di plurilinguismo. I risultati saranno discussi con i Cantoni e in seguito il Consiglio federale deciderà in merito all’ulteriore procedere. L’obiettivo è avere maggiore concretezza per il prossimo programma di legislatura. Il Parlamento deve tenere alta la pressione e singole azioni politiche sono necessarie anche nei Cantoni. A oggi, l’italiano a livello istituzionale rimane ancora, troppo spesso, marginale. Le decisioni concrete si focalizzano, ancora, su uno Stato quasi esclusivamente tedescofono, con grandi aperture verso l’inglese. L’auspicio è che il plurilinguismo non sia visto solo come un costo, a cui dover spesso rinunciare, ma come un investimento. E un investimento a favore di un elemento distintivo e unico del Paese».

La maggioranza degli italofoni (il 53%) vive al di

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fuori della Svizzera italiana, venendo di fatto a trovarsi in una situazione ‘minoritaria senza particolare tutela e costituendo una comunità frammentata e trasversale’, unita solo nella lingua, come evidenziato dallo Studio sulla posizione dell’italiano nel periodo 2012-2020. Per ovviare a questo limite, in seno al Forum, il Gruppo Cultura, «lavora anche per creare sinergie costruttive tra le varie espressioni della cultura di lingua italiana in Svizzera, siano esse riferibili ad ambienti svizzeroitaliani, italiani o altro», sintetizza Tatiana Crivelli, in qualità di coordinatrice responsabile di questo gruppo. Nell’intento di coinvolgere tutto il territorio elvetico, prosegue la cooperazione e il coordinamento di eventi tra le Cattedre di italianistica svizzere, il coinvolgimento del Gruppo nella realizzazione di manifestazioni di rilievo, con particolare attenzione all’italiano fuori d’Italia, e, infine, un concorso che motivi anche parlanti non nativi a utilizzare l’italiano. «Abbiamo stabilito collaborazioni molto produttive con la Pro Grigioni Italiano e con l’Alta Scuola Pedagogica di Coira, allo scopo di far tesoro dell’esperienza di plurilinguismo grigionese per migliorare la condizione dell’italiano nel contesto del pluringuismo elvetico. La collaborazione tra Ticino e Grigioni ci ha aiutato a individuare gli ambiti in cui si necessita di interventi specifici, come la scuola o la stampa periodica. Sul versante politico, poi, sin dalla sua fondazione il Forum è di-

rettamente sostenuto da entrambi i cantoni e molte sono state le occasioni in cui l’intervento congiunto ha rafforzato le prese di posizione del Forum in difesa dell’italiano, ad esempio in ambito federale, nell’applicazione della legge sulle lingue o nel rispetto dei concordati che regolano l’insegnamento dell’italiano nelle scuole svizzere», osserva Tatiana Crivelli.

Oggi il Forum è un punto di riferimento per la Confederazione e ‘grillo parlante’ per numerosi cantoni che non valorizzano o non offrono a sufficienza l’italiano nelle loro scuole. L’italiano è sicuramente presente, ma deve confrontarsi con altre lingue ritenute più utili (l’inglese) e corre spesso il pericolo di essere dimenticato negli altri contesti linguistici del Paese.

Eppure l’italiano ha un ruolo per niente trascurabile; così evidenziava qualche anno fa Ignazio Cassis, in qualità di capo del Dipartimento federale degli affari esteri: “L’italianità in Svizzera è riassunta in quattro concetti: flessibilità, identità, creatività, ricchezza culturale. Ogni lingua porta con sé una diversa visione del mondo e, grazie al plurilinguismo che la contraddistingue, la Svizzera beneficia dell’incontro di più lingue ma soprattutto di più culture, legate da un sistema politico basato sul federalismo e sulla democrazia diretta. Una pluralità unica nel suo genere. La convivenza tra culture diverse ci ha portato a sviluppare nei secoli l’arte del compromesso e del dialogo”.

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FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE

TRADUZIONE LA VERTIGINE DELLA

Creatura anfibia, in parte scrittore e in parte critico, il traduttore gioca la

L’indubbia praticità delle App digitali, che sembrano digerire istantaneamente qualsiasi testo e con un semplice clic rielaborarlo nella lingua desiderata, rischia di indurre a sottovalutare la complessità e l’importanza del processo sotteso alla trasposizione di un testo in un’altra lingua, che non potrà mai essere neutra, né perfettamente simmetrica. Dunque: non delegabile a un algoritmo. Se, a ben guardare, già a monte qualsiasi forma di comunicazione è pur sempre una forma di tra-duzione, la traslazione del pensiero nel linguaggio naturale, il passaggio tra due idiomi richiede non solo di padroneggiare un’altra lingua, ma anche di andare verso l’altro, di cercare di comprenderne le intenzioni espressive, l’orizzonte culturale, modi e gusti, categorie di pensiero… Complessità e importanza della traduzione diventano particolarmente evidenti per i testi letterari, dove la costruzione della frase deve rispecchiare anche ritmo, impasto linguistico, scelte stilistiche del testo di partenza, che a propria volta è il risultato di un intreccio di volontà esplicite e influenze sotterranee, intenzioni espressive e lo spazio che la lingua originale off re all’autore, il suo modo di assumerla e muovervisi, di rispettarla o riplasmarla. La sua poetica e la sua estetica. Il suo sentire. Una sfida che vive quotidianamente chi, come Maurizia Balmelli, ne ha fatto la propria professione. «Il traduttore è una creatura anfibia, in parte scrittore in parte critico. Una (buona) traduzione non può prescindere dalla scrittura - con tutto ciò che comporta in termini di libertà, intuizione, scoperta,

La lingua è un’entità, la lingua è un organismo, la lingua ha un corpo, un respiro, un carattere. Che sia quella di uno scrittore già tradotto o no, contemporaneo o meno, nel momento in cui ci si accosta per intonarla nella nostra è sempre nuova

invenzione -, ma necessita ugualmente di un approccio critico, analitico, di consapevolezza, di consequenzialità. Due movimenti che non per forza si succedono: possono accavallarsi, intrecciarsi, tornare l’uno e l’altro a più riprese nel corso del lavoro, e restano entrambi fondamentali», afferma Maurizia Balmelli.

Il Premio Speciale di traduzione di cui è stata insignita ai Premi svizzeri di letteratura 2022 va ad aggiungersi ai tanti riconoscimenti per un impegno che ha il merito di aver portato in area italofona autori, soprattutto di lingua inglese e francese, determinanti per la lettera-

20 FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE DI SUSANNA CATTANEO
sua partita con la lingua.
Una sfida che impone il superamento della tentazione del possesso e della pretesa della fedeltà
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Maurizia Balmelli traduttrice © Foto Chiara Tiraboschi

tura contemporanea: penne molto diverse fra loro ma accomunate da una forte personalità, come Cormac McCarthy, Ian McEwan, Martin Amis, Emmanuel Carrère, Yasmina Reza, Tahar Ben Jelloun, Aleksandar Hemon, fino al travolgente talento di Sally Rooney… a cui si aggiungono scrittori novecenteschi del calibro di Georges Perec, Antoine de Saint-Exupéry, Romain Gary e Agota Kristof. «Ma prima ancora che con uno scrittore, ho a che fare con una lingua. La lingua è un’entità, la lingua è un organismo, la lingua ha un corpo, un respiro, un carattere. Che sia quella di uno scrittore già tradotto o no, contemporaneo o meno, nel momento in cui ci si accosta per intonarla nella nostra è sempre nuova. Se conosco lo scrittore ritroverò - forse - dei tratti già incontrati, ma ogni nuova opera è una nuova fisionomia. La partita si gioca sempre e soprattutto con la lingua, non con lo scrittore», chiarisce Maurizia Balmelli. «Si è sempre almeno in quattro: la lingua di partenza, la lingua di arrivo, la lingua dell’autore, quella del traduttore. Per cui il concetto di fedeltà, dell’univocità di una coppia all’interno della quale rimanere fedeli, in traduzione non ha luogo d’essere; semmai l’orizzonte di riferimento è quello del poliamore: si esplora, si accoglie, si sconfina, ci si confonde, ci si trasforma; cercando costantemente di superare la nozione e la tentazione del possesso», chiarisce la traduttrice. Un lavoro, il suo, che non considera mai compiuto: a sospenderlo è il termine di consegna indicato sul contratto; e potenzialmente riprende ogni volta che si riapre il file ormai consegnato o, peggio, il volume stampato.

Inizialmente Maurizia si era iscritta a una scuola di narrazione, la Holden di Torino, per diventare lei stessa scrittrice. Com’è nata allora la vocazione a mettere la sua penna al servizio di altri autori? «In realtà, è stata vigliaccheria. Avevo e ho un terrore siderale della famosa pagina bianca»,

confessa. Si è però trovata di fronte a una prova non minore, anzi. «Al tempo non conoscevo la vertigine della pagina nera; non sapevo quanto ci si possa sentire smarriti di fronte alla lingua dell’altro nel momento in cui ci si propone di intonarla nella propria. È insieme il vacillamento al canto della sirena, la seduzione della lontananza, la promessa dolce e spaventosa dell’incontro. Eppure, dopo oltre vent’anni, con tanti incontri alle spalle, l’incognita, tolta la sponda dell’altra/delle altre/ degli altri, rimane la mia lingua».

Vent’anni in cui ha saputo costruire solidi ponti tra le letterature, dedicando anche un impegno costante e prezioso all’insegnamento in corsi e scuole di scrittura. Nata e cresciuta in Svizzera, a Locarno, oggi vive a Parigi, ma di recente è stata a Bellinzona per partecipare a uno dei workshop organizzati da Babel, festival letterario che, alla traduzione, è dedicato. Da diciasette anni ne esplora i territori, mettendo scrittori legati a più lingue e culture in dialogo con i loro traduttori italiani, proponendo laboratori di traduzione e una ricca serie di spunti di riflessione. La multiculturale Svizzera rappresenta un ideale terreno di incontro. Nella consapevolezza che molto, anche a livello umano, l’arte del tradurre ha da insegnare. «Per me la grande lezione è stata quella del rigore. In ogni ambito della vita riconosco molto più facilmente la sciatteria, l’incompetenza, l’impostura. E mi ha regalato un mondo di amici immaginari, e altri mondi: luoghi e paesaggi in cui non posso posare i piedi se non facendo quella cosa: tradurre. Perfino il gesto della lettura ormai è, nella mia vita, un gesto pieno solo se implica un percorso di traduzione», conclude Maurizia Balmelli, aprendo a nuove riflessioni. La metafora più calzante rimane quella proposta da Paul Ricoeur, grande filosofo francese del Novecento, che ha descritto la traduzione come atto di ospitalità linguistica: “Al piacere di abitare la lingua dell’altro corrisponde il piacere di ricevere presso sé, nella propria dimora d’accoglienza, la parola dello straniero”. È questa la vera pluralità, l’unico modo di sfuggire all’illusione di un’aproblematica e immediata traduzione che il digitale off re oggi alla smania di efficienza, ma che in realtà occulta l’incomprensione profonda di cosa una lingua sia e di quali valori culturali e caratteristiche individuali veicoli, rischiando di camuffare soltanto una babele irrisolta di voci.

FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE

PAROLA LA SEDE DELLA

Se il linguaggio è il principale strumento che gli umani utilizzano per rappresentare e comunicare degli stati mentali, non si può dimenticare che è dalla mente che tutto parte. Affrontare la questione da un punto di vista neurologico, per indagare le aree del cervello e i meccanismi che presiedono all’elaborazione del linguaggio, scritto e parlato, alla lettura e all’ascolto, significa sì adottare una prospettiva scientifica rigorosa, ma non sminuisce la grandezza, e in fondo il mistero, di un processo che appare anzi in tutta la sua complessità. La teoria tradizionale dell’organizzazione del linguaggio nel cervello nasce nel XIX secolo sulla base delle osservazioni anatomo-cliniche di Broca e Wernicke. Successivamente, il modello neurale del linguaggio basato sul concetto di ‘centri’ multipli collegati da percorsi di fibre è rimasto preponderante fino ai nostri giorni. In particolare, gli studi di Broca, Wernicke e successive ricerche su pazienti con lesioni in diverse aree cerebrali hanno permesso di individuare alcuni punti chiave nella comprensione delle sedi del linguaggio:

Quali sono le aree del cervello e i meccanismi che presiedono alla trasformazione di un pensiero in parole, alla lettura, all’ascolto e all’espressione orale?

Alle origini neurologiche del mistero del linguaggio

• l’emisfero sinistro come sede del linguaggio (solo in un terzo delle persone con preferenza manuale sinistra le sedi del linguaggio si trovano nell’emisfero destro);

• una porzione del lobo frontale (area di Broca) come sede della programmazione dei suoni e delle parole (combinazione di fonemi in sequenze verbali-motorie);

• una porzione del lobo temporale (area di Wernicke) come sede fondamentale per l’identificazione e la corretta selezione dei fonemi. In quest’area sarebbero presenti i ricordi di come “suonano le parole” (lessico fonologico);

• il fasciculus arcuatus a forma di arco che collega l’area di Wernicke all’area di Broca.

Il linguaggio, però, è una funzione cognitiva più complessa, incorporata in reti neurali complesse e altamente interconnes-

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se. Gli studi di neuroimaging funzionale hanno permesso di delinearle, confermando le conoscenze anatomiche acquisite analizzando le lesioni e permettendo inoltre di localizzare in modo più puntuale le sedi delle diverse funzioni del linguaggio. In particolare, l’area di Broca è stata suddivisa funzionalmente in tre regioni: una coinvolta nella struttura sonora (fonologia); una seconda che si occupa del significato delle parole (semantica); e una terza coinvolta nel significato veicolato dalla struttura della frase (sintassi).

Sono state inoltre tracciate le basi delle vie neurali della lettura, che viene effettuata attraverso una rete emisferica sinistra comprendente parte delle aree frontale, temporale, occipito-temporale e parietale.

Un altro campo in cui il contributo del neuroimaging funzionale è stato fruttuoso è lo studio dei bilingui. Contraddicendo l’ipotesi che le due lingue siano rappresentate in diverse aree del cervello o in diversi emisferi, è stato dimostrato che tutti i bilingui usano aree cerebrali identiche. Le differenze di trovano nelle aree legate al controllo della selezione della parola ‘giusta’ nella lingua che si sta utilizzando. Le problematiche del linguaggio maggiormente studiate sono le afasie; si tratta di disturbi del linguaggio dovuti a lesioni cerebrali acquisite, che si verificano in soggetti che hanno goduto di un normale sviluppo linguistico e che compromettono la capacità di generare messaggi linguistici da contenuti mentali e viceversa. Devono essere distinte dai disturbi di acquisizione e sviluppo del linguaggio legati a disfunzioni neurologiche congenite e dalla compromissione dell’articolazione della parola (disartria) o della fonazione (disfonia). Ciò perché l’afasia è totalmente indipendente dai canali motori e sensoriali utilizzati per la produzione e la comprensione linguistica da parte dei singoli soggetti. Ad esempio, l’afasia può essere osservata dopo lesioni cerebrali dell’emisfero sinistro in persone sorde, che usano il linguaggio dei segni invece dell’articolazione vocale per produrre il linguaggio. Una compromissione del linguaggio può essere un deficit isolato oppure un sintomo di altri deficit neurologici e si può verificare nel corso di diverse patologie cerebrali, come nel caso di ictus, crisi epilettiche, aure emicraniche o nel corso di demenze. Si può discutere (o scrivere) di linguaggio da un punto di vista sociologico, culturale, letterario. Ma certamente un approfondimento delle sue origini neurologiche non solo è complementare al discorso, ma lo illumina da una nuova, essenziale prospettiva, ricordando quanto anche la creatività più libera o la disquisizione più acuta muovano sempre da meccanismi cerebrali che presiedono alla trasformazione di un pensiero in parole.

Mentre l’evidenza della lesione rimane cruciale per delineare le strutture necessarie per ogni aspetto della performance linguistica, gli studi di neuroimaging funzionale hanno permesso di identificare le complesse reti coinvolte in ogni aspetto dell’elaborazione del linguaggio

Rosaria Sacco Capoclinica Neurologia, Neurocentro della Svizzera Italiana

Area di Wernicke (identificazione e selezione fonemi)

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Area di Broca (programmazione suoni e parole) FOCUS PAROLE, PAROLE, PAROLE DI ROSARIA SACCO

BEAUTY HOME& FASHION

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L’ABITO FA IL MONACO S

i dice ‘moda’ e si pensa a tutto ciò che è ‘moderno’. Eppure la moda è tutt’altro che moderna.

A ritroso lungo la linea del tempo, giù fino all’uomo primitivo, è lì che se ne ritrovano i primi cenni. «Fa parte della storia dell’uomo. L’interesse per i ‘rivestimenti’ è interesse a definire noi e gli altri, per riconoscere chi è con noi e chi è contro di noi. Tracciando così una prima differenza identitaria», spiega Eleonora Chiais, ricercatrice all’Università di Torino e docente di Sociologia della moda all’Università di Bologna. «‘Vestendosi’ con la pelle dell’animale cacciato, l’uo-

mo primitivo dichiarava qualcosa di sé: l’appartenenza a un determininato gruppo o la relazione con uno specifico territorio; ogni uomo e ogni gruppo aveva ‘abiti’ - o meglio ‘rivestimenti’ - diversi, in quanto cacciava animali diversi. Nel tempo il concetto di ‘moda’ evolve, andando oltre il significato di semplice ‘rivestimento’», nota la ricercatrice. Un’evoluzione costante, fino a quando, nell’800, la creazione delle prime griffes afferma il concetto di haute couture.

Anni quelli, in cui la figura del sarto viene scalzata da quella dello stilista, ossia di colui che nel proporre moda orienta anche il gusto collettivo», prosegue l’esperta di storia della moda. Dagli anni Sessanta poi, con la nascita del pret-à-porter e quella dei

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La moda è un mezzo di comunicazione, il vestito ne è il più raffinato ambasciatore. All’antropologia della moda il compito di indagare il ruolo dell’abbigliamento, spaziando tra epoche e geografie
© Delphine Blast, Flowers of the Isthmus, 2021 © Delphine Blast, Flowers of the Isthmus, 2021

grandi magazzini e l’introduzione del sistema delle taglie, si definisce un nuovo passaggio epocale. Per arrivare a noi… «L’attualità è caratterizzata dalla trasformazione del sistema moda, in cui l’imponente presenza del fast fashion e le esigenze di sostenibilità impongono un ripensamento del sistema stesso», evidenzia la docente. Moda o mode? «In questa parte del mondo, abbiamo un punto di vista occidentalocentrico (e nell’Occidente si include a tal fine anche il Giappone). Ma la moda è da sempre un fenomeno globale. Brand come Kenzo, Comme des Garçons sono occidentali al cento per cento ma attingono ad Oriente. In generale, ci sono influenze reciproche di culture e stili diversi, per esempio i tessuti africani, che molti stilisti hanno recepito nelle loro collezioni», fa notare Eleonora Chiais.

«Per tutti i fenomeni di moda ci sono tre momenti: uno iniziale, caratterizzato dal ‘sospetto’, verso ciò che di nuovo arriva, uno centrale, il ‘Mainstream’ (la moda si diffonde) e un terzo momento, definito ‘Latency’ (una specifica moda è destinata a passare, per essere poi recuperata in una fase futura). Questo concetto vale sempre, a prescindere dal chi, dal dove e dal quando. La moda si caratterizza per il suo cambiamento sistematico», precisa la ricercatrice. Rivoluzionando, la moda è uno specchio ma anche un precursore di trasformazioni sociali, culturali, economiche...

Il questo suo ruolo si inquadra un fenomeno recente ma importante, ossia l’introduzione di uno stile ‘gender fluid’, con collezioni neutre e capi interscambiabili, uno stile che rifiuta ogni stereotipo nel nome di un’identità di genere in continuo mutamento, tema caro alla generazione Z ma anche ai Millennials. «Ogni cultura e ogni epoca hanno le proprie rivoluzioni. Il concetto di moda non è univoco, esistendone invece diverse tipologie: ci sono le piccole mode, ossia circoscritte nel tempo e/o nello spazio, le mode stagionali, limitate a un tempo che si può definire a priori, e le grandi mode, capaci di cambiare il paradigma. Così è per esempio per la moda ‘gender fluid’. E se la mascolinizzazione della moda femminile, cambiamento che era considerato difficilissimo, non è ancora pienamente maturato, diverso è il discorso della femminilizzazione della moda maschile: da David Bowie a Harry Styles e Damiano dei Måneskin, si è affermato il concetto del ‘sono me stesso e mi vesto come voglio’. Il genere non è una discriminante», prosegue la ricercatrice, che nota come anche la moda sostenibile sia una rivoluzione, perché cambia il paradigma. A prescindere dai suoi contenuti, la moda è sempre e comunque un mezzo di comunicazione.

Ci sono le piccole mode, ossia circoscritte nel tempo e/o nello spazio, mode stagionali, limitate a un tempo che si può definire a priori, e le grandi mode, capaci di cambiare il paradigma. Così è per esempio per la moda ‘gender fluid’

Eleonora Chiais ricercatrice all’Università di Torino e docente di Sociologia della Moda all’Università di Bologna

«L’abito fa il monaco», sintetizza l’interlocutrice, «Tutte le mattine decidiamo quale maschera indossare. Un istinto che riguarda tutti, perché è proprio dell’essere umano. Tutti i leader politici, per esempio, hanno un proprio stile, ben definito, e definito in base al messaggio che intendono trasmettere. Si pensi a Trump… Si assiste quindi a una definizione della moda non come oscillazione ma come difensore identitario». La moda, che svela l’identità di un individuo, prima ancora, lo aiuta dunque a costruirsi una propria identità. Ha per questo un grande potere...

«Il potere, più che della moda, è del ‘rivestimento’. È il messaggio identitario che si trasmette abbigliandosi in un modo piuttosto che in un altro. La moda esprime l’identità di un individuo, ma l’identità è in continuo mutamento, oggettivamente, in base al contesto generale e, soggettivamente, in base alla situazione individuale (invecchiando ci vestiamo diversamente e presentiamo di

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SOCIETÀ
NELLA PAGINA ACCANTO, DUE IMMAGINI DI DELPHINE BLAST: CULTURE E IDENTITÀ, TRA FOLCLORE E VESTIZIONE URBANA
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SOPRA, MARIA ANTONIETTA, CHE DIVENNE FUTURA REGINA DI FRANCIA SPOSANDO, NEL 1770, L’EREDE AL TRONO DI FRANCIA, LUIGI XVI. BEN PRIMA DI GRACE KELLY E KATE MIDDLETON, EBBE GRANDE PESO NELL’INFLUENZARE LE MODE DEL TEMPO

A DESTRA, STESSA EPOCA, CULTURE E MODE DIVERSE

noi, in tal senso, una diversa identità)», prosegue Eleonora Chiais.

Un aspetto oggi particolarmente in auge, in merito all’identità, si riferisce alla relazione tra la ribalta e il retroscena. In passato c’era una separazione chiara tra ciò che si è nel privato e ciò che si mostra in pubblico. Con l’avvento dei social questa differenza è stata praticamente annullata. I social propongono una continuità tra pubblico e privato. E in questa continuità, l’identità si modella a seconda della situazione. Si pensi al fenomeno Chiara Ferragni e a come l’imprenditrice e personaggio pubblico si veste e appare a seconda che calchi un red carpet o giochi con i figli sul tappeto di casa. È la moda a segnare uno spartiacque tra due dimensioni che oggi non conoscono più soluzione di continuità».

Si parla in genere della moda come di un fenomeno culturale, sociale, anche economico. E oggi è più che mai considerata l’emblema di una libertà a tutto campo. Eppure, in certi casi, la moda è tutt’altro che espressione di libertà. «C’è un legame stretto tra moda e religione», spiega Eleonora Chiais, «Un ambito, quello religioso, in cui la moda è imposizione. In ogni religione vi sono delle prescrizioni. Nella religione cattolica, per esempio, il diritto canonico fornisce indicazioni precise su come debbano vestirsi i sacerdoti nei differenti momenti liturgici. C’è una teologia della moda», conclude la ricercatrice e docente. La moda, che non è semplicemente un fenomeno velleitario, è invece legata profondamente a ogni aspetto della vita degli individui e delle dinamiche della società. Rivelatrice e anticipatrice.

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SOCIETÀ
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LA NOSTRA CONSULENZA FINANZIARIA PERSONALE INIZIA CON UNA DOMANDA:
COSA LE STA A CUORE?

Croce Rossa Svizzera e Pro Juventute. Due pilastri del sostegno elvetico ai più vulnerabili. Da una parte, l’organizzazione istituita nel 1866 su impulso del generale Dufour e del consigliere federale Dubs per assicurare un servizio di assistenza sanitaria all’esercito, fondamentale anche per una nazione neutrale. Dall’altra parte, la fondazione caritativa sorta a inizio Novecento per aiutare i bambini tubercolotici. Entrambe, nella loro storia ultracentenaria, hanno conosciuto un enorme sviluppo. Se la

Croce Rossa Svizzera (Crs) è diventata la più grande organizzazione umanitaria svizzera, Pro Juventute ha allargato il raggio delle sue attività a tutela dell’infanzia, di cui ogni anno in Svizzera beneficiano 300mila bambini e adolescenti e quasi 140mila genitori. Occupare cariche all’apice di due organizzazioni di questo calibro richiede tanta sensibilità quanta risolutezza, empatia ma anche capacità di distacco, attenzione al singolo e visione di insieme. Può sorprendere, allora, che il curriculum della zurighese Barbara Schmid-Federer, Presidente della Crs e vicepresidente di Pro Juventute, inizi da studi universitari in Lettere: niente scienze politiche o relazioni internaziona-

VULNERABILI A FIANCO DEI PIÙ

La letteratura le ha insegnato l’empatia e l’apertura verso l’altro. La generosità di un bambino le ha fatto giurare di dedicarsi alla difesa dei più vulnerabili. Una promessa che ha portato Barbara Schmid-Federer fino ai vertici della Croce Rossa Svizzera e di Pro Juventute

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© Remo Nägeli © Ville Palonen © Ruben Ung ©
Ruben Ung

li, facoltà che oggi sceglierebbe chiunque sia intenzionato a lavorare per un’Ong. «Il potere e la forza della letteratura sono spesso sottovalutati. Chi legge incontra altre culture e modi di vita, scopre percorsi individuali verso la felicità e la sofferenza. Si pone l’eterna domanda di quali condizioni rendano possibile una ‘vita buona’. E poi la letteratura è una grande scuola di empatia. Ottimi requisiti per lavorare nelle Ong», commenta Barbara Schmid-Federer. Da luglio ha invertito i ruoli che la vedevano presidente di Pro Juventute e vicepresidente della Csr, prendendo le redini di quest’ultima, in cui vanta già una lunga esperienza, peraltro ex presidente della Croce Rossa zurighese.

A farle comprendere di volersi dedicare a questo settore, quando ancora era studentessa, un’esperienza in Etiopia. «Fu una rivelazione. Avevo 20 anni, durante un soggiorno ad Addis Abeba mi capitò di occuparmi di un bambino zoppo di 11 anni. Veniva da una zona di guerra, solo al mondo, non aveva nulla a parte una pagnotta, ma non appena venne condotto al campo si mise a distribuirla agli altri orfani. In quel momento ho giurato di dedicare tutta la mia vita ad aiutare le persone vulnerabili. Una decisione di cui non mi sono pentita nemmeno un secondo», sottolinea. Quando nel 2018, dopo quasi 12 anni in Consiglio nazionale, ha dovuto valutare se ricandidarsi, l’età ha giocato un ruolo decisivo. «A 53 anni ero ancora abbastanza giovane per iniziare qualcosa di nuovo ed è allora che ho deciso di concentrare i miei sforzi in esclusiva sul mondo delle Ong», racconta. Un mondo nel quale preziosa risulta la sua ampia rete di contatti nella società e nel mondo politico ed economico.

La grande sfida attuale è la guerra in Ucraina, caso che ben illustra il duplice impegno della Crs, sia in contesti di emergenza che in patria. È infatti rapidamente intervenuta sul posto con un proprio team di specialisti per sostenere la Croce Rossa ucraina nel fornire aiuti d’emergenza alle persone in fuga, ed è inoltre attiva nei quattro Paesi confinanti come parte del movimento internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa. In Svizzera, invece, aiuta i rifugiati a superare i traumi, off rendo sostegno psicosociale, integrazione e corsi di lingua. Se oggi è, per ovvii motivi, questo conflitto a monopolizzare l’attenzione dei media, importante è però che nessuna crisi venga dimenticata: «Ad esempio, quella alimentare in Africa, i disastri delle inondazioni in Pakistan e Bangladesh, o il perdurante bisogno umanitario in Sud Sudan. All’origine di ogni nostro impegno c’è la domanda da parte della regione colpita. Essere già attivi in un Paese da molto tempo e avere una buona rete di contatti, è determinante quando si tratta di decidere se avviare un aiuto d’emergenza, in quanto permette di raggiungere in modo ancora più efficiente le persone che ne hanno bisogno», osserva la presidente della Crs. «Lavoriamo ovunque con le rispettive società nazionali di Croce Rossa o Mezzaluna Rossa. Il nostro obiettivo è sostenerli affinché possano svolgere i compiti nel loro Paese in modo

IN APERTURA, QUATTRO PROGETTI DELLA CROCE ROSSA SVIZZERA, IN PATRIA E ALL’ESTERO: SERVIZI DI BABYSITTING, VISITE E ACCOMPAGNAMENTO; L’OSPEDALE OCULISTICO COSTRUITO IN NEPAL,; LE ABITAZIONI REALIZZATE IN MALAWI DOPO L’INONDAZIONE DEL 2019

Negli oltre 30 Paesi in cui interveniamo, lavoriamo sempre con le rispettive società nazionali della Croce Rossa o di Mezzaluna Rossa. Solo sostenendole affinché possano svolgere i diversi compiti in modo sempre più competente e indipendente, gli aiuti sono veramente efficaci

Presidente Croce Rossa Svizzera

sempre più competente e indipendente. Solo così gli aiuti sono veramente efficaci», dichiara Barbara Schmid-Federer.

Alla base del successo della Crs, non solo il contributo dei collaboratori, ma l’apporto dei volontari, che sin dalle origini ne sono stati il motore. Nel 2020, l’Osservatorio del volontariato in Svizzera ha rilevato che il 39% della popolazione sopra i 15 anni è coinvolto in un’associazione e il 46% al di fuori di

31 SOCIETÀ DI SUSANNA CATTANEO
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La Svizzera che aiuta

Con oltre 50mila volontari e più di 5mila collaboratori, la Croce Rossa Svizzera è la più grande organizzazione umanitaria del Paese, attiva negli ambiti della salute e del sostegno nel quotidiano, dell’integrazione e migrazione, di ricerca, salvataggio e aiuto in caso di catastrofe. Insieme a donatori e partner, si impegna per tutelare la vita, la salute e la dignità dei più vulnerabili, operando in base ai suoi sette principi fondamentali: imparzialità, neutralità, indipendenza, umanità, volontariaro, unità e universalità. Nel 2021 è intervenuta in 38 Paesi, nei quali ha portato avanti 146 progetti in collaborazione con le popolazioni e le Società consorelle locali. Le 24 associazioni cantonali e le 4 organizzazioni di salvataggio che la comongono hanno dal canto loro proposto un’ampia offerta di formazione e perfezionamento, 15mila corsi seguiti da 128mila partecipanti. Le ore di sostegno a familiari curanti sono state 280mila, oltre 200mila quelle di custodia di bambini e sostegno a giovani e famiglie.

Pro Juventute, con i suoi cinque uffici regionali, sostiene bambini, adolescenti e le loro famiglie, affinché possano sviluppare una propria identità, una sana fiducia in se stessi e, attraverso queste, dar forma a un sistema di valori autentico e stabile. Il che significa anche impegnarsi affinché i giovani abbiano voce in capitolo su questioni che li riguardano, attraverso la loro diretta partecipazione (di qui l’appoggio al voto dai 16 anni) e possano godere di un contesto di pari opportunità.

Grazie all’opera della Fondazione nazionale, nel 2021

Pro Juventute ha investito 22,6 milioni di franchi a favore di bambini e giovani in tutta la Svizzera, in gran parte finanziati dai suoi 95mila donatori e da 17,3 milioni di Chf di sovvenzioni.

un’organizzazione, ad esempio nell’aiuto al vicinato. Più di 50mila volontari sono attualmente impegnati nella Croce rossa Svizzera e le sue organizzazioni, il che equivale a più di 1,2 milioni di ore di lavoro. «Si dice che le persone che fanno volontariato siano più felici perché sperimentano direttamente l’impatto del loro impegno sulle persone bisognose. Posso confermarlo», commenta Barbara Schmid-Federer. Per lei, l’impegno è anche quello nei confronti dell’infanzia. Con la pandemia, lo stress mentale di bambini e giovani è aumentato notevolmente. Il numero di sessioni di consulenza sui pensieri suicidi svolte da Pro Juventute è raddoppiato rispetto al 2019, oggi sono 7-8 al giorno. Anche in un contesto apparentemente privilegiato come quello svizzero, molto dipende ancora dal luogo di residenza, dallo status e dai mezzi finanziari delle famiglie. Ma non solo. «Si tratta di una fase della vita particolarmente delicata, in cui ci si orienta fortemente verso il mondo esterno per cercare e consolidare la propria identità nello scambio con i coetanei. Bisogna inoltre ricordare che questa è soltanto una delle molte crisi con cui devono confrontarsi bambini e adolescenti di oggi. Soprattutto, cambia rispetto al passato la forte presenza sui social. Pertanto, oltre a rafforzare la salute mentale, ci impegniamo nell’alfabetizzazione mediatica», sottolinea la vicepresidente di Pro Juventute che, come ex membro del Consiglio nazionale, sostiene la fondazione soprattutto nel dialogo con la politica. Se la linea telefonica del 147 resta emblematica, i servizi di consulenza di Pro Juventute hanno introdotto una strategia multicanale a prova di digitale, con una chat, la possibilità di scrivere sms, mail o un WhatsApp.

«Essere coinvolta in entrambe le organizzazioni è sicuramente impegnativo, ma vantaggioso perché i temi si completano a vicenda e posso avere un impatto più ampio. È bello constatarlo quando si sviluppano progetti comuni, ad esempio ultimamente abbiamo organizzato un simposio congiunto. Anche la mia famiglia ha notato che sono più felice di prima, dedicandomi alla politica. Ed è vero, anche se il carico di lavoro attuale non è di certo inferiore a quello di un consigliere nazionale», sottolinea. Come ricaricarsi? «Non rinuncio mai alle vacanze in famiglia. Ci prendiamo anche singoli giorni, come di recente per festeggiare il 30mo anniversario di matrimonio. I nostri figli sono cresciuti, il che rende l’organizzazione più semplice rispetto a quando eravamo entrambi in Consiglio nazionale. Oggi posso permettermi un calendario fisso di allenamenti sportivi e canto ancora in due cori, anche se devo rinunciare a partecipare ai concerti», ammette Barbara Schmid-Federer. Di voci da orchestrare, per una perfetta polifonia, ne ha già molte nella sua quotidianità professionale: una famiglia di migliaia di collaboratori, che tuttora la vede fedele alla promessa che si fece da ragazza, quando la generosità mostrata da chi condivise persino quel nulla che gli rimaneva, la spinse a sua volta a impegnarsi senza riserve al fianco dei più vulnerabili.

32 SOCIETÀ

sempre e in eterno,Anna Seiler

Alle origini della filantropia in Svizzera la generosità di una donna, la cui eredità oggi è più vitale che mai nell’Inselspital di Berna

Filantropo: un termine che, composto nell’originale greco da philía (amore) e ànthropos (uomo), racchiude l’immagine etica e poetica dell’amore verso l’umanità. Oggi definiamo la filantropia un gesto di benevolenza a realizzare il benessere altrui.

Uno dei primi atti di filantropia documentati in Svizzera è da ricondurre alla figura di Anna ab Berg. Nata a Berna nel 1314, orfana di madre deceduta dopo il parto, non appena adolescente venne data in sposa al ricco mercante Heinrich Seiler. Le visite all’ospedale bernese, di cui il marito era stato direttore per diversi anni, le mostrarono una realtà completamente diversa: quella dei poveri, dei malati e dei miserabili. Rimasta vedova in giovane età, benestante e senza figli, cercò spazio per affermarsi in una città emergente, schierandosi con i più deboli e prendendosi cura di chi veniva colpito dalla peste che imperversava a Berna attorno alla metà del Trecento. Decise infine di destinare le sue fortune a qualcosa che potesse durare ‘sempre e in eterno’ e che avesse quale fine ultimo la cura dei malati, finanziando un ospedale con 13 posti letto.

Il testamento dettagliato lasciato da Anna Seiler il 29 novembre 1354 attesta la prima forma di un atto di costituzione di una fondazione in Svizzera. Ancora oggi la fondazione è un veicolo filantropico che giuridicamente rappresenta un capitale impersonificato (appartenente alla fondazione e non più alla fondatrice) orientato al bene comune, definito in base al suo fine (scopo). In quanto tale la fondazione attua la volontà di colei che l’ha creata (visione/missione).

Alla sua morte nel 1360 Anna Seiler destinò l’intera ere-

dità alla fondazione, la quale, nei secoli successivi, si è sviluppata in quel che oggi è noto come l’Inselspital di Berna, uno tra gli ospedali universitari di punta in Svizzera, dove ancora oggi i meno abbienti vengono assistiti gratuitamente.

La storia di 668 anni dell’Inselspital riunisce molti degli elementi della filantropia: tramandare la volontà del fondatore nei secoli e realizzarla in chiave sempre nuova, stando al passo di una società che evolve.

Ad Anna, in ricordo di questo grande gesto di altruismo, è stata dedicata una delle fontane allegoriche della capitale svizzera, quella della Temperanza, nella Marktgasse. E tuttora l’Inselspital continua a omaggiare la sua benefattrice: alla fine dell’anno scorso è stato deciso di intitolarle l’edificio fulcro del nuovo Insel Campus, primo centro di competenza nazionale per la medicina traslazionale e l’imprenditorialità. Un progetto che posiziona la regione di Berna quale polo medico di importanza internazionale, nello spirito di un’innovativa cooperazione tra settore pubblico, scienza e industria.

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Giorgio Panzera Founder & Managing Director Fondazione centro competenze non profit (cenpro)
L’OPINIONE

Accumulo della tensione, esplosione della violenza e fase della luna di miele: sono i tre momenti in cui si struttura il ciclo della violenza. Studiato già nel lontano 1984 da Leonor Walker, famosa psicologa americana esperta nel campo, a chi di dovere pare però spesso sconosciuto. Il violento mette in atto questo ciclo con l’unico scopo di esercitare un controllo totale sulla compagna, che considera un oggetto di sua proprietà, nell’incuranza di chi non riesce o preferisce non cogliere i campanelli di allarme e le richieste di aiuto. Inutile poi, davanti a un femminicidio, nascondersi dietro a giustificazioni come “Niente lasciava presagire una cosa simile”, “Quello che potevamo fare, lo abbiamo fatto”. «Nella fase iniziale l’uomo ha un atteggiamento ostile, è irritabile, scontroso. La tensione è veicolata dal linguaggio non verbale, insieme alle prime violenze verbali: insulti, denigrazioni, umiliazioni e manipolazione psicologica. La donna fa di tutto per mantenere l’equilibrio della coppia e per prevenire l’escalation: evita commenti e domande, si impone delle rinunce,

si concentra sui bisogni del partner», spiega Maria Ferrara, psicologa e operatrice di accoglienza presso il centro antiviolenza Goap di Trieste. Erroneamente la vittima tende a colpevolizzarsi e confida in un cambiamento. Ma inesorabilmente arriva la seconda fase, quella dell’esplosione. «Urla, insulti, minacce, danneggiamento di oggetti, aggressioni fisiche, persino agli animali di casa. Le contingenze che precedono l’aggressione possono essere varie, il più delle volte si tratta di atteggiamenti che il maltrattante vede come rivendicazione di autonomia della donna. In molti casi la prima aggressione fisica avviene nel corso della gravidanza, vissuta come la presenza di un terzo che si frappone nella coppia o come un prolungamento rispetto al quale la donna è un contenitore», prosegue l’esperta. In molte valutano allora di andarsene, ma il violento attiva repentinamente la subdola strategia definita della ‘luna di miele’. «Promette di cambiare, minimizza, sposta la responsabilità all’esterno, si mostra rassicurante. Il perdono e la disponibilità a lasciare alle spalle l’accaduto inaugurano una fase di riconciliazione, in cui la donna prova la sensazione di ritrovare l’uomo del quale si era innamorata. In realtà però

SUBDOLO UN AMORE

Lui

promette

di cambiare,

minimizza

le

sue

esplosioni

di rabbia, scarica le responsabilità su fattori esterni, si mostra rassicurante e la donna si illude di ritrovare l’uomo di cui si era innamorata. Ma è solo una falsa riconciliazione. L’inesorabile ciclo della violenza

SOCIETÀ DI BARBARA ZEN

il cambiamento è del tutto strumentale e transitorio e porterà presto a nuove manifestazioni violente», illustra la psicologa. Si innesca una spirale in cui i momenti di esplosione di violenza si avvicinano nel tempo e i momenti di luna di miele sono sempre più brevi. Al contempo le violenze sono sempre più gravi e frequenti. Il culmine viene raggiunto nel momento in cui la donna decide di interrompere il rapporto. Tutte le volte che si parla di femminicidio, indagando si scopre che l’omicida non era in preda a un raptus, bensì erano rintracciabili molti segnali che avrebbero consentito di proteggere la vittima. E pur senza arrivare a una tragica conclusione, molte donne vivono sotto continue vessazioni, anche e soprattutto dopo la separazione, quando l’uomo cerca di mantenere il controllo su colei che reputa un oggetto di sua proprietà.

Per descrivere il meccanismo si può ricorrere all’efficace immagine della ‘ruota del potere’: i raggi rappresentano le diverse forme di condizionamento attraverso cui il maltrattante ottiene la dipendenza della partner; il mozzo che al centro li tiene insieme è il controllo, mentre in corrispondenza della gomma figurano le violenze fisiche e sessuali che sono le forme più estreme e visibili, quelle che possono verificarsi anche solo sporadicamente, ma risultare comunque efficaci nell’alimentare la spirale della violenza in quanto possibilità sempre evocabili.

«Generalmente si tratta di un uomo dal corteggiamento insistente, che isola la donna dal resto degli amici, spinge per la convivenza, il matrimonio e i figli che saranno il mezzo più facile per tenerla legata a sé e continuare a esercitare il controllo», avverte Maria Ferrara. «Altre mosse potranno essere il controllo totale del bilancio familiare e delle finanze della partner oppure tenere la donna all’oscuro delle decisioni economiche della famiglia. Screditarla con amici e parenti per allontanarla è poi fondamentale per isolarla, renderla più dipendente e portarla a pensare che sia lei ad avere un problema», osserva la psicologa, abituata a sentire questo tipo di racconti ogni giorno. Ulteriore insidia: spesso questi uomini si presentano ai servizi come mariti e padri adeguati, facendo sì che le donne sembrino ‘esagerate’ e che il focus si sposti dalla violenza al conflitto. Se chi si occupa del caso non è formato specificamente, la donna si scontrerà con un altro dramma, non trovando ascolto e soccorso da parte del potere giudiziario e i suoi addetti. «Anche i figli sono coinvolti nella dinamica, sia nel corso della relazione che in seguito alla separazione. Solo recentemente è stato riconosciuto il reato di “violenza assistita” per i minori che sono presenti alle violenze del padre sulla madre. Nei procedimenti giudiziari la prassi di utilizzare l’affido condiviso anche nei casi di maltrattamento può rivelarsi inadeguata e rischiosa perché consente all’uomo

di continuare ad agire violenza sulla partner attraverso i figli», avverte la psicologa. Dati alla mano, non solo a livello regionale ma anche europeo, la problematica è lungi dall’essere capita da chi di dovere, e quindi non è considerata nella sua gravità. Anche se i centri antiviolenza femministi gestiti da donne sono presenti in tutto il mondo e operano per vedere affermati il loro diritto a una vita libera dalla violenza e benché la Convenzione di Istanbul fornisca ai Governi tutte le direttive e le indicazioni pratiche per fronteggiare efficacemente il fenomeno, la violenza contro le donne continua a essere un problema sociale di estese dimensioni a cui non corrispondono politiche e conoscenze adeguate.

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In Svizzera, il gap salariale di genere è del 19%. L’Ufficio federale di statistica aggiorna il dato ogni due anni, distinguendo fra ‘quota spiegata’ e ‘non’. I progressi sono lenti e la parte spiegabile, ferma al 60% dal 2012, rappresenta l’effetto indiretto delle sfide sistemiche a cui le donne sono confrontate. Caso tipico è l’impossibilità, per le madri lavoratrici, di decidere liberamente quanto tempo allocare a lavoro remunerato e gratuito: da una parte mancano i servizi di conciliabilità, dall’altra il sistema fiscale scoraggia le ambizioni delle lavoratrici sposate. Risultato: adozione in massa del part time, vero e proprio ammazza-carriera. Rispondendo a un postulato del 2019, a settembre il Consiglio federale ha approvato il Rapporto che adotta la misurazione - e il futuro monitoraggio - del divario retributivo di genere complessivo (Gender Overall Earnings Gap): una metodologia, già in uso in Europa dal 2002, che riesce a cogliere la differenza di opportunità per lavoratori e lavoratrici, proiettandone gli effetti su reddito e previdenza.

In Svizzera, il reddito che una donna mediamente accumula durante la vita è risultato di ben il 43% inferiore a quello di un uomo (contro il 37% del blocco Eu-27); un gap che progredisce con l’età, come intuibile, ma che esiste già a ini-

pari ancora dispari

zio carriera (8% circa tra 15-24 anni, 54% tra 55-64 anni). A concorrere tre fattori combinati: tasso di occupazione, numero di ore di lavoro mensili remunerate, salario orario. Lo scarto dal resto d’Europa dipende proprio dal più elevato volume di part time femminile. Specularmente, da considerare la sproporzione di lavoro gratuito prestato dalle donne, specialmente madri con figli fino a 15 anni: delle 70 ore settimanali lavorate, solo 16 sono retribuite (meno del 23%, contro il 50% dei padri); ben 31 sono dedicate al lavoro domestico e solo 21 alla famiglia, ciò che fa vacillare la narrativa secondo cui sarebbe l’innata inclinazione alla cura a tenere le donne lontane dal mercato del lavoro (persino oggi che sono più laureate degli uomini!).

Non ci si può quindi stupire se anche le rendite previdenziali femminili risultano inferiori di oltre un terzo di quelle maschili; non tanto per l’Avs, ma per Lpp e terzo pilastro, a cui poche lavoratrici hanno accesso a causa dei bassi salari.

La speranza è che prosegua l’impulso virtuoso verso la pubblicazione di dati disaggregati per genere. La statistica pubblica è fondamentale per comprendere i fenomeni, pianificare gli interventi, colmare le lacune e, soprattutto, nel caso della parità di genere, stimolare una presa di coscienza collettiva. Perché si sa: ciò che non si misura, non esiste.

37 L’OPINIONE
La parità di genere ancora non si concretizza a livello di salari e rendite pensionistiche.
Le fonti di dati ora disponibili in Svizzera consentono di presentare in modo diversificato il divario, su cui pesa soprattutto il part time
Marialuisa Parodi Co-presidente Federazione Associazioni Femminili Ticino (FAFT)Plus

INSIDIE

CYBER

Si è guadagnata il soprannome di Miss Cybersicurezza. Del settore

Myriam Dunn Cavelty è stata un’assoluta pioniera. Suo cavallo di battaglia, le intersezioni tra politica e sicurezza informatica

Ricercatrice del prestigioso Center for Security Studies (Css), il centro di competenza in materia di politica di sicurezza nazionale e internazionale del Politecnico federale di Zurigo, in vent’anni di attività Myriam Dunn Cavelty ha dato un contributo essenziale allo sviluppo di quello che è oggi considerato uno dei più importanti team di ricerca al mondo nel suo campo. Ulteriore sfida: donna in un mondo a netto predominio maschile. Forse proprio perché proviene da una famiglia (di origini irlandesi, trapiantata a Zurigo) che nulla con questo ambito ha a che fare - mamma pittrice e illustratrice, papà avvocato prestato alla filosofia, la sorella Fatima violoncellista e cantautrice, cui si è aggiunto il marito scrittore, lo svizzero Gion Mathias Cavelty - Myriam ha saputo cogliere un altro fondamentale aspetto della cybersicurezza, oltre a quello strettamente tecnologico. «In realtà, considero il mio lavoro molto creativo. Ma

nemmeno io avevo previsto quanto vario e importante sarebbe diventato. Se quando ho cominciato, a inizio anni Novanta, era chiaro che i computer avrebbero plasmato il futuro, meno chiaro era il modo in cui lo avrebbero fatto, e tuttora, a causa delle complesse e imprevedibili interazioni tra esseri umani e tecnologie, la sicurezza informatica continua a riservare sorprese in politica, cosa che mi affascina ancora oggi dopo molti anni», spiega l’esperta.

Ciò che rende speciale il Css è proprio la combinazione tra ricerca e consulenza politica, che permette di fare da ponte tra il mondo accademico, le applicazioni pratiche e il grande pubblico. Essere sotto il cappello del Politecnico di Zurigo consente di attirare le menti più brillanti. Myriam si occupa principalmente di consulenze per il governo svizzero, fornendo analisi approfondite su questioni di rilievo sistemico, ma sempre più sono le aziende e le organizzazioni che si rivolgono all’istituto per acquisire nuove competenze e formazione.

Per la maggior parte dei non addetti, rimane però difficile capire cosa stia dietro una cifra stratosferica come i seimila miliardi di dollari di danni causati da attacchi hacker nel 2021 a livello mondiale, e che ci si attende lievitare 10,5 mld nel 2025 (nel 2015 erano solo 3). Anche in

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Svizzera, l’anno scorso sono raddoppiate le segnalazioni al Centro nazionale per la cybersicurezza (Ncsc), quasi 22mila, soprattutto tentativi di truffa, fake sextortion e mail minatorie. Tuttavia questo dà un’immagine solo approssimativa del cybercrimine, che sconta le fantasie di un immaginario fantascientifico sdoganato da libri e cinema. «Il prefisso cyber indica sempre il coinvolgimento delle tecnologie digitali. Il cyberspazio si riferisce a un dominio dinamico e su larga scala di scambio di dati, sostenuto da una serie di oggetti fisici come computer, cavi o telefoni cellulari e dai corrispondenti protocolli software. Il cybercrimine indica reati che coinvolgono i computer, come strumento o come obiettivo. La cybersicurezza riguarda invece, da un punto di vista tecnico, la protezione della riservatezza, dell’integrità e della disponibilità delle informazioni, mentre in un’accezione più estesa si riferisce alle attività offensive e difensive di attori statali e non statali nel cyberspazio, al servizio del perseguimento di obiettivi politici di sicurezza più ampi», chiarisce la ricercatrice. Il suo cavallo di battaglia sono proprio le politiche di sicurezza informatica, un argomento che però la ricerca continua a sottovalutare.

«Gli Stati, soprattutto i più potenti, usano il cyberspazio per ogni tipo di attività politica e strategica, come lo spionaggio o le campagne di disinformazione, creando tensioni e frizioni.

Poiché hanno tempo e risorse, sono più pericolosi persino dei criminali. In particolare, preoccupano gli effetti destabilizzanti della disinformazione o della cosiddetta ‘guerra delle informazioni’, falsate e usate come amplificatore strategico di problemi esistenti», avverte la ricercatrice del Css.

È improbabile che infrastrutture critiche, come centrali nucleari, sistemi di logistica e di gestione del traffico, forze di difesa e ospedali possano essere paralizzate da un attacco hacker, come vorrebbe un classico scenario da ‘cyberwar’. «Portare a termine un attacco mirato e controllato con un elevato impatto (fisico e distruttivo) solo attraverso il cyberspazio è estremamente difficile. Quando dico difficile, intendo costoso e anche che ci vogliono mesi, persino anni. Non tanto grazie ai sistemi di difesa, ma perché esplorare le reti sconosciute di

Gli Stati, soprattutto i più potenti, usano il cyberspazio per ogni tipo di attività politica e strategica, come lo spionaggio o le campagne di disinformazione. Poiché hanno tempo e risorse, sono pericolosi persino più dei criminali

un nemico richiede tempo. E rimanere nascosti una volta penetrati in un sistema impone uno sforzo continuo. Solo pochi Stati hanno le capacità necessarie per un’operazione del genere e perché dovrebbero farlo? Dunque, da una parte la tecnologia limita ciò che è realizzabile politicamente, mentre la politica limita ciò che sarà tentato tecnologicamente», chiarisce Myriam Dunn Cavelty.

Nella guerra in Ucraina, subito estesa al cyberspazio, con sorpresa di molti analisti la Russia

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SOCIETÀ DI SUSANNA CATTANEO
© Photo by Gion Mathias Cavelty

per ora non è stata in grado di sfruttare il suo cyberpotere. La sfera digitale è però estremamente importante per molti altri aspetti del conflitto, come lo spionaggio o, ancor più insidiosa, la disinformazione. Sono poi emersi nuovi attori, come l’It Army dell’Ucraina, volontari della comunità hacker che portano manforte nel cyberspazio, con operazioni vanno dal vandalismo informatico a potenti attacchi a siti russi, passando per le piattaforme social da dove esercitare pressione sulle grandi aziende occidentali che collaborano con la Russia. «Difficile ancora comprendere le conseguenze delle loro azioni sulle norme internazionali», avverte la ricercatrice.

A confronto, le violazioni dei dati di privati e aziende sono comuni e molto più facili da portare

a termine, ad esempio operazioni di phishing per ‘pescare’ dati finanziari di un utente, oppure le attività ransomware che criptano i dati contenuti nei dispositivi per chiedere un riscatto, tipica modalità con cui vengono colpite le aziende. Ogni tanto un mega attacco di hacking balza agli onori della cronaca, con centinaia di milioni di dati personali rubati (per la Cina quest’estate si è parlato di un miliardo con ChinaDan). «Rintracciare che tipo di informazioni siano state raccolte è per lo più impossibile, spesso per le vittime stesse, soprattutto se gli aggressori erano nelle reti da tempo. E collegare gli effetti nel mondo reale alle violazioni dei dati è estremamente difficile: in alcuni casi, varie violazioni in diversi Paesi per un lungo periodo potrebbero fornire all’aggressore le intuizioni necessarie per assassinare, ad esempio, un agente dei servizi segreti stranieri», avverte l’esperta. Poiché sempre più ogni aspetto della nostra vita dipende dal digitale (dall’Industria 4.0 agli elettrodomestici intelligenti dell’IoT), le vulnerabilità aumentano costantemente. «In generale, il livello di sicurezza in ambito It è deplorevolmente basso: le ragioni sono diverse, come la complessità, linguaggi di programmazione difettosi, mancanza di investimenti nella sicurezza, ecc. Il problema più grande è a livello di aziende e istituzioni pubbliche: se vengono colpite, le conseguenze sono sempre automaticamente maggiori. La consapevolezza sta però crescendo», osserva la ricercatrice. Una sicurezza al 100% è un traguardo irraggiungibile, persino a prezzo di un controllo totale che lederebbe libertà e privacy. Ma questo è un paradigma ormai superato secondo la ricercatrice del Css. «È inevitabile aspettarsi attacchi o incidenti: si devono dunque valutare i diversi rischi, identificare i beni di valore e decidere quanto si vuole spendere per ridurre la vulnerabilità, disporre di buoni piani di gestione e comunicazione delle crisi. Questo porta al concetto di resilienza, la capacità di un sistema di rimettersi in piedi se gli accade qualcosa di negativo», puntualizza. Certo, quando si parla di un mondo senza frontiere come quello digitale, occorre uno sforzo congiunto a livello internazionale, che però le polarizzazioni geopolitiche attuali non aiutano. Due le principali questioni all’orizzonte. «Primo: cosa implica a livello politico lo strapotere delle aziende tecnologiche private? E, aspetto strettamente collegato, i tentativi di molti Stati o entità politiche come l’Unione europea di rafforzare la propria sovranità digitale», conclude Myriam Dunn Cavelty. Tendenze che lasciano intravvedere, senza doversi lanciare verso orizzonti apocalittici o fantascientifici, una politicizzazione ancora più marcata della tecnologia e, di conseguenza, una richiesta ancora maggiore di conoscenze politiche nell’intersezione con la sicurezza informatica.

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In una recente intervista televisiva, il Presidente della Confederazione Ignazio Cassis ha raccontato di essersi avvicinato alla politica dopo aver vissuto come medico la pandemia da Hiv e aver assistito alla paura della malattia e all’emarginazione che produce. La comunità omosessuale maschile si era ritrovata al centro di un’esperienza terribile, non solo dal punto di vista sanitario, ma anche personale. Sono passati tanti anni, una nuova epidemia virale colpisce attualmente i maschi omosessuali, ma la stigmatizzazione, la paura, il pregiudizio, sono certamente cambiati.

Con la volontà di chiarire i complessi aspetti della sessualità umana, uno psichiatra e un sessuologo parlarono per primi negli anni ’60 di ‘gender identity’. Si voleva promuovere l’idea che, accanto al sesso biologico dichiarato alla nascita in base ai genitali del bambino, esiste un’identità sessuale che si sviluppa durante la crescita e che può non coincidere con quella imposta dai cliché della società . Oggi, nel contesto della “sex and gender medicine” - nuova visione della medicina incentrata sulle differenze per abolire le disparità - con la parola gender ci si riferisce alle differenze nel campo della salute indotte dalla società in cui si vive sulla base dell’appartenenza a una categoria di persone, identificate anche dalla propria identità sessuale. Non solo uomo e donna, ma molto

altro quindi, più precisamente molti tipi di generi definiti e riconosciuti in base a ciò che si vuole essere e a ciò che si sente di essere.

Che genere ? di malattia

Parlare di malattie legate al genere rappresenta una sfida. La loro comprensione (e diffusione) dipende infatti non solo dall’identità sessuale, ma da consuetudini e pregiudizi del contesto sociale in cui si cresce e vive. Mentre la medicina tradizionale trascura il ruolo del pregiudizio, nella visione della Sex and Gender medicine è una componente determinante, in quanto è alla base di buona parte delle differenze e delle disparità di trattamento tra i diversi generi. Non solo le malattie professionali quindi, quali malattie polmonari dei minatori, parassitarie di chi lavora con i piedi nell’acqua infestata (uomini o donne a seconda dell’area geografica), oppure malattie di ruolo come il tracoma, la malattia batterica degli occhi delle donne, perché portano in grembo i bambini dai quali le mosche veicolano la malattia. Non solo le malattie dovute ad abitudini di comportamento in conformità dei ruoli, pensiamo alle patologie discendenti dalla tradizione dei piedi legati delle donne cinesi fino al secolo scorso o dai tacchi alti ora. Anche nelle malattie trasmissibili per via aerea come il Covid esiste una parte legata al genere, in quanto la prevalenza dell’infezione nell’uomo e nella donna dipende anche dalla loro esposizione, da chi fa che cosa, da quanto sono coperti e isolati.

La mancata comprensione degli aspetti sociali, l’atteggiamento di benevolenza o di rifiuto, la discriminazione, tutto favorisce la malattia e compromette la cura. Questo è il complesso tema della Sex and Gender medicine nella sua parte gender. Quella più stimolante, che cambierà il destino dello studio della medicina e forse i suoi paradigmi.

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Le malattie legate al genere non includono solo quelle trasmissibili, ma tutte quelle che dipendono da professioni e abitudini, spesso ancora connesse a pregiudizi e cliché sull’identità sessuale veicolati dalla società
L’OPINIONE
Susanna Grego Medico Specialista di Cardiologia, Unità malattie cardiovascolari rare, Istituto Cardiocentro Ticino, Lugano Medico accreditato presso la Clinica Sant’Anna, Sorengo

AD ALTA INTENSITÀ

Gli allenamenti ad alta intensità concentrano in tempi brevi esercizi caratterizzati da un intenso sforzo fisico. La brevità delle sessioni di allenamento ha contribuito a decretarne il grande successo, andando incontro alle esigenze di chi ha poco tempo da dedicare allo sport, ma non per questo vuole rinunciarvi. Sono di norma identificati con gli acronimi Hit e Hiit. Hit sta per High Intensity Training - Allenamento ad alta intensità -, mentre per Hiit si intende High Intensity Interval Training, ossia Allenamento a intervalli ad alta intensità.

La differenza? È nella fase di re cupero: mentre nell’Hit i vari esercizi vengono effettuati senza soluzione di con tinuità, nell’Hiit sono previsti momenti di recupero attivo, che interrompono le serie di esercizi ad alta intensità.

La durata di una sessione di allenamento a intervalli ad alta intensità - Hiit è generalmente inferiore a quella degli allenamenti di tipo tradizionale, mentre il consumo calorico è generalmente superiore. Tuttavia, l’allenamento ad alta intensità sottopone a

Innovativo ed efficace, il metodo che prevede l’elettrostimolazione muscolare è in grado di intensificare il processo di allenamento e condensare l’attività in 20 minuti

Cristiano Marelli responsabile fisioterapista FitLab 2.0, Lugano

sforzi notevoli non solo l’apparato cardiovascolare ma anche muscoli, tendini e articolazioni. Pertanto, non è adatto a tutti ed è indispensabile procedere con gradualità e moderazione.

Tra gli allenamenti ad alta intensità, «Il protocollo Tabata, ideato negli anni ’90 dall’omonimo scienziato giapponese, è un metodo di allenamento intervallato - Interval Training (It) - caratterizzato da ritmi di lavoro ad alta intensità - High Intensity Training. Il protocollo Tabata aumenta la frequenza cardiaca fino a raggiungere degli alti livelli, utilizzando pienamente sia il metabolismo aerobico che quello anaerobico», spiega Emanuele Cambiati, fitness manager di Wellness Club Sassa.

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Tendenza fitness molto in voga, gli allenamenti a intervalli ad alta intensità sono l’ideale per chi ha poco tempo. I benefici sono presto visibili ma perché rimangano a lungo occorre anche altro…
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SALUTE E BENESSERE DI ELEONORA VALLI

Il protocollo Tabata aumenta la frequenza cardiaca fino a raggiungere degli alti livelli, utilizzando pienamente sia il metabolismo aerobico che quello anaerobico

Emanuele Cambiati

fitness manager

Wellness Club Sassa, Lugano

«Attraverso brevi pause, che consentono di recuperare in maniera incompleta e smaltire solo parzialmente l’acido lattico prodotto e accumulato, il protocollo Tabata permette di rimanere ai massimi livelli di intensità per un ampio periodo di tempo, fino ad arrivare a eseguire le diverse ripetizioni. In poco tempo, questo protocollo induce un elevato de bito d’ossigeno che si protrae fino al termine del workout. Meccanismi che supportano gli effetti benefici del protocollo Tabata sul condizionamento della persona allenata», spiega il fitness manager. Privilegiando la brevità della durata, si sono affermate, negli ultimi anni, tipologie di allenamento, da 20 minuti molto intensi, che utilizzano l’elettrostimolazione, con abbinamento di movimenti statici o combinati. «Nel nostro Centro fitness e di fisioterapia, sono molto richiesti gli allenamenti con elettrostimolazione muscolare», esordisce Cristiano Marelli, responsabile fisioterapista di FitLab 2.0 di Lugano, «un metodo innovativo, in grado di intensificare il processo di allenamento e condensare l’attività in 20 minuti. Un sistema in grado di attivare gli strati muscolari più profondi, difficili da mettere in moto attraverso l’allenamento tradizionale, aumentando l’attività muscolare e il dispendio calorico. Infatti 20 minuti di attività garantiscono la stessa efficacia di tre sedute in palestra, e bastano per modificare la composizione corporea, permettendo di ottenere risultati in poche settimane, che siano di dimagrimento, di tonificazione e/o di aumento della massa muscolare. È un metodo certificato, efficiente da subito, che, se applicato con costanza, permette di raggiungere qualsiasi obiettivo, senza troppi sacrifici. A caratterizzarlo è l’applicazione del metodo Ems: all’allenamento ad alta intensità si unisce un’attivazione muscolare elettrica in grado di aumentare ulteriormente l’intensità e l’efficacia dell’attività fisica», sintetizza il responsabile fisioterapista di FitLab 2.0. Certo, per conquistare e mantenere la forma fisica, il corpo deve lavorare.

«L’allenamento ideale dovrebbe sempre essere finalizzato a imparare a reclutare, con ogni esercizio o gestualità atletica, il muscolo desiderato, con i benefici che ne conseguono. Nel portare un corpo ad acquisire e sperimentare una qualità di movimenti differenti, lo stimolo che si genera è maggiore sia a livello metabolico che a livello funzionale, allontanando così il processo di adattamento. La nostra idea di benessere incoraggia a diversificare il proprio allenamento sia individualmente che attraverso un planning specifico per le proprie esigenze. Qualunque sia l’obbiettivo di ognuno ed il tipo di allenamento che si sceglie, non si può prescindere dall’avere uno stile di vita che, nel suo insieme, sia salutare e adatto a raggiungere i propri scopi di forma fisica e benessere a 360 gradi», conclude Emanuele Cambiati.

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Photo by Sule Makaroglu on Unsplash

UNA

Nel pieno della rivoluzione femminile degli anni Sessanta, a Lugano si inaugurava il primo istituto di bellezza. Il logo era una farfalla. Espressione di gentilezza muliebre e di libertà. Prendeva avvio una vivace storia imprenditoriale e di emancipazione.

E la storia continua

ELISIR DI BELLEZZA SENZA TEMPO R

ipensando all’onda femminista degli anni Sessanta, e alla nuova identità delle donne, si a ff astellano nella mente immagini di luoghi, eventi, slogan e fisionomie. Tanto di tutto, da non poter rimanere racchiuso in poche righe. Un esempio, tuttavia, si presta a raccontarne l’essenza. È quello del cinema francese della Nouvelle Vague, con le sue attrici e i suoi personaggi iconici, capaci - le une e gli altri - di affermare la caleidoscopica femminilità. Jeanne Moreau, Brigitte Bardot, Jacqueline Bisset, … Nelle pellicole, come nella vita reale, si definivano i contorni della donna moderna. Che, sensuale, ribelle, furba o emancipata (poco importava), poteva finalmente essere sé stessa. Un individuo che abbinava alla bellezza e alla cura estetica, l’intelligenza e le possibilità della libertà. Alle nostre latitudini in quegli anni, nel solco di questa consapevolezza e libertà, Gabriella Hunger Ricci, una laurea in farmacia e la specializzazione in estetica e cosmetologia, cominciava a produrre

46 SALUTE E BENESSERE DI SIMONA MANZIONE
SOPRA, GABRIELLA HUNGER RICCI, NEGLI ANNI ‘60. SPECIALIZZATA IN ESTETICA E COSMETOLOGIA, CREÒ LINEA DI FITOCOSMETICI, IL PRIMO ISTITUTO DI BELLEZZA DI LUGANO E LA SCUOLA INTERNAZIONALE DI ESTETICA E COSMETOLOGIA

una linea di fitocosmetici naturali di altissimo livello. «La cosmetologia negli anni Sessanta era ancora acerba. Le formule semplici e basilari; venivano ampiamente utilizzati i composti di sintesi, come olii di sintesi e siliconi. La purezza e la prevedibilità nel comportamento li rendevano meno variabili rispetto ai composti vegetali», spiega Isabella Lucini, cosmetologa, responsabile di ricerca e sviluppo e produzione di Hunger Ricci. «Inoltre, i costi allora bassi dei derivati del petrolio, tra cui olio di vaselina e paraffina, invogliarono diverse industrie cosmetiche a utilizzarli nelle proprie formulazioni, malgrado il loro effetto occlusivo sui pori e la loro comedogenicità. Era anche l’epoca in cui tutti i prodotti cosmetici - sia materie prime che prodotto finito - non avevano limitazioni di legge e potevano essere testati su animali», prosegue la cosmetologa. «I prodotti di Gabriella Hunger Ricci, al contrario, si basavano su formule altamente specifiche: per ogni problematica e ogni tipologia cutanea aveva sviluppato delle formulazioni dedicate. Preferendo sempre l’utilizzo di materie prime naturali come olii vegetali, fitocomplessi e principi attivi isolati dalla pianta, con il credo che la natura fornisse già tutto quello di cui si poteva aver bisogno. Ha sempre mantenuto standard qualitativi elevatissimi, rinunciando all’uso di compo-

nenti come gli olii minerali. Per sua scelta, Gabriella non ha mai testato i suoi cosmetici su animali, sebbene il divieto di sperimentazione animale sul prodotto finito sarebbe divenuto effettivo solo nel 2004. Lei anticipò i tempi di ben trent’anni». Quando iniziò le attività, i suoi prodotti si affermarono rapidamente, in Ticino prima, e ben presto anche nel resto della Svizzera e oltre confine. Forte di una conoscenza

SALUTE E BENESSERE
IN FOTO, DA SINISTRA, SABRINA NOSEDA, PRESIDENTE DI HUNGER RICCI, E ISABELLA LUCINI, COSMETOLOGA, RESPONSABILE DI RICERCA E SVILUPPO E PRODUZIONE DELLA STORICA AZIENDA
IN QUESTA IMMAGINE, NELLA SCUOLA INTERNAZIONALE DI ESTETICA E COSMETOLOGIA, UN TRATTAMENTO EFFETTUATO CON PRODOTTI FITOCOSMETICI

scientifica di rilievo, Gabriella Hunger Ricci apre a Lugano, in viale Cattaneo 10, il primo istituto di bellezza della città. Il logo è una farfalla. Il successo è praticamente immediato. La dottoressa diventa un punto di riferimento nel campo dell’estetica. È il 1964. «Inizialmente, fu proprio come supporto al suo centro estetico che sviluppò le sue linee cosmetiche. Voleva prodotti di qualità e dall’efficacia certa», racconta Isabella Lucini che, di Gabriella Hunger Ricci, porta avanti oggi, in azienda, gli insegnamenti e i principi. Con l’apertura del centro estetico, constatata la mancanza di specializzazioni, decide di formare lei stessa il personale, avvalendosi di una visione più moderna e scientifica del mondo dell’estetica, basata sul la tecnica, sulla cono scenza dermatolo gica e fisiologica e sulla cura dei dettagli. Nasce così la prima Scuola Internazionale di Estetica e Cosmetologia Hunger Ricci. Da allora, la Scuola propone percorsi di formazione professionale completa e corsi di specializzazione. La competenza scientifica acquisita fu determinante per Gabriella, avviò così un percorso all’avanguardia e di successo. Sono intanto passati sei decenni. «Per preservare l’eredità della dottoressa Hunger Ricci, sono fondamentali il rispetto e la valorizzazione del passato», nota Sabrina Noseda, presidente di Hunger Ricci, «Il suo operato lungimirante continua ad essere un modello da cui trarre ispirazione, così come sono un riferimento la sua curiosità e la filosofia incentrata sulla creazione di prodotti di grande qualità per custodire la bellezza naturale.

Per declinare questo spirito nel tempo presente e proiettarlo nel futuro, ci concentriamo sulla ricerca approfondita di nuovi estratti vegetali e l’applicazione di nuove tecnologie». Con queste intenzioni, prosegue Noseda: «Nel 2019 abbiamo trasferito la parte produttiva dagli storici laboratori della dottoressa allo stabilimento di Novazzano, e abbiamo aggiunto il dipartimento di ricerca e sviluppo. Siamo focalizzati sull’innovazione, sia per i prodotti sia nel definire metodi formativi regolarmente aggiornati in base alle tecniche più all’avanguardia», aggiunge Sabrina Noseda. Per prodotti e servizi destinati tanto ai professionisti, quanto ai privati, «Abbiamo ampliato ulteriormente il canale di vendita al pubblico, anche grazie allo sviluppo di nuove linee cosmetiche. Tra queste, Sensitiva , formulata partendo dagli studi fatti in collaborazione con varie università, che hanno accertato le proprietà benefiche della Canapa Sativa L sull’epidermide», spiega Noseda, che anticipa: «Pensiamo di off rire un servizio di analisi della pelle, affinché ogni cliente possa avere un trattamento mirato ed efficace. La Scuola propone anche consulenze per trattamenti estetici professionali».

In conclusione, Gabriella Hunger Ricci ha rappresentato la modernità. «Per molti aspetti le sue formulazioni sono ancora attualissime e molte caratteristiche che avevano all’epoca sono diventate dei punti di forza della cosmetologia moderna. Raccogliendo la sua eredità, abbiamo adeguato le formulazioni alle normative più restrittive, modificandole solo dove necessario ma preservandone il cuore», conclude Isabella Lucini.

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NELL’IMMAGINE, GABRIELLA HUNGER RICCI HA SEMPRE PREFERITO L’UTILIZZO DI MATERIE PRIME NATURALI COME OLI VEGETALI, FITOCOMPLESSI E PRINCIPI ATTIVI ISOLATI DALLA PIANTA, CON IL CREDO CHE LA NATURA FORNISSE TUTTO QUELLO DI CUI SI POTEVA AVER BISOGNO

Donare un gioiello significa compiere un gesto che racchiude un significato speciale.

È un po’ come dire “ti amo”.

È un segno che consolida il legame tra chi porge il dono e chi lo riceve.

E il gioiello non è più quindi soltanto un oggetto bello e prezioso, ma diviene il simbolo di qualcosa di intimo e profondo

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AutunnoBacco!

per

,

Dall’ocra al cioccolato, i colori caldi del foliage impressi sui tessuti fiorati. Punte di azzurro pallido prese in prestito dal cielo autunnale, sospeso tra l’intensità luminosa del mezzogiorno estivo e le notti stellate della stagione che verrà. Il mood? Atmosfere accoglienti, una pausa di convivio e relax, capi avvolgenti, ma con un twist inaspettato

MODA
SERVIZIO PETRA PETER - FOTO GIORGIA GHEZZI PANZERA Vestito in seta a fiori, Antonio Marras e scarpe N21 by SHUGA Orecchini oro Melania Crocco. Anello Dreamboule by RONDINA Barricaia Cantine VINATTIERI di Ligornetto

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Le sfilate primavera-estate 2023 della Settimana della Moda hanno svelato come ci vestiremo. Ne abbiamo viste di tutti i colori

ANTEPRIME DI MODA

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SPECIALE MILANO FASHION WEEK SS 2023

La Settimana della Moda di Mi lano è tornata quella di sempre. Libera da restrizioni. Glamour e champagne a far da cornice e, sì, ogni tanto anche una por zione di patatine, ordinata al volo, tra una sfilata e l’altra. In un susseguirsi di presen tazioni ed eventi, trovano spazio anche le buone cause. Così è stato per ‘La Rosa’, proposta da Officina del Pioggio con Tamu MacPherson, per una raccolta fondi da destinare alla ricerca sul cancro. Altruista, la moda, che aiuta le donne nei paesi in difficoltà, creando lavoro: #madeforwomen è un progetto a sostegno dei designer ucraini.

La moda è quella delle sfilate ospitate in location di ogni sorta, ma è anche all’esterno, per strada, dove gli influencer più di tendenza fanno la moda. Ispirano i loro follower portando in giro le nuove collezioni ancora prima che queste sfilino sul runway.

Volti già conosciuti e volti nuovi, che arrivano anche a spendere cifre da capo giro per abiti griffati. Abiti che indossano a volte solo per attirare l’attenzione di qualche street photographer e diventare - perché no - i nuovi Ferragni.

Che cosa vogliono, i Millenials? La Settimana della Moda, appena terminata, sembra essersi concentrata su questo quesito, a cui ha risposto con le sue tante proposte. Magari proprio per questo Fendi ha pre sentato una collezione semplicissima da indossare, minimalista, concentrata piuttosto sull’accessorio come scarpe e borse, inserendo la ‘F’ creata da Karl Lagerfeld. Che troviamo anche da Prada, dove Mucchia lascia sempre più spazio a Raf Simons. Non ho niente da aggiungere.

Ci sono poi i brand che vestono una donna mo derna, divisa tra lavoro e vita sociale, amante della vita. Ad esempio Max Mara, un marchio che ama la donna e, per la prossima primavera-estate propone una collezione che diventa un’ode alla riviera fran cese e al suo stile senza tempo. Via libera a gonne lunghe, crop top, vestiti di lino dal mattino fino alla sera: pura eleganza.

Anche Ferragamo, la seconda sfilata più attesa del momento, si è proposto con “energia giocosa e leg germente perversa”, come ha sintetizzato lo stesso designer 27ette M. Davis.

FERRAGAMO PHILOSOPHY DI LORENZO SERAFINI
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FENDI

La Maison dalla lunga storia ha proposto una col lezione caratterizzata da un blazer rosso brillante. Lo smoking, i pantaloni eleganti per ottenere un look decisamente contemporaneo. In molti sono convinti che non basti più creare bei vestiti, si deve creare lo show, un evento in grado di passare alla storia. E in parte sono d’accordo! Alcune Maison come Dolce&Gab bana o Luisa Spagnoli sono andate a curiosare nei propri archivi, da cui hanno ripreso storiche collezioni, che hanno poi rivisitato. L’intento? Creare qualcosa di veramente ‘me raviglioso’.

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N°21 JIL SANDER

Highlight di questa Settimana della Moda per me è stato Bally, con il nuovo direttore creativo Rhuigi Villaseñor. Lo avevo incontrato un paio di giorni prima della sfilata e gli avevo chiesto un’anticipazione. Con il suo sorriso giovanissimo mi ha detto: “Elegante”. Non ha nascosto la sua emozione! Del resto, come non esserlo, con la responsabilità di un brand del calibro di Bally e tutti gli occhi del mondo della moda puntati addosso. Ne sono certa: ha superato brillantemente la prova; la collezione è semplicemente stupenda. Per accettare la sfida di diventare direttore creativo di uno storico Brand di lusso, incentrato sulla pelletteria, ci vuole coraggio e tanto sostegno da parte della Maison stessa. Perché non sempre la voglia di cambiare prende veramente forma. Non è il caso di Bally, però. Rhuigi ama la donna, la vede bellissima, elegante e sensuale, non solo con vestiti cut out, gonne con spacco a tutta gamba, ma anche in denim e camicia bianca. Ispirato un po’ dallo stile safari, un po’ dalle trame hollywoodiane, mescola alla perfezione lusso europeo con un pizzico di gusto americano, creando una

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IN QUESTA PAGINA, LA NUOVA COLLEZIONE BALLY

collezione perfetta, arricchita di elementi nuovi, come costumi da bagno e gioielli. Non sarebbe una vera primavera-estate senza l’intenso romanticismo di Philosophy di Lorenzo Serafino e Alberta Ferretti, entrambi - seppure in due modi totalmente diversi - propongono look per un’estate ‘innamorata’, nel segno della leggerezza dell’essere. Trasparenza del No21, con colori forti: così del resto è la donna! Per le scarpe, accanto ai grandi classici, con Aquazurra e Sergio Rossi, ho trovato

PRADA FENDI PARIS TEXAS

ALBERTA FERRETTI

irresistibile il giovane brand Paris Texas, che ha già conquistato cuori (e piedi) di tantissime star. Sparkle non solo sul sandalo ma anche sullo sti vale da cowboy. A splendere è anche la nuova collezione di Bvlgari con alcuni pezzi meravi gliosamente rivisitati e alcuni creati ad hoc per la Milano Fashion Week. Una settimana che ha chiuso in grande stile, con Armani e la sua collezione disinvolta ma raffinatissima, un toccasana in questo periodo. Le sue modelle impreziosite da un filo dorato o argentato nei capi, e ricami di altissima sartoria, quasi in tutti i look: un incoraggiamento a in dossare quello che ci pare e ci piace. E così, piena di idee e d’espoir, preparo la valigia per la Settimana della Moda di Paris.

N° 21
FENDI
EMPORIO ARMANI
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Isuoi gioielli sono un inno alla donna e alla natura. Sono monili da indossare come la natura indossa le sue fioriture, le sue foglie e i suoi colori: in un’intimità preziosa, fatta di emozioni. Ad essere celebrata è la femminilità più autentica, delicata e forte al tempo stesso. I suoi gioielli sono un inno alla bellezza nella sua accezione più irresistibile. Sono un inno al più regale e appassionante dei sentimenti: l’Amore.

e colorato ensemble, le dita decorate, questo o quello, o tutte insieme. Per Eugenia, da sempre, i gioielli, le pietre, i colori, le forme e i volumi, gli accostamenti armoniosi e quelli più osati fanno parte del suo quotidiano e del suo universo immaginifico. Istintivo per lei diventare, nel 2001, direttore creativo della Maison. Lei che aveva a lungo osservato le abilità del padre Pasquale, ora lo affiancava, per aggiungere creatività a creatività, sensibilità a sensibilità, in un clima di affetto complice.

CREATIVITÀ SECONDO NATURA

Sono gioielli con l’anima quelli disegnati da Eugenia Bruni. Anima delicata e passionale, che travolge nella sua sensuale femminilità

«Sono un’ode alla rinascita attraverso le meraviglie della natura e attraverso la parte più profonda del cuore delle donne», racconta Eugenia Bruni, direttore creativo della Maison gioielliera

Pasquale Bruni.

Cresciuta nell’azienda di famiglia, Eugenia fin da piccola disegnava e indossava delicati oggetti preziosi, interpretati da sempre in maniera originale. Sautoir che diventavano ghirlande, bracciali che si componevano l’uno dopo l’altro in un giocoso

Nella sua veste di direttore creativo, Eugenia ha dato un’anima contemporanea a ogni nuova collezione... Ghirlanda, Sissi e l’iconica Bon Ton. Spinta dal suo interesse per la vera essenza della natura, Eugenia ne sperimenta le cromie e le forme, creando oggetti che mettono in valore l’allure femminile. Le creazioni di Eugenia nascono da un moto dell’animo ed esprimono una personale spiritualità. «Punto di partenza di ogni processo creativo sono i sentimenti più autentici e le emozioni più intense.

66 MODA DI SIMONA MANZIONE

NELLA PAGINA ACCANTO, COLLIER GODDESS GARDEN CON DIAMANTI E MORGANITE TAGLIO A GOCCIA, ORECCHINI ALELUIA’ PINK AURA IN QUESTA PAGINA, A DESTRA, EAR CUFF E, SOTTO, ANELLO AMA IN BASSO, ANELLO GIARDINI SEGRETI

IN QUESTA IMMAGINE, EUGENIA BRUNI, DIRETTORE CREATIVO DELLA MAISON GIOIELLIERA PASQUALE BRUNI

MODA

C’è un’anima gentile, che sovrintende il processo creativo, e passionale, che travolge nella sua sensuale femminilità. C’è un anima che nel suo mistero più intimo e spirituale prende forma in una dimensione terrena. In questo è racchiusa la vera meraviglia», così Eugenia racconta l’origine delle diverse creazioni. Piccoli oggetti d’arte, ricchi spesso di riferimenti ed echi provenienti dalle culture più diverse e da epoche lontane. «Un’eco che alimenta la necessità di avvicinare a me ciò che è lontano; di porre a confronto e mescolare mondi diversi, per il luogo e per il tempo, e donne che provengono da diversi orizzonti. Culture, conoscenze e sensazioni confluiscono nel mio sentire. L’antico Egitto, la mitologia greca, l’impero romano e l’India, sono solo apparentemente diversi, in realtà hanno continui reciproci rimandi. Queste diversità e la scoperta delle affinità sono elementi di cui possiamo sentire un’eco dentro di noi, qualcosa in cui riconoscersi e di cui meravigliarsi». Appassionata di gemme e di colore, Eugenia ne ha introdotto una nuova interpretazione.

A SINISTRA, SAUTOIR E ANELLO DELLA COLLEZIONE

TON JOLI, CON AGATA BIANCA

E VERDE, E ORECCHINI TON JOLI

«Ogni singola gemma deve trasmettere amore e virtù», sintetizza la creativa. Le pietre in colore sono uno degli elementi caratterizzanti le collezioni iconiche. «Le pietre sono cuore, sentimento, vibrazione. Ad esempio, in Zefiro e Flora, le pietre sono il centro e il vento della primavera (Zefiro) le avvolge in un morbido abbraccio, accarezzandole con le sue foglie. La forma dialoga con la gemma e la esalta», racconta Eugenia Bruni che, con questi due quesiti sollecitata, così risponde: «Se fossi un gioiello? Sarei un gioiello che esprime una metamorfosi, come Giardini Segreti, da foglia a fiore a farfalla. Da luce a forma. Come ogni donna, siamo tante cose e tante sensazioni che coesistono», e ancora: «Se fossi una pietra preziosa? Difficilissimo rispondere con un’unica scelta. Anni fa, avrei detto certamente rubino, capace di esprimere la mia parte più passionale; ma sono anche quarzo rosa, per l’amore e la femminilità che esso rappresenta; ma sono anche smeraldo per l’energia che racchiude nella connessione con il Chakra del cuore. E sono ametista, nella sua vibrazione vigorosa»

Noi donne siamo colore acceso e vibrante, e sfumature delicate, conclude Eugenia Bruni: «Siamo tante emozioni in un’unica anima. I gioielli raccontano queste donne e parlano al cuore di queste donne, ognuna con la sua unicità. Nel mio processo creativo, esprimo l’essere donna nella sua essenza divina e nel suo legame con la natura. Nella sua autenticità e unicità».

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LIMITED EDITION
IN QUESTA IMMAGINE, BRACCIALE PETIT JOLI BOUQUET

PARIGI DIFFONDE COLORI

Illuminando l’autunno della

Ville Lumière, le collezioni policrome presentate da Maison&Objet Paris svelano

le nuove tendenze décor

In viaggio nel mondo dei sogni. L’edizione d’autunno del Salone parigino dedicato a decorazione, design e lifestyle è stata una lussuosa vetrina, nel cuore dell’Europa, delle nuove tendenze d’interior design. In sottile equilibrio tra ancoraggio alla realtà, attraverso vivide esperienze plurisensoriali, e ricerca di un altrove digitalizzato, liberato da vincoli fisici. A tutto colore.

STILI E TENDENZE DI ELEONORA VALLI 69

Il colore «è un potente antidoto alle incessanti ondate di crisi, ma anche a una tendenza a standardizzare i codici estetici su scala internazionale», spiega la cacciatrice di tendenze Elizabeth Leriche nell’introdurre Color Power, la mostra da lei curata per lo spazio ‘What’s New’.

Per un ambiente casa gioioso, la mostra di Elizabeth Leriche ha acceso i riflettori sul color blocking, ovvero la tendenza ad affiancare blocchi di colori contrastanti per ottenere interni vivaci e originali. Non solo tinte forti e in contrasto. L’esperta di tendenze ha valorizzato la capacità di monocromie e di colorazioni ombré (con il graduale passaggio da sfumature scure a chiare), di generare impatti e transizioni più morbidi.

Sarà forse per quella innata ambizione alla calma, almeno tra le mura domestiche, ma il verde è tornato fortemente alla ribalta, apparso in diversi elementi delle collezioni presentate al Salone parigino. L’osservatore di tendenze François Bernard, che ha allestito la mostra Kaleidoscope all’interno dello spazio ‘What’s New’, ne ha scelto una tonalità particolare: giada. «Come il celadon, la giada copre un ampio spettro di colori: può essere più o meno grigia, più o meno blu, così come più o meno verde». Una tonalità utilizzata, in particolare, per oggetti da tavola, vetri decorativi e materiali sintetici.

I gialli ocra ravvivano con la loro vibrante presenza la palette dei colori maggiormente presenti nelle varie collezioni. Per passare un attimo dopo il testimone allo spettro degli arancioni. Si scivola poi nel color mattone e da qui, rapidamente, al bordeaux. L’uno e l’altro, due tonalità piuttosto nuove sulla scena di quest’anno, si abbinano spesso in contrapposizione alle tonalità chiare del rosa, in tutte le nuance. I rosa sono particolarmente adatti a creare atmosfere domestiche tranquille e tranquillizzanti. E, soprattutto, negli allestimenti di interni che prediligono la monocromia. Sfumano, avvicinandosi a tonalità molto chiare e poco pigmentate, quasi beige. Che sia l’ultima sfumatura di rosa o che si presenti nella sua classica fierezza, il beige è trendy. Ora e sempre. E anche al Salone parisien, beige ce n’era a volontà. Colore icona di purezza e atemporalità, secondo Bernard, il beige, assieme al marrone, fa da trait d’union tra l’umano e il mondo circostante, fatto di pieni ma anche di vuoti; «Il beige evoca il colori della pelle… E abbiamo bisogno di queste estensioni di noi stessi nell’ambiente che ci circonda, contrapponendo le risonanze fisiche del beige alla smaterializzazione di quest’epoca».

Per chi invece ama rimanere con i piedi per terra, via libera ai sempreamati colori primari, il rosso e il blu. Merci, Paris, avec tes couleurs!

UNA FINESTRA SUL LAGO

A Gandria, una cantina secolare trasformata in dimora di famiglia. Luogo di rigenerazione e di convivio, in una dimensione incantevole e atemporale

72 ABITARE DI SIMONA MANZIONE

ABITARE

Eesposto a sud e incorniciato da una vegetazione ricca che si alterna a rocce calcaree affioranti, il contesto paesaggistico è decisamente suggestivo. Il riverbero del lago, secondo il suo capriccio, conferisce pennellate di luce argentea. In un gioco di chiaroscuro, l’intensa luminosità si lascia interrompere da pieghe d’ombra.

Qui, sulla riva lacustre, incastonata fra roccia e acqua, si trova Gandria, un insediamento che ha mantenuto intatta la propria struttura urbana pre-novecentesca. I suoi edifici, l’originale impianto urbano costituito da vicoli stretti, ripide scalinate e sottoportici, con la loro disposizione scenografica, a balcone sul lago, conferiscono a Gandria il carattere distintivo di villaggio lacuale alpino con un’allure mediterranea. Con la piacevolezza del clima insubrico, influenzato dalla vicinanza del lago.

SOPRA E A DESTRA, LA ZONA GIORNO.

AL SASSO DELLE PARETI E

AL COTTO DEI PAVIMENTI SONO ABBINATI ARREDI IN LEGNO E COMPLEMENTI DESIGN.

UN INSIEME CHE DESCRIVE

LO SPIRITO DEL LUOGO

E LA SUA STORIA, TRA PASSATO E FUTURO

73

SOPRA, GANDRIA. IL VILLAGGIO È CARATTERIZZATO

DA EDIFICI CHE SORGONO DIRETTAMENTE SUL LAGO. A SEPARARLI SOLO UNO STRETTO TERRAPIENO CHE SERVE DA PONTILE E DA ACCESSO ALLE CANTINE

IN BASSO, NELLA CASA QUI PROTAGONISTA, GLI ARREDI CHIARI, QUASI A SCOMPARIRE, LASCIANO IN PRIMO PIANO LE PARTICOLARITÀ DELL’EDIFICIO

ABITARE

Nei mesi caldi la particolarità di questi luoghi è messa in risalto anche dal canto di numerose specie di cicale, uniche in Svizzera.

Fino alla metà circa del ventesimo secolo, il villaggio di Gandria era circondato da giardini, orti e ronchi terrazzati, vitati o alberati fino a cinquecento metri di altitudine. Questo paesaggio - che accoglieva anche olivi, fichi e cedri - è oggi ricoperto dal bosco fino alla strada cantonale, che collega Lugano all’italiana Porlezza, costruita nel 1936.

Insediamento d’importanza nazionale, il villaggio è caratterizzato da edifici che sorgono direttamente sul lago dal quale sono separati soltanto da uno stretto terrapieno che serve da pontile e da accesso alle cantine. Case più semplici si alternano a vere e proprie palazzine edificate dagli artigiani edili, in particolare stuccatori, che fecero fortuna emigrando. Nel corso del ventesimo secolo, l’aumento del turismo e delle attività a esso collegate ha in parte modificato la funzione di alcuni edifici e comportato al contempo una maggior presenza di costruzioni sul fronte lago. Diverse stalle-fienile della parte alta del villaggio sono state trasformate in edifici residenziali. Nonostante questi interventi, l’assetto architettonico e urbanistico dell’insediamento mantiene tuttora la sua struttura originaria.

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IN QUESTE PAGINE, LE SCALE DI COLLEGAMENTO

TRA I DUE LIVELLI

DELL’ABITAZIONE, IL PASSAGGIO CHE CONDUCE

ALLA CAMERA PADRONALE E LA CAMERA.

MATERIALI E VOLUMI

ALIMENTANO LA

NARRAZIONE STORICA

DELL’EDIFICIO

«Accarezzavamo da tempo il sogno di trovare una casa, la casa perfetta per noi, tutti insieme: due fratelli e le loro famiglie. E di trovarla a Gandria, dove abitavamo», esordiscono i padroni di casa.

E un giorno il sogno si è realizzato. Per puro caso. «Durante un giro in barca, costeggiando la riva opposta a Gandria. Conversavamo e ci guardavamo intorno contemplando il paesaggio pittoresco. Lo sguardo si è posato su alcune vecchie dimore, abbandonate. Una in particolare, che ci ha visti tutti d’accordo, sarebbe poi diventata la nostra Casa Darsena», raccontano i padroni di casa. A curarne il progetto, le due signore, entrambe architetto, Saba Realini e Louise Brandberg Realini, dello Studio Boschetti & Realini Architetti. «Eravamo consapevoli di quanto fosse difficile trovare un edificio da ristrutturare, in riva al lago in un nucleo storico. Una rarità, un unicum! Ma noi l’avevamo trovato. Ed è stato amore a prima vista per questo luogo autentico, mai snaturato da interventi deturpanti, rimasto fedele alla sua struttura originaria, per centinaia di anni. Nei volumi racchiusi tra muri in sasso di Caprino e soffitti in legno, dove penetra il riverbero del lago, si definiscono i ricordi di una stalla antica e dell’ultima mucca di Gandria, Bandera», raccontano le progettiste.

Un piccolo gioiello, intriso di vissuti autentici che con un restauro attento e rispettoso è diventato un luogo di vita spettacolare, di gioiosi ritrovi, di occasioni poetiche e di evasione dalla routine quotidiana. «Abbiamo ristrutturato gli spazi nel rispetto della patina storica, cercando di valorizzare ogni singolo sasso, ogni singolo asse di legno, al contempo evidenziando invece in chiave moderna gli interventi

necessari per rendere il luogo abitabile», spiegano le due padrone di casa, raccontando come hanno realizzato la ristrutturazione di un oggetto immobiliare dalle caratteristiche così particolari. «Con impegno e dedizione, abbiamo dato una nuova vita a una casa abbandonata e nuovi stimoli alla vita delle nostre due famiglie. Tutti insieme ci ritroviamo qui per condividere momenti di festa e di svago: pranzi, cene, aperitivi. Qui sono benvenuti familiari, amici, ospiti da ogni parte del mondo. Questo luogo dalla storia pluricentenaria distribuisce generosamente pace, raccoglimento, tranquillità a chi sceglie di trascorrervi giorni o anche solo qualche ora. Qui il tempo sembra fermarsi».

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UN DESIGN MISURATO

Nella zona notte e nella zona giorno, soluzioni progettuali originali assicurano continuità estetica tra i vari ambienti della casa.

Nel segno di una piena libertà di accostamento, per un lusso abitativo dal gusto contemporaneo

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ABITARE DI ELEONORA VALLI

Isistemi per la zona giorno e per la zona notte, ben oltre la propria vocazione contenitiva, si distinguono per la forte connotazione architettonica. A prescindere dalla loro struttura. E così, Lexington di Poliform, caratterizzato dai montanti a soffitto o a parete, su cui si agganciano - all’altezza desiderata - ripiani e contenitori con ante battenti, cassetti o ante a ribalta, off re la possibilità di progettare composizioni bifacciali finite su entrambi i lati, ideali a centro stanza anche per suddividere gli spazi. Mentre Seryasse di Lema si profila come armadio su misura con ante a battente

A SINISTRA, CABINA ARMADIO LEXINGTON (DESIGN R&D POLIFORM E JEAN-MARIE MASSAUD), COLOR CHAMPAGNE, CON LUCE INTEGRATA, CASSETTIERE A VETRINA IN LACCATO OPACO CHAMPAGNE E CASSETTI INFERIORI IN VETRO RIFLETTENTE FUMÉ SOTTO, DI LEMA, GUARDAROBA SERYASSE CON LT40 VANITY (DESIGN DAVID LOPEZ QUINCOCES)

effetto boiserie e si definisce nell’andamento verticale e serrato dato dall’effetto estetico a microdoghe delle ante in massello di noce Canaletto a creare un effetto tridimensionale. Fortemente materica al tatto, l’anta si caratterizza per il telaio verticale perimetrale e l’essenziale maniglia.

Tante le finiture possiibli per i sistemi notte, dallo champagne o ardesia, semplicemente chic, al rovere gold e olmo nero, dal feeling più caldo.

Sono contenitori dal carattere sofisticato pensati inizialmente, a seconda dei casi, per la zona notte ola zona giorno, ma puntalmente perfetti per organizzare spazi di contenimento in altri ambienti. Fermo restando l’attenzione alla funzionalità e l’evoluta organizzazione interna. Per favorire la miglior organizzazione possibile, in abbinamento a questi sistemi è possibile scegliere attrezzature pensate per razionalizzare lo spazio in base a specifiche esigenze funzionali: cassettiere, porta pantaloni, porta cinture, porta scarpe. Ripiani e barre appendiabiti con luce integrata. Senza dimenticare preziosi dettagli in cuoio e tessuto come i tappetini per i cassetti e le scatole per i vani porta camicie.

ABITARE

Fanno da sfondo, senza passare inosservati. Come Bemade, con i suoi volumi netti che disegnano sulla parete architetture domestiche fatte di equilibrio, riflessi, luci e ombre. L’illuminazione a led definisce i volumi dei ripiani del contenitore.

Le colonne guardaroba Bemade possono essere realizzate in diverse essenze legno, o nell’ampio campionario colori dei laccati di antoniolupi. La preziosa finitura ‘Skin’ cenere conferisce ai volumi un’immagine profonda e ricca di fascino. Diverse le proposte anche per i vetri. Da quelli trasparenti in bronzo e fumé a quelli acidati, da quelli cannettati

a quelli riflettenti. Superfici che cambiano radicalmente il volto delle colonne e del mobile nel suo insieme, strumenti progettuali che permettono di esaltare io proprio ‘io’ che è il vero tema della casa contemporanea. Le colonne guardaroba sono scrigni preziosi, custodi fidati della nostra personalità, teche che si illuminano magicamente per rivelare chi siamo e per raccontare i mille volti del nostro essere. Sono scrigni preziosi, custodi fidati della nostra personalità, le colonne guardaroba sono teche che si illuminano magicamente per rivelare e raccontare i mille volti del nostro essere.

SOPRA ,LE COMPOSIZIONI CONTENITIVE PER IL LIVING DI LEMA SI ABBINANO IN CONTRASTO CROMATICO A NIVEAUX, DIVANO DI LEMA (DESIGN FEDERICA BIASI), DISPONIBILE NELLA VERSIONE CON SCHIENALI LIBERI O FISSI, PER COMPOSIZIONI CHE ABITANO LA ZONA LIVING CON DISINVOLTURA

A DESTRA, DI ANTONIOLUPI, BEMADE (DESIGN CARLO COLOMBO). DAL LIVING AL BAGNO UN PROGETTO COERENTE

E APPROFONDITO IN OGNI DETTAGLIO. UNA SERIE DI CONTENITORI PER LA ZONA GIORNO E COLONNE GUARDAROBA CHE PERMETTE INFINITE POSSIBILITÀ DI PERSONALIZZAZIONE, CON UN LINGUAGGIO RIGOROSO MA SOFISTICATO

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SEDUZIONI D ’ORIENTE

L’energia del legno e il potere calmante dei colori naturali.

Linee mai ardite, che garantiscono funzionalità e ordine, disciplinando lo spazio cucina

Dalle vivaci venature del legno prendono vita cucine eleganti e connotate di moderna opulenza. Strizzano l’occhio all’Oriente, sono immerse in atmosfere che, combinando amabilmente colori e composizioni di materiali ricercati e complementi raffinati, generano sensazioni di benessere. La gamma cromatica della cucina risveglia ricordi della fanciullezza o di terre lontane; affiorano rumori familiari e profumi esotici. Le superfici piacevoli al tatto ispirano ulteriormente i pensieri. La cucina si traduce in un un’esperienza che stimola i sensi e la fantasia. I mobili alti fino al soffitto danno all’insieme un tocco rassicurante. Nata dal restyling dell’iconico modello Alea di Poliform, Alea Pro si caratterizza per l’espressività più marcata. Il design lineare del sistema originario è stato reinterpretato alla luce di una ridefinizione dei dettagli, in particolare delle gole di apertura, sottolineate da una sagoma che evidenzia le linee verticali e orizzontali. È stato ripensato il disegno dell’anta con bordo superiore rastremato e profilo maniglia abbinato alla sagoma, così come il particolare del fianco distanziato, che dà un aspetto più leggero

IN APERTURA, NELLA PAGINA ACCANTO, AIR WALL, DELLA COLLEZIONE ‘ELEMENTS’ DI FALMEC: L’ASPIRAZIONE È INTEGRATA IN UN ESCLUSIVO PANNELLO IN VETRO TEMPERATO BIANCO RETROILLUMINATO

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SOPRA, I NUOVI PIANI COTTURA A INDUZIONE DI MIELE, CON CAPPA ASPIRANTE INTEGRATA, ANCORA PIÙ EFFICACE E SILENZIOSA ABITARE DI ELEONORA VALLI ALEA PRO, DESIGN R&D POLIFORM

alle basi. Le ante vetrina per basi, pensili e colonne creano giochi di trasparenze che danno ritmo alla composizione. Il risultato è un sistema cucina che unisce all’altissima capacità operativa un aspetto contemporaneo, da personalizzare con una ampia e versatile gamma di materiali e finiture. Nella cucina Oriental Temptations, la lastra di pietra verde smeraldo posta sopra ai mobili base +Modo con ripiani estraibili appare misteriosamente sottoilluminata. I suoi colori particolari conferiscono profondità all’ambiente e le dimensioni imponenti ne sottolineano allo stesso tempo l’ampiezza. La superficie della quarzite persiana presenta venature dorate che, grazie al trattamento con una speciale tecnologia a getto d’acqua, creano un effetto tattile piacevole che invita a sfiorarle. Un aspetto pratico è la particolare resistenza della pietra, dovuta all’elevato contenuto di quarzo. I frontali dei mobili base sono rivestiti con un materiale che pare vellutato al tatto e si distingue per una bassa riflessione della luce e - dettaglio tutt’altro che trascurabile - eccezionali qualità anti-impronta. I mobili riprendono il colore e le sensazioni tattili del piano di lavoro.

In verde brillante con venature bruno rossastro, il rivestimento della parete in pietra naturale di onice mette in risalto il bancone. Con l’illuminazione integrata, lo scomparto pensile Array dà l’impressione di trovarsi in un bar di tendenza. Il sistema di scaffalature riprende con precisione la suddivisione dei mobili +Modo sottostanti.

Come complemento elegante per l’isola e la composizione a parete, entrano in gioco gli armadi a muro in impiallacciatura di eucalipto. Completamente incassati ad angolo, i mobili mettono un punto conclusivo in altezza allo spazio architettonico. Le venature naturali del legno di eucalipto ravvivano l’intera superficie, il colore noce moscata degli elementi lignei richiama il colore dei rivestimenti delle pareti. Dall’alternanza vivace e ricca di contrasto di colori e materiali, nasce un’atmosfera unica che simboleggia la tentazione e la promessa sensuale.

A SINISTRA, ORIENTAL TEMPTATIONS DI POGGENPOHL, CON LA LASTRA DI PIETRA VERDE SMERALDO POSTA SOPRA I MOBILI BASE, OFFRE UN INSIEME ELEGANTE E TEATRALE © Poggenpohl

LIBERATORIA POTENTE giocosa

SOPRA, NIKI DE SAINT PHALLE, NANA MOSAÏQUE NOIRE, 1999, POLIESTERE, VETRO, MOSAICO DI SPECCHI E CERAMICA, 254 X 122 X 122 CM, SAMMLUNG WÜRTH, FOTO: ARCHIVIO WÜRTH

Voluttuose nelle loro fluttuanti forme danzanti, in prodigioso equilibrio fra opulenza e leggerezza, cariche dell’energia dei loro colori sgargianti, esagerate nelle dimensioni dei corpi che contrastano con le teste minute, eccentriche quanto ataviche, una versione pop delle statuette votive femminili: iconiche, le Nanas, che Niki de Saint Phalle dal 1964 ha generosamente creato per gli spazi pubblici, hanno decretato la sua fama internazionale. Lungi dall’essere semplicemente giocose o kitsch, nella forza liberatoria della loro femminilità straripante sono espressione anche di una chiara ribellione sociale e politica. Niki è stata la prima artista a dedicare delle sculture a figure come Rosa Parks (Black Rosy, 1965) e Billie Holiday (Lady Sings the Blues, 1965), oltre ad aver collocato un’imperatrice nera al centro del Giardino dei Tarocchi, eleggendola

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Che fossero le performance con cui esorcizzava i fantasmi della sua infanzia o la gioiosa potenza delle Nanas con cui celebrava la femminilità, attraverso
l’arte Niki de Saint Phalle ha saputo esprimere un mondo interiore complesso e interpretare la contemporaneità.
Un’outsider che ha conquistato il grande pubblico
© 2022 Niki Charitable, Art Foundation, All rights reserved / ProLitteris,, Zurich

a perno della sua opera testamento. Pur non avendo mai fatto breccia fra le femministe, la sua è un’opera che pone al centro la donna, ne rivendica l’indipendenza e il potere (Pouvoir aux Nanas! Era il suo motto). Ma le si imputava di aver iniziato la sua carriera come modella per Vogue, così come si criticava che commercializzasse la sua arte. In realtà, Niki anche da questo punto di vista è stata un’antesignana, la prima artista a farsi imprenditrice di sé stessa, in grado di finanziare tutti i suoi progetti senza mecenati, alcuni estremamente costosi, ad esempio con i proventi delle Nanas gonfiabili in vendita a un paio di dollari (oggi sono oggetti da collezione) o la creazione di un profumo. Trovate che oltre a frut tare introiti contribu irono alla sua cre scente popolarità presso il vasto pubblico, che era poi quello che preferiva.

Foto©Nachlass

Emancipata lo era senza dubbio. Figlia di un banchiere aristocratico francese e di un’ereditiera newyorkese, nata nel 1930 e cresciuta fra Stati Uniti ed Europa, a 12 anni si riprometteva che mai avrebbe rassettato la biancheria come sua madre. Il primo atto di ribellione fu dipingere di rosso le foglie di vite che coprivano le nudità delle statue greche del suo liceo. È stata l’unica donna a entrare nel gruppo dei Nouveaux Réalistes, che riuniva, attorno a Pierre Restany, artisti come Yves Klein, Daniel Spoerri, Christo, Mimmo Rotella e Jean Tinguely, colui che, fallito per entrambi il primo matrimonio, divenne il complice di tante creazioni, in una fusione totale tra arte e vita, in cui le rispettive personalità hanno trovato piena espressione, basti pensare alla surrealistica fontana Stravinsky

AL CENTRO, NIKI FOTOGRAFATA DA LEONARDO BEZZOLA, LUCERNA, 1969. SOPRA, UN DETTAGLIO DELLA SCULTURA L’IMPICCANTO CREATA PER IL GIARDINO DEI TAROCCHI A CAPALBIO.

A SINISTRA, L’ICONICO FLACONE DI PROFUMO DEL 1982, ABILE OPERAZIONE COMMERCIALE E AUTOPROMOZIONALE DELL’ARTISTA

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© Photo by Candré Mandawe on Unsplash
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© 2022 Niki Charitable Art Foundation
Leonardo Bezzola, Opera © 2022 Niki
Zurich
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CULTURA
© Caroline Minjolle

DUE FRA LE OPERE ESPOSTE IN MOSTRA AL KUNSTHAUS ZÜRICH, FINO AL PROSSIMO 8 GENNAIO

SOPRA UN DETTAGLIO DELL’ALTARE DELLE DONNE DI NIKI, 1964, SPRENGEL MUSEUM HANNOVER, DONAZIONE NIKI DE SAINT PHALLE (2000). SOTTO, L’IRONICO TEA PARTY, 1971, POLIESTERE DIPINTO, 190 X 120 X 100 CM, MUMOK - VIENNA

accanto al Centre Pompidou di Parigi. Molte sono le opere che costruì insieme a lui e al prezioso team di assistenti con i quali condivideva una profonda amicizia, indispensabili per tenere dietro alle sfide tecniche della sua fantasia. Meraviglie di alto artigianato che testimoniano un sorprendente senso della spazialità: in alcune si può addirittura entrare. A partire dalla leggendaria Hon (‘Lei’ in svedese) con cui provocò il pubblico del Moderna Museet di Stoccolma nel 1966: una gigantesca Nana incinta sdraiata (25 di lunghezza, 9 di larghezza, alta 6 metri). Si accedeva passando per l’ingresso spudorato fra le sue cosce: all’interno, un planetario nel seno sinistro e un milk bar nel destro, in un braccio era proiettato il primo cortometraggio con Greta Garbo e in una gamba una galleria di quadri falsi, mentre una serie di scale portava alla terrazza nel suo grembo. Una dea pagana e pop della fertilità, che rompeva un tabù senza essere volgare. D’altronde Niki era una che a soli trent’anni, imbracciato un fucile, aveva portanto a un nuovo livello la performance art con la sua serie dei suoi Tirs (o Shooting Paintings), mettendosi a sparare su tele intonacate che nascondevano un ‘collage’ di oggettistica varia e sacchetti di vernice, pronti a esplodere con il loro colore.

Degli abusi subiti da adolescente dal padre riuscì a raccontare solo nel 1994, nel suo mémoire Mon sécret, ma l’aggressività di molte sue opere era rivelatrice. “Ho accolto l’arte come una liberazione e una necessità”, rivelava in un’intervista, riferendosi al periodo trascorso ricoverata in una clinica psichiatrica a Nizza, ancora durante il primo matrimonio, dal quale proprio l’arte la aiutò a riemergere. Più che una terapia, lo sfogo alla sua personalità profondamente creativa. Sempre nell’arte trasfigurerà più tardi la lotta contro i problemi polmonari dovuti all’inalazione di sostanze nocive durante il lavoro, che nel 2002 la porteranno alla morte: nel Giardino dei Tarocchi crea le figure filiformi degli Skinnies, l’opposto delle solide Nanas, linee tubolari di colore che disegnano una silhoutte: l’aria che sentiva venir meno.

Il suo spirito combattivo era sempre alla ricerca di novità, non c’era mezzo che non speri -

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A DESTRA, DAL 1997 UN ANGELO CUSTODE MOLTO

PARTICOLARE VEGLIA

CENTRALE

mentasse, anche servendosi dei materiali più banali. È soprattutto dagli anni Ottanta che strade e piazze diven tano destinazione di elezione della sua arte, pensata per le grandi masse, nel senso più democratico del termine. Summa di questo approccio è il Giardino dei Tarocchi Garavicchio, in Toscana, accomunabile per complessità ai progetti topografici di Christo e Jeanne-Claude o di Richard Serra. Aperti al pubblico dal 1998 hanno richiesto due decenni di lavoro, segnati nel mezzo dalla scomparsa di Jean Tinguely. Furono i fratelli di Marella Agnelli, incontrata casualmente durante un soggiorno in un centro benessere in Engadina dove Niki era andata per i suoi problemi polmonari, a metterle a disposizione la location per realizzare quella visione che la entusiasmava sin da quando a 25 anni aveva visto il Parco Güell di Gaudì. Antesignana, Niki fu estremamente attenta a preservare la vegetazione, malgrado la monumentalità dell’impresa, anzi la natura ne divenne una componente essenziale, quanto il mosaico di specchi e ceramiche che decora le superfici delle sculture integrando il riflesso del paesaggio. Le elaborate costruzioni in metallo, cemento e plastica, alcune accessibili e utilizzabili come case e appartamenti, riprendono in forma tridimensionale i motivi delle 22 carte del gioco dei tarocchi, a cui si uniscono la figura del Profeta e dell’Oracolo. Tutte le fasi di questo proces so creativo, come di tanti altri progetti, possono essere rintracciate passo dopo passo grazie a schizzi, descrizioni e modelli, nonché la documentazione degli eccellenti fo tografi che sempre l’hanno seguita. Si capisce che di una produzione così vasta, spesso inamo vibile dal luogo cui era destinata, una mostra non possa che off rire un assaggio. Tuttavia la retrospettiva proposta dal Kunsthaus Zürich fino al prossimo 8 gennaio centra l’obiettivo, proponendo una selezione di un centinaio di opere rappresentative di tutte le fasi del percorso dell’artista: i primi assemblaggi, l’action art, la grafica, le Nanas, il Giardino dei Tarocchi e le sculture tarde, opere di piccole e grandi dimensioni, realizzate con le tecniche e i materiali più disparati, opere gioiose o inquietanti, rappresentandola in tutta l’ambivalenza che la rende tanto attuale.

Sulla produzione degli anni Ottanta e Novanta è invece focalizzata una seconda mostra, fino al prossimo 5 marzo, a Les Abattoirs, Museo Franco-Occitano di Tolosa. Senza dimenticare che, restando in Svizzera, si può sempre visitare l’Espace Jean Tinguely-Niki de Saint Phalle a Friburgo, da lei fortemente voluto, ricavato da

un ex deposito dei tram che off re il contesto ideale per presentare le creazioni della celebre coppia. Chi poi arrivasse a visitare la mostra di Zurigo in treno, incontrerà Niki già nella Stazione centrale, dove a vegliare sulla hall è un angelo custode molto particolare: un’enorme e coloratissima Nana sospesa al soffitto con le sue 1,2 tonnellate, commissionatale in occasione dei 150 anni delle Ferrovie svizzere, nel 1997, e trasportata via nave dalla California, dove l’artista si era trasferita per i suoi problemi di salute.

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SULLA STAZIONE DI ZURIGO, UNA MONUMENTALE NANA DI NIKI, PESO 1,2 TONNELLATE
© Zürich Tourism

TRA LE NUVOLE DI JEAN, SOPHIE E MARGUERITE

Due ricorrenze e un tema caro all’artista Jean Arp sono i protagonisti del programma in corso al Ronco dei Fiori, dove visse con la sua seconda moglie. Oggi sede della Fondazione Marguerite Arp

Situata nella tenuta ‘Ronco dei Fiori’ a Locarno-Solduno, la Fondazione Marguerite Arp è stata creata nel 1988 dalla collezionista Marguerite Arp-Hagenbach, seconda moglie di Jean Arp, uno dei protagonisti delle avanguardie del XX secolo e cofondatore del movimento Dada a Zurigo nel 1916.

La Fondazione custodisce un’importante collezione di opere d’arte, in particolare di Arp e Sophie Taeuber-Arp - pioniera dell’astrazione e prima moglie di Jean - come pure un archivio e una biblioteca. Il complesso storico, composto dalla casa-atelier e da

un magnifico giardino, nel 2014 si è arricchito di un nuovo edificio con deposito d’arte e spazio espositivo progettato dagli architetti Gigon & Guyer. In questo periodo, anche se splende il sole e il cielo è terso, nel giardino della Fondazione si possono scorgere misteriose nuvole. Con un po’ di attenzione si nota che le nubi si formano ogni volta che il treno della ferrovia Centovalli-Vigezzina fa sosta alla stazione di San Martino. Non si tratta di un’illusione ottica, bensì di un’installazione artistica ideata dallo Studio Nephos di Nicola Colombo e Monica Sciarini, autori di simili interventi di grande successo a livello internazionale. Queste nuvole di nebbia naturale costituiscono la scenografica coulisse e il filo

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© Fondazione Marguerite Arp, Locarno. Foto: Carlo Reguzzi © Fondazione Marguerite Arp, Locarno. Foto: Roberto Pellegrini, Bellinzona

A DESTRA, GIARDINO RONCO DEI FIORI

CON LE SCULTURE DI JEAN ARP ROUE-FORÊT E ENTITÉ

AILÉE E L’INSTALLAZIONE NUVOLE DI STUDIO NEPHOS

NELLA PAGINA ACCANTO, DA SINISTRA, HANS/JEAN

ARP, TRANCI DI NUVOLE, 1963, RILIEVO IN LEGNO, DIPINTO, E FOGLIA CHE SI RIPOSA, 1959 (1965), GESSO

conduttore delle attività espositive e degli eventi in programma quest’anno presso la Fondazione. Nel 2022 si commemorano infatti due importanti anniversari: i 100 anni dal matrimonio di Jean Arp e Sophie Taeuber, celebrato a Pura il 20 ottobre 1922, e i 120 anni dalla nascita di Marguerite Hagenbach, nata a Basilea il 22 agosto 1902.

Prendendo le mosse dal tema della nuvola, nello spazio espositivo della Fondazione è stata allestita la mostra ‘Sono nato in una nuvola’ Jean Arp (aperta fino al 30 ottobre, ogni domenica, dalle 14 alle 18).

Il titolo è tratto dalla poesia di Arp Configurazione strasburghese (1932), uno dei numerosi testi dell’artista dedicati al tema della nuvola, entità - al pari della sua opera - in continuo divenire e continuo mutamento. Se nelle epoche precedenti - si pensi ai cieli della pittura barocca o romantica - le nubi fungevano da sfondo alla pittura di paesaggio, nel XX secolo acquisiscono autonomia grazie ad artisti come Calder, Magritte, Meret Oppenheim o, appunto, Arp. Dalla poesia (una delle sue raccolte più celebri si intitola La pompa delle nuvole, 1920) alle opere d’arte, la nuvola è infatti una delle protagoniste della produzione di Arp, artista la cui ricerca riflette i processi della natura. Essa, inoltre, si presta idealmente, come entità libera e senza peso, a prendere molteplici forme, mutevoli e ibride, e al tempo stesso a rivelarsi capace di stimolare le associazioni più disparate. Nascono così sculture, rilievi, disegni e incisioni con titoli evocativi come Ciotola di nuvola, Tranci di nuvola o Tavolozza di nuvole. Se nel giardino si privilegia l’effimero, nella sala espositiva il movimento delle nuvole è catturato in opere d’arte e testi poetici.

Una sezione della mostra è dedicata alla nuvola come metafora della vita, la vita di Arp marcata dalla presenza delle due mogli, Sophie Taeuber-Arp e Marguerite Arp-Hagenbach: la prima, artista, architetta, designer e danzatrice protagonista dell’arte astratta; la seconda, grande collezionista d’arte concreta e costruttivista. Queste tre personalità straordinarie sono oggetto di un accrochage di omaggi reciproci,

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© Fondazione Marguerite Arp, Locarno. Foto: Simona Martinoli

Jean

Arp

Frequenta le scuole d’arte a Strasburgo e Weimar (1901-08) e l’Académie Julian a Parigi. Nel 1909 si trasferisce a Weggis, dove partecipa alla fondazione del gruppo Der Moderne Bund. Allo scoppio della guerra fugge a Parigi e nel 1915 si rifugia in Svizzera, dapprima ad Ascona poi a Zurigo, dove incontra Sophie Taeuber, che sposa nel 1922. Nel 1916 è tra i fondatori del movimento Dada a Zurigo. Espone alla prima mostra dei surrealisti a Parigi nel 1925. L’anno successivo acquisisce la cittadinanza francese. Nel 1929 gli Arp si trasferiscono a Clamart presso Parigi. Negli anni ’30 fanno la conoscenza di Marguerite Hagenbach che li ospita nella sua casa di vacanza ad Ascona. La morte di Sophie Taeuber-Arp nel 1943 fa precipitare Arp in una profonda crisi. Marguerite lo aiuta a riprendersi dal lutto e nel 1959 diventa la sua seconda moglie. Negli anni ’50 Arp raggiunge l’apice della fama quale scultore, pittore e poeta. Nel 1966 muore d’infarto.

(   D -    Z)

Si forma alla scuola di arti e mestieri a San Gallo e alla scuola Debschitz a Monaco di Baviera. Nel 1914 si trasferisce a Zurigo, dove nel 1915 incontra Jean Arp, che la introduce nel movimento Dada. Frequenta i corsi di danza espressiva di Rudolf von Laban a Zurigo e al Monte Verità. Dal 1916 al 1929 insegna disegno tessile e ricamo alla Scuola di arti applicate a Zurigo. Nel 1922 sposa Arp a Pura e con lui nel 1926 acquisirà la cittadinanza francese a Strasburgo. Negli anni ’20 si dedica all’architettura d’interni e nel 1929 si trasferisce con Arp a Clamart, presso Parigi, in una casa da lei progettata. In Francia si afferma come pittrice, scultrice, designer, nonché editrice della rivista d’arte plastique plastic. Prima che le truppe tedesche invadano Parigi, gli Arp fuggono nel sud della Francia. Durante un soggiorno in Svizzera, nel 1943 Taeuber-Arp muore in seguito a un incidente domestico a Zurigo.

© Fondazione Marguerite Arp, Locarno

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IN ALTO, DA SINISTRA A DESTRA, JEAN ARP, MARGUERITE HAGENBACH, SOPHIE TAEUBER-ARP, ASCONA, 1939 A DESTRA, SOPHIE TAEUBER-ARP, COMPOSIZIONE IN UN CERCHIO, 1938, GOUACHE E MATITA SU CARTA (   S –    B)
Sophie Taeuber-Arp
© Archivio Fondazione Marguerite Arp, Locarno.

Marguerite Arp-Hagenbach

Si forma alla scuola commerciale di Basilea (1921-22). Dopo un soggiorno a Londra è segretaria della sezione basilese della Pro Juventute (1924-46). Negli anni ’30 incontra la coppia di artisti Jean Arp e Sophie Taeuber-Arp, con i quali stringe una profonda amicizia e inizia a collezionare arte contemporanea, in particolare concreta e costruttivista, costituendo quello che Franz Meyer, direttore del Kunstmuseum Basel, ha definito “uno dei più straordinari musei privati d’arte moderna”. Nel 1959 acquista la proprietà Ronco dei Fiori a Locarno-Solduno con Jean Arp, che sposa lo stesso anno. Nel 1988 istituisce la Fondazione Marguerite Arp. Nel 1965 i coniugi Arp donano parte della loro collezione alla Città di Locarno.

Deceduta nel 1994, riposa nel Cimitero di Locarno a fianco di Jean Arp e Sophie Taeuber-Arp.

SIMONA MARTINOLI, DIRETTRICE DELLA

FONDAZIONE MARGUERITE ARP. A SINISTRA, LA FONDAZIONE: DEPOSITO E SPAZIO ESPOSITIVO. IN BASSO, VEDUTA DELLA MOSTRA SONO NATO IN UNA NUVOLA JEAN ARP

tra cui il disegno di Jean La terra eterna per la mia Marguerite o l’incisione Plans profilés en courbes che Sophie ha dedicato all’amica Marguerite. Il tema delle nuvole, oltre a consentire di aff rontare con leggerezza e profondità un soggetto centrale nell’opera artistica e poetica di Arp e di estendere il discorso

a Sophie e Marguerite, include la cloud degli amici artisti. Les amis è il titolo dell’allestimento ideato per la casa-atelier in cui hanno vissuto Jean e Marguerite a partire dal 1960.

La casa potrà essere visitata, su prenotazione, il weekend 22-23 ottobre in occasione dell’evento 100 anni dal matrimonio di Jean e Sophie, che prevede letture e visite guidate, off rendo ai visitatori uno sguardo inedito in uno spazio normalmente non aperto al pubblico.

(.. B – .. L)
©
Fondazione Marguerite Arp, Locarno. Foto: Roberto Pellegrini, Bellinzona
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© Fondazione Marguerite Arp, Locarno. Foto: Roberto Pellegrini, Bellinzona

VIBRAZIONI

ARMONIZZANTI

Con le sue note aristocratiche, l’arpa genera benessere psicofisico. Deliziava l’orecchio già al tempo dei Sumeri ed è oggi la protagonista di Bissone Harp Competition, concorso che per la prima volta si svolge in Ticino, con importanti presenze svizzere e internazionali

Il suono dell’arpa è fonte di emozione e rilassamento. Le sue potenti e avvolgenti vibrazioni arrivano finanche a essere terapeutiche, per la particolare caratteristica del timbro e per il modo in cui le corde vengono pizzicate. Ne deriva un suono particolarmente puro, cristallino, angelico. Le note si intrecciano, gli effetti di risonanza si sommano. L’arpa è lo strumento che vibra di più in assoluto ed è perennemente in vibrazione. Le onde sonore si propagano in tutto lo spazio circostante e raggiungono, per risonanza, il fruitore della musica, che ne è così avviluppato.

I suoni gravi arrivano alle parti centrali e basse del corpo (addome, gambe, piedi), quelli più acuti si sentono invece nel torace, collo, testa. Effetti benefici che non blandiscono solo la sfera emotivo-esistenziale, ma anche quella più strettamente fisiologica. E non riguardano solo chi ascolta ma anche chi suona, grazie al contatto stretto, come in un abbraccio, con lo strumento. La fisica acustica diventa quindi motore di benessere per il corpo e per la mente, di relazione e di compartecipazione tra chi suona e chi ascolta.

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L’arpa è lo strumento amato da Eleonora Ligabò, fondatrice e direttrice di Harp Center a Lugano. Da anni attiva nel divulgarne l’apprendimento e, più ampiamente, il mondo peculiare dell’arpa. In questo suo slancio rientra anche la collaborazione con il Comune di Bissone per dare vita, quest’anno a fine ottobre, a Bissone Harp Competition; un importante concorso, con un Festival abbinato, che si svolge per la prima volta sulle rive del Ceresio.

Un’idea nata per caso. «Mentre bevevo un caffè, a Bissone, guardando il lago. Sono stata affascinata da un luogo così suggestivo, tanto da immaginarlo come cornice fiabesca per le arpe e il loro suono angelico», racconta Eleonora Ligabó.

A quell’idea, è seguita la meticolosa organizzazione di una manifestazione, la prima del suo genere in Ticino, che contraddistingue il cantone a livello svizzero, inserendolo nel circuito internazionale degli eventi dedicati a questo strumento.

A rendere particolare il concorso di Bissone contribuisce, oltre naturalmente alla cornice paesaggistica e architettonica, la circostanza che si tratti di «un concorso dal vivo e rivolto solo ad arpisti, seppur di diversi livelli e di tutte le età, e provenienti da tutto il mondo», spiega Eleonora Ligabó, «Inoltre, delle quattro diverse categorie in concorso, una è rappresentata dalla musica da camera con arpa obbligata, la cui presenza nelle competizioni si registra in genere piuttosto raramente. Sono previsti premi in denaro per ogni categoria, il diploma per i vincitori e l’attestato per tutti i partecipanti», precisa l’ideatrice della kermesse, che organizza anche, per la seconda volta in Ticino, un Festival affiancato al Concorso.

Il Festival an-

novera la presenza di arpisti internazionali del calibro di Maria Christina Cleary, irlandese, considerata una delle più grandi virtuose al mondo ed esperta di arpa medievale e a movimento semplice, insegnante al conservatorio di Ginevra; Esther Sévérac, una delle arpiste svizzere più quotate del momento, che conduce nel mondo dell’arpa elettrica. Una specialità, quella dell’arpa elettrica, che in Svizzera è proposta dal costruttore Neveltec. Anche se pioniera, per questa specialità, è stata la casa produttrice Camac. «Pioniera a mia volta, come musicista, sono stata la prima arpista a cimentarsi in questa ‘disciplina’, nel 1999. In quegli anni venivo considerata atipica, originale. Oggi invece la disciplina è diffusa e largamente apprezzata: ha aperto un nuovo orizzonte, con effetti, amplificazioni, loop e altro che assicurano diletto, permettendo di suonare musiche diverse, incluso il rock o l’elettronica».

Nei tre giorni dell’evento di Bissone (dal 28 ottobre al 3 novembre), alla competizione vera e propria sono affiancati diversi workshop. «Alcuni workshop sono sicuramente utili agli arpisti, altri sono adatti ai suonatori di arpa e, parimenti,

ELEONORA LIGABÒ, FONDATRICE E DIRETTRICE DI HARP CENTER A LUGANO. CON IL COMUNE DI BISSONE, HA ORGANIZZATO LA PRIMA COMPETIZIONE DI ARPE IN RIVA AL CERESIO

a tutti i musicisti. Tra i quali, quelli per imparare a gestire l’ansia da palcoscenico con il Mindfulness o per tenere le articolazioni sane». Ad esibirsi nel corso dell’evento a Bissone, arpisti internazionali, con performance anche molto originali. «L’apertura del Concorso è affidata a un concerto - duo di arpe -, che rappresenta un evento raro alle nostre latitudini, reso ancora più speciale dalla presenza di artisti del calibro di Elisa Netzer, arpista ticinese di fama internazionale, e Davide Burani, arpista italiano oggi tra i più affermati. I concerti proseguiranno con Adriano Sangineto, arpista eclettico e ricco di ‘groove’, compositore e arrangiatore, e Chiara Pedrazzetti, arpista, compositrice, arrangiatrice e direttrice di coro, nata e cresciuta in Ticino. Ai vincitori del Concorso è riservata l’esibizione, nella chiesa di San Carpoforo a Bissone, appena prima del concerto di Chiara Pedrazzetti», nota l’organizzatrice dell’evento, oltre che titolare di Harp Center a Lugano che, come lei stessa precisa, «è l’unico centro in Ticino e in Svizzera a occuparsi solo di arpa a 360 gradi. Il centro, che propone lezioni per tutti, è anche il solo indirizzo al quale poter trovare arpe, accessori, corde e assistenza tecnica. Personalmente, sono l’unico tecnico in Ticino e l’unico tecnico donna della Svizzera», evidenzia Eleonora Ligabò, che nota: «Questo assicura ai clienti di ricevere un’assistenza in pochi giorni anziché in molti mesi, come sarebbe se dovessero rivolgersi alle varie case costruttrici.Oggi sono in grado di rispondere tempestivamente alle richieste di allievi e insegnanti, in tutta la Svizzera, e con case d’arpe tra le più rinomate a livello mondiale».

Non solo scuola di musica, Harp Center si occupa di eventi con l’arpa, in qualità di ‘Music planner’, e gestisce il marchio ‘Harpiness®’, dedicato al benessere con l’arpa e con il quale vengono brevettate arpe e diversi accessori. Negli ultimi decenni, l’arpa ha conosciuto una crescente diffusione in Ticino, dove «Oggi la realtà è molto più grande di quanto si possa immaginare. Ci sono circa quindici insegnanti e più di duecento allievi, un numero in costante crescita. La curiosità e la voglia di imparare l’arpa è la stessa, a prescindere dall’età degli allievi. Impartisco lezioni ai bambini, ai ragazzi e agli adulti: la più giovane dei miei allievi ha un anno e mezzo, la più âgée ne ha 78. Per i più piccoli, a partire dai 3 anni di età, utilizzo un metodo specifico, ‘Crescere con l’arpa’®, che ho messo a punto basandomi su alcuni decenni di esperienza nell’insegnamento». Quanto al pubblico, «è sempre molto attratto da questo strumento, che risulta in qualche modo ‘magico’, sia durante gli spettacoli che in occasione di eventi privati. Anche la particolare forma e le dimensioni dello strumento non lasciano mai indifferente chi vi si avvicina. Una passione per l’arpa che per alcuni si è trasformata in una storia di successo, travalicando i confini cantonali. Oltre alle sopracitate Elisa Netzer e Chiara Pedrazzetti, diversi arpisti ticinesi si sono affermati nel panorama internazionale», nota in chiusura Eleonora Ligabò.

Suonare l’arpa non è ‘concertismo’ ma dedizione dal profondo e capacità di far affiorare sonorità che generano benessere. Di lasciar uscire vibrazioni che, riempiendo lo spazio circostante, curano l’anima.

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SOPRA, A SINISTRA, ELISA NETZER E A DESTRA, CHIARA PEDRAZZETTI, ARPISTE TICINESI DI FAMA INTERNAZIONALE
CULTURA
© ©MolinaVisuals

Dalle decisioni di chi finanzia i film alla postproduzione: una sessualizzazione della violenza che le donne pagano sullo schermo e dietro le quinte

Durante il Locarno Film Festival, lo Swiss Women’s Audiovisual Network (Swan), un’associazione che promuove l’eguaglianza e diversità di genere nell’audiovisivo in Svizzera, organizza un Networking Breakfast. Quest’anno ero moderatrice del panel, intitolato per l’occasione Over my dead body (Sul mio cadavere). Ispirandoci a uno studio tedesco della Hochschule Wismar, abbiamo deciso di analizzare le implicazioni del fatto che le vittime di crimini violenti rappresentate sullo schermo siano spesso donne, senza che vi sia una reale esigenza narrativa, né sensibilità nel dare voce o potere alla vittima. Oppure la violenza viene romanticizzata.

Come viene affrontato il trauma, come si sviluppa la narrazione e cosa mostrare, sono decisioni stabilite, oltre da di chi scrive i film, da chi li finanzia e sceglie quali produrre e, successivamente, dalla realizzazione sul set e dalle scelte di montaggio in post-produzione.

Desiderando cercare soluzioni a 360 gradi per evitare una inutile rappresentanza di violenze contro le donne, sono intervenute relatrici provenienti da vari mondi: Agota Lavoyer, consulente e autrice esperta di violenza sessuale; Kaja Ledergerber, attrice e membro di FemaleAct, e Klaudia Reynicke, regista e sceneggiatrice ticinese.

Da una discussione molto intensa e profonda, è emerso come sarebbero necessari vari cambiamenti; fra cui i principali:

• Avere una “intimacy coordinator” e un consulente esterno che possano essere coinvolti dallo script al set per proteggere le attrici, fino alla post-produzione. In Germania alcuni set prevedono un

Vittime designate

Kulturvermittler, una sorta di mediatore per gestire momenti di

• Costruire una crew diversificata, in particolare per i ruoli diri-

• Le case di produzione potrebbero avere un manifesto o contratto che delinei i punti importanti per creare un safe set. Netflix, per esempio, offre anche un training.

• Le istituzioni che finanziano film dovrebbero avere consulenti presenti alla procedura di selezione. Inoltre potrebbero proporre una checklist, come ha incominciato a fare di recente Zurich Film Fund.

• Aumentare la consapevolezza di cosa significa una molestia sessuale o una violenza. La componente verbale è altrettanto importante (ad esempio, dire “un uomo ha stuprato” invece di “una donna è stata stuprata” cambierebbe il focus sull’aggressore).

• L’educazione è tutto.

Sicuramente le nuove generazioni hanno una sensibilità più sviluppata a queste tematiche. L’importante sarebbe per tutti far sentire la propria voce e agire nella direzione giusta. Intanto la 75esima edizione del Locarno Film Festival ha regalato opere di donne di grande qualità, ricompensate anche dal palmarès, a iniziare dal Pardo d’oro alla regista brasiliana Julia Murat, che con Regra 34 ha mostrato in tutta la loro crudezza le contraddizioni della condizione femminile.

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L’OPINIONE
Elettra Fiumi regista, produttrice, montatrice e membro del Comitato esecutivo di Swan

IL DINAMISMO DELLA DANZA

I quattordici spettacoli di danza della stagione 2022/23 del LAC testimoniano la vitalità creativa, la ricchezza espressiva e la capacità di lanciare riflessioni sul contemporaneo di una disciplina che sa ‘muovere’ non solo i corpi, ma anche emozioni e intelletto

96 CULTURA DI SUSANNA CATTANEO
© Laurent Philippe

Non più soltanto virtuosismo tecnico, il ballerino di accademiche linee e proporzioni che esegue la coreografia aspirando alla perfezione estetica, ma un corpo che nella sua autentica fisicità è in grado di portare sulla scena anche istanze politiche e sociali, dando vita a riflessioni sul contemporaneo. Un corpo: ma anche un oggetto, una musica o luci e ombre che seguano un certo movimento. O la sua voluta assenza. La Danza negli ultimi anni ha conosciuto una forte vitalità, contaminandosi con l’orizzonte più ampio delle arti performative e proponendo una visione più democratica di una disciplina per secoli elitaria. Il canone della bellezza - del corpo, del gesto - cede il passo a nuove urgenze espressive. Sperimentazioni che hanno ormai raggiunto la piena maturità poetica ed estetica, ma anche nuove esplorazioni di giovani talenti che si affacciano con le loro domande e ipotesi. Che Lugano potesse diventare un crocevia di queste tendenze, nessuno lo avrebbe predetto. Persino sette anni fa, all’inaugurazione del centro culturale del LAC, malgrado la presenza di un palcoscenico da 400 metri quadrati che finalmente permetteva di ospitare anche grandi ensemble, non era ipotizzabile che in una regione dove la Danza era presenza sporadica, potesse nel giro di pochi anni svilupparsi un discorso di tale qualità e profondità, acquisendo la reputazione non solo per attirare compagnie di fama mondiale, ma anche la solidità per produrre in prima persona artisti dal profilo internazionale e far crescere talentuosi artisti del territorio.

«Ma soprattutto abbiamo cercato di creare un’abitudine e un gusto per la danza», spiega Lorenzo Conti, dal 2020 consulente di danza del LAC. «Il pubblico che segue le nostre proposte è eterogeneo, molto curioso e numeroso, dimostrando di apprezzare proposte di compagnie e autori con poetiche, estetiche, provenienze culturali e geografiche anche molto diverse. Creare un’abitudine alla danza significa non solo off rire un palinsesto di grandi eventi, ma sviluppare un discorso attorno agli spettacoli, con momenti di confronto e formazione che coinvolgano gli spettatori a più livelli, anche in quanto individui e cittadini da stimolare alla riflessione e che, a loro volta, attivando una relazione bidirezionale possano ‘formare’ lo sguardo e la pratica dell’artista attraverso il loro contributo esperienziale», osserva Lorenzo Conti. Le diverse anime in cui si esprime la vocazione del LAC alla danza hanno trovato compiuta manifestazione nella prima edizione del Lugano Dance Project, fortemente voluto dal Direttore Generale Michel Gagnon e dal Direttore

Creare un’abitudine alla danza significa non solo offrire un palinsesto di grandi eventi, ma sviluppare un discorso attorno agli spettacoli, con momenti di confronto e formazione che coinvolgano gli spettatori a più livelli, anche come cittadini e individui

Lorenzo Conti consulente Danza del LAC

Artistico del LAC Carmelo Rifici. Svoltasi a fine maggio, a nuove produzioni e prime internazionali e nazionali ha affiancato una fitta programmazione parallela: performance site-specific, tavole rotonde, atelier d’artista, incontri e una serata Tanzfaktor, il progetto della Rete Danza Svizzera a sostegno della giovane scena coreografica nazionale. Il tutto, sia negli spazi deputati del centro culturale, sia in luoghi non convenzionali della città, altro modo per agganciare un pubblico diverso. Intanto si sta già lavorando all’edizione 2024. «La cadenza biennale è necessaria non solo per attivare una serie di collaborazioni fondamentali, ma perché, arginando la tendenza all’iperattività, prima di definire una programmazione è necessario un tempo apparentemente improduttivo per osservare e comprendere, fra cambiamenti e stravolgimenti in atto, quello di cui abbiamo davvero bisogno, come individui e società. In fondo un festival deve proprio saper rilanciare e vedere nel futuro ed è il ‘contenitore’ ideale per portare la sperimentazione e azzardare», spiega Lorenzo Conti.

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CULTURA
A SINISTRA, UN’ISTANTANEA DI STATIC SHOT, UNA DELLE TRE COREOGRAFIE SPERIMENTALI CHE IL BALLET DE LORRAINE PORTERÀ AL LAC IL PROSSIMO 21 GENNAIO © Stefania Spadoni

Guardando invece all’imminente Stagione 2022/23, quattordici gli spettacoli in calendario. Sei saranno i grandi ensemble internazionali: si parte il 22 ottobre con Hollow Bones della Dresden Frankfurt Company, summa della poetica del direttore artistico Jacopo Godani, che raggiunge una sintesi perfetta fra lo stile performativo, l’approccio al balletto classico e la ricerca coreografica che contraddistinguono il suo lavoro. Il 19 novembre sarà la volta di un grande ritorno, il coreografo granco-algerino Hervé Koubi, con un suo cavallo di battaglia, Ce que le jour doit à la nuit: dodici danzatori, tutti uomini, per una danza molto concreta e in apparenza radicata a terra come quella africana, e la sua elevazione, acrobatica e rituale, verso il cielo. Il 9 e 10 dicembre un classico come Il lago dei cigni stupirà nell’attualizzazione in chiave ecologista del grande coreografo francese di origine albanese Angelin Preljocaj, portando su un nuovo piano l’alternanza tra il mondo reale e l’universo fantastico dell’originale, così come le incursioni di musica elettronica convivono sapientemente con le note del capolavoro di Ciajkovskij. Nella seconda parte della stagione un’altra eccezionale tripletta. Il Ballet de Lorraine, una delle compagnie contemporanee tra le più importanti d’Europa, il 21 gennaio allineerà tre strepitosi lavori del suo repertorio accomunati da un’intensa sperimentazione artistica, fra cui Static Shot, un crescendo di energia tra pièce coreografica, installazione scenica e dispositivo cinematografico. L’11 febbraio, il grande bailaor sivigliano Israel Galván, accompagnato dall’intensa voce di David Lagos e dalla chitarra di suo fratello Alfredo, farà rivivere l’originaria a purezza e creatività dell’arte del flamenco.

Tra le più acclamate al mondo, il 2 aprile l’israeliana Batsheva Dance Company porterà in scena l’ultima creazione del coreografo Ohad Naharin, ancora avvolta dal mistero in vista del debutto a fine anno a Tel Aviv.

DALL’ALTO A SINISTRA, IN SENSO ORARIO, LA COMPAGNIE HERVÉ KUBI, LA BATSCHEVA DANCE COMPANY E LA DRESDEN FRANKFURT COMPANY, FRA I GRANDI ENSEMBLE INTERNAZIONALI DELLA STAGIONE DANZA 2022/23 DEL LAC. A DESTRA, DEL LAGO DEI CIGNI NELLA RIVISITAZIONE DI ANGELIN PRELJOCAJ

© David Vinco

Accanto a questi sei grandi appuntamenti, una costellazione molto speciale è quella di tre spettacoli che mettono sulla scena artisti con disabilità. «Il senso non è vederli superare i limiti della loro fisicità grazie al virtuosismo, ma di aprire la strada a nuove estetiche, modalità e possibilità di intendere un corpo umano, lavorando sugli stereotipi che ancora considerano la disabilità come uno stato di vulnerabilità e fragilità», sottolinea Lorenzo Conti, fiero di proporre, il 12 marzo, Aurora di Alessandro Sciarroni, un’opera che risa le al 2015 ma, malgrado il

plauso della critica, ha avuto una tournée breve per la difficoltà di trovare palcoscenici adatti: riproduce una partita di goalball, disciplina paraolimpica praticata da atleti non vedenti o ipovedenti, con gli spettatori ai lati del palcoscenico, come su spalti. L’evento sportivo diventa un fatto artistico: il regista orchestra gli altri elementi scenici, le luci e le musiche creando un’esperienza unica e immersiva. Seguirà Gentile Unicorn (27.04) dell’autrice e interprete Chiara Bersani, affetta da osteogenesi imperfetta: una performance di sguardi senza barriere, circondata dal

pubblico, in uno spa zio che diventa filosofico e politico. Si chiude il 3 maggio con Doppelgänger della storica compagnia italiana Abbondanza/Bertoni, vincitore del Premio Ubu come miglior spettacolo di danza 2021: «Un corpo a corpo tra i due interpreti, Francesco Mastrocinque, attore con disabilità, e il danzatore Filippo Porro, sottolineato anche dall’uso di luci e ombre, richiamando quella dualità che è anche il filo conduttore della stagione 2022/23 del LAC, intitolata La luce dell’ombra. In sottofondo, il grande

tema dell’incontro con l’altro e, soprattutto, la possibilità di esistere insieme all’altro, fra emozioni e paure, rinunce e conquiste», conclude Lorenzo Conti. Una danza che sempre più vuole interrogarsi e interrogare, cercare di comprendere, rilanciare delle istanze. Non sono molti, in quest’epoca di connessione virtuale affidata alla caleidoscopica rifrazione del digitale, i luoghi reali a off rire un’esperienza collettiva di impatto emotivo come il teatro, oggi quanto nell’antichità che vedeva sorgere i primi, continua fare.

99 CULTURA
© JC
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DALLE PASSARELLE AI MUSEI

Coutourier, modelli, tessuti e tendenze al centro di esposizioni tematiche che, spesso nei luoghi dell’Arte, rivelano tra aneddoti e curiosità l’aspetto culturale e sociale della moda. Parigi, Madrid, Milano, Londra, Berlino, Anversa… l’autunno quest’anno porta nelle grandi città diverse mostre dedicate alla moda. Sempre più negli ultimi anni il settore è andato oltre le passerelle, le boutique delle vie dello shopping, i magazine patinati e i social media, per approdare negli elitari spazi tradizionalmente dedicati all’arte. Capi e oggetti fashion spodestano temporaneamente, anche con una certa fierezza, tele fiamminghe e sculture di marmo dalle sontuose sale di musei, palazzi e gallerie, un po’ dappertutto nel Vecchio Continente. Si moltiplicano anche le installazioni e le esposizioni

monografiche, curate dagli stessi brand, per raccontarsi in contesti più o meno insoliti o artistici. La peculiarità della moda rende spesso complessa la sua mise en scène nello spazio statico di una sala vuota. Ma il racconto visivo si anima con allestimenti sorprendenti, percorsi multisensoriali e contaminazioni anche ardite tra differenti discipline. Le mostre di moda hanno il compito di armonizzare dimensioni diverse, dalla ricerca storica allo spirito di bottega e laboratorio, dalla capacità innovativa e finanche rivoluzionaria al racconto dello spirito di un’epoca. Tante sfaccettature da articolare attraverso una narrazione che, proprio sfruttando la versatilità della moda stessa, trasmetta al pubblico un sapere inaspettato. Visitare una di queste mostre può essere il pretesto per trascorrere un weekend nelle atmosfere autunnali delle affascinanti città che le ospitano. Città che, a loro volta, sono indirizzi alla moda.

© Sølve Sundsbø
VIAGGIARE CON STILE DI
VALLI
ELEONORA

SPECCHIO SPECCHIO! ANVERSA

Il MoMu-Mode Museum di Anversa collabora con il Museum Dr. Guislain per una mostra unica nel suo genere. Le due istituzioni si uniscono per analizzare ‘le interconnessioni tra moda, psicologia, immagine di sé e identità’. Le opere di designer come Balenciaga, Commes des Garçons e Prada saranno in mostra fino al 26 febbraio 2023. Il MoMu si concentra in particolare sui designer di moda contemporanei belgi, con i fashion designer di Anversa che si sono affermati negli anni Ottanta e Novanta (Martin Margiela, Dries Van Noten, Ann Demeulemeester, Walter Van Beirendonck, Dirk Van Saene, Af Vandevorst, ...). Il Museo ha oggetti della propria collezione e riceve pezzi provenienti da collezioni o rinomate istituzioni, Maisons di moda e collezionisti di tutto il mondo. Con la nuova presentazione della collezione, il MoMu diventa, in via permanente, un luogo dinamico, sorprendente e ricco di ispirazione per ogni visitatore. Oggi, il museo rinnovato può off rire uno spazio fisso alla storia della moda belga e internazionale.

Anversa, la città ‘regina dei diamanti’ off re un’architettura dal fascino irresistibile. Dalla magnifica stazione centrale che, con la cupola in vetro e ferro, è considerata fra le cinque più belle al mondo, all’edificio rosso del celebre Mas-Museum aan de Stroom, fino ai palazzi medievali. Contribuiscono all’eclettismo architettonico della città anche la Port House di Zaha Hadid, l’edificio contemporaneo che ospita il tribunale di giustizia e le gemme dell’Art Nouveau. Già nel Cinquecento Anversa era una delle città più ricche d’Europa e nel XVII secolo ebbe, cittadini illustri, due maestri del barocco fiammingo, Rubens e Anthony Van Dyck. Oggi il Museo della Moda, MoMu, è una tappa imperdibile.

102 VIAGGIARE CON STILE

CHAPEAUX DIOR!

A Granville, in Normandia, non lontano da Mont St Michel, la casa d’infanzia di Christian Dior sorge sulla scogliera. Costruita alla fine del XIX secolo, la villa Les Rhumbs deve il suo nome al termine marino che indica le trentadue divisioni della rosa dei venti, simbolo presente in un mosaico del pavimento di ingresso della casa. Nel 1906, i genitori di Christian Dior acquistarono questa casa borghese con giardino d’inverno, immersa in un parco protetto. Il couturier vi era particolarmente affezionato.Nella sua autobiografia Christian Dior e io scrive: “La casa della mia infanzia... Che dire, la mia vita e il mio stile devono quasi tutto alla sua posizione e alla sua architettura”. È Museo dal 1997.

A DESTRA,

REINTERPRETAZIONE DEL COMPLETO ‘BAR’ SECONDO MARIA GRAZIA CHIURI E STEPHEN JONES SOTTO, VILLA LES RHUMBS, MUSÉE CHRISTIAN DIOR, A GRANVILLE (FRANCIA)

Una mostra che è una prima mondiale: un’eccezionale collezione di quasi duecento cappelli esposta insieme a una trentina di abiti Dior Haute Couture in ‘total look’, oltre a una cinquantina di fotografie di moda e pubblicità di bellezza e make-up che celebrano l’arte del cappello. Queste opere illustrano oltre 70 anni di storia, dal 1947 al 2020, da Christian Dior a Stephen Jones. Evocano gli inizi di Christian Dior come stilista di cappelli negli anni Trenta. Dopo essere diventato couturier, ha affidato il suo atelier di Alta Moda a Mitzah Bricard, icona assoluta de ‘La Parisienne’. Con lei, restituì al cappello la sobrietà, l’eleganza e l’esigenza di semplicità che aveva perso durante la guerra. Al Museo Christian Dior di Granville, la forza creativa e la seducente dimensione artistica del cappello Dior.

VIAGGIARE CON STILE
GRENVILLE
© SØlve SundsbØ, Art + Commerce © Benoit Croisy, coll. città di Granville

PICASSO Y CHANEL N

el 2023 si celebreranno i 50 anni della scomparsa di Pablo Picasso, al quale il Museo Nazionale yssen-Bornemisza di Madrid dedica fino al 15 gennaio 2023 una mostra dal titolo Picasso y Chanel, che propone una riflessione sull’influenza del cubismo nel lavoro della stilista francese. Pablo Picasso e Gabrielle Chanel hanno collaborato professionalmente in due occasioni, entrambe con Jean Cocteau: in Antigone (1922) e nel balletto russo di Sergei Diaghilev Le Train Bleu (1924). La mostra è organizzata in quattro grandi sezioni: Il Cubismo e Chanel, Olga Picasso, Antigone e Le train bleu. Il linguaggio formale geometrizzato, la riduzione cromatica o la poetica cubista del collage si

Secondo il libro del guinness dei primati, il più antico ristorante del mondo ancora aperto è, a Madrid, il Sobrino de Botín. Inaugurato nel 1725, si trova nel centro storico della città in Calle Cuchilleros. Il locale non è famoso soltanto per la sua lunga storia, ma anche per gli innumerevoli premi ricevuti negli anni per la qualità dei suoi piatti della tradizione madrileña. L’artista Francisco de Goya fu impiegato al Café Botín come cameriere mentre aspettava di essere accettato alla Accademia Reale delle Belle Arti, mentre Ernest Hemingway cita il ristorante in un suo racconto. Una tappa appetitosa per chi ama desinare in un contesto denso di tradizione.

traducono in abiti dalle linee dritte e spigolose, nella sua predilezione per i colori bianco, nero e beige, e nell’uso di tessuti umili dalle trame austere. ‘Olga Picasso’, il secondo capitolo, è dedicato ai tanti bei ritratti che Picasso fece della sua prima moglie, la ballerina russa Olga Khokhlova, devota cliente di Chanel. ‘Antigone’, un adattamento moderno dell’opera teatrale di Cocteau di Sofocle, presentato per la prima volta a Parigi nel 1922, con scene e maschere di Picasso e costumi di Chanel, con la loro comune ispirazione nella Grecia classica. ‘Le Train Bleu’ è il titolo della quarta sezione e del balletto prodotto da Diághilev nel 1924, su libretto di Cocteau, ispirato allo sport e ai costumi da bagno.

A SINISTRA, PABLO PICASSO, L’ARLECCHINO CON LO SPECCHIO (1923) E, DI CHANEL, ABITO DA GIORNO

104 VIAGGIARE CON STILE
MADRID

Fino 29 gennaio 2023, Palazzo Reale di Milano celebra Richard Avedon (1923-2004), uno dei maestri della fotografia del Novecento, con la mostra dal titolo Richard Avedon: Relationships che ne ripercorre gli oltre sessant’anni di carriera attraverso 106 immagini. Se, da un lato, ha rivoluzionato il modo di fotografare le modelle, trasformandole da soggetti statici ad attrici protagoniste del set, mostrando anche il loro lato umano, dall’altro, i sorprendenti ritratti di celebrità, in bianco e nero e spesso di grande formato, sono capaci di rivelare il lato psicologico della persona ritratta. Una sezione è dedicata alla collaborazione tra Richard Avedon e Gianni Versace, iniziata con la campagna per la collezione SS1980, che decretava l’esordio dello stilista, fino a quella della collezione SS1998, la prima firmata da Donatella Versace. Il percorso espositivo, suddiviso in dieci sezioni, si costruisce attorno alle due cifre più caratteristiche della sua ricerca: le fotografie di moda e i ritratti.

RICHARD AVEDON

Un labirinto segreto. È il labirinto di Arnaldo Pomodoro, nei sotterranei dell’headquarter di Fendi a Milano, in Via Solari. Un tesoro sconosciuto ai più, che l’artista terminò nel 2011. “La chiave che cerchiamo è quella che da sempre possediamo in qualche tasca bucata della nostra memoria, ed è l’unica in grado di farci accedere al nostro mondo interiore. Non troverai qui dentro risposte, ma solo domande che ti spingano a cercare quelle risposte: cerca l’equilibrio, leggi dentro i segni, azzera il tuo ego e guarda nelle lacerazioni che il tempo ingigantisce; passeggia in questo mondo e fanne piante e pareti che possano sostenere l’architettura della tua vita”.

MILANO
CARMEN (HOMAGE TO MUNKÁCSI), CAPPOTTO CARDIN, PLACE FRANÇOIS-PREMIER, PARIGI, 1957 DOVIMA WITH ELEPHANTS, ABITO DA SERA DIOR, CIRQUE D’HIVER, PARIGI, 1955

SHOCKING, ELSA!

Il Museo delle Arti Decorative di Parigi ospita una grande retrospettiva dedicata alla creatrice di moda Italiana Elsa Schiaparelli (Roma, 1890 –-Parigi, 1973). Shocking! Les mondes surréalistes d’Elsa Schiaparelli. Shocking come la tonalità di rosa da lei inventata. Fino al 22 gennaio 2023, tutte le creazioni dell’artista, autrice di abiti surrealistici, stilista d’avanguardia, raccontata attraverso 520 opere di cui 272 costumi e accessori.

Il percorso, caratterizzato da una scenografia immersiva spettacolare, è ulteriormente arricchito da fotografie, profumi, gioielli, dipinti, ceramiche e manifesti realizzati dai più grandi artisti dell’epoca, da Man Ray a Salvador Dalí, da Jean Cocteau a Meret Oppenheim a Elsa Triolet.

Tappa imperdibile di una visita a Parigi, il Jardin des Tuileries dispone di diverse ‘frecce’ al suo arco. Luogo bellissimo, è nato nel XVI secolo da un ‘capriccio’ di Caterina de’ Medici che, dopo la costruzione del Palazzo omonimo, desiderava un luogo d’intrattenimento per cerimonie e banchetti. In seguito il giardino venne aperto a tutti e dotato di caffetterie, chioschi, lettini e servizi di igiene pubblica. Ha una collocazione strategica: situato tra il Louvre e Place de la Concorde, questo giardino rappresenta un vero e proprio punto d’incontro tra due luoghi nevralgici della città, per un momento di relax dopo i giri ‘obbligati’ per musei e monumenti.

A SINISTRA, DANIEL ROSEBERRY, LOOK 02, AUTUNNO-INVERNO 2021-2022.

PHOTOGRAPHIE

© MAISON SCHIAPARELLI

VIAGGIARE CON STILE
PARIGI

V I L L A A R C O N A T I

P e r i v o s t r i E v e n t i A z i e n d a l i e P r i v a t i

A s o l i 5 0 " d a L u g a n o - 2 0 " d a M i l a n o c e n t r o - 3 0 " d a M a l p e n s a

1 0 . 0 0 0 m q . d i s p a z i o c o p e r t o - u n G i a r d i n o m o n u m e n t a l e d i 1 2 e t t a r i

A m p i o p a r c h e g g i o e s t e r n o - S e r v i z i o C a t e r i n g - A t t i v i t à p e r s o n a l i z z a b i l i

W W W . V I L L A A R C O N A T I - F A R . I T I N F O @ F O N D A Z I O N E A U G U S T O R A N C I L I O C O M / + 3 9 0 2 3 5 0 2 2 1 7 V I A M A D O N N A F A M E T T A , 1 - C A S T E L L A Z Z O D I B O L L A T E ( M I L A N O )

In un tempo lontano, lontano, la giovane Itha, ultima erede dei signori di Oberhofen, venne data in sposa dal barone Walter von Eschenbach, portandogli in dote la baronia che comprendeva l’intera fascia lacustre da Hünibach a Interlaken. Ben presto il castello di Balm, roccaforte nell’entroterra, venne rimpiazzato da una nuova fortezza, affacciata sulle acque del lago di Thun, dotata di cinta muraria e fossato. A inizio Trecento, con la sua cessione alla casa d’Austria, si inaugurò un lungo periodo di passaggi di proprietà che nel 1397, dopo la battaglia di Sempach, la vide finire sotto il controllo di Berna, che un solo anno più tardi la vendeva a una delle più influenti famiglie del patriziato locale. Nel 1798 divenne un baliaggio bernese, amministrato da un totale di 27 balivi fino al 1798.

Nel 1844 il conte Albert de Pourtalès, diplomatico prussiano i cui antenati erano originari di Neuchâtel, acquisì la tenuta e la convertì a residenza estiva, assecondando il suo gusto per il Medioevo. Se l’esterno ha mantenuto lo stile originario, all’interno è arredato con eleganza, comodità e un tocco esotico. Ne è emblema il salotto orientale del fumo, allestito nel 1855 n cima al torrione, con l’intento di portare, in modo esclusivo e originale, un pezzetto di Oriente a Oberhofen. L’ultimo proprietario privato è stato un avvocato americano, William Maul Measey, che lo ha acquistato per 750mila franchi dopo la prima guerra mondiale e nel 1940 ha istituito la Fondazione Oberhofen, oggi diventata indipendente. Dal 1954 ospita un museo che ne ripercorre la storia. Negli alloggi della servitù sono state restaurate le camere da letto del personale che nell’Ottocento si occupava della famiglia del conte.

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VIAGGIARE CON STILE DI ANDREA PETRUCCI

C’ERA UNA VOLTA...

… e ci sono oggi. I castelli svizzeri. Dalle fortezze a carattere spiccatamente militare a quelle dalle atmosfere fiabesche o più stravaganti.

Tutti di grande fascino e valore storico

PIÙ ANTICA DEL COMPLESSO, E IL SALONE RISTRUTTURATO CON GUSTO STORICISTA

Oggi il complesso è un’apprezzata destinazione turistica e una location per eventi e cerimonie. Il tutto immerso nel parco di due ettari e mezzo creato nel 1840, tra i giardini più belli della regione alpina, con le sue suggestive formazioni arboree, le piante da legno esotiche, le coloratissime composizioni floreali e una vista spettacolare sul lago e sulle montagne. Questa non è che una fra le migliaia di storie che ‘raccontano’ i castelli svizzeri. Degli oltre duemila costruiti tra il X e il XV secolo, oggi ne rimangono 750, soprattutto concentrati nelle regioni di Berna (154), dei Grigioni (103) e della Svizzera orientale/ Liechtenstein (95), ma anche il Canton Argovia ne conta ben una cinquantina. La maggior parte furono edificati in epoca medioevale come presidi di difesa: arroccati su alture imprendibili, in riva a un lago o

emblema di una città, per presidiare territori e vie commerciali chiave. Simbolo tangibile del potere dei casati che si erano imposti su quelle regioni - i duchi di Zähringen, poi i Kyburg e gli Asburgo nella parte tedesca, i Savoia in quella francese - prima che i Confederati annettessero territorio dopo territorio, piazzando nelle fortezze i loro balivi.

Nei secoli hanno accolto arsenali, prigioni, governi, amministrazioni comunali e cantonali, che non pochi ospitano tuttora

IN QUESTE PAGINE, LE ATMOSFERE DEL CASTELLO DI OBERHOFEN, SUL LAGO DI THUN. GLI INTERNI MOSTRANO LA CAPPELLA AFFRESCATA DEL XV SECOLO, NELL’ALA

con storiche sale di consiglio. La giustapposizione di interventi architettonici testimonia il succedersi di proprietari, epoche e destinazioni, da militare a rappresentativa a residenziale. Dal secondo Ottocento hanno iniziato a ospitare musei che raccontano la loro storia e la cultura della regione, ma organizzano anche mostre temporanee e, non di rado, conservano collezioni uniche e sorprendenti. Ce ne sono di immersi in parchi lussureggianti, con splendidi giardini (ma anche ricchissimi orti). Alcuni organizzano eventi, concerti, spettacoli, festival, o mettono a disposizione sale per congressi e banchetti o sono la location di esclusivi ristoranti e hotel. Altri sono invece di costruzione più recente, architetture raffinate di gusto barocco o più stravaganti, nate come residenze private di facoltosi visionari o megalomani.

SOPRA, LO SPLENDIDO SOFFITTO DEL SALONE DELLE FESTE (INIZIO XVIII) DEL CASTELLO DI WALDEGG, OPERA DI TICINESI: IL PITTORE FRANCESCO ANTONIO GIORGIOLI E I FRATELLI NEURONI DI LUGANO, STUCCATORI SOTTO, IL CASTELLO DI LAUFEN, A STRAPIOMBO SULLE CASCATE DEL RENO

L’Associazione nazionale dei Castelli svizzeri riunisce i principali 28, di cui rappresenta gli interessi culturali, turistici, politici e commerciali. E se ben sette di questi si concentrano in area bernese, sono altri dodici i cantoni interessati, nelle tre regioni linguistiche. Che sia per un motivo o per l’altro, tutti sono diventati apprezzatissime attrazioni turistiche, che nell’accendersi dei colori autunnali trovano la loro atmosfera ideale. Di fatti, proprio il 2 ottobre ricorreva la Giornata dei Castelli Svizzeri, festeggiata con una ricca serie di offerte speciali e rievocazioni storiche. Destinazione ideali da raggiungere anche tutti gli altri giorni dell’anno: mete di un’escursione, attracco di un viaggio in battello o tappa di un tour nella città vecchia, da inserire in qualsiasi itinerario, vista l’ampia distribuzione su scala nazionale.

Banale sarebbe citare il castello di Chillon, immortalato nell’immaginario romantico dai versi di Lord Byron e monumento storico più visitato di Svizzera, con 430mila ingressi nel 2019. Oppure i castelli di Bellinzona, già patrimonio Unesco.

Andando in cerca di qualcosa di piû soprendente,

non si può che citare il castello di Laufen, sul confine tedesco nel Canton di Basilea Campagna. Un’esperienza immersiva: è infatti ubicato su una rupe sopra le tonanti cascate del Reno, le più grandi d’Europa. In media 600mila litri d’acqua scrosciano ogni secondo nel bacino largo 150 metri, su cui una piattaforma panoramica e l’ascensore in vetro offrono una vista imprendibile. È anche l’unico castello con una stazione ferroviaria propria, sull’asse Winterthur-Sciaffusa. Citate per la prima volta per iscritto nell’858, le vecchie mura sono state testimoni di eventi raccontati dall’Historama del castello.

Un’interessante scoperta, la offre il Salone delle Feste del Castello di Heidegg, nel Seetal lucernese, ornato da un affresco del pittore ticinese Francesco Antonio Giorgioli, del 1702, mentre gli stucchi coevi sono opera dei fratelli Neuroni di Lugano, che hanno anche lavorato alla cappella del torrione, risalente al 1192. Situato in una posizione idilliaca tra boschi e vigneti, su una morena che si affaccia sul lago Baldegg, il castello è noto per il suo giardino di rose, ispirato dall’ex cancelliere tedesco Adenauer, e per i suoi vigneti, coltivati da secoli: proprio dalla cantina del mastio, vecchia di 830 anni, inizia la visita. Ha la grazia di un’opera d’arte barocca, in linea con lo spirito della vicina città di Soletta, il castello di Waldegg, su una collina ai piedi del Giura, chiaramente ispirato da in fluenze francesi e italiane nelle sue linee, nei viali e nei giardini che lo circondano. Venne fatto edificare come residenza estiva dal potente patrizio solettese Johann Viktor von Besenval tra il 1682 e il 1686. Prendendo come esempio proprio questa famiglia, la mostra permanente ospitata dal Museo del castello sottolinea l’importanza sociale ed economica per le famiglie patrizie locali e per la città di Soletta degli ambasciatori dei re di Francia che dal XVI alla fine del XVIII secolo risiedettero nella piccola città sull’Aare, portando splendore cortese, savoir-vivre e ingenti ricchezze, testimoniati a Waldegg dai saloni riccamente decorati, dagli arredi originali e dall’ampia collezione di splendidi dipinti. Il clou sono i giardini: quello barocco, davanti al monumentale fronte sud dell’edificio,

SOPRA, IL CASTELLO DI SPIEZ, SEMPRE SULLE RIVE DEL LAGO DI THUN, LE CUI ORIGINI RISALGONO ALLA PRIMA RESIDENZA E TORRE IN PIETRA FATTE

ERIGERE NEL XII SECOLO DAI SIGNORI VON STRÄTTLIGEN

SOTTO, UN SALONE DEL CASTELLO DI WALDEGG, IN PURO STILE BAROCCO, TESTIMONIA IL GUSTO SOFISTICATO

PORTATO A SOLETTA DAGLI AMBASCIATORI DEI RE DI FRANCIA

CHE QUI RISIEDETTERO DAL XVI ALLA FINE DEL XVIII SECOLO

© Photo Cyrill Zumbrunn, Schloss Spiez

è un capolavoro di eleganza e rigore; a ovest si trova l’aranciera, a nord il tradizionale orto con fiori e verdure. La maggior parte delle piante sono varietà ProSpecieRara, già note nella zona circa 150 anni fa.

Il più grande edificio laico barocco è però il castello Stockalper. Costruito all’incirca negli stessi anni di Waldegg, è testimonianza della ricchezza, del prestigio e del genio di Kaspar Jodok von Stockalper (1609-1691). Noto con il soprannome di ‘Le Roi du Simplon’, controllava il transito e il commercio delle merci più pregiate sul Passo, oltre ad occuparsi di attività minerarie, prestiti, salari, traffico postale e politica. Il monumentale complesso barocco, costruito vicino alla casa

SOPRA, EMERGE DALLE NEBBIE SUL LAGO, IL MASSICCIO CASTELLO DI THUN SOTTO, IL CASTELLO BAROCCO STOCKALPER, GENIALE E STRAVAGANTE COME IL SUO COSTRUTTORE, ‘LE ROI DU SIMPLON’

paterna, è all’altezza del personaggio. Le tre torri di fortificazione di granito dell’imponente ala principale sono sormontate dalle iconiche cupole a cipolla e racchiudono l’elegante quadrangolo porticato, di ispirazione rinascimentale. Oltre all’amministrazione comunale di Briga-Glis e al tribunale distrettuale, ospita l’Istituto di ricerca per la storia delle Alpi e, naturalmente, custodisce le collezioni della famiglia, oggetti relativi all’etnologia e alla storia culturale dell’Alto Vallese, mentre la mostra “Passage Simplon” mette in evidenza la movimentata storia del Passo. Tornando sul lago di Thun, una crociera può condurre ad altri due castelli che vi si affacciano oltre a quello di Oberhofen. Il castello di Spiez vanta una storia lunga e complessa, segnata da numerosi passaggi di mano. Già sulla scia della conquista alemanna sorse sulla penisola dell’insenatura di Spiez un centro di dominio. La chiesa del castello, in stile romanico, con i suoi affreschi, rappresenta un ulteriore gioiello, splendide anche con le stuccature in stile barocco del ticinese Antonio Castelli, che decorano lo sfarzoso salone delle feste che Franz Ludwig von Erlach fece aggiungere nel 1614. Oltre all’esposizione storica, ospita spesso mostre d’arte, ma anche attività come l’addestramento cavalleresco per i più piccoli. Inconfondibile con la mole massiccia del suo corpo scandita dalla quattro torri, il castello medievale di Thun troneggia sull’omonimo lago e su Berna. Da metà del 2014 vi sono stati inaugurati un centro

© Patric Spahni, Schloss Thun

IN QUESTA PAGINA, IL CASTELLO DI BURGDORF, OGGI OSPITA UN MUSEO DI MIRABILIA E STORIA

REGIONALE, EVENTI E UN OSTELLO. FU SIMBOLO DEL POTERE DEGLI ZAHRINGEN, POI A LUNGO SOTTO DOMINIO BERNESE. LA MINIATURA, DALLA SPIEZER CHRONIK (FINE XV SECOLO), COSTITUISCE LA PRIMA IMMAGINE ESISTENTE

DI BERNA, DI CUI RECA LO STEMMA INSIEME A QUELLO DEI VON ZÄHRINGEN

conferenze e di formazione, un hotel e un ristorante: una svolta dopo otto secoli di proprietà pubblica, a eccezione del dongione, fatto costruire da Berchtold V dopo l’acquisizione del complesso da parte dei duchi di Zähringen. Almeno dal XVII secolo in poi, la sommità di questo torrione ha ospitato una prigione, le cui guardie carcerarie sono state poi adibite anche alla vendita dei biglietti e alla sorveglianza del museo storico inaugurato nel 1888 nelle sue cinque grandi sale.

In realtà, i duchi di Zähringen non ci si stabilirono mai, ma lo vollero come simbolo del loro potere sul territorio e sulle vie di commercio locali. Avevano già la loro residenza a Burgdorf, uno dei complessi castellani più antichi e importanti di Svizzera, contraddistinto dal particolare color rosso dei mattoni di recente invenzione scelti dal duca Berchtold V. Dopo la sua morte furono i Kyburgs a farne la loro residenza fino a quando, nel 1383, la contea passò alla città di Berna. Ne divenne la sede amministrativa cantonale, che ha ospitato il sindaco, con tribunale e prigione, fino al 2012. Oggi non solo stupisce con i tanti strani oggetti di secoli diversi e di tutti i continenti raccolti nelle camere delle meraviglie del suo museo, ma offre anche la possibilità di fermarsi per cenare, dormire e festeggiare. Dall’aprile del 2020 ha riaperto infatti con un nuovo museo, un ristorante, sale per eventi e un ostello della gioventù da 115 posti. Un’ottima sistemazione, considerando che Burgdorf è il punto di partenza ideale per scoprire la regione dell’Emmental, che offre una vasta gamma di attività culturali, storiche e sportive.

© Photo Dyle Berger, Schloss-Burgdorf © PhotoVerenaMenzSchloss-Burgdorf

CHI • COSA • DOVE

MODA E ACCESSORI

AGL, Alberta Ferretti, Angelo Maggi, Antonio Marras, Bally, Bvlgari, D. Pancheri, Emporio Armani, Etro, Ferragamo, Fendi, Francesco Sacco, Hermès, Jil Sander, Max Mara, N21, Paris Texas, Philosophy di Lorenzo Serafini, Prada, Roberto Festa, Vicolo

OROLOGI & GIOIELLI

Ariha Diamonds, Crivelli, Dreamboule, Melania Crocco, Pasquale Bruni

BEAUTY

Hunger Ricci Academy, Via in Sacca 1, 6925 Gentilino

ABITARE

antoniolupi, Falmec, Lema, Miele, Poggenpohl, Poliform, Rugiano, Tom Dixon

BOUTIQUE & PUNTI DI VENDITA

Arredo Più International, Via F. Pelli 5, Lugano • Delcò Mobili, Via Gorelle 1, Sant’Antonino Gold Time, Via Luvini 4, Lugano e Piazza Indipendenza, Chiasso Groovy Concept, Via Vegezzi 5, 6900 Lugano

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Salvioni Lugano, Via Pelli 2 e Via Trevano 15, Lugano • Scavia, Via Nassa 29, Lugano • Shuga, Piazza Luini, 6900 Lugano

Andy Helencik

Photography

Giorgia Ghezzi Panzera

Produzione e styling

PetraPeter.com

Outfit

Foulard Hermès

Orecchini e anello Melania Crocco by RONDINA

Camicia D. Pancheri e pantaloni Vicolo GROOVY

Make up & hair style

Josephine Cottet, josephinecottet.academy

Assistente Styling

Caterina Pasquale

IMPRESSUM

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