Scegliere il cambiamento. Un percorso di guarigione dalla co-dipendenza

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A Tu per Tu

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Cecilia Vetturini

Scegliere il cambiamento Un percorso di guarigione dalla co-dipendenza

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Prima Edizione: 2015 ISBN 9788898037858 © 2015 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Settembre 2015 in Italia da Universal Book Srl Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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[...] Serbali tu com’erano, memoria. E più che puoi, memoria, di quell’amore mio recami ancora, più che puoi, stasera. (Costantino Kavafis)

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INDICE

Prefazione.

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Un tempo per noi due

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PRIMA PARTE Ce la faremo da soli L’orlo del possibile si sfilaccia

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SECONDA PARTE Non ce la faremo da soli Il cambiamento Dalle ultime pagine del mio diario

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APPENDICI Lettere senza data Vi ho incontrati Sorpresa dai sogni

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Ringraziamenti

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Illustrazione e immagine di copertina di Maria Teresa Lasi

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PREFAZIONE

di Teresa Basilone Lo psichiatra che dirige lo staff medico ospedaliero di cui faccio parte, ci ha convocati nel suo studio che si trova all’interno del reparto per la cura della dipendenza dall’alcol. Ci informa che stiamo per ricevere una coppia sposata da diversi anni e che il signore ha accettato di partecipare alla sperimentazione, avviata in Italia solo recentemente, di un nuovo farmaco grazie al quale si stanno registrando ottimi risultati. Aggiunge che la signora ha dichiarato di aver bisogno di aiuto e che uno di noi dovrà attivare con lei un percorso terapeutico mirato a liberarla da una sospetta ‘sindrome di co-dipendenza’. Il termine ‘sindrome’ sta ad indicare tutta una serie di sintomi fisici e/o psichici che associandosi, concorrono a determinare una vera e propria patologia, che in questo caso si riferisce alla dipendenza dal comportamento dell’altro. Li vediamo arrivare tenendosi sottobraccio; si guardano intorno intimiditi e curiosi e a me danno subito l’impressione di essere una coppia affiatata. Osservo il modo d’incedere di lei: il passo è lento e pesante; le spalle sono curve sotto il peso di un invisibile fardello. Dico sottovoce allo psichiatra: “Vorrei occuparmi io della signora”; lui acconsente e quando 9

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siamo tutti insieme nello studio, le comunica, indicandomi, che sarebbe stata affidata alla terapia della dottoressa Basilone. La signora si apre a un grande sorriso che sa di gratitudine ed io me la porto subito in un’altra stanza per cominciare a conoscerla. Da quel momento ci saremmo viste in ospedale una volta a settimana: lei in terapia con me e suo marito con il medico psichiatra. Già nel corso del primo incontro, invito Cecilia a scrivere sia un diario che i propri sogni notturni. Dopo alcune settimane le chiedo di farmi leggere i suoi appunti e siccome mi lascia il quaderno, ho modo di analizzarli con calma. Resto meravigliata dalla chiarezza dei suoi sogni, così rivelatori del cambiamento che sta operando in seguito alla terapia, che le chiedo il permesso di sottoporli all’analisi di un collega specializzato nell’interpretazione onirica. Mi piace il suo modo di scrivere e apprezzo anche il contenuto del suo diario: più che raccontare semplicemente gli eventi, analizza le situazioni, mette a nudo le emozioni, commenta le reazioni... sta imparando ad abbracciare scelte personali e a fare amicizia con il proprio inconscio. Interpreto e apprezzo la confessione di una grande sofferenza, ma anche tutta la tensione al cambiamento che inizialmente affermava di perseguire con l’obiettivo di aiutare suo marito, ma che nel tempo ha imparato ad accogliere come irrinunciabile, comunque vada. Ne sono professionalmente orgogliosa. So che non dovrebbe succedere a una terapeuta, ma mi sorprendo affezionata a lei e le sorrido, le faccio i complimenti quando la vedo arrivare con i capelli freschi di parrucchiere, oppure vestita e trucca-

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ta accuratamente, ma soprattutto quando sorride e cammina a testa alta: liberata di quel macigno del primo giorno. E sembra in qualche modo voler guarire anche per meritare la mia stima perché mi rendo conto che anche lei si è affezionata a me. Registro costanti e significativi progressi nella mia ‘paziente’ che sta trasformando la sua percezione della realtà che è costretta a vivere, recuperando fiducia nelle proprie risorse pur se non mancano alcune ricadute spesso originate da qualche nuovo senso di colpa, dalla perenne insicurezza o dalla sua vocazione a sottomettersi. Di questi progressi come di queste ricadute continuo a leggere anche nel diario e nei sogni di cui prende nota con sempre maggiore consapevolezza del proprio cambiamento. È così, quasi per fare una battuta che un giorno mi ha detto: “Qui piano piano sto praticamente scrivendo un libro”. Le ho risposto: “E perché no? Se te la senti... mi rendo conto che ti sto chiedendo tanto, ma sono sicura che potrai aiutare tante persone che hanno il tuo problema e che ancora lo vivono nel silenzio e nella vergogna. Provaci”. Cecilia è una donna generosa e ha subito accettato il mio invito. Certo, ci ha messo tanto ed io non l’ho mai incitata ad andare avanti, a finire, perché dovevo rispettare i suoi tempi. Un giorno mi ha chiesto se per caso non nutrissi fiducia nel suo lavoro, considerato che non le chiedevo mai niente a riguardo. Le ho spiegato. Ce l’ha fatta e anche per questo bellissimo libro con il quale ha avuto il coraggio di uscire pubblicamente dal suo segreto, sono orgogliosa di lei e non ho avuto difficoltà a scrivere questa prefazione.

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UN TEMPO PER NOI DUE

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C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. 3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. 4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per danzare. 5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. 6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. 7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. 8 Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace. (Qo 3, 2-8. La Bibbia - Testo ufficiale CEI)

A Roma quella mattina di Gennaio ci accompagnano una leggera pioggia che ha risvegliato gli odori della terra, e una pallida luce che non è riuscita a spegnerne i colori. Uscendo di casa sappiamo che da questo momento tutto sarà diverso perché il mio amore ha progettato un tempo per noi due. Il futuro ci ha stanati, ci ha fatto un cenno e noi ci prepariamo

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a ospitarlo. Non ci sfiorano scetticismi, non nascondiamo inconfessabili riserve; stretti sotto lo stesso ombrello, un sorriso infantile insieme a uno sguardo complice, approdano a un tenero bacio: siamo qui finalmente! Nell’androne dell’ospedale, dopo le prime formalità, ci accoglie un medico che invita soltanto lui a entrare in una stanza; sulla porta c’è scritto ‘accettazione’. Da un provvidenziale e indiscreto spiraglio riesco a sbirciarne l’interno: ci sono tre medici e alcuni studenti riconoscibili dalla giovane età e dal contegno cerimonioso. Lo vedo seduto di fronte a tutti, il sorriso ancorato alle labbra; percepisco alcune parole e il tono disinvolto della sua voce con cui sembra difendere la propria dignità. Mi allontano, misuro lentamente il corridoio e mi guardo intorno: medici e infermieri di passaggio, uno sportello informativo, persone in attesa. Indago le espressioni dei loro volti con l’obiettivo di cogliere qualche indizio che mi possa rassicurare sull’efficacia di questo percorso di cura. Avverto un impalpabile isolamento mascherato da una serie di incombenze apparenti: sfogliare il giornale, leggere con meticolosità tutte le comunicazioni esposte al pubblico, chiedere informazioni, compilare una serie di pagine prestampate. Quando vedrò anche il mio amore scrivere su quei fogli, saprò che si tratta di una serie di test mirati a focalizzare emozioni e comportamenti. Lentamente sento prendere corpo inquietudini, dubbi e paure che confluiscono in un’improvvisa consapevolezza: non voglio permettere che la mia libertà sia ancora ostaggio della rassegnazione. Perciò sono determinata quando avvicino uno dei medici appena uscito da quella stanza per confidargli:

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“Ho bisogno di aiuto!”. Mi invita ad una breve attesa e torna presentandomi la dottoressa Basilone che “si occuperà di lei”. Ci scambiamo una stretta di mano e un sorriso; sono alquanto imbarazzata e agitata da una folla di dubbi: cosa le avrei detto, quale contegno avrei scelto, come mi avrebbe giudicata; e intanto considero che magari avrei potuto anche cercare la protezione di qualche bugia. La osservo bene e sentenzio che non è per niente il mio genere: troppo affascinante. Non riesco a conciliare la sua gioventù, la sua bellezza, la sua lunga, bionda e curatissima capigliatura con la competenza di una terapeuta; sarebbe stata all’altezza? E quali mosse, quali tattiche si sarebbe inventata per aiutarmi? Immagino che avrebbe esordito semplicemente chiedendomi di raccontarle tutta la mia infanzia, gli eventuali traumi del passato e che sarebbe stata lì a sentire e basta. E intanto che annaspo alla ricerca delle prime cose da dire e del timbro di voce da usare, comincia lei per fortuna; mentre prende una penna e apre un quaderno, mi annuncia: “Le insegnerò a riconoscere le sue emozioni”. Penso: “Oddio! Questa qui mi confonde davvero: vuole parlare soltanto di me, ma che non l’hanno informata che il problema non sono io? Pure se è tanto occupata a farsi bella, dovrebbe averlo imparato dai suoi studi, no?”. È stato così che ho debuttato nel cammino che mi avrebbe affrancata da una sorta di cecità emotiva aiutandomi ad ascoltare me stessa, a identificare, controllare e comunicare pensieri ed emozioni, a capirne cause e conseguenze; per osare fino alla definitiva guarigione. Ho imparato a non inibire ma a ri-conoscere e analizzare sensazioni negative; a liberare le difese con cui le avevo insabbiate; ho potuto anche ri-incontrare

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le mie risorse recuperando l’autostima e la progettualità di cui ero diventata orfana. Ho sperimentato il rifiorire del senso del mio essere nel mondo, dispensata da quella vocazione a rifugiarmi sempre in un altrove. Sono tornata a casa. Non ho sconfitto invece la pena che mi raggiunge improvvisamente e che mi frequenta anche mentre scrivo. È stata lei la sorgente delle tante defezioni, nell’attesa di recuperare uno stato d’animo in cui potesse abitare almeno un po’ di pace: forse soltanto scuse per non soffrire. Ho guardato oltre le perplessità solo quando Teresa (questo il nome della dottoressa Basilone) mi ha assicurato che avrei potuto aiutare tante persone con questa testimonianza alla quale ora lascio la sfrontatezza di emergere oltre i timori e le critiche. Un giorno Socrate fu avvicinato da un uomo che gli disse: “Ascolta, ti devo raccontare qualcosa d’importante sul tuo amico...”. “Aspetta un po'”, lo interruppe il saggio, “Hai già passato attraverso i tre setacci ciò che mi vuoi raccontare?”. “Quali tre setacci?”. “Ascoltami bene: il primo setaccio è quello della verità. Sei convinto che tutto quello che mi dici sia vero?”. “In effetti no: l’ho solo sentito raccontare da altri…”. “Ma allora, l’hai passato almeno al secondo setaccio, quello della bontà?”. L’uomo arrossì e rispose: “Devo confessarti di no”. “E hai pensato al terzo setaccio? Ti sei chiesto a che serva raccontarmi queste cose sul mio amico?”.

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“Se serva a qualcosa…? Beh, veramente no”. “Vedi?”, continuò il saggio, “Se ciò che mi vuoi raccontare non è vero, né buono, né utile, allora sarà meglio che tu lo tenga per te”. Ecco, ho voluto passare questo racconto attraverso i tre setacci e quindi mi sento incoraggiata persino da Socrate.

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Prima parte

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CE LA FAREMO DA SOLI

È veramente buono battersi con persuasione, abbracciare la vita e vivere con passione, perdere con classe e vincere osando... perché il mondo appartiene a chi osa. (Charlie Chaplin)

Che è successo? Chi è questo tiranno che spadroneggia tra noi due? Come ha fatto a sorprenderci? Come abbiamo potuto concedergli la nostra ospitalità? Non siamo riusciti a distinguere la sua maschera? Dovevamo pur intuire che la musica che ne scortava il cammino era un requiem camuffato da alleluja e invece gli abbiamo permesso di attentare al nostro amore che tutti ci invidiavano. L’amore di noi due che facevamo la spesa insieme... di noi due che ci baciavamo e ci stringevamo di notte anche se russavamo... di noi due che recitavamo inventando i personaggi... di noi due che vagabondavamo in montagna o in mare tenendoci per mano... di noi due che in macchina cantavamo e litigavamo per far sentire meglio la mia o la tua voce... di noi due che avevamo una sola valigia, un solo conto in banca... di noi due che usavamo lo stesso spazzolino da denti, lo stesso asciugamano, una sola salvietta... di noi due che tutti volevano venire in vacanza con noi... di noi due che non chiudevamo

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mai casa a chiave e che di notte ci dimenticavamo le finestre aperte... di noi due che fantasticavamo di invecchiare insieme e di stare su una panchina a dire che non ci sono più le mezze stagioni e che i giovani d’oggi... Noi due... amore mio, non ti trovo più: in quale casa hai creduto di abitare meglio? Ricordo che un nostro amico tempo fa, affermò che quando credi di aver trovato tutte le risposte, la vita ti cambia le domande! Gli avevo replicato che non era proprio un mio obiettivo quello di riempirmi le tasche di foglietti con tutte le risposte; che io incontravo sempre tante incertezze invece, anche se a cinquant’ anni suonati, quelle quattro o cinque risposte su cui avevo fondato la mia vita personale, familiare, professionale e sociale, le avevo perbacco! Forse anche quelle adesso stavano cedendo sotto il peso di nuove e insistenti domande su cui la vita ora mi interrogava sorprendendomi impreparata e sprovveduta. Perché? Cosa cercava il mio amore nell’alcol? Era così forte e determinante il suo disagio di vivere in questo mondo che sentiva non appartenergli e non somigliargli e in cui si percepiva esiliato? Così tanto da arrendersi? Insieme abbiamo tante volte riattraversato il cammino a ritroso per indagare su covati malesseri, sofferenze inespresse, su perdite di senso, smarrimenti, insoddisfazioni, disagi; intenzionati a recuperare il nostro futuro. Ci sentivamo davvero una cosa sola e avevamo impostato la famiglia su un forte senso del noi. Inevitabilmente perciò, avvertivamo sia il problema che la sua soluzione come nostri e basta. Eravamo ignari di quanto si sarebbe rivelata disastrosa questa scelta.

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Molto più tardi capirò che mentre lui non riusciva a sfrattare la propria dipendenza, io mi andavo lentamente e inconsapevolmente procurando il legno e la rete metallica per costruirmi una solida gabbia. In seguito avrei anche trovato, insieme agli attrezzi per montarla, le cerniere, i chiodi, le viti, le serrature e infine i lucchetti di sicurezza. Il primo lucchetto: Non lo deve sapere nessuno Giuravamo: lui di smettere, io di aiutarlo. Ce l’avremmo fatta di sicuro anche perché ci sentivamo saldati da un ulteriore vincolo: un solenne segreto che ci affascinava e ci sorprendeva piacevolmente clandestini e che nessuno avrebbe mai intuito per il semplice fatto che gli saremmo stati sempre fedeli. Era una sfida vestita di silenzi, di un eccessivo apprezzamento nelle nostre capacità, di serie promesse che ci sembravano realizzate già solo nel dichiararle e che coloravamo con ricorrenti parole e gesti d’amore. Contavamo insieme i tempi del nuovo rigore: prendeva il pennarello rosso e segnava le crocette all’interno del pensile della cucina. Ogni giorno di vittoria, una crocetta. Era fiero dei suoi buoni propositi e ancor più felice quando otteneva risultati per diversi giorni; si convinceva di essere già un ex alcolista. Quel sentiero che avevamo appena tracciato spesso si perdeva bruscamente, ma dopo qualsiasi passato tornavamo innocentemente a convincerci che la volta successiva sarebbe andata in modo diverso. Mi dicevi: “Devo fare, devo iniziare, vedrai che da domani sarò un ex alcolista anzi lo sono già da questo momento; tu ricordami dei bambini che muoiono di fame. Voglio vivere! Questa è

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davvero l’ultima bottiglia!”. Parole con cui consacrava un notevole progresso: ammettere che il problema esisteva e che si trattava di un problema serio. Mi scrivevi: Non prego mai o quasi mai. Oggi sì! Ormai non è più un gioco. Oggi è l’ultimo giorno. Il pensiero di riuscirci è bellissimo. L’angoscia che sia troppo tardi è inquietante. Però noi siamo fortunati. Ci ha detto sempre bene. È ancora più bello il pensiero di riuscirci per TE. Io voglio stare insieme con TE. Mi voglio godere la nuova casa con TE. Per me oltre la nostra casa conta solo una cosa: TE, TE, TE,TE, TE, TE... SVEGLIAMI X DARMI CORAGGIO E UN BACIO. Ti amo. Come sempre. Io? Gli ho creduto; e per tanto tempo; convinta della sua buona fede e delle sue straordinarie risorse. Sceglievo di essere positiva, lo abbracciavo, gli parlavo della vita, raccoglievo il senso del nostro futuro, mi dichiaravo certa dei suoi successi, gli giuravo il mio amore sedotta dalla nuova promessa che festeggiavamo insieme. Stavamo camminando sul ciglio della strada e non c’era nessuno che potesse azzardare una parola o provare a metterci un po’ al sicuro perché nessuno sapeva e io ero già diventata una complice straordinaria. Il secondo lucchetto: Diventare accondiscendente La salute peggiorava: il fegato si ingrossava sempre di più, i valori delle analisi cliniche quasi tutti sballati. Era anche diventato latitante negli impegni intellettuali, si stancava con

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facilità, era lento nei movimenti, nel gestire il computer di cui era stato sempre un maestro. Spesso si dedicava con esagerato impegno a cose effimere, di nessun conto o s’intestardiva con una curiosa meticolosità nel mettere ordine. Il numero degli specialisti che andava consultando aumentava; i loro consigli erano diventati raccomandazioni per convertirsi poi, in imperativi categorici. Registrava i medicinali che gli venivano prescritti e mi chiedeva di occuparmi dei tempi e i dei modi della loro somministrazione. Persa sempre nelle stesse domande, mi convinsi che dovevo individuare tra le differenti soluzioni, quella più adatta a lui, che adesso aveva davvero smarrito la serenità. Pensai che da una ritrovata tranquillità, magari avrebbe potuto attingere energia per prendere le decisioni sulle quali continuava a indugiare. Compiacerlo e accogliere le sue esigenze cominciò dunque a costituire per me un impegno assiduo. Cercavo di donargli piccole perle di gioie quotidiane: preparavo i cibi che sapevo di suo gusto, evitavo discussioni che avrebbero potuto innervosirlo, facevo scegliere a lui la destinazione e le modalità delle nostre vacanze; restavamo in casa o uscivamo a seconda dei suoi desideri, lo aiutavo (non senza lamentarmi, devo dire), nei lavori di manutenzione della casa; ma mi assicuravo, anche con toni accesi, che considerasse bene quanto fossi sempre tanto stanca. Mi scrivevi: A te non va però lo fai. E lo fai per me. Ti ringrazio di questo. Di tutto questo. Mi dispiace che ti stanchi così! Non ti posso vedere quando sei stanca così! Ieri sera con la tua stanchezza, ero stanco pure io! Non è possibile vedere in te affio-

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rare le rughe sul viso, gli occhi abbassarsi, le labbra tremare, il tuo cuore lasciato al mio. Io voglio che il tuo cuore sia tuo, che i tuoi occhi si alzino, che le tue rughe si distendano, e le labbra verso le mie. Cioè voglio vedere TE. Non lo umiliavo mai, anzi lo consolavo esiliando nel profondo di me stessa la delusione: “Non ti disperare, hai perso una battaglia, non la guerra”. Cercavo di non destare sospetti mentre con sguardi fugaci misuravo il livello della sua bottiglia e quello del bicchiere che tornava a riempirsi; sceglievo accuratamente un tono affettuoso per convincerlo a constatare quanto avesse bevuto durante le notti che trascorreva insonni occupato nello studio di ciò che amava: ancora pronta a rinnovare la fiducia che mi chiedeva; e anche a sorridere di un sorriso forse schizzato fuori da un inconsapevole scetticismo. Tu però vigilavi e mi scrivevi: L’infinito e incommensurabile Amore che provo per te, nel sentirti vicina e lontana, nel vivere dei tuoi occhi, dei tuoi sorrisi, del tuo sguardo, degli infiniti problemi, della tua speranza… Mi avvolgeva con lunghi abbracci mentre chiedeva perdono, scherzava per vedermi sorridere un po’ di più, inventava tante favole per farmi addormentare; e il cuore si arrendeva. Come potevo fare diversamente? Avrei dovuto abbandonarlo al suo destino? Mai! Su questa mia determinatezza vigilava il ricordo e il pensiero del ragazzo, dell’uomo che avevo sempre amato, che mi aveva incantata, per il quale ero il colore con cui aveva dipinto la propria vita che mi aveva da subito regalato senza risparmiarsi. Che aveva aggiunto tanti anni alla mia felicità.

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Sullo specchio del bagno, con un pennarello mi hai scritto: Musica per te DO: Domani sarà una nuova giornata. Da domani tu sarai una nuova donna per me ed io un uomo nuovo per te. RE: Resta sempre con me. Non mi abbandonare mai. Non mi lasciare neppure per un attimo. E se tu lo chiami attimo, io lo chiamo vita. MI: Mi sono stancato di dirti e ridirti quanto sei importante per me. Mi sono stancato di pensare al mio desiderio di libertà quando sono convinto che solo il lucchetto dell’Amore mi ridarà la vita. FA: Fa’ che la mia vita non vada sprecata. Ti prego, adotta le migliori misure per pesarmi, stimarmi e poi comprami. Non te ne pentirai. SOL: Soltanto un bacio mai dato potrà esprimere il desiderio di darlo. Dopo 33 anni sento ancora lo stimolo, il desiderio di farlo. LA: La mia dolce certezza sei tu, la mia dolce speranza sei tu. Come si combinano? Oh, bene! Tutto ciò che sei stata! Tutto ciò che potrai essere! SI: Sì alla vita, alla speranza, alla gioia. Sì A TE Come sempre, Ti voglio un mondo di bene.

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Il maestro Suonano alla porta e mia moglie va ad aprire. È Nicola, un mio alunno della scuola in cui insegno matematica; lo sto aspettando per una lezione privata che gli farò gratuitamente come tutte le altre. Ha in mano una busta di plastica di quelle del supermercato; da un buco esce impertinente la testa di un caciocavallo, celando la sorpresa. Nicola che lavora come meccanico e che ha deciso di riprendere gli studi in una scuola serale per azzardare un sogno, me lo ha portato dal suo paese dove ha trascorso le vacanze pasquali. Insegnare è una delle cose più affascinanti della mia vita. Quanto amo i miei ragazzi! Loro se ne accorgono ma non ne approfittano; anzi mi vergogno pure un po’ con i colleghi perché durante le mie ore ancora mi sorprende il miracolo: non registro quasi mai assenti. Confesso che ho i miei ‘cocchetti’ e non ne faccio mistero; prediligo quelli che dicono di non aver voglia di studiare, quelli che faticano, quelli timidi, quelli con problemi personali e familiari (quanti!); per fortuna i compagni non ne sono gelosi. Ora che non insegno più perché la scuola è stata chiusa per mancanza di fondi, e che vivo in preda a una profonda nostalgia di loro, mi trovo spesso a guardare le foto di quegli anni: io e i miei ragazzi in qualche pizzeria a festeggiare la fine dell’anno scolastico. Mi hanno immortalato così: sorrido o faccio smorfie che loro imitano mentre mi assediano per un abbraccio. Non amo essere chiamato professore, preferisco ‘maestro’ proprio nel significato della sua radice latina ‘magis’ che in italiano si traduce con ‘di più’. Voglio essere il ‘più grande’ che guida i suoi ragazzi a fare a meno di lui per di-

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ventare maestri di se stessi. La mamma di Christian un giorno mi dice che per suo figlio non sono solo un professore ma un educatore. Mi commuovo perché e-ducare significa ‘condurre fuori’ e io ce la metto tutta per condurre i miei ragazzi fuori dalle loro insicurezze, dalle convinzioni limitanti di se stessi, da una visione della vita troppo spesso disincantata. Forse mi amano anche per questo. “Vieni alla lavagna Josephine, vieni a svolgere questo esercizio e spiega i passaggi che fai”. Josephine non riesce a dire una parola né a fare un segno sulla lavagna. Il suo impaccio non dipende solo dalla difficoltà del procedimento; si vede anche bruttina e poi è piuttosto su di peso; si vergogna e i compagni la prendono in giro. Mentre torna a posto, la sorprendo persa tra due lacrime. Alla lezione successiva la chiamo di nuovo alla lavagna, ma stavolta appena accenna il solito impacciato silenzio, tiro fuori dal mio inseparabile borsello un paio di pinze che avvicino alle sue labbra: “Oggi ti tiro fuori le parole di bocca”. Ridono tutti e Josephine, dopo aver superato l’incredulità, ride insieme ai compagni. Sono terminate le vacanze di Natale e si torna a scuola. Josephine si avvicina alla cattedra, ha in mano un quaderno che mi porge dicendo: “Ecco, qui ci sono gli esercizi che ho svolto in questi giorni. Me li può correggere per favore?”. Sono visibilmente sorpreso e le sorrido a ogni pagina che sfoglio: ma sono tantissime! Il rapporto con i compagni cambia in fretta: ora Josephine è diventata un’amica e poi li aiuta,

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suggerisce pure, ma io fingo di non vedere e di non sentire. Passano gli anni, tanti anni. Mentre mia moglie ed io stiamo facendo la fila alla cassa di un supermercato, mi sento chiamare. Mi avvicino incuriosito alla bella ragazza e le chiedo: “Scusa, chi sei? Non ti riconosco”. Abbracciandomi mi dice: “Sono Josephine! Io non potrei mai dimenticarla. Ora sono sposata e ho un bimbo. Grazie professore!”. È vistosamente dimagrita, ha un bel trucco incorniciato dall’incantevole sorriso di sempre. Sono convinto che se avessi potuto continuare a insegnare, non avrei coltivato così la mia dipendenza dall’alcol. Il terzo lucchetto: Sentirsi indispensabile Procurargli serenità era dunque diventato per me un imperativo categorico. Avevo appena inaugurato una sorta di protagonismo che mi galvanizzava costringendomi a tutte le incombenze casalinghe: appuntamenti medici da prenotare, utenze da pagare, casa da organizzare, medicine da prendere in farmacia e da somministrare, impegni con gli amici e la famiglia da gestire... Mi ostinavo a puntare esclusivamente sul mio amore per lui, sulle mie forze e risorse, convintissima che fossero le armi più potenti per aiutarlo. La vita mi stava provocando imponendomi giornate gravose, ma io contrattaccavo saettando da un impegno all’altro in un equilibrismo costante, senza procrastinare nulla; compiti e ostacoli erano radici di nuove capacità: ne ero sbalordita e abbagliata. Mi percepivo una novella Arianna che offriva al suo Teseo il potente filo per uscire indenne dal labirinto. Mi compiacevo nel

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sentirmi protagonista del suo salvataggio: la mia autostima aveva il coraggio di crescere. In seguito capirò che stavo semplicemente cucendo vestiti di senso alla mia pena; che in questo modo mi illudevo di non soffrire; che si trattava di scelte che mi gratificavano nel ruolo di moglie; che avevo bisogno di sentirmi utile magari per esorcizzare le mie insicurezze, che ero anche un po’ egoista: in fondo lavorando per il suo bene, costruivo anche il mio. “Ma per caso”, mi dicevo, “Avevo trovato un nuovo scopo al trascorrere dei miei giorni? Della mia vita?”. I suoi successi anche se sempre più sporadici, c’erano ancora e lui li interpretava come un invito a guardare oltre il presente. Mi dicevi: “Vedi?Posso smettere quando voglio; non è impossibile: è solo difficile”. Questa frase cominciava a infastidirmi. Sempre in cerca di soluzioni, esordivo allora con diversi consigli. Scelta gravissima: li interpretava come critiche e attacchi personali, perciò si trincerava nel mutismo diventando inespugnabile. Il quarto lucchetto: Tenere tutto sotto controllo Beveva di nascosto: rintanava bottiglie e bicchieri in posti insospettabili ma che io riuscivo quasi sempre a scoprire, orientata soprattutto dal puzzo dell’alcol che mi era ormai entrato nella pelle. Andare al supermercato con lui era un vero tormento. Cominciavamo a girare per il consueto rifornimento alimentare; poi, mentre ci avvicinavamo alla cassa ecco che non lo trova-

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vo più. Aveva improvvisamente deviato verso la corsia degli alcolici dove con un’aria allo stesso tempo distratta e incuriosita come fosse incappato lì per sbaglio, consultava i prezzi. Se decidevo di raggiungerlo, tutto tranquillo mi forniva con entusiasmo tante spiegazioni in merito alle tipologie della grappa: quella giovane, quella aromatizzata, quella barricata... Poi m’indicava, anche chiedendomi consiglio, le più convenienti che naturalmente erano quelle dal formato più grande o che magari godevano dell’offerta ‘paghi due e compri tre’. Nel carrello della spesa contavo le bottiglie forzatamente concordate, ma poi a casa ne vedevo apparire di più. Con la scusa di uscire a fumare una sigaretta, era andato alla cassa da solo con un paio di bottiglie che aveva subito nascosto in macchina, per poi rientrare nel supermercato prima che arrivassi io con il resto della spesa. Lo controllavo facendo leva sui suoi sensi di colpa, sulle sue debolezze e su diversi sotterfugi. Ero diventata abile in stratagemmi di cui mi vergognavo: gli nascondevo il bicchiere dichiarando che l’avevo messo un po’ fuori mano: così per prenderlo si sarebbe dovuto allontanare dalla scrivania o dal divano e magari ci avrebbe riflettuto un istante. Con prodigiosi marchingegni mirati a non farmi scoprire, mi alzavo di notte e profittando di un suo momento di torpore, sottraevo la bottiglia all’ultimo nascondiglio escogitato, la vuotavo parzialmente nel lavandino e aggiungevo acqua. Qualche volta diceva che quella grappa non era più buona, che era evaporata... era diventato così indifeso e ingenuo che non gli è mai venuto il dubbio che quella bottiglia era semplicemente annacquata. Se si svegliava, lo rimproveravo di avere la faccia appesa e lo

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sguardo vuoto minacciandolo di chiedere la separazione. Lui minimizzava, negava, si giustificava, mi accusava di non capire che invece era solo stanco, finché una penosa lite decorava la serata, anzi la nottata. Una volta smascherato non aveva più freni; tanto ormai era andata: poteva continuare tranquillo confortato anche dall’alibi del litigio. Con un lapidario gesto di sfida, la bottiglia o il bicchiere uscivano allo scoperto insieme a lui che continuava a credere di riuscire a smettere. Mi scrivevi: Ma allora? Allora il problema sono io. Io e le mie bottiglie. Ancora, ancora, ancora te le debbo nascondere. E quando non le nascondo io le nascondi te. […] Ti prego, per prima cosa, guarda accanto al comodino, c’è una bottiglia nuova. Non me la nascondere. BUTTALA! Spero di essere ancora in tempo. Però io e te, insieme abbiamo vinto ormai tante battaglie. Proviamo anche questa. Grazie. Ti amo dall’inizio. E invece la mia speranza si faceva più pigra; mi sembrava di vivere in una foresta selvaggia in cui il sole pur prepotente, non riesce a indicare una via di uscita e dove ogni traccia di sentiero diventa improvvisamente sterpaglia; la mia maschera, diventata vecchia e scadente non mi avvolgeva più e i silenzi mi proteggevano dai lamenti. Avevo anche costruito una suggestiva città interiore in cui avventurarmi alla ricerca di un semplice vivere quotidiano senza bugie e sotterfugi, lontana da questo nemico che ora si sentiva autorizzato perfino a precipitarsi nei miei sogni.

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Il quinto lucchetto: Fare rinunce Non ho mai accettato di morire a me stessa, di spogliare completamente la mia vita che avevo voluto animare di senso; non riuscendo a imporla, cominciai a rubarne qualche pezzo. Mi svegliavo all’alba per impegnarmi negli studi mirati a diventare più capace nella mia professione di insegnante; andavo a nuotare in piscina; frequentavo un coro polifonico; azzardavo qualche solitaria passeggiata la domenica mattina mentre lui ancora dormiva; o una veloce telefonata alle mie amiche; a volte mi riappropriavo della mia voce con un canto, del mio corpo accennando un ballo, della mia fantasia sfiorando un sogno. Lui non condivideva la scelta di queste libertà perché si sentiva escluso e trascurato anche se lo invitavo alla condivisione che naturalmente rifiutava. Con una grafia tremolante, mi scrivevi: D’accordo, d’accordo sono una povera persona. Ma anche una grande persona. Io morirò sapendo di aver vissuto la mia vita per gli altri e di esserci riuscito. Per una volta cerca di rispondermi. Mi serve uno SPUNTO! Forse è più importante la scuola o la piscina. A te serve tutto. La scuola perché... La piscina perché... Il coro perché… Finisco qui e come al solito devo chiudere con il dire Ti voglio ancora tanto bene.

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Ho perseverato caparbiamente nel mio ruolo di ladra, ma nel tempo mi sono sorpresa sempre più indolente, catturata nel perimetro del mio dolore al pensiero di quello che quasi certamente in mia assenza, sarebbe accaduto dentro casa. Non sopportavo più di aprire la porta schiava di un’angoscia infinita anche se accompagnata da speranze liberate per un istante. E poi c’era nostro figlio Matteo che stava disegnando la propria adolescenza. Per lui confezionavo diversi alibi e rivestivo di sorrisi la mia tristezza: dovevo difenderlo perché si salvasse! Quando non avevo successo con la maschera, alimentavo i suoi dubbi; allora spiava i miei comportamenti tentando di frugarmi nell’anima. Eravamo diventati complici nel rubare spazi per noi: appena possibile, mi regalava il privilegio di godere della sua musica, delle prime composizioni, delle preziose confidenze; pronti a rientrare nella solitudine non appena lo sentivamo tornare a casa per non accendere la sua gelosia diventata sempre più opprimente. Avevo rinunciato anche a mio figlio che non solo era costretto a limare la presenza del padre, ma si vedeva privato pure del diritto di avere vicina la madre. Come mi sentivo in colpa per questo! Per fortuna ha scelto di abitare il secondo dei due inferni dei viventi descritti da Calvino: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cer-

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care e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. (Italo Calvino, Le città invisibili) Io al contrario, ero consapevole di aver sviluppato una grande capacità di abituarmi alle avversità e alle rinunce che mi diventavano sempre più familiari e spontanee e che non ero più capace di mettere in fuga. Non ho mai potuto rispondere, molto tempo dopo, alla domanda: Ma come hai fatto? semplicemente perché non lo sapevo.

L’eterno ragazzo Beh! Devo dire senza falsa modestia che sono un tipo proprio simpatico: mi è sempre piaciuto scherzare, ridere e far ridere. Da bambino non ero così; anzi piagnucolavo spesso, convinto che tutti ce l’avessero con me; mi sentivo sempre vittima di soprusi e ingiustizie; ero triste, tanto che mia nonna mi chiamava ‘patirai’. Poi durante l’adolescenza sono cambiato e con le mie battute e i miei scherzi sono diventato un leader nel mio folto gruppo di amici. Ho solo ventidue anni quando conosco il sorriso luminoso di una bellissima ragazza e decido che voglio continuare a vederlo perché in un attimo mi sento già nel suo campo gravitazionale. Ma mica è facile! È una tipa tutta seria, altezzosa, e mi obbliga a scovare diversi trucchetti per attirare la sua attenzione: un’impresa da Dio! Frequenta la mia famiglia e qualche volta viene a casa; io non mi faccio trovare mai costringendola a chiedere di me: devo pur esordire in visibilità! Un aiuto importante arriva da mia sorella Teresa (ne ho tre 36

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a cui vanno aggiunti quattro fratelli) che è sua amica e che ha saputo che l’altezzosa deve comprarsi una macchina. Così comincia a dirle che io avrei potuto aiutarla, farle avere uno sconto, che conosco... Ci incontriamo (naturalmente in tre) per andare presso una concessionaria e lei sale sulla mia 500 bianca sistemandosi sul sedile posteriore. Inizialmente sono molto gentile, ma al ritorno la spavento a morte. So guidare benissimo, ho pure gareggiato a Vallelunga (mica con la mia 500 naturalmente, allora avevo una Giulietta truccata 1900!) e mi metto a improvvisare le peggiori acrobazie con la macchina. Lei urla di paura, mi supplica di andare piano e io, niente; continuo a superare, a correre, a ridere... Arrivati sotto casa sua, scende gridandomi: “Non salirò mai più sulla tua macchina!” Alle sette della mattina del giorno dopo sono al suo portone e mi offro di accompagnarla a scuola in macchina (lei già insegna) promettendo che sarei stato prudente. Per fortuna (o per comodità?) si fida. E così faccio per tante altre mattine, tutte stupende perché cominciamo a conoscerci, anche se lei non schioda da quell’aria altezzosa. Un giorno mi dice: “Guarda che se ti sei fatto qualche idea su di noi, sbagli di grosso perché per me sei soltanto un amico”. Le rispondo: “Ma che dici? Non penso proprio per niente a te da quel punto di vista; sì mi era venuta una mezza idea ma è già passata”. Dopo soltanto un anno il sacerdote ci dichiarerà marito e moglie. Trucchetto riuscito. Siamo sposati da poco tempo mentre camminiamo per una via del centro di Roma. Sono alquanto annoiato da tutte quelle soste davanti alle vetrine e decido di giocare un po’. Improvvisamente attraverso la strada e dal marciapiede comincio a

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urlarle: “Ecco, io ti voglio ancora bene e tu mi hai lasciato per quello con gli occhialetti che è pure brutto. Guarda che io mi ammazzo, torna con me!”. Lei sorride vistosamente perché si vergogna e vuole far capire ai passanti che è tutto uno scherzo. Per sorprenderla e farla divertire (mi piace così tanto quando ride!) escogito di tutto. Recito anche il ruolo di diversi personaggi immaginari. Mi trasformo in Mc Striscen che ha le gambe cortissime e vado strisciando in camera da letto dove lei spera di prendere sonno; le dichiaro il mio amore a dispetto del fatto che è sposata e le chiedo di potermi addormentare accanto a lei, che tanto suo marito sta guardando la televisione. Oppure divento Mc Carten che è vestito con la carta di giornale. L’ho fatto davvero, lo indosso e leggo anche qualche titolo. E poi divento Mc Alten, Mc Bassen... Altre sere le racconto una favola che invento al momento; alcune gliele scrivo. Poi però siccome lei non sa inventarle per me, favoleggio per conto mio e il sonno mi sorprende mentre sto ancora parlando. Recito sempre tante barzellette e rido da solo prima di finirle. Quando ci incontriamo con gli amici, Antonella mi chiede: “Raccontaci quella della pecora o quella dei carabinieri”; così la ripeto e aggiungo ogni volta particolari diversi accompagnati da buffissime smorfie. Quando comincerò a disertare questi appuntamenti saprò benissimo che mia moglie non sarà la sola a rammaricarsene e ne soffrirò. Racconto: Un signore entra in cartoleria: “Vorrei un quaderno a quadretti; per favore presto! Ho la macchina in seconda fila”. “Subito!”, gli risponde il commesso, “Ma come lo deside-

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ra? Grande o piccolo?”. “Piccolo va bene”. “Subito! Ma vede quanti ne ho? Tanti e con diverse copertine; quale copertina preferisce? Con le figure dei cartoni animati, dei calciatori, dei cantanti…?”. Incuriosito ma un po’ stizzito il signore risponde: “Ok vada per la copertina con i calciatori”. “Subito signore! Con i calciatori? Ok! Ma di quale squadra: italiana o straniera?”. “Senta, io ho una dannatissima fretta! Sarà perfetta la squadra italiana”. “Ai suoi ordini signore! Ma vede quante copertine di squadre di calcio italiane ho? Lei preferisce una squadra di serie A, di serie B o forse di serie C?”. Il cliente è ora fuori di sé: “Guardi faccia lei o qui mi fanno una multa”. In quel momento entra nella cartoleria un signore con un water sulle spalle e urla: “Senti, ieri ti ho portato la tinta del mio bagno; mi hai chiesto anche di farti vedere il culo; questo è il mio water, ora mi vorresti dare la carta igienica che ti ho chiesto?”.

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