Col SENno di poi

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A Tu per Tu

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Patrizia Morelli

Col senno di poi

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Prima Edizione: 2016 ISBN 9788899566081 © 2016 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di novembre 2016 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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Il destino mescola le carte e noi giochiamo (A. Schopenhauer)

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alla Mia Famiglia

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PREFAZIONE

Metti una sera dopocena, un po’ di anni fa. Titolo: “Nemesi medica”. In quel contesto, alcuni medici (solo maschi) descrivevano la “malattia”; non studiata sui libri e neppure osservata sui pazienti in ospedale ma quella da loro stessi vissuta in prima persona: la loro malattia, dunque. Quella sera mi sono soffermato, tra l’altro, a chiedermi perchè il rapporto psicologico medico-paziente sia diverso quando il paziente è, a sua volta, un medico. Sembra banale, ma già nei primi anni di professione ti insegnano a fare gli scongiuri scaramantici appena ti capita di curare un Collega. Ci sarà un motivo? Le pagine della dottoressa Patrizia Morelli, che state per apprezzare, Vi rivelano scampoli di verità su questi temi e su molto altro. Un libro empatico il Suo. In9

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nanzitutto perchè scritto da una donna e il femminino appare ovunque a partire, forse non a caso, proprio dalla sede corporea interessata dall’iter clinico ed umano descritto. Ho ammirato lo spirito positivo che percorre le pagine. Quelle sagge parole: “sapersi porre obiettivi a breve scadenza “. Non ce lo insegna nessuno; lo si capisce vivendo. È una strategia utile alla nostra mente, talvolta un vero viatico di salvezza per chi l’ha provato. E poi quel “dolore che ci cambia”. Certo, la percezione del dolore è formulata con il linguaggio della mente ovvero con il lessico della vita psichica individuale del paziente, della sua storia e delle sue emozioni. Infatti le neuroscienze ci spiegano che la componente di apprendimento del dolore, come del piacere, spiega l’individualità dei suoi effetti, a parità di intensità fisica, su persone diverse. Patrizia ci offre spiragli e propone una Sua via di conoscenza, percorsa mediante una delle forme più autentiche del “guardarsi allo specchio”. Si lavora su se stessi, da veri entronauti: scrivendo frammenti di autobiografia. L’humus classico dell’Autrice ci fa rammentare che qualcuno, prima di noi, ha già affrontato filosoficamente i grandi temi del perchè ci sia il male. Piccola consolazione, ma tale è.

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C’è un’idea che emerge in queste pagine: non è tanto importante l’esperienza vissuta ma come ognuno la vive. Nella propria individualità, nella assoluta unicità. Anche quando gli altri che Ti sono vicino non sempre sanno gestire le loro ansie, sapendo comunicare con Te. La Bibbia ci ricorda che: “La sofferenza aumenta la conoscenza”. Nel caso di Patrizia le Sue riflessioni, scritte in queste pagine, sono la testimonianza della veridicità di questi antichi savi. Anche se, per me, Lei era già saggia prima! prof. Maurizio Bossi

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INIZI

E parlo di inizi, al plurale; perché non ce ne è uno solo. Non nasce il giorno “x”, ma ci sono tanti momenti che sono l’inizio di questa come di tutte quelle situazioni importanti quando ci toccano, anzi irrompono, nella nostra vita. La Patrizia che ri-pesa come la Patrizia del 2007, ma che nel frattempo ha attraversato mari, fiumi per costruirsi una vita personale, affettiva, di interessi, eccola qui, per una nuova avventura. E che avventura... La paura è tanta, le gambe tremano, perchè la montagna sembra ed è altissima (le lacrime da sensazione di annientamento alla diagnosi però non escono più, era ora, mi facevano sentire in loro balia); e molti, non tutti, con lo sguardo fanno in modo di ricordarmelo. Grazie tante. Non sapete come non mi aiutate così, quanto mi fanno male i vostri sguardi. So che non è voluto, é 13

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uno sguardo spontaneo che non riuscite a modificare e che arriva così ai miei occhi, senza che abbiate potuto mutarlo, migliorarlo, attenuarlo. So che anche io avrei, chissà, quello sguardo. È che fa male... E sono consapevole (a dire il vero, più a parole, che concretamente, dentro di me) che questa montagna avrà più e nuove vette che compariranno all’orizzonte di tanto in tanto, sempre e per sempre; sì, consapevole più con le parole che realmente perché sfido chiunque a credere e a prepararsi al peggio, non possiamo mai supporre che il peggio possa capitare a noi nè vogliamo crederci e credo che...sia giustissimo così. Col cavolo che bisogna accettare la malattia. Non esiste frase più vuota e, perdonate, priva di qualsiasi senso. Un essere umano ha un mirabile istinto di conservazione, meno istintuale degli animali, perché non è in quella forma che ne avrebbe bisogno; l’istinto di sopravvivenza nell’uomo si esplica proprio creandosi questa coperta di protezione che consiste nel non credere che si possa star male, che si possa morire; perché questa è la sopravvivenza percepita e praticata dall’essere uomo, è così, perché così deve essere connaturata. Ma non so, se per istinto di autosopravvivenza, per superbia nel pensare “io però non sono come gli altri”; o forse, anche, per semplice desiderio di ripetermi questo ritornello, “spero”, mi dico, “ce la farò”.

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E siamo a marzo. Siamo agli esordi: quando improvvisamente non sai più che giorno sia, non sai più se è inverno o estate, non senti e anche se senti, non comprendi nessuna notizia. Il tuo mondo è solo la tua malattia; il tuo mondo diventi solo e soltanto tu e il tuo male. Non mi piace dire “tu contro il tuo male” per questo dico “tu e il tuo male”, perché non ho mai vissuto questa malattia come una battaglia o una guerra contro di essa, sarebbe per me come dire una battaglia, una guerra contro me stessa, visto che il male è una parte di me; brutta certo, odiosa, ma sempre una parte di me. Gli altri fanno in modo di guardarti come se ti stessero accompagnando al tuo funerale. Curioso, perché da te pretendono che tu ripeta perennemente il karma: “ce la farò, ce la farò”. Ma gli altri, loro no. Loro ti guardano come se tu: “ non ce la farai, non ce la farai”. Strana la vita. E se qualche parte del tragitto va meglio o risulta migliore di quanto hai temuto all’inizio, quasi ti rimbrottano:” tu che eri così preoccupata, vedi che poi non è così grave.” Ma non dovreste essere felici con me? Gioire con me? Ma gli altri, ho scoperto più che mai, non sono tutti. Eh già, perché non tutti sono così. Anzi. Le persone che ti vogliono realmente tanto, tantissimo bene come i 15

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genitori, i fratelli e le persone, tantissime, care intorno a me: colleghi, conoscenti, amici, alcuni semplicemente incrociati per un attimo della mia vita, non te lo fanno provare neanche per un momento. E, comunque, poiché penso che bisogna capitalizzare (che brutto termine moderno, per me che avrei voluto vivere ed essere una dama dell’ Ottocento) quanto succede; per noi, ma soprattutto per chi verrà, ho la presunzione che scrivere il diario di bordo di questa avventura sarà una cosa bella. Per me e per chi lo leggerà. Parlavo di inizi ed ecco un altro inizio, la fase di diagnosi. Il trauma e la novità sono iniziate il diciassette marzo, giorno del mio onomastico. Sapevo che il collega ginecologo mi avrebbe detto: “non mi piace, controlliamo, piuttosto urgentemente ecc”. Erano come parole attese più che temute. È da una vita che temo una malattia e una, una sola calamità: il tumore. È una vita che dico che se c’è una parte bella nel mio corpo, è il seno. Ed eccoci qui, tumore al seno. Eccoci qui, all’appuntamento temuto dal 1987, anno di morte di Rosella, appuntamento rinviato ma atteso in qualche modo; quasi preparato negli anni. Io, che ho imparato ad affrontare tante cose, ma che allo stesso tempo “sbalestro” talvolta davanti a un contrattempo, finalmente (sì, finalmente) un contrattempo vero del 16

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quale avere paura. E proprio adesso che la mia vita non era più noiosa, ma aveva un senso, proprio adesso che la mia vita era bella e piena e non vuota... Già, forse questi malanni cronici, possiamo cominciare almeno a provare a definirli con questo termine meno lugubre? Aiuterebbe noi malati, questi malanni cronici si manifestano dopo un periodo di insoddisfazione psicologica, fisica, con la quale abbiamo convissuto per un certo periodo, in cui ci siamo fatti del male, maltrattando noi stessi: abusando del fumo, isolandoci dal resto del mondo, “semplicemente” covando qualcosa dentro di noi. Ad un tratto, la malattia che esplode. E tu ti domandi: “Ma come ? Adesso che sono felice?” Ma evidentemente è una malattia che ha tempi suoi e quindi tu credi che si sia manifestata in ritardo, ma lei è puntuale, oh se è puntuale, era in puntuale gestazione dopo il momento giusto del concepimento, l’ha portata a termine e ora è qui. E quest’ospite è nata non ora che sei felice, ma allora, quando eri infelice. Tornando al diciassette marzo giorno di diagnosi semiufficiale, poiché manca il sigillo degli esami strumentali: gli esami strumentali sono stati la sola rifinitura ufficiale della Medicina del XXI secolo; una radiografia, per esempio, che diventa “la” radiografia della tua vita; esami ai quali mai avevi pensato che ti diventano 17

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penosamente familiari, esami del sangue “a go go” tanto che ti sembrano una passeggiata... Ho trascorso poi venti giorni ad arrovellarmi sul “perché ora”? Io che, superbamente, voglio sempre trovare una risposta, così me la sono trovata: “perché tu hai atteso il tumore, sei tu che te lo sei chiamato e, dopo alcuni mesi, questi ultimi, che pur nel bel periodo che vivevi, ma stavi lentamente ritornando ad essere ancora riavvolta nella coltre della noia, compare ora una novità che ti farà passare da qui fino a... boh, una vita non più monotona”. E da qui, ecco partire a raffica tutti i fioretti, come da copione, del famoso sentiero lastricato di buone intenzioni: mi dedicherò molto di più alla mia associazione per bambini, perché Qualcuno mi vuole ricordare che mi stavo adagiando e non stavo dando la giusta forza alla Peter Pat, la mia associazione fondata nel periodo di fioritura del 2008; altro fioretto, andrò un paio di mesi in Camerun; altro obiettivo (più che fioretto): mi voglio sposare con Walter e, altra amenità, il viaggio mai fatto alle Fijii, al massimo potrei arrivare a patti e andare alle più vicine Reunion... Ma quanti desideri-obiettivi-fioretti, tutti “impaccottati” insieme?! E comunque, a proposito di sogni barattati con i fioretti, sono convinta e suggerisco, in punta di piedi, 18

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porsi obiettivi precisi; non dirsi semplicemente: voglio guarire. E allora è meglio porsi un obiettivo più modesto: l’anno prossimo voglio comprarmi un mobile nuovo, perlomeno è un obiettivo concreto. Le persone in guerra, in prigionia sopravvivono pensando a qualcosa di concreto, non al semplice voler sopravvivere. Tra me e me, in quei primi giorni da incubo, in cui il mondo ti crolla addosso e tu vivi in una coltre dove non vedi-non senti-non respiri, mi dicevo: “sarebbe perfetto che io sapessi di uscirne; che mi dicessero: sono un pò di mesi pesanti di cura ma se ne esce.” Sarebbe già così una splendida e tosta lezione di vita. Almeno per chi vuole ascoltare la lezione, perché di gente riemersa dal tumore più incompleta di prima, che non ha utilizzato questa occasione per crescere, ce n’è a milioni. Già. Sarebbe già così una splendida lezione di vita, per me che ho imparato a saper ascoltare i segnali della vita. Ma la vita non è “perfetta”, io non sono “perfetta” e forse questa è la prima lezione da imparare, che ho imparato e che continuo a imparare. Infatti non c’è nessuno a dirmi che ne uscirò, nessuno me lo può dire; anzi, in questa malattia c’è un po’ la gara a chi ti dipinge il quadro più fosco con il maggior numero di dettagli. E, se tu sei medico, ancor di più. Dovrei fare una ricerca per capire quanti medici malati sopravvivono al tranquillo annuncio da manuale della propria morte incombente da parte di solleciti colleghi medici. 19

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Ma perchè poi noi, nella nostra eccellenza di cultura latina, dobbiamo sempre “livellarci” agli Anglosassoni? Perché? Perché non trattare il paziente applicando la pietas ed humanitas anzichè the right of information of the patient?* Non è vero che è giusto che il malato sappia tutto o, meglio, sì è giusto ma non c’è bisogno di dire tutto nel dettaglio, esacerbato, fin nel minimo dettaglio. Quel dettaglio, minimo, per voi, è esattamente quello che non farà dormire quella notte il paziente, quel minimo dettaglio lo farà piangere per minuti, lunghissimi minuti. Ricordiamocene, di quel minimo dettaglio; e lasciamolo muto. Così, tornando al mio diario di bordo, dal giorno di San Patrizio inizia un incubo in cui mi fanno capire che sono più pronta per l’aldilà che per stare qua e, per un medico sentirselo dire anche in toni molto morbidi è due volte peggio, io che forse non sarei nata per essere medico nel senso classico, camice-strumenti ecc, ma che l’ho fatto e, soprattutto, lo sono fino al midollo... Io che se mi dici che hai un’unghia incarnita capisco subito se si tratta di una semplice unghia incarnita o di qualcosa d’altro, una diagnosta di talento mi verrebbe * il diritto di informazione del paziente 20

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da dire, ma mi si bollerebbe di presunzione. I primi quindici giorni, dal momento della diagnosi, sono di disperazione; e non so quanto mi irriti, mi abbia irritato essere banalmente accomunata a tutti i malati oncologici, quando mi si dice, mi si diceva, a fin di bene, lo so: ”la disperazione è la fase uguale per tutti all’inizio”. Ma “chissenefrega” se è la fase uguale per tutti, ditemi solo che sono sana, è solo questo ciò che voglio sentirmi dire! Non me ne frega niente di essere accomunata, in una sorta di ghetto di malati, ad altri infelici che, come me, vi direbbero “chissenefrega” se è la fase uguale per tutti. Come un campo di sterminio. L’ uguaglianza nelle situazioni drammatiche della vita non conforta, anzi. E così, in questa fase, scopro di essere come mio solito nelle brutte occasioni, “scorpionescamente” stranegativa, catastroficamente negativa; convoco i parenti con la motivazione, sicuramente e profondamente vera, che devono far quadrato coi miei genitori e con Luca, ma forse anche un po’ per piangermi addosso e celebrare un funerale da viva. Macabro, lo so, autodistruggente, lo so ma è, umanamente, così. In questa fase, pensare a Walter mi dava una fitta di dolore quasi fisico: ma come, io e lui siamo nella fase dell’innamoramento e smettiamo tutto per questa 21

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cazzata di malattia (nella mia vita non amo e non uso le parolacce, sono una bruttura per chi le dice prima che per chi le ascolta; ma ogni tanto danno un senso...) e per le paure che ne derivano? Così, quasi cerco di allontanarlo, scopro di volergli un bene incredibile, un bene nudo, crudo e vero, per la prima volta nella mia vita, così vero che mi auguro e desidero unicamente di non lasciarlo solo, ma che piuttosto si riavvicini alla ex compagna; l’idea che ripiombi nella solitudine è il male peggiore che provo in quei primi giorni. E tutti a dirmi “pensa a te”; ma forse è proprio perché penso a me che mi auguro ciò, non è soltanto spirito di amore e dedizione per il mio uomo, dedizione agli altri; ma il pensare ai miei cari non mi fa pensare a me stessa e mi aiuta a vivere. Già. Ho capito anche che quello che gli altri pensano e che anche io pensavo delle persone malate o colpite da un dolore: “guarda quella, che brava, come fa a sorridere, a lavorare”, ho capito che non è una magia o solo una particolare forza della persona malata, uno non assume questo atteggiamento perché sia un eroe, ma al contrario,semplicemente, per... vivere e continuare a vivere, nell’illusione e nella convinzione che comunque un po’ di normalità ci sia ancora. Sì, la normalità è la cosa più importante, la normalità in quello che fai e come gli altri ti vedono. 22

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Non vorrei che ogni frase che ora dico dovesse essere vista e interpretata come chissà quale massima, quale oracolo; io sono e voglio essere considerata la stessa, non sono una santa o un’eroina, sono la “stessaaa”, mi sentite? La capite, questa cosa? Perché quando si vede la morte più vicina, se ne sente il fiato forte e violento, non sono le cose belle e fantastiche quelle che mancano, ma sono le cose normali: il caffè del mattino, fare i mestieri, fare la spesa. Ed è così patetico e ridicolo che ti guardino già come a un essere diverso, lontano; lo so che nessuno vuole ferirmi, ma chi si comporta così non mi aiuta, mi fa sentire una diversa; mi fa sentire una morta... Dopo l’inizio della disperazione, si è affiancata, è subentrata la fase della rabbia, anche questa preconizzata dai vari, teneri e simpatici esperti che mi circondano, che hanno aperto il volume delle premonizioni alla pagina xy e con la loro sicurezza mi hanno ricordato ancora una volta: “è normale provare rabbia, la provano tutti i malati oncologici....” La fase della rabbia si può racchiudere anch’essa in: “perché cazzo, proprio a me ora???!!! “ Ora che ho Walter, ora che ho la Peter Pat che ha bisogno della sua... mamma per avviarsi (post note: durante gli anni di cura, si realizzerà uno splendido Incontro Peter Pat tra una Classe di bambini di Tirana ed una di Milano). 23

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Sono contenta, invece, di non aver mai pensato, neanche per un momento: “perché a quello no e a me si?” Oppure “ perché quello che è cattivo sta bene e io, buona, sto male? Il cammino è di ognuno di noi, fin dal momento del nostro primo vagito, non possiamo passare la palla agli altri, è nostra. È un punto importante, perché quanti malati sento che si arrabbiano con il loro vicino di cammino: “perché non si è ammalato quell’altro?”; sono contenta di non aver mai provato questo umano, ma brutto sentimento dentro di me, mi avrebbe abbruttito. Perché confrontarsi con gli altri e desiderare per loro quello che è capitato a te, ti farebbe macerare nel livore, nella invidia che sono distruttive e sterili. E tu non hai bisogno, in questo momento, di altra carne sul fuoco distruttiva e tantomeno sterile, ma solo di carne feconda e propositiva. Ho sempre sentito dentro di me, ma quanto sarò superba, che ogni cosa l’avrei superata. E adesso, in questi giorni, questo senso quasi di onnipotenza, così forte e involontario, lo sento ancora. Ma, tranquilli, qualche giorno prima mi ero sentita e, magari tra due o tre giorni, mi sentirò ancora invece assolutamente immersa, sprofondata nel magma della morte imminente. E allora in questo pendolo di emozioni, entra in gio24

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co la dimensione più profonda che ognuno ha, anche chi dice di essere ateo la possiede, non la guarda e non la ascolta, ma è presente. Nel primo mese, quasi non vado a messa, troppo arrabbiata con Lui. Ora, meno male, che sta tornando la fede, anzi no, mi sa che è proprio tornata. Era una cosa (cosa, nel senso pieno del termine antico res, il liceo classico è dentro di me...) così importante e forte averla recuperata dopo decenni o, forse, averla ri-conosciuta, per la prima volta nella mia vita, qualche anno fa, dopo anni di torpore; ed è bello ritrovarsela al fianco. Non è la cosa più rilevante per me; in questa fase ci sono cose ben più terrene e ben più importanti, come non stare troppo male, per esempio, che occupano tutta la mia mente, il mio cuore, i miei sensi; così, non rimane troppo spazio.

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AVVIO

C’è una differenza tra inizio, inizi e avvio? Per me sì, ora parte la maratona. Non mi piace usare i termini lotta, battaglia, nemico ecc. Mi danno una connotazione troppo negativa mentre le pronuncio, la cosa è in conflitto con la cura, secondo me. Così preferisco usare termini sportivi: maratona, corsa, salita (molte...), caduta, rialzo. Ora inizia la fase vera e propria di cura. Eccoci, Pat. Non è un film, sono anche io una dei tanti tantissimi... “appestati” del secolo: chissà qual è il segreto, il primum movens per cui viene questa malattia. Boh, nel mio caso a che mi è servito non bere, non fumare? Però forse se avessi mangiato meno... qualcosa nel mio equilibrio metabolico deve essere saltato... È come per quell’impegno che nella vita dedichiamo ai nostri cuccioli, ai nostri bimbi: il bagnetto, la favola, le coccole, dovremmo continuare a dispensarlo un po’ anche a noi 27

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grandi. La vita ha bisogno di coccole sempre, a qualunque età. E qui torno un po’ al concetto che ho espresso agli inizi, ma è importante. Da medico ricercatore, credo che questa malattia, per cui si sono fatti tanti passi in avanti, abbia una dimensione in più, più profonda per spiegarne la comparsa e per determinare il grado di prognosi; una dimensione in più e diversa che va compresa perché possa essere debellata, un giorno, completamente. Senza più rischio, sì di curarsi, ma intanto di attaccare e intaccare le tue cellule sane, che tra qualche anno ti faranno marameo, cosicchè, magari, ti compare, da tutta un’altra parte, un altro focolaio. Sì, occorre ancora una dimensione che spieghi a tutto tondo questa malattia e te la faccia curare nella sua globalità. Per curarti. E per guarire. Non è solo chemioterapia, radioterapia, chirurgia, ormonoterapia, ma anche e altrettanto psicologia, comunicazione. E penso sia una malattia in cui un’esplosione di qualche momento molto negativo della vita o di una situazione che hai tenuto dentro per troppo tempo insieme a un pizzico di genetica c’entrino tutti; meno credo a fattori di rischio, che mi sembrano molto più impattanti sulle malattie cardiovascolari, per esempio. Mi piacerebbe da Ricercatrice (sì con la R maiuscola; occorre essere fieri delle belle cose, di quello che 28

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per noi ha un valore; questo mondo livella tutto e invece le cose pregevoli, belle e buone, devono essere sempre tenute su un piedistallo) che un giorno questo male non umano, perché ti fa vedere in faccia la tua morte, fosse sconfitto e credo che sarà così; ogni cosa nasce e finisce, bella e brutta che sia. Ci saranno altre malattie, ma anche questa finirà. Lo dico pensando che, nel pronostico a inizi anni ‘90, per l’Aids si sarebbe trovata una soluzione prima che per il cancro, ci avevo azzeccato. Non è boria o presunzione, è quel sesto senso che non fa parte solo del preconscio, ma anche della mente e della scienza. Tutte le scoperte e le invenzioni della scienza, piccole e grandi, sono nate anche e spesso grazie a questo pizzico di non ponderabile. I tanti passi fatti in avanti, li sento sulla mia pelle. Grazie!!!! Veramente. Chissà che anche il mio cammino aiuti le donne, in futuro ma non solo, anche gli uomini che si ammaleranno. Come una cordata nel tempo e nello spazio di questa Umanità che si passa il testimone, ma ogni volta con qualche informazione in più... Prima di iniziare la chemio (viene confidenzialmente chiamata così), nell’iter diagnostico si è verificata una fase non prevista, la scoperta della positività a un marker, presente nel mio caso, quello del grado di aggressività del tumore. 29

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La mia amica Loredana è rimasta scioccata, l’ho sentito nella e dalla sua voce arrabbiata, ma mentre mi dicevano che è un fattore prognostico peggiore, io sentivo dentro di me che comunque andava bene, visto che esiste una cura in grado di controbattere questo fattore aggressivo e, peraltro, mi sembra che questa proteina sia comparsa giusto in tempo per farmi partecipare a una sperimentazione clinica, il mio speciale concorso a premi. (Lo dico qui, ma vale per tutto e per tutti: cerchiamo, troviamo dei segnali; chissà se sono semplicemente i segnali che noi vogliamo vedere...) E questa è una delle gioie, sì una gioia che sto provando: lo so, tutti ti guardano come un marziano, forse è meglio neanche che lo dica, ma io sono felice di aiutare me e le donne che verranno in futuro, con una cura sperimentale; e mi sento in questo momento di abbracciare, idealmente, le donne che come me, dalla Corea agli Stati Uniti, fanno parte di questa sperimentazione (Post note: la cura sperimentale è poi diventata parte dei trattamenti clinicamente impiegati). Una volta tanto non scrivo io un protocollo di ricerca, non controllo il consenso informato: se è completo, ma sono io la paziente che prende parte a quel protocollo e che deve firmare quel consenso. E Loredana, ah Loredana la mia “MAMma”, il soprannome che ti 30

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diedi tanto tempo fa e che tu hai sempre indossato e, mai come ora, così bene, il mio traduttore simultaneo di sentimenti e domande, poiché esperta di oncologia afferra quelle raccomandazioni, concetti che io da malata-medico (o medico-malato, boh) a volte non sono capace o non voglio percepire. Loredana mi ha detto che, come qualche anno fa per le donne a cui è stato proposto, era sembrato rivoluzionario sottoporsi prima alla chemio e poi all’intervento, così ora le strade si evolvono e io sto partecipando a questo nuovo bivio terapeutico, terapia “anticorpo monoclonale pre-intervento” oltreché post-intervento. Me lo sarei evitato ‘sto tumore? Sapete che ora che ci sono dentro, credo di no? Lo so che è assurdo e contraddittorio, ma io sono fatta così, guardo sempre avanti e mai indietro e quindi non mi vien mai da dire: ” come stavo bene prima!” Ora devo guardare avanti. Ma intanto, nell’assurdo, nel contraddittorio dell’intimo alito di vita di ciascuno di noi, penso e spero che qualcuno mi telefoni e mi dica: è stato un errore, non hai nessun tumore. E veniamo ora a vedere me e gli altri.

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