"L'amore ai tempi del genoma" - Capitolo 15

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NON PIÙ PRIGIONIERI DELL’AMORE

NEUROSCIENZE E PSICOTERAPIA DI COPPIA

Riccardo e Carla arrivano con largo anticipo alla seduta di psicoterapia T.: (Stringendo la mano) Riccardo, sono felice di rivederla. R.: Anche io sono felice di rivederla. Ho bisogno del suo aiuto … ho capito che lei ha intuito cosa significa per me il rapporto con Carla. T.: Avete entrambi bisogno di capire dove state andando. R.: Io non voglio andare da nessuna parte. T.: Anche questa è una scelta … se le cose stanno così, non avete bisogno di me. R.: Mi sono espresso male … siamo molto infelici, io continuo a fare cose di cui mi vergogno. Non volevo far male a Carla! (piange) Mi sento una merda quando alzo le mani. T.: Le credo, ma questo non cambia le cose, continua a far soffrire Carla. R.: Non so cosa e come, ma ho bisogno di aiuto. Dottore, che devo fare, che terapia dobbiamo fare? T.: Adesso ne parliamo. Al pari di Riccardo, anche il lettore a questo punto vorrà sapere che si può fare in queste situazioni. Certamente ci sentiamo di scartare qualunque soluzione fai da te, ma va affrontata una psicoterapia, ma basta affermare ciò? Forse è troppo poco per incoraggiarci ad intraprendere un percorso di cambiamento. Se poi immaginiamo di voler cambiare Carmen e Don Josè, Don Giovanni e Donna Elvira ci vengono la vertigini. Carla e Riccardo spaventano meno, sono la classica coppia della porta accanto, che sentiamo litigare furiosamente nel pieno della notte e ci tengono svegli con urla e piatti rotti. La psicoterapia non è la panacea di tutti i mali, ma è un viaggio nel quale il terapeuta deve guidare i suoi pazienti con mano ferma e grande lucidità sulla rotta che vuole percorrere. Un’etichetta – psicodinamica, sistemica, cognitivista – non è sufficiente a garantirci questo. Il quadro è poi aggravato dalle “soluzioni” proposte dalla letteratura divulgativa, dalla posta del cuore e via discorrendo. Buona parte di queste sono for107 Riproduzione vietata

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RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA vianti, ed in alcuni casi addirittura dannose. Fondamentalmente insistere sulla capacità di imparare ad amare se stesse, lavorare sull’autostima della vittima, sostenere tutte le iniziative che separano i due partner, fanno intravedere semplicistiche vie d’uscita, molto seduttive ma assolutamente impraticabili. Gli obiettivi sono anche condivisibili, probabilmente validi in una fase avanzata della terapia ovvero quando il peggio è passato, quando una decisione è stata presa. Ma nel cuore della tempesta, quando i due partner appaiono “assurdamente” saldati in una spirale distruttiva, qual è la rotta di un buon terapeuta? Ne parleremo più avanti dettagliatamente però vale la pena definire le prime coordinate per una navigazione propizia in questo oceano turbolento, precisare gli assi cartesiani della mappa che guiderà gli sforzi dei nostri protagonisti. Il primo asse è rappresentato dallo sguardo del terapeuta: questo deve includere la coppia nella sua complessità, deve leggere e decifrare il funzionamento di questo sistema, il suo peculiarissimo legame. Rivolgere lo sguardo sull’individuo, senza includere l’altro fa perdere il senso ultimo di questo legame “folle” e priva il paziente di un livello di consapevolezza assolutamente ineludibile. Qualunque intervento fatto in prima battuta con il singolo partner deve essere considerato esclusivamente come un lavoro preliminare. La coppia è un organismo dotato di vita propria e come tale va compreso. Il secondo asse riguarda invece un aspetto generale: una psicoterapia deve avere un fondamento scientifico, deve articolare i suoi interventi su una chiara teoria della mente. Nel libro che state leggendo la cornice teoria è quella evoluzionistica, quindi insiste sull’idea che il sistema cervello-mente non sia sfuggito ai millenari processi evolutivi, come d’altronde qualsiasi altro organo o sistema complesso degli esseri umani e come tale vada compreso. Questo assunto è alla base delle neuroscienze e delle sue straordinarie scoperte sul funzionamento mentale. Se vogliamo discutere del funzionamento mentale di personaggi del calibro di Don Giovanni e la sua allegra compagnia ci dobbiamo confrontare anche con questo livello di lettura e le più recenti acquisizioni delle neuroscienze (Gerson M.J. 2009)43. Probabilmente i tempi non sono maturi per parlare di una psicoterapia “fondata sulle neuroscienze”, forse non è del tutto neanche auspicabile, non fosse altro per l’impossibilità di cogliere la soggettività dei nostri pazienti. Diversamente sosteniamo che l’evoluzionismo e le neuroscienze chiariscano molti aspetti su come funziona la mente di coppia e quindi le dipendenze affettive. Sara e Giovanni erano una coppia lungamente seguita dal Servizio

43 Don Giovanni è un personaggio che si fa beffe delle regole, ma sicuramente non ha potuto eludere la sua appartenenza al genere umano e quindi che anche lui sia frutto dei 33.000 geni che costituiscono il genoma umano.

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L’AMORE AI TEMPI DEL GENOMA - PARTE III a causa della drammatica forma di dipendenza da eroina di Giovanni. Sara era stata al suo fianco anche in momenti molto difficili, vivendo e patendo forti angosce sia per l’incolumità fisica di Giovanni sia per le precarie condizioni economiche in cui erano precipitati nel corso degli anni. La cura della tossicodipendenza di Giovanni aveva anche significato un procrastinare a tempo indeterminato una tanto desiderata maternità, fino ad arrivare ad un’amara quanto inevitabile rinuncia. L’accompagnamento verso un percorso comunitario era stato visto come una “soluzione”, dolorosa ma necessaria che era stata affrontata con ottimi risulti. Giovanni aveva concluso brillantemente il programma, ed erano passati circa 12 mesi dalla sua uscita dalla comunità quando Giovanni mi richiese telefonicamente un nuovo appuntamento. Il quadro era alquanto cambiato. Giovanni stava bene, aveva un buon lavoro, ma Sara era molto depressa, era molto ingrassata, lamentava ancora una precarietà economica non confortata però dai fatti: lei manteneva il suo vecchio lavoro impiegatizio e si era aggiunto il reddito di Giovanni. Dopo un’accesa discussione Sara proruppe in un pianto dirotto e confessò di svuotare di notte il frigorifero, di abboffarsi e vomitare mentre Giovanni dormiva placidamente. Si sentiva riempita solo dal cibo e non riusciva a farne a meno. Provava piacere e se ne sentiva in colpa. Giovanni mi guardò esterrefatto e sgomento, poi mi fece una domanda “durante gli inverni nella mia infanzia io ed i miei cinque fratelli eravamo sempre malati, come uno di noi si prendeva l’influenza tutti gli altri si ammalavano immancabilmente. Non guarivamo mai perché c’era sempre un contagiato che faceva da untore. Ma anche la dipendenza si può contagiare?” La coppia rappresenta sempre una sfida alla comprensione del terapeuta: descrivere la psicopatologia di un membro o fare la somma delle psicopatologie dei partner è un’operazione arbitraria e sostanzialmente forviante. L’organizzazione della coppia e quindi la psicopatologia va al di là dei confini individuali collocandosi in uno spazio comune, quello spazio di condivisione che si crea tra due partner. Quando vediamo una coppia incontriamo un “noi”, uno spazio mentale condiviso, l’incontro di due menti che trasforma profondamente l’individuo. L’esempio di Sara e Giovanni è molto suggestivo per descrivere come in una coppia si possa coltivare qualcosa di apparentemente confinato nella vita di un singolo – una dipendenza patologica - ma alimentarlo in modo assolutamente reciproco. La “fusione” di due soggettività crea quella sensazione unica di sentirsi profondamente compresi, curati, sanati dalla propria fragilità, ma allo stesso tempo questa si potrà trasformare nell’esatto opposto. La coppia ci costringe a ri-pensare il funzionamento mentale: la mente nella coppia diventa intrinsecamente diadica, relazionale e sociale, funzionante in tal senso fin dal primo 109 Riproduzione vietata

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RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA incontro. Nelle dipendenze affettive questa prospettiva “fisiologica” del funzionamento di coppia viene poi portato all’estremo: diventa una situazione limite che ci ha spinto a descrivere queste coppie come chiuse in una metaforica “bolla” relazionale nella quale si calano entrambi i partner, in modo impetuosamente inconsapevole. Ma dietro questa metafora cosa si cela? Quale funzionamento mentale riesce a sostenere questo potentissimo incastro? Dobbiamo premettere che i contributi teorici che si sono sforzati di inquadrare questi aspetti della coppia sono stati innumerevoli (la teoria dell’attaccamento, intersoggettività, campo bi-personale etc.) ma attualmente i più radicali e autorevoli provengono dalle neuroscienze sociali con la neurobiologia della relazione ed in particolare con il concetto di mente relazionale (Siegel D.J. 1999, Gallese V. 2005). Negli ultimi due decenni le neuroscienze sociali si sono potute addentrare in aree precedentemente di dominio esclusivo della psicologia, grazie soprattutto alle nuove tecnologie come gli strumenti d’indagine basati sulla neuroimanging. Si sono così moltiplicati gli studi sulle basi neurobiologiche della dimensione interpersonale e sociale dell’individuo o, detto in altri termini, tutti i modi in cui gli essere umani influenzano e sono influenzati dalla presenza, reale o immaginata, di altri esseri umani (Merciai S. Cannella B. 2009). A scanso di equivoci riduzionistici, queste ricerche ipotizzano fondamentalmente un circuito in cui la biologia del cervello influenza il comportamento, ma allo stesso tempo è il comportamento che modifica la biologia del cervello.

La mente si colloca in questo circuito, tra neurotrasmettitori ed emozioni, tra neuroni ed esperienza. Fin dai primi istanti di vita la mente dell’individuo prende 110 Riproduzione vietata

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L’AMORE AI TEMPI DEL GENOMA - PARTE III corpo nella relazione con il mondo. Allan Schore è stato tra i primi a dimostrare con le sue ricerche (1994) come le interazioni svolgano un ruolo importante nel rimodellare il cervello, attraverso la neuroplasticità ovvero il modo in cui esperienze ripetute determinano la forma, le dimensioni e il numero di neuroni e delle loro connessioni sinaptiche. Le ristrutturazioni neurali più potenti avvengono nelle nostre relazioni chiave: fin dalla nascita essere cronicamente feriti e irritati, o continuativamente nutriti emotivamente, può rimodellare il cervello. La plasticità del cervello, fortissima nell’infanzia, è presente tutta la vita dell’individuo. La recente scoperta della neuro-genesi ippocampale ha sfatato anche l’idea che il cervello non producesse più neuroni dopo la nascita. Questi studi invece sostengono che quotidianamente l’ippocampo produca un elevato numero di neocellule utilizzabili da altre aree del cervello (Vermetten E. et Al 2003). Per la neurobiolologia della relazione la scoperta dei neuroni specchio da parte dell’equipe di Giacomo Rizzollatti (in cui vanno necessariamente citati Vittorio Gallese, Dario Buccino, Andrea Fogassi e Marco Iacoboni) è stata poi un evento fondamentale dell’ultimo decennio. I neuroni specchio sono una classe di neuroni che si attivano selettivamente sia quando si compie un’azione, sia quando la si osserva mentre è compiuta da altri. I neuroni dell’osservatore “rispecchiano” ciò che avviene nella mente del soggetto osservato, come se fosse l’osservatore stesso a compiere l’azione. Questo sistema di neuroni quindi crea nell’osservatore una simulazione al suo interno, riproduce lo stato dell’interlocutore, cogliendone così le intenzioni. I neuroni mirror hanno quindi aperto la strada alla comprensione dei comportamenti sociali, ci hanno fatto capire come riusciamo a capire le intenzioni altrui, come siamo in grado di metterci nei panni dell’altro. Gli stessi scopritori dei neuroni specchio ne hanno sottolineato una caratteristica importantissima di tali neuroni ovvero la loro attivazione diretta e preriflessiva, che quindi precede l’elaborazione logica dell’intenzione altrui. Il cervello umano si attiva in modo immediato alla percezione delle emozioni altrui, espresse con moti del volto, gesti e suoni, e codifica istantaneamente questa percezione in termini “viscero-motori”; crea una simulazione incarnata di quello che sta vivendo, facendo o provando il nostro interlocutore. È un meccanismo neurale che ci permette la partecipazione empatica all’esperienza dell’altro senza impegnarci in ragionamenti logici (Gallese V. Migone P. Eagle M.N. 2006). Dunque precede la comunicazione linguistica, che caratterizza e soprattutto orienta le relazioni inter-individuali, che sono poi alla base dell’intero comportamento sociale (Rizzollatti G. Sinigaglia C. 2006). In sintesi la persona che “afferra” ciò che prova l’altro, lo fa anche grazie al meccanismo di simulazione sostenuto dai neuroni specchio. Questo rappresenterebbe il primo e più rapido meccanismo di immedesima111 Riproduzione vietata

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RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA zione nell’altro. I neuroni specchio sono un tassello fondamentale, forse quello basilare, dei sistemi neurali deputati alla risonanza interpersonale. Le neuroscienze avvalorano sostanzialmente la tesi che la mente è cablata biologicamente per relazionarsi al mondo attraverso sistemi neurali complessi. Questi possono funzionare in un duplice modo: • Il primo è automatico e velocissimo, quella che LeDoux (2003) chiama la via bassa (low road), che include i neuroni specchio e strutture sottocorticali come il sistema limbico ed ha il compito di decifrare e reagire in modo immediato e veloce al contesto interpersonale attraverso l’attivazione del piano emozionale. • il secondo segue la via alta (high road), che include zone come la corteccia orbito-frontale e quella cingolata che vengono chiamate a valutare le relazioni e le interazioni con il mondo esterno in modo più ponderato, schematico e serve a controllare le reazioni viscerali della via bassa. I neuroscienzati hanno battezzato queste aree con il nome di “cervello sociale” (Cozolino L. 2008). Questa è una comoda etichetta euristica per intendere non zone del cervello anatomicamente circoscritte, ma una serie di sistemi complessi sapientemente orchestrati al fine di svolgere le funzioni del “modulo sociale”. Ogni individuo è quindi programmato per connettersi, empatizzare e sincronizzarsi con gli altri. Possiede la capacità di creare una vera e propria rete neurale senza fili. Come già argomentato nella prima parte, il “cervello sociale” è frutto di un’evoluzione millenaria, dimostrando di essere un fattore estremamente vantaggioso per la specie. Lo sviluppo ed il consolidamento di un nuovo set di circuiti neuronali prevede che questi abbiano logicamente un grande valore adattativo per l’individuo: deve accresce la fitness del possessore ed essere trasmissibile alle generazioni successive. Sappiamo che per i primati inizialmente vivere in gruppo fu solo un adattamento contingente. Tutti i primati hanno imparato a vivere in branco perché questo li ha aiutati a soddisfare le necessità della vita, ha moltiplicato le risorse disponibili per ogni singolo membro del branco, premiando così le interazioni sociali veloci ed efficaci. Gli psicologi evoluzionistici sostengono che il cervello sociale o modulo sociale si sia evoluto per affrontare la sfida di navigare nelle frequentate correnti di gruppo dei primati: tale progresso permette infatti all’individuo di determinare chi è il maschio dominante, su chi poter contare in caso di difesa, chi sia opportuno compiacere, con chi sia più opportuno procreare una discendenza sana e forte in grado di collaborare alla sopravvivenza del branco. È questo impegno costante nel ragionamento sociale che ha determinato un accrescimento esponenziale del cervello sociale (Goleman D. 2007). Alcuni evoluzionisti ritengono che sia stata l’abilità sociale e non la supe112 Riproduzione vietata

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L’AMORE AI TEMPI DEL GENOMA - PARTE III riorità cognitiva o fisica, a garantire all’Homo Sapiens la supremazia sugli altri umanoidi (Blackmore S.J. Firth U. 2004). Questo passaggio evoluzionistico del nostro cervello ha però avuto un prezzo molto elevato ovvero una vulnerabilità di fronte ad emozioni negative di rifiuto ed inganno. “Creare un cervello così intimamente sociale voleva dire aumentare la vulnerabilità alla perdita e alla separazione, alla possibile ferita emozionale e alla conseguente promozione di difese patologiche, alla depressione (visto il suo legame con l’angoscia di separazione). È in vista di tutto questo che l’empatia potrebbe costituire la vaccinazione naturale contro tutti questi rischi, una sorta di regalo di natura per controbilanciare l’intrinseca profonda vulnerabilità di un cervello altamente sociale” (D.F. Watt 2007)44.

44 L’assunzione degli assiomi evoluzionistici ci impone di riconsiderare anche la psicopatologia: se infatti per molte patologie conosciamo le cause prossime - relazionali, neurotrasmettitoriali e genetiche - dobbiamo prendere atto che per molti versi siamo ancora “uomini primitivi”. Il sistema mente-cervello, come già detto frutto di un’evoluzione millenaria, è fermo all’invenzione dell’agricoltura (10.000 anni fa) capace di sintonizzarsi, percepire le emozioni e le intenzioni altrui in modo rapidissimo, ma inadatto ad affrontare il rifiuto e l’inganno. Il rifiuto infatti implica l’essere allontanato, isolato e questo innesca uno smisurato allarme: è un rischio per la sopravvivenza e quindi va evitato in tutti i modi. Questa dato potrebbe avere una ricaduta anche nelle dipendenze affettive: abbiamo già illustrato nel capitolo precedente come la percezione della possibile rottura tra partner scateni reazioni violente ed impulsive. La tesi della “provenienza ancestrale” è spesso scomoda e imbarazzante – come d’altronde l’intero evoluzionismo – ma cedere alla tentazione di rimuovere questa tesi ci può indurre a sottovalutare potentissime energie psichiche.

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