Silvia Cane - Epistole notturne di un'infermiera errante

SILVIA CANE

EPISTOLE NOTTURNE DI UN’INFERMIERA ERRANTE EDIZIONI MANDARINO

NON SOLO HO VISTO DIO

MA JÒ PURE MENATO

Piango se mi dici le cose belle, piango se mi dici le cose brutte e mo piango perché mi dici le cose.

Silvia Cane

È NOTTE

Mentre i pazienti dormono penso all’improbabile, a tutto quello che può succedere

e

pacatamente

non

succederà.

I materassi ad aria per prevenire le piaghe da decubito rumorosamente assordano il silenzio, i respiri pesanti di chi con la tracheostomia prende fiato, io con la piccola lanterna entro nelle stanze, controllo la frequenza respiratoria o che almeno ci sia.

C’é chi si è preso le sleeping tablets, delle

volte

è

davvero

difficile

prendere sonno quando i parenti ansiosi vagano nella notte, tra i corridoi poco illuminati folle di spiriti angosciati.

Il punto è che siamo tutti spaventati, delle

volte

così

terrorizzati

che

creiamo il distacco - io come loro, loro come tutti noi, tutte noi, le infermiere del turno di notte.

Questa notte è diverso, qualcosa è scattato, ma non è il burnout: è solo l’ultima notte prima del riposo.

Stanotte ho fatto una carezza sulla spalla di ogni singolo paziente, gli ho rimboccato le coperte, sistemato le lenzuola,

cambiato

il

pannolone,

quando necessario ho dato loro la buonanotte, guardandoli negli occhi scoraggiati, mostrando loro solo il lato umano, quello che, nonostante le crisi di panico, sto cercando di non perdere.

Ho detto loro che sarò qui a badare a loro, a sorvegliare il loro sonno, potranno

chiudere

quegli

occhi

almeno fino alle cinque, quando dovrò svegliarli per medicazioni e rotazioni.

ho paura Non resta mai solo lavoro: negli occhi di ognuno di loro c’è mia nonna, mio padre, i miei fratelli, gli amici lontani.

Delle volte mi chiedo se sarà mai possibile vivere tutto questo serenamente, eppure l’unica risposta è che tutto questo non fa per me, non potrò mai cambiare il modo di vedere questa realtà, nè potrò essere un’altra.

Fingere.

Ci sono notti in cui cerco di non guardarli negli occhi, nei loro occhi ci sono anche io e le mie montagne di paranoie. Sono le tre, mancano quattro ore e mezza alla fine del turno di notte, ho voglia di accovacciarmi tra le coperte, vorrei essere fiera della persona che sto cercando di diventare. Invece, se mi guardo allo specchio vedo solo una foglia che si sta seccando, una foglia giallastra che sta per cadere dal ramo su cui è debolmente attaccata. Io sono quella foglia, devo accettare che sto per finire a terra, manca poco e non so precisamente quando, ma sta per succedere, domani o dopodomani non fa differenza.

Vado.

Mancano quattro ore e mezza e c’è molto lavoro da fare, tra cui scacciare il peso di piombo dell’ansia.

STO CERCANDO DI ANDARMENE

Vorrei chiudere tutta questa inquietudine in un angolo buio del mio armadio, ma sono atterrita dalla possibilità, non inverosimile, che mi continui a seguire, che passi attraverso l’armadio per poi colpirmi ancora più violentemente di sorpresa.

Sono scappata per togliermi l’irrequietezza generalizzata dai piedi, eppure mi ha seguito, mi ha osservato attentamente, senza darmi l’opportunità di vivere davvero.

Domani devo lavorare, domani un altro turno di notte, un altro turno frenetico nelle prime ore, nelle quali dovrò preparare tutte le medicazioni per dodici pazienti, sola.

Dopo aver preparato ogni paziente al riposo e tenuto sotto controllo per un po' chi è più vitalmente instabile, inizierò le mie note, montagne di carte che mi distrarranno dal vero lavoro infermieristico, sarò troppo occupata a riempire fogli e tabelle per poter osservare i miei pazienti.

Poi il silenzio, a meno che a qualcuno non verrà la perfetta idea di urlare, cantare, vagare per i corridoi semi oscuri.

Ma l'ansia non se ne andrà un secondo, neanche quando, finito il turno, proverò a chiudere gli occhi nel mio letto, nella mia piccola stanza quadrata e claustrofobica.

I muri mi piomberanno addosso e il respiro sarà affannato e probabilmente avrò una crisi di panico, la crisi di panico della stanchezza, solo così potrei chiamarla, la conseguenza a ore di tachicardia e tensione, pensieri ossessivi e paure che si arrampicano, con artigli taglienti, alla mia mente.

Il dolore al petto.

Quante volte questo dolore al petto mi è sembrato un infarto, tipo quella volta che trovai il paziente morto nella sua stanza, era la mia prima settimana di lavoro, era il mio primo turno di notte ed ero arrivata da giusto mezz’ora.

Entrata nella stanza, vi era lui, giallo come chi è morto da poco tempo, il vomito sui vestiti, la pelle gelida, eccetto per la parte posteriore del suo corpo, lì il sangue si era accumulato, la schiena roseo-rossastra.

La prima volta che ho preparato la salma, così come la prima volta che la famiglia di un paziente cercasse da me una risposta: non vi erano risposte, o almeno io non ne avevo, allora il panico mi ha stretto a sé, non mi ha lasciata sola a piangere, il panico ha pianto con me.

SE NE È ANDATO

anche lui ma almeno la salma non sono stata io a prepararla, ho pianto anche stavolta, quando tornata in turno dopo una settimana lui non c’era. Cinquantaquattro anni e un modo gentile: sarebbe onesto amare tutti i pazienti che incrocio nei corridoi imparzialmente, ma ci sono sguardi che si spengono con un bagliore insolito, i suoi occhi erano travolgenti, i sorrisi scoraggiati e dolci di sua moglie, sua figlia, neanche sua figlia ometterò mai dai miei ricordi. La diagnosi così comune che forse non ne è neanche necessario parlarne: tumore ai polmoni, stadio IV, metastasi praticamente ovunque.

I primi sei mesi di lavoro, al dire di tutti, sono i più emotivamente ingestibili, eppure dentro di me nulla sta cambiando, quella durezza che tutti promettono non riesce ad affacciarsi.

Ho preso una settimana di malattia, la schiena fa male sempre, ma diviene scusa quando mi sveglio con il pianto. È entrato anche lui nella lista di coloro a cui rivolgo un pensiero ogni giorno, pensando a quella volta tre mesi fa che, appena ammesso in ospedale, mi prendeva in giro dolcemente sul mio accento, e scommetteva con la moglie sulla mia provenienza. La mia pronuncia era per loro gradevolmente divertente e io ero ben contenta di intrattenermi con loro nei momenti più quieti.

È ANDATA VIA

Altre volte penso a B. alle molteplici volte che si scusava quando mi chiedeva qualcosa che non poteva raggiungere dal letto, la sua fibrosi polmonare non le permetteva di alzarsi autonomamente, altrimenti la saturazione dell’ossigeno sarebbe scesa sotto il 60%, rischiava ogni volta un arresto respiratorio e l’arresto l’ha portata via.

Il fine settimana il lavoro era più leggero e io prendevo il mio sgabello per sedermi affianco a lei e farmi raccontare della storia d’Irlanda, degli scontri a Belfast e a Londonderry, della situazione politico-sociale irlandese, la sua cultura era avvolgente e sapeva sempre ascoltare le mie paturnie da giovane infermiera alle prime armi.

Entravo spesso nella sua stanza e ogni volta mi chiedeva come andavano i miei pensieri incasinati.

Lei, che a sessantanni si era riscritta all’università, per mantenere attiva la testa, per non fermarsi anche quando il corpo proprio non ce la fa più.

Io, mi sentivo più debole dei suoi occhi di lacrime quando mi raccontava che non sarebbe mai più tornata nella sua casa perché non era più autonoma neanche nel respirare, l’unica opzione era la casa di cura, ma la morte l’ha salvata da quella routine che proprio non poteva accettare, lei che non si era mai fermata, solo quell’arresto respiratorio ha terminato degnamente il suo coraggio.

Ho preso del Diazepam per rimettermi in forma, 5mg per tre volte al giorno, la mia testa rimbomba, cerco cibo come se non mangiassi da chi sa quando, il medico ha ben sottolineato che mi avrebbe resa stanca e con la mente ovattata ma la dose è eccessiva per i miei 45kg , sono stanca, fatta e ancora più ossessiva. Ho bisogno di dormire e smettere di pensare al caos che succede quando sono a lavoro, eppure i volti persi e confusi dei miei pazienti non se ne vanno, non riesco a liberarmene neanche per pochi secondi, penso a quelli che sono morti, i loro nomi e cognomi echeggiano nella mia testa. Penso ai loro corpi gelidi, gialli, gli occhi vitrei.

“l’autolisi ha di solito inizio nel fegato e nel cervello, per poi espandersi a tutti gli altri organi interni. Questo processo causa anche la rottura dei capillari, dando al cadavere un colorito viola pallido. Il corpo termina quindi le sue risorse di ossigeno e, dopo circa due ore, i muscoli iniziano a irrigidirsi. A questo punto, gli enzimi hanno già distrutto l’apparato gastrointestinale, rilasciando dei batteri che si nutrono di ciò che rimane di tessuti e organi. Questi batteri producono dei gas che gonfiano l’addome e la pressione spinge fuori i liquidi dal corpo attraverso naso, orecchie e bocca. I liquidi arricchiscono l’ambiente circostante di elementi come nitrogeno, fosforo, potassio e calcio.”

Penso alle volte che ho cambiato il pannolone ai cadaveri, l’odore del loro corpo mi fa venire brividi e nausea.