ante prima
di Mundele
il Congo Congo Dovesta Dovesta
La verità è che la maggior parte di noi non lo sa, dove sta il Congo.
Sta lì, nella non meglio definita Africa, quel posto di cui conosciamo i confini esterni perché ce li tatuiamo quando abbiamo il “mal d’Africa” dopo la vacanza a Zanzibar, ma che dentro è solo un enorme calderone di gente scura e povera. Come ci si può interessare di qualcosa che non si conosce?
E’ impossibile, ed è per questo che releghiamo quello che sta succedendo in queste ultime settimane nell’Est della Repubblica Democratica del Congo nel dimenticatoio delle notizie del telegiornale delle otto, quelle che “abbassa il volume che ci sono i bambini”.
Tanto, “si sa, IN QUEI POSTI è sempre così, povera gente, sono tutte GUERRE TRIBALI”.
Tribali, quindi barbare, prive di ideali nobili che le


eperchénonce eperchénonce eperchénonce
nefrega nefrega nefregauncazzo uncazzo
giustificano. Guerre di gente vestita con gonnellini di paglia che si combatte nella giungla con fionde e cerbottane.
Vedere gli africani (più di un miliardo e mezzo di persone divise in 54 stati diversi) come un’unica massa informe di bambini con le mosche intorno e adulti senza scarpe CI SERVE, perché ci rende persone migliori quando diamo i nostri 5 euro a Save The Children o quando andiamo a fare la VACANZA VOLONTA-
RIATO nell’orfanotrofio magari costruito proprio dopo quest’ultima guerra di cui non sappiamo nulla e che “offre anche safari della fauna locale”, umana ed animale.
Alla fine della fiera, la verità è che questa guerra non ci interessa perché non ci permette di definirci politicamente.
Non c’è destra o sinistra qui, non possiamo rappresentarla come “una lotta tra la luce dei valori
della democrazia (Ucraina) e l’oscurantismo
della dittatura (Russia)”, non possiamo dividerci in Pro Pal vs. “e allora
Hamas?”, non ci sono stickers di cocomeri da mettere sotto i nostri profili social, ci hanno raccontato così poco del genocidio più lungo e silenzioso della Storia che, semplicemente, non riusciamo a distinguere gli oppressori dagli
oppressi perché per noi si assomigliano tutti.
Quel che rimane, è un Paese invaso e un Paese invasore.
Un Paese invaso che detiene, per citarne uno tra i tanti, il 70% del coltan mondiale, minerale fondamentale per costruire gli schermi
dei telefoni che usiamo per farci i selfie con gli outfit ispirati alla
Palestina, le cui immense risorse minerarie
vengono sfruttate da gruppi ribelli legati agli
Stati confinanti e a servizio delle nostre multinazionali.

Un paese con più di 7 milioni di sfollati interni, guarda caso principalmente nelle
Provincie dove si trovano i giacimenti minerari, proprio in quell’ ALL EYES ON GOMA che stenta a decollare sui social.


E un Paese invasore, che negli ultimi 30 anni ha saputo capitalizzare tantissimo dal “gne gne gne genocidio” in termini di appoggio politico ed economico occidentale, e che ora passa da vittima a carnefice (VI RICORDA QUALCOSA?) facendo agli altri quello che, in questo caso, si erano fatti tra di loro in passato.
Se ribadire con veemenza “da che parte stiamo” quando si tratta di Ucraina e Palestina ci aiuta a definirci come persone, a trovare una nostra collocazione politica, a sentirci parte di un gruppo di persone a noi affini con cui riunirci a parlare di tragedie lontane ma funzionali, forse è il caso di ripensare il nostro anticolonialismo.