MEDIALOGANDO
CONQUISTARE, INTERESSARE, APPASSIONARE
SIMONE MARCHETTI RACCONTA IL SUO VANITY FAIR di Marco Mancini
S
marmanug
pumeggiante, sorridente, estroverso. Ci sediamo su un divano nero, nel suo ufficio in piazzale Cadorna, nella sede milanese di Condé Nast. Lui con i suoi pantaloni di seta rossa a decori floreali, pieno di colorata energia e luminose visioni. Alle spalle, un’intera parete di cover in miniatura di Vanity Fair. Simone Marchetti ne è direttore da pochissimi mesi. E ha già rivoluzionato una testata che ormai è ben altro da un semplice magazine. È un ecosistema che si autoalimenta e genera attenzione e stupore nei suoi fruitori, coinvolgendoli come follower, lettori, spettatori e anche attori, nello spazio digitale dei social e in quello reale di tanti eventi live. Dopo 12 anni al gruppo Gedi (editore di Repubblica ed Espres4
so), dove hai scritto di moda, cultura e costume, sei approdato, come direttore, a una delle testate di punta nel mondo del fashion. Chi e cosa ti hanno convinto ad accettare questa sfida? L’editore, nella persona dell’amministratore delegato di Condé Nast Italia, Fedele Usai, e la sua chiarissima visione del presente e, probabilmente, del futuro dell'editoria, che condivido e mi ha subito entusiasmato. E qual è? Intanto non si parla mai di sito, di carta o di eventi. Si parla di un network organico. Un sistema ecosostenibile, con radici profonde, con un modello di business stabile che genera altri mondi. Se ci si focalizza soltanto su uno di questi mondi, si perde. Ecco che hai bruciato la mia solita domanda, sopravvivrà la carta? Non si può più pensare soltanto alla carta. Ma il discorso vale anche per chi ha inseguito la chimera della rivoluzione media-