GR Magazine 2-2025

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Magazine del quotidiano online www.greenretail.news novembre 2025

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EDITORIALE

Il tempo delle opportunità

Dieta Mediterranea: dal patrimonio UNESCO alla strategia retail

La presa di coscienza

Dalla dieta mediterranea all’intelligenza artificiale

La filiera si mobilita

Il momento delle decisioni

Oleificio Zucchi: brand rinnovato e gamma completa per il retail

Oltre lo scontrino: il valore dell’inclusione nei negozi italiani

FINANZA E RENDICONTAZIONE

R-Hybrid SKY: FLO presenta il bicchiere vending in PS riciclato post-consumo Jingold presenta il Bilancio di Sostenibilità

LA SVOLTA MEDITERRANEA

Il Forum del 14 ottobre ha trasformato un’opportunità in un impegno condiviso

Questo numero di Green Retail Magazine documenta un passaggio significativo per il retail italiano. Il 14 ottobre 2025, presso la Fondazione Università degli Studi di Milano, si è tenuta la XV edizione dello Human&Green Retail Forum. Non è stato il solito convegno sulla sostenibilità. È stato il momento in cui il settore ha trasformato un’opportunità in un impegno operativo concreto.

Il dialogo che avevamo prospettato si è realizzato in modo più costruttivo di quanto potessimo immaginare. La Dieta Mediterranea è emersa non come soluzione imposta, ma come bussola condivisa di sostenibilità – un framework scientificamente solido eppure abbastanza flessibile da accogliere le diverse interpretazioni che ogni insegna vorrà dargli in base ai propri punti di forza e alle proprie strategie di mercato.

Un’assunzione corale di responsabilità

Ciò che ha caratterizzato il Forum è stata l’assunzione corale di responsabilità da parte di tutti gli stakeholder presenti. Dai vertici della grande distribuzione ai manager della sostenibilità delle insegne più dinamiche, dalle aziende dell’industria alimentare alle rappresentanze agricole, il messaggio è stato unanime: vogliamo lavorare per costruire insieme un sistema che aiuti le persone a fare una spesa a minore impronta ambientale e maggior equilibrio nutrizionale.

“Nessuno che faccia seriamente il mestiere del distributore può ignorare la costante ricerca di salubrità da parte dei consumatori”, aveva affermato Mauro Lusetti, presidente Conad, nel suo intervento. Una consapevolezza che si è tradotta in disponibilità concreta ad agire.

“La Dieta Mediterranea non è solo un modello alimentare, ma un codice culturale e antropologico”, ha sottolineato Sara Roversi del Future Food Institute. “Un sistema di relazioni che abbraccia biodiversità, stagionalità, convivialità. Il progetto nasce dalla volontà di trasformare questo patrimonio non in un claim nostalgico, ma in un criterio concreto di progettazione della distribuzione alimentare contemporanea.”

Un sistema flessibile, non un dogma

Il framework Human&Green Retail Experience che è stato presentato e discusso durante il Forum ha dimostrato la sua versatilità. Gli stessi principi mediterranei possono essere declinati in contesti molto diversi: dal premium e-commerce di Cortilia alla prossimità mainstream di EasyCoop, passando per i format più vari della distribuzione italiana.

Non si tratta di imporre un modello unico, ma di fornire uno strumento che ogni insegna può utilizzare per valorizzare i propri punti di forza. Chi punta sulla qualità artigianale troverà nel sistema un modo per far emergere questo valore. Chi lavora sulla convenienza potrà dimostrare che una spesa mediterranea è anche economicamente vantaggiosa. Chi investe sulla territorialità avrà un criterio scientificamente validato per comunicarlo.

Il bilanciamento delle categorie: dalla teoria alla pratica

Il cuore della discussione ha riguardato quello che, fino a pochi mesi fa, era considerato quasi un tabù: il bilanciamento delle categorie di prodotto nel carrello. Aiutare attivamente i consumatori a comporre un carrello che rispecchi sempre più gli equilibri della Dieta Mediterranea non è più solo un’opzione teorica, ma un obiettivo operativo condiviso.

Stanislao Fabbrino, presidente di Fruttagel, aveva posto la questione in termini chiari: “Non puoi dire che ti interessa la salute del consumatore e poi spingere prodotti con molto zucchero. O ci credi o non ci credi.”

Il Forum ha dimostrato che questa convinzione è diffusa. E comporta inevitabilmente una presa di posizione sulle categorie da valorizzare, sui prodotti da promuovere, sugli assortimenti da ripensare.

Progressione graduale e dialogo continuo

Nessuno si è fatto illusioni sulla velocità del cambiamento. La trasformazione verso carrelli più mediterranei avverrà con una progressione graduale i cui tempi saranno dettati da un dialogo in tempo reale tra GDO e consumatori.

Da un lato, la capacità della distribuzione di intercettare le preferenze dei cittadini, comprenderne le esigenze, rispettarne i ritmi. Dall’altro, la responsabilità di indirizzare le scelte attraverso gli strumenti scientifici e tecnologici che iniziative come Retail Experience stanno mettendo in campo.

Non un cambiamento imposto dall’alto, ma un’evoluzione co-costruita, dove l’algoritmo mediterraneo diventa il linguaggio comune che permette a domanda e offerta di dialogare in modo più consapevole.

Le fondamenta ci sono, ora serve costruire insieme

Il sistema di scoring presentato al Forum – che integra aderenza mediterranea, livello di trasformazione, impatto ambientale e territorialità – ha dimostrato di funzionare nei primi test sulle categorie. Ma rimane un modello tutto da costruire e da perfezionare con la collaborazione degli stakeholder. Quello che abbiamo dimostrato è che la tecnologia c’è. I dati scientifici sono solidi. E il tutto collima con il framework normativo che si va consolidando con la CSRD e le nuove direttive europee.

Quello che si è costruito il 14 ottobre va oltre il singolo evento. È l’inizio di un percorso di progettazione condivisa per definire governance, standard, timeline e modalità operative. Gli operatori che hanno partecipato al Forum hanno manifestato la volontà di proseguire, di entrare nella fase operativa, di trasformare i principi in azioni concrete.

L’opportunità rimane aperta

Il problema non è mai stato che mancassero prodotti di qualità in Italia. Il problema era – ed è ancora in gran parte – che nell’84,5% di green claim generici che riempiono gli scaffali, chi lavora con rigore sulla qualità fatica a distinguersi.

Il sistema mediterraneo che sta prendendo forma può diventare lo strumento per far emergere chi merita davvero. Per dare dignità scientifica e operativa a un patrimonio che rischiamo di perdere. Per trasformare la presenza massiccia di claim ambientali in impatto reale e misurabile.

Un piccolo produttore di pasta artigianale con grano antico, come un’ azienda che investe in innovazione, come consumatore che cerca autenticità – tutti possono trovare nel framework mediterraneo un linguaggio comune per riconoscersi.

Il Forum del 14 ottobre ha dimostrato che la svolta mediterranea è tecnicamente possibile e strategicamente desiderabile. Ha trasformato un’intuizione in un progetto operativo. Ha creato una comunità di intenti tra soggetti che raramente dialogano con questa profondità.

Ora inizia la fase più difficile: tradurre gli impegni in azioni quotidiane, mantenere la coerenza nel tempo, costruire davvero quel sistema che aiuti le persone a fare scelte migliori.

Ma per la prima volta da molto tempo, il retail italiano non sta solo parlando di sostenibilità. Sta costruendo gli strumenti per praticarla.

E questo fa tutta la differenza.

Dieta Mediterranea: dal patrimonio UNESCO alla

strategia retail

Come i principi della Dieta Mediterranea possono guidare la distribuzione italiana verso una sostenibilità misurabile

PROLOGO: L’ELEFANTE

VERDE NEL CARRELLO

Il paradosso di un sistema che non funziona più

84,2% di illusioni verdi C’è un elefante nella stanza del retail italiano che merita attenzione. Pesa esattamente l’84,2% della spesa nazionale: è la quota di prodotti con green claim sul packaging che finisce ogni giorno nei carrelli degli italiani. Un elefante verde, imponente, onnipresente. Eppure, quando si misurano gli impatti reali sulla riduzione delle emissioni, emerge un paradosso preoccupante: nonostante la massiccia presenza di claim ambientali, l’impronta ecologica dei consumi resta sostanzialmente invariata.

Come evidenziato dall’Osservatorio Immagino di GS1 Italy nel suo monitoraggio annuale del fenomeno, i claim ambientali sono ormai diventati “una com-

modity”, una presenza uniforme che attraversa tutte le categorie merceologiche. Solo l’1,6% dei prodotti fa riferimento a misure scientifiche del ciclo di vita.

Nel numero precedente di Green Retail Magazine abbiamo analizzato in profondità questo fenomeno, incrociando i dati dell’Osservatorio Immagino con il quadro normativo europeo emergente. L’analisi ha rivelato come il dispositivo green, pur onnipresente, stia mostrando i suoi limiti nel generare l’impatto ambientale per cui era stato concepito.

Paolo Iabichino, che ha guidato progetti di comunicazione responsabile per realtà come Altromercato, osserva: “Il greenwashing tra qualche anni sarà lettera morta. Il mercato sta evolvendo verso forme di comunicazione più sostanziali.” Un’evoluzione necessaria che sta aprendo nuove opportunità.

La doppia sfida: clima e salute

Mentre il marketing ambientale cerca nuove strade, i dati delineano chiaramente le priorità. Il 50% delle emissioni di gas serra legate ai consumi dei cittadini europei deriva dalle scelte alimentari: 2,4 miliardi di tonnellate di CO₂ equivalente all’anno nascono da ciò che mettiamo nel piatto.

Parallelamente, emerge con sempre maggiore evidenza l’impatto della dieta sulla salute pubblica. In Italia, i fattori dietetici rappresentano il terzo fattore di rischio principale per mortalità, contribuendo a 97.821 decessi prevenibili all’anno. I fattori dietetici pesano per il 13,5% di tutti gli anni di vita aggiustati per disabilità nel nostro Paese, coinvolgendo circa 8 milioni di italiani annualmente.

E dove si decidono principalmente le scelte alimentari? Nel 70% dei casi, nei supermercati. Ogni corsia, ogni scaffale, ogni promozione diventa un punto di incontro tra salute pubblica e sostenibilità ambientale.

Un nuovo quadro di riferimento

Nel 2022, la Costituzione italiana è stata aggiornata con modifiche significative. L’articolo 9 ora sancisce che la Repubblica “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. L’articolo 41 stabilisce che l’iniziativa economica “non può svolgersi in modo da recare danno alla salute, all’ambiente”.

La riforma costituzionale del 2022 ha posto salute e ambiente come limiti all’attività economica, trasformando la sostenibilità da opportunità a imperativo. Come sottolinea Enrico Giovannini, coordinatore scientifico del progetto Human&Green Retail Experience e direttore scientifico ASviS, il retail si trova al centro di questa responsabilità, essendo il luogo dove passa la maggior parte delle scelte alimentari.

La distribuzione si trova quindi in una posizione strategica: ogni prodotto sullo scaffale ha conseguenze misurabili sia sulle emissioni di CO₂ che sulla salute pubblica. Una responsabilità che sta diventando sempre più centrale nelle strategie aziendali.

Verso un green più sostanziale

L’Osservatorio Immagino, nel suo rapporto, pone una domanda provocatoria: “Di cosa andrebbe riempito il nostro elefante verde? Non c’è bisogno di più green ma di un green migliore, diverso, più scientifico e trasparente.”

La nostra analisi pubblicata nel numero precedente ha individuato una strada complementare: “Spostare l’asse delle categorie che finiscono nel carrello della spesa per fare in modo che tutto il carrello sia un po’ più leggero ambientalmente e migliore nutrizionalmente.” Non solo migliorare i singoli prodotti, ma orientare verso categorie intrinsecamente più sane e sostenibili.

È qui che la Dieta Mediterranea emerge come possibile framework di riferimento. Non come nostalgia gastronomica, ma come sistema scientifico validato dall’UNESCO, un paradigma che integra salute umana e planetaria. Le ricerche indicano che potrebbe contribuire a prevenire tra le 15.000 e le 30.000 morti all’anno in Italia, generare risparmi economici significativi e ridurre l’impronta ambientale dei consumi.

Segnali di evoluzione

Sta emergendo una nuova consapevolezza nei quartier generali del retail italiano. “Nessuno che faccia seriamente il mestiere del distributore può ignorare la

costante ricerca di salubrità da parte dei consumatori”, osserva Mauro Lusetti, presidente di Conad. Un’attenzione che riflette sia sensibilità sociale che nuove logiche di mercato.

Mario Gasbarrino, AD di Decò Italia, evidenzia il contesto normativo: “Con la CSRD dal 2026 dovremo misurare l’impatto di tutto quello che vendiamo. L’orientamento verso modelli alimentari più equilibrati sta diventando una necessità operativa, non solo un’opzione.”

Alessia Bonifazi di Lidl descrive un cambiamento di approccio: “Stiamo evolvendo dal semplice educare il consumatore all’intervenire direttamente sull’offerta.”

Un passaggio da comunicazione a progettazione dell’assortimento.

Un’opportunità

da cogliere

L’elefante verde nel carrello degli italiani rappresenta sia una sfida che un’opportunità. I dati mostrano chiaramente i limiti dell’approccio attuale, ma anche le potenzialità di un nuovo paradigma.

Gli strumenti ci sono: algoritmi che possono tradurre i principi UNESCO in decisioni commerciali quotidiane. Il framework normativo si sta consolidando: CSRD, nuovi articoli costituzionali, direttive europee sulla comunicazione ambientale. I dati scientifici sono chiari e accessibili.

Come suggerisce Iabichino, la distribuzione ha strumenti potenti che potrebbero essere utilizzati per fornire ai consumatori informazioni realmente utili per orientare le loro scelte.

Il Forum Human&Green Retail del 14 ottobre rappresenta un momento di confronto su questi temi. Non per celebrare o condannare, ma per esplorare insieme come il retail italiano possa evolvere il proprio ruolo. Come trasformare la presenza massiccia di claim ambientali in impatto reale e misurabile. Come passare dalla comunicazione alla sostanza.

La svolta mediterranea è tecnicamente possibile. La domanda ora è: come costruirla insieme, rendendo il sistema più efficace per tutti?

Il Forum Human&Green Retail del 14 ottobre non sarà l’ennesimo convegno sul green marketing. Sarà il momento in cui il retail italiano deciderà se continuare a riempire l’elefante di aria o iniziare a svuotarlo per riempirlo di sostanza. Se continuare a contare morti evitabili o iniziare a prevenirle.

La svolta mediterranea è possibile. La domanda è: chi avrà il coraggio di guidarla?

Il green markrting è finito. È ora di cambiare

Intervista a Paolo Iabichino, creativo pubblicitario

Dialogo con Domenico Canzoniero, direttore editoriale Greenretail.news, su autenticità nella comunicazione sostenibile, limiti del green marketing e il ruolo della distribuzione nella transizione sistemica

«Il greenwashing tra qualche anno sarà lettera morta. Chiunque parlerà ancora di green marketing sarà anacronistico»

Domenico Canzoniero: Paolo innanzitutto grazie per questa opportunità e complimenti per il tuo lavoro, un unicum nel panorama italiano della comunicazione.

Ma bando ai convenevoli e veniamo ai numeri che inquadrano il contesto di cui vorrei parlare. L’84,2% della spesa degli italiani va a prodotti con green claim sul packaging, ma l’Agenzia Europea per l’Ambiente conferma che non si registrano riduzioni reali dell’impronta ambientale dei consumi. Questo dispositivo sembra inefficace, inadeguato allo scopo. Si fa qualcosa per stare dalla parte della soluzione, ma non si danno strumenti concreti ai cittadini per fare davvero la differenza.

Green claim su 84,2% dei prodotti, zero riduzione dell’impronta ambientale reale. Consumatori bombardati da richieste di salvare il pianeta attraverso gli acquisti mentre i sistemi restano invariati. Paolo Iabichino, creativo pubblicitario che ha firmato “Consumi o Scegli?” per Altromercato, analizza i limiti del green marketing tradizionale e delinea una strada radicale: la distribuzione deve smettere di scaricare responsabilità sui cittadini e diventare protagonista attiva della transizione ecologica.

IL PARADOSSO DEL GREEN MARKETING

84,2% della spesa degli italiani va a prodotti con green claim sul packaging

Zero riduzione reale dell’impronta ambientale dei consumi (dati Agenzia Europea per l’Ambiente)

75% dei consumatori europei non si fida delle dichiarazioni ambientali delle aziende

Normativa UE 2024 sui green claims: necessaria proprio perché il sistema attuale non funziona

Fonte: Osservatorio Immagino Nielsen, Agenzia Europea per l’Ambiente, Eurobarometro 2024

Paolo Iabichino: Domenico, se tutto quello che dichiariamo sui nostri packaging corrispondesse a verità, non avremmo avuto bisogno di una normativa europea per regolamentare i green claims. Il greenwashing tra qualche anno sarà lettera morta. Chiunque parlerà ancora di green marketing sarà anacronistico. Ti faccio un esempio concreto: nel 2024 vengo chiamato da una multinazionale delle merendine con un budget stratosferico per fare la grande campagna sostenibilità perché sono passati alle confezioni di cartone. Volevano fare la campagna muscolare, bold, salvifica. Io gli ho detto: «Ma perché non facciamo come Innocent che nel 2014, quando è passato al Pet riciclato, ha semplicemente scritto “Scusate il ritardo”?»

Io non me la prendo con le aziende impegnate nella sostenibilità - molte sono mie clienti. Mi prendo con l’ipernarrazione del green marketing che non corrisponde mai a una reale presa di posizione radicale.

L’ECCEZIONE ALTROMERCATO: QUANDO L’AUTENTICITÀ GIUSTIFICA LA PROVOCAZIONE

Canzoniero: Questo ci porta alla tua campagna “Consumi o Scegli?” per Altromercato. In un momento in cui i consumatori sono già sotto pressione, non è paradossale che proprio chi fa scelte etiche si ritrovi a spendere di più senza certezza di generare impatto significativo? Non è troppo aggressivo chiedere ai cittadini questo ulteriore sforzo?

Iabichino: Se avessi dovuto scrivere la stessa campagna per una qualsiasi catena di retail, non avrei mai scritto “Consumi o Scegli”. Avrei responsabilizzato in maniera più severa la catena distributiva.

Ma avendo tra le mani Altromercato - una realtà che milita da 30 anni per mettere sul mercato prodotti da filiere controllate, aprendo e chiudendo negozi, battendosi, offrendo ingredientistica da filiere certificate anche a grandi player come Ferrero - potevo permettermi quella provocazione.

«Altromercato l’assunzione di responsabilità ce l’ha già da 30 anni. Il vulnus che avevo in quel momento era competere narrativamente con il frastuono assordante del green marketing che quasi mai corrisponde a impegno reale»

“Consumi o Scegli” non è una campagna pubblicitaria. È un riposizionamento del brand che è diventato una piattaforma di comunicazione integrata: packaging, podcast, eventi, reportage, documentari che ti fanno vedere come vanno in Nicaragua nelle coltivazioni, come trattano le comunità. Quali dei nostri brand si comportano così?

LA DISTRIBUZIONE DEVE GUIDARE, NON SCARICARE RESPONSABILITÀ

Canzoniero: Quindi anche per te la soluzione non può essere continuare a chiedere ai consumatori di salvare il pianeta. La nostra proposta come Human&Green Retail Forum è che la distribuzione usi il suo potere per aiutare le persone a fare una spesa a minore impronta ambientale e a maggior equilibrio nutrizionale, utilizzando la dieta mediterranea come framework scientifico e culturale.

Iabichino: Ma che Dio vi benedica! È esattamente questo. Sai qual è il problema? La grande distribuzione ha messo sotto pressione il mondo delle filiere, ma continua a giocare secondo le logiche competitive di una vecchia scuola: profitto, crescita, sviluppo, offerta promozionale, tessere di fidelizzazione, riacquisto ossessivo. È un treno a fine corsa, perché abbiamo esaurito le risorse.

Ma come facciamo a generare cambiamento se non mettiamo la patente di responsabilità anche ai consumatori? Il convitato di pietra a questo tavolo è la politica, completamente assente. Non posso chiedere a un consumatore di fare attenzione agli acquisti con gli stipendi bloccati e un sistema inflativo come quello attuale.

«Però la distribuzione ha strumenti che noi nemmeno immaginiamo»

Canzoniero: Infatti! È di questo che parliamo: usare tutte le leve che la distribuzione ha a disposizione per orientare gli acquisti verso le categorie di prodotto a minore impronta ambientale: il volantino, il visual merchandising, la comunicazione in-store, la selezione dei prodotti…

Iabichino: E perché non posso andare a fare la spesa e leggere nello scontrino l’impronta di CO2 che quel-

la spesa sta generando come fanno le compagnie aeree? «Guarda che la prossima volta puoi ridurre il tuo impatto se rinunci a questo, questo e questo.»

STRUMENTI CONCRETI PER IL RETAIL SOSTENIBILE

Programmi fedeltà sostenibili Punti non per l’acquisto compulsivo ma per la riduzione dell’impronta carbonica della spesa

Scontrino climatico Visualizzazione immediata dell’impatto CO2 di ogni spesa, con suggerimenti per ridurlo

Private label sostenibile Le Mdd come laboratorio di innovazione concreta, non solo green claim diversi

Progetto scuole e famiglie Educazione ai temi fuori dalla logica competitiva a scaffale, per generare impatto reale

Visual merchandising guidato Orientare verso categorie a minor impatto usando tutti gli strumenti del retail

PROPOSTE CONCRETE: DAI PUNTI

SOSTENIBILITÀ ALLA DIETA MEDITERRANEA

Canzoniero: Ecco. Questa è una proposta operativa concreta che potrebbe aiutare a trasformare l’approccio alla sostenibilità nel retail…

Iabichino: Esatto! Perché non facciamo un programma fedeltà basato su questo? Anziché dare i punti fedeltà per i peluche, diamo punti per chi riduce l’impronta carbonica della spesa!

E ora che le insegne hanno le private label, potrebbero giocarsi davvero la partita della sostenibilità. Non solo con green claims diversi da quelli delle aziende industriali, ma con scelte produttive concrete. Abbiamo bisogno di creatività, di idee per fare in modo che l’impatto venga generato realmente e non solo raccontato nei manifesti pubblicitari.

«Te lo immagini un grande progetto scuole portato avanti dalle nostre principali insegne di distribuzione? Dove questi temi non ce li giochiamo a scaffale ma li agiamo per generare davvero quell’impatto di cui abbiamo bisogno. È maledettamente urgente»

IL FUTURO: TRA ALLEANZE NECESSARIE E RESISTENZA

Canzoniero: Questo richiede un cambio di paradigma anche nelle dinamiche competitive del settore che purtroppo dominano le strategie e impediscono un’azione corale di settore sui grandi temi.

Iabichino: Proprio così. Manca completamente una radice di alleanza nella grande distribuzione. Se 10 multiutility si mettono dentro il Banco dell’Energia, perché la Gdo deve continuare a competere a cannonate su temi che riguardano tutti, le comunità, l’ambiente? Tra qualche anno la grande distribuzione sarà vista come Amazon, come Google: i grandi distruttori delle economie. Le grandi catene diventeranno come le sigarette, come le compagnie aeree nel giudizio pubblico. Non è che io sia contento di questa prospettiva, ma è quello che sta succedendo.

LA NUOVA GENERAZIONE HA GIÀ DECISO

Prima tesi del Cluetrain Manifesto 2020 (riscritto da studenti 19-23 anni della Scuola Holden):

«L’ecosostenibilità è un prerequisito per stare sul mercato»

Non più un plus, ma una condizione di esistenza

Per la generazione Z (nati 1997-2012):

n La sostenibilità è data per scontata

n Il green marketing è già percepito come anacronistico

n L’autenticità è l’unico criterio di valutazione

2050: data in cui collasseranno i primi ecosistemi secondo le proiezioni scientifiche

Fonte: Cluetrain Manifesto 2020, Scuola Holden

LA NUOVA GENERAZIONE HA GIÀ DECISO

Canzoniero: E i consumatori del futuro come si stanno posizionando rispetto a questi temi?

Iabichino: Ho fatto un esercizio straordinario con i ragazzi della Scuola Holden. Nel 2020 abbiamo riscritto il Cluetrain Manifesto - mancavano 30 anni al 2050, data in cui collasseranno i primi ecosistemi. Sai qual è la prima tesi che hanno scritto questi ragazzi tra i 19 e 23 anni? «L’ecosostenibilità è un prerequisito per stare sul mercato»

«Questi ragazzi danno la sostenibilità come prerequisito per esistere sul mercato. Il green marketing è già morto nella loro percezione»

RESISTENZA E CAMBIAMENTO:

L’UNICA

STRADA POSSIBILE

Canzoniero: Quindi la comunicazione deve evolversi verso un approccio completamente diverso e la passione con cui tratti questi temi fa di te un esempio per chi oggi fa questo lavoro.

Iabichino: Sono solo preoccupato, Domenico. Da quando abito questo pianeta non sono mai stato fermo davanti alle ingiustizie. L’unica arma che ho è il mio scrivere. Sto scrivendo un libro su questo - “Parole che servono” - perché in questo momento le parole sono l’arma più importante per ribaltare i bias e costruire immaginari migliori.

È un mondo rotto, e non possiamo lasciare nulla di intentato. O ridefiniamo le logiche capitalistiche o innestiamo qualcosa sulle ceneri del neoliberismo. Il consumo può diventare una scelta civica, ma serve un approccio sistemico.

«Altromercato è una battaglia di resistenza. È come se stessimo costruendo trincee per impedire che tutto vada a rotoli. E funziona: grandi multinazionali del cacao stanno comprando il nostro cacao per i propri prodotti. Non è green marketing, è business concreto con impatto reale»

Metto le mie parole al servizio di chi ha voglia di cambiare il mondo. Altromercato è una realtà che questa cosa la sta facendo.

VERSO UN RETAIL CHE SI PRENDE CURA

Il dialogo con Paolo Iabichino delinea una strada chiara per la distribuzione moderna che vuole guidare la transizione umano-ecologica: superare definitivamente la logica della responsabilizzazione individuale per abbracciare un ruolo di guida e di aiuto alle persone per fare una spesa migliore per davvero. Non più “salva il pianeta con i tuoi acquisti”, ma fornire strumenti concreti per fare scelte migliori sul piano ambientale, nutrizionale, sociale, umano. Non c’è bisogno di più green claim sul packaging ma di una misurazione reale degli impatti e di una guidance sistemica.

La distribuzione moderna ha il potere di trasformare questo settore. Come dice Iabichino: «È maledettamente urgente, e abbiamo bisogno di creatività per generare impatto reale, non solo raccontarlo».

Un retail che si prende cura non solo dei profitti, ma delle persone e del pianeta. Un retail che trasforma l’urgenza climatica in opportunità di business autentico.

Parte I: La presa di coscienza

Il retail scopre il proprio ruolo nella transizione

Qualcosa sta cambiando nei quartier generali della distribuzione italiana. Dopo anni di focus su margini, quote di mercato e promozioni, emerge una nuova consapevolezza: il retail ha un’influenza profonda sulle scelte alimentari di milioni di famiglie e, di conseguenza, sulla salute pubblica e sull’ambiente.

Non è un cambiamento improvviso. È il risultato di molteplici pressioni convergenti: consumatori sempre più attenti alla salubrità, normative europee che richiedono maggiore trasparenza, la competizione dei discount che impone di ripensare il proprio ruolo. Ma soprattutto, è la presa d’atto che il modello tradizionale sta mostrando i suoi limiti.

“Nessuno che faccia seriamente il mestiere del distributore può ignorare la costante ricerca di salubrità da parte dei consumatori”, riflette Mauro Lusetti, presidente di Conad. Non è retorica aziendale: è il riconoscimento che il retail si trova al crocevia tra business e responsabilità sociale.

Le voci che ascolteremo - da Coop a Lidl, da Decò a Conad - raccontano prospettive diverse ma convergenti. C’è chi parla di sostenibilità come asset strategico, chi sottolinea le difficoltà economiche del settore, chi propone di passare dall’educazione all’azione diretta sull’offerta. Tutti, però, concordano su un punto: il retail non può più essere solo un luogo di transazione commerciale.

Le interviste che seguono documentano questo percorso di consapevolezza. Non è ancora una rivoluzione, ma i semi del cambiamento sono stati piantati. E in un settore tradizionalmente conservatore come la distribuzione, anche questo è un segnale significativo.

La distribuzione non può ignorare la ricerca di salubrità

Intervista a Mauro Lusetti, presidente

Conad

Intervistato da Domenico Canzoniero, direttore editoriale Greenretail.news

«Nessuno che faccia seriamente il mestiere del distributore, del trasformatore o dell’agricoltore può ignorare la costante ricerca di salubrità da parte dei consumatori»

Mauro Lusetti, presidente Conad

Presidente Lusetti, grazie di essere qui con noi per anticipare alcuni dei temi dello Human&Green Retail Forum che avrà luogo il 14 ottobre a Milano. In quella data ci ritroveremo con gli stakeholder della filiera agroalimentare italiana per affrontare un tema cruciale che le riassumo con una domanda: come la Gdo può aiutare le persone a fare una spesa a minore impronta ambientale e maggiore equilibrio nutrizionale, applicando i principi della dieta mediterranea?

Innanzitutto grazie per questa opportunità che mi consente di esprimere un’opinione su un tema che sta assumendo nel tempo connotati sicuramente di grande problematicità, perché il numero di persone che hanno una qualità della vita peggiorata, dovuta alla cattiva alimentazione, è in costante continua crescita, non solo nel nostro paese. Anzi, noi registriamo dati sicuramente migliori rispetto a molti paesi occidentali, ma non possiamo non porci il problema e quindi mettere un’attenzione particolare nel momento in cui forniamo assortimenti, nel momento in cui costruiamo proposte dal punto di vista alimentare. Questo argomento non può non coinvolgerci e non farci sentire partecipi.

In questo senso noi distributori possiamo lavorare sicuramente su diversi temi, il primo è l’informazione. Io non parlerei di educazione perché l’educazione

è qualcosa che prevalentemente dovrebbe vedere impegnate le istituzioni, io parlerei di informazione, di capacità di trasferire il più correttamente possibile ai nostri clienti, ai nostri consumatori, quelle che sono le informazioni di tipo nutrizionale, quelli che sono i contenuti organolettici, quelle che sono le modalità d’uso dei prodotti che vengono acquistati nei nostri punti di vendita e quindi aumentare la qualità e la quantità dell’informazione.

«L’innovazione tecnologica che ha introdotto i QR code sulle etichette ci mette nella condizione di fornire un’importante quantità di informazione»

L’altro tema è il fatto di lavorare facendo più sistema rispetto al passato.

Ora, per quello che ci riguarda, noi in Conad abbiamo messo al centro della nostra attenzione e della nostra piramide strategica lo sviluppo di una politica di sostenibilità. Per noi sostenibilità vuol dire sostenibilità ambientale, sostenibilità economica, sostenibilità soprattutto sociale. In questo contesto cerchiamo di introdurre nelle relazioni con i nostri stakeholder e quindi soprattutto con i nostri fornitori, quegli elementi che ci consentono di stringere rapporti e relazioni positive lungo tutta la filiera.

In questa attività il prodotto a marchio del distributore è elemento fondamentale, perché la capacità di contribuire a un cambiamento virtuoso in tutta la filiera, nel prodotto a marchio si estrinseca in maniera più completa e più piena.

MEDITERRANEO

Possiamo dire che la marca del distributore, che oggi rappresenta il 26% del mercato italiano, può diventare un ambasciatore della dieta mediterranea?

Allora partiamo da un presupposto: il nostro paese, l’Italia, è un grandissimo paese di trasformatori. Perché la quantità di terreno destinata all’agricoltura, in questi anni è diminuita, e le tecnologie, l’innovazione tecnologica, la cura, l’aumento della produttività per ettaro, sono tutti elementi che però ci danno una dimensione di un paese che non ha una produzione tale da soddisfare tutto il fabbisogno alimentare del nostro paese.

Noi siamo grandi importatori di una quantità incredibile di prodotti e quindi qui è il primo argomento, il primo tema, nel senso che non abbiamo sufficiente prodotto per soddisfare i fabbisogni alimentari del nostro paese. Nonostante questo, su tutta una serie di merceologie siamo anche grandi esportatori. Ma innanzitutto questa realtà della trasformazione dei prodotti, della nostra filiera, bisogna che sia presente in tutte le occasioni nelle quali ci poniamo obiettivi di miglioramento e di capacità di informare correttamente i consumatori.

«L’Mdd può diventare ambasciatore della dieta mediterranea, intesa come capacità, volontà di avere un atteggiamento più salubre»

La Mdd - sicuramente i prodotti a marchio del distributore che in gergo si definiscono Mdd - sono uno strumento fondamentale per poter realizzare questa attività anche informativa. Noi lo facciamo con le linee premium che abbiamo, cioè Sapori&Dintorni ed Equilibrio, che sono tutte linee che nascono come risposta a un fabbisogno di ricerca di salubrità e di equilibrio dal punto di vista energetico, e dei contenuti che i consumatori, negli ultimi anni, hanno dimostrato di privilegiare rispetto ad altre modalità e ad altri criteri di scelta.

LA MARCA DEL DISTRIBUTORE IN ITALIA

26% quota di mercato nazionale dell’Mdd

35% delle vendite Conad proviene da prodotti a marchio

Oltre 1.000 fornitori di prodotti a marchio collaborano con Conad

€741 risparmio annuale pro capite potenziale con adozione completa della dieta mediterranea

Fonte: Nielsen, Conad, True Cost Accounting Study 2022

IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI

Quale ruolo possono avere le istituzioni per supportare la Gdo nel promuovere la dieta mediterranea? Pensate a incentivi fiscali, educazione nelle scuole, supporto all’informazione?

Ci sono secondo me due elementi principali, magari non saranno esaustivi, ma sono sicuramente due ambiti nei quali le istituzioni possono e devono fare tanto. Abbiamo un governo che ha cambiato il nome del ministero dell’Agricoltura con il ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste (Masaf), che non è il ministero della dieta mediterranea, ma ha molto a che fare con la dieta mediterranea da questo punto di vista. E credo che il primo grande argomento sia quello di creare una condizione affinché le colture di qualità che sono alla base anche della dieta mediterranea non solo vengano in una qualche misura preservate, ma vengano tutelate e vengano sostenute. Qui c’è una relazione rilevante con l’Europa, che con la proposta di impostazione del nuovo bilancio europeo per la Pac non mi pare che ci stia dando una

mano. C’è tutto il tema dei grandi accordi internazionali come il Mercosur, dove accanto a delle chiare ed evidenti situazioni di favore per l’Europa, ce ne sono altre che sono a rischio, soprattutto nel settore agroalimentare, perché ci deve essere una reciprocità.

«In Europa abbiamo a volte esagerato con la regolamentazione, ma la salute dei cittadini è al centro di tutte quelle normative. Il tema della reciprocità nei grandi accordi internazionali è fondamentale»

Il secondo argomento sul quale le istituzioni possono fare tantissimo è il tema - questo sì - dell’educazione alimentare. A partire dagli asili per arrivare alle scuole, abbiamo assistito a una contraddizione in questo senso. Perché certo non sono attività a costo zero queste però quando negli asili o nelle mense pubbliche introduci degli alimenti che fanno riferimento a una dieta equilibrata e spesso e volentieri traggono spunto dalla dieta mediterranea, e poi fai le gare al massimo ribasso, qui casca l’asino: non puoi pretendere prodotti di qualità e chiedere che costino anche meno di quello che costano i prodotti normali che non rientrano nell’ambito di questa categoria.

Quindi c’è un grande tema di risorse, un grande tema di iniziative che abbiano come riferimento questo aspetto della dieta equilibrata e - aggiungo - della dieta mediterranea per valorizzare le nostre produzioni, ma ci deve essere coerenza e quindi da una parte non puoi chiedere la qualità altissima, e dall’altra il prezzo più basso possibile. Sono due cose inconciliabili.

RELAZIONI DI FILIERA: OLTRE IL BUYER POWER

Questo del prezzo è un tema davvero dirimente direi e infatti penso che il 14 ottobre con i rappresentanti di Coldiretti, Confagricoltura e le relative filiere, avremo modo di approfondire perché, come sa, loro rivendicano spesso prezzi migliori per i prodotti agroalimentari, proprio nei confronti del cosiddetto buyer power, il potere d’acquisto della grande distribuzione. Non so se vuole lanciare un messaggio in questo senso.

Non posso parlare a nome di tutta la distribuzione perché è evidente che, così come ci sono gli agricoltori che non rispettano le normative, ci sono i distributori che hanno atteggiamenti particolarmente aggressivi. C’è un elemento insito nella negoziazione come in ogni rapporto che è il tasso di conflittualità. Quando queste conflittualità o contrapposizioni rientrano nell’ambito della normalità producono anche miglioramenti considerevoli dal punto di vista organizzativo.

«Essere grandi e negoziare non vuol dire essere cattivi»

Io vedo il rapporto e la relazione che noi abbiamo con oltre 1.000 produttori di prodotto a marchio: sono tutte organizzazioni, aziende di piccola e media dimensione, che con noi hanno rapporti pluriennali, che sono cresciute, che hanno oggi la capacità di fare anche investimenti in chiave di sostenibilità, che sono in grado, molte di queste attraverso questa relazione virtuosa, di crescere e diventare loro stessi aziende esportatrici. Se la relazione è sana, è volta al miglioramento dei percorsi e dei processi, risponde a un principio che per noi è fondamentale: la capacità di durare nel tempo e la possibilità di coltivare questo rapporto perché su quei prodotti mettiamo la nostra faccia.

«A noi non interessa cambiare per un euro il fornitore tutti gli anni, a noi interessa costruire rapporti e relazioni solide»

Per cui se il problema esiste non devono venirlo a porre a noi perché noi già siamo operativi in questo senso. Dopodiché questo argomento non può diventare l’alibi per non crescere, per non innovarsi, per non fare le scelte che vanno fatte.

Allora se io guardo la caratteristica principale dell’agricoltura italiana è di imprese che fanno fatica ad avere dimensioni superiori all’ettaro. Questo è un problema. E non è un problema della distribuzione. Quindi o noi siamo nelle condizioni di fare gli investimenti necessari, attraverso la cooperazione, attraverso l’associazionismo, attraverso legislazioni che consentono di crescere a queste imprese anche dimensionalmente, oppure questo argomento non uscirà mai da una logica di tipo assistenziale.

I FATTORI DIETETICI CHE CAUSANO PIÙ MORTI IN ITALIA

1. Scarso consumo di cereali integrali:

>30.000 morti/anno (30,7%)

2. Eccessivo consumo di sodio: >18.000 morti/anno (18,4%)

3. Scarso consumo di semi e frutta secca: >16.000 morti/anno (16,4%)

4. Scarso consumo di omega-3: ~12.000 morti/anno (12,3%)

5. Scarso consumo di frutta: >11.000 morti/anno (11,2%)

Fonte: GBD

IL

MANIFESTO PER LA SOSTENIBILITÀ

Grazie per l’esaustiva risposta e per concludere ritorniamo sul tema iniziale: la consapevolezza che la distribuzione ha del suo ruolo nel migliorare la salute e il benessere delle persone e del pianeta. Stiamo andando verso un ruolo di guida della distribuzione in questa transizione o ci sono ancora resistenze legate agli interessi di mercato?

Se noi partiamo dalle abitudini del consumatore, dall’attenzione ai bisogni e alle necessità che ha il consumatore, io credo che nessuno che vuole fare in maniera seria questo mestiere del distributore, il mestiere del trasformatore, il mestiere dell’agricoltore, possa ignorare questo dato, e cioè una costante e continua ricerca da parte dei nostri clienti di salute e benessere. Quindi a mio parere nessuno di noi può evitare di affrontare il tema della salubrità dei prodotti e degli assortimenti.

«Oggi i consumatori ricercano prodotti con meno zuccheri, meno sostanze che possono mettere in difficoltà la salute. Non cercano il cibo biologico, cercano il cibo salutare»

Leggono di più le etichette, fanno scelte più ragionate e noi abbiamo il dovere di incentivare questo tema dell’informazione. Le cito solo un esempio che mi pare essere particolarmente illuminante di un approccio e di un atteggiamento.

Noi - come le dicevo prima - abbiamo messo al centro della nostra attenzione e della nostra piramide strategica il tema della sostenibilità. Inoltre abbiamo il 35% delle nostre vendite che vengono fatte dai prodotti a marchio. Per questo l’anno scorso a ottobre abbiamo organizzato una convention con i nostri fornitori di prodotto a marchio. E abbiamo lanciato in quella sede il nostro manifesto per la sostenibilità.

«Noi vogliamo andare in quella direzione e quindi su questo tema chi è in grado di seguirci rimarrà all’interno del nostro rapporto, chi non è in grado rischierà di essere escluso dagli assortimenti»

2017 Diet Collaborators, The Lancet

Ma non ci siamo limitati a dire questo, abbiamo anche detto: a chi non è in grado, non per scelta ma perché ha difficoltà finanziarie a fare gli investimenti necessari, diamo un supporto. Così abbiamo siglato una convenzione con Sace per mettere a disposizione le risorse finanziarie necessarie per fare gli investimenti che occorrono per rispondere ai fondamentali di una politica sostenibile, e quindi coerente con la ricerca di un’alimentazione più sana rispetto al passato.

Stiamo sviluppando questa attività e siamo fortemente convinti di questa scelta - al di là delle politiche un po’ ballerine dell’Europa, di Trump e i suoi che dicono che non esiste il cambiamento climatico eccetera. Vedo del resto che gran parte della distribuzione organizzata ha questa sensibilità che parte dalla soluzione dei bisogni del consumatore, si sta fortemente orientando nella direzione della salute e della sostenibilità.

«Diventerà un elemento forte, di vantaggio competitivo, per chi lo sta facendo coerentemente e in maniera seria»

L’IMPATTO ECONOMICO DELLA TRANSIZIONE

Costi attuali della cattiva alimentazione:

n Mortalità prematura: 97.821 decessi/anno

n Disabilità cronica: 8 milioni di persone

n Carico sanitario: 13,5% di tutti i Dalys nazionali

Potenziale di risparmio con dieta mediterranea:

n €741 risparmio annuale pro capite

n €75 riduzione costi sanitari per prevenzione cardiovascolare

n +7 mesi di aspettativa di vita media n 15.000-30.000 morti prevenibili all’anno

Vantaggio economico: La dieta mediterranea è il 5% più economica rispetto alla dieta italiana media attuale, pur garantendo qualità nutrizionale superiore.

Fonte: True Cost Accounting Study, Frontiers in Nutrition 2022

La nuova cultura dell’olio

Oleificio Zucchi Società Benefit è azienda olearia leader in Italia e presente in più di 40 Paesi all’estero. Una delle poche realtà nel comparto a essere ancora al 100% italiana e interamente di proprietà della stessa famiglia da sei generazioni, viene fondata 215 anni fa ed è oggi guidata da Alessia Zucchi, in qualità di Presidente e Amministratore Delegato.

Oleificio Zucchi ha sede a Cremona: nel il sito produttivo di 110.000 mq e che ospita 10 moderne linee di produzione di oli da olive e da semi, si realizzano circa 500 tonnellate al giorno ra nate e 1.500.000 litri al giorno confezionati, oltre a custodire uno dei più grandi locali di stoccaggio di olio EVO a temperatura controllata. L’attività di Oleificio Zucchi è organizzata in due aree di business: una dedicata all’olio confezionato, a marchio proprio e privato e l’altra dedicata a quello bulk per l’industria alimentare.

Con un fatturato di oltre € 344.000.000 nel 2024, in costante crescita, Oleificio Zucchi è oggi un player autorevole e un riferimento a dabile per la GDO e l’Out of Home, con una quota di export significativa. L’azienda è fortemente impegnata anche sul fronte dello sviluppo della cultura olearia e promotrice di una crescita in termini di qualità e sostenibilità della filiera olivicola.

Eccellenza e trasparenza nella qualità, rispetto per il lavoro e per l’ambiente in un’ottica di lungo periodo: i valori fondanti di Oleificio Zucchi si riflettono in ogni singolo olio, attraverso una ricerca continua e certificata.

Nel Marzo 2024 prima azienda in Italia del settore food, Oleificio Zucchi ha ottenuto con il suo Olio Extra Vergine d’Oliva 100% Italiano Sostenibile, la certificazione Made Green in Italy del Ministero per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica.

oleificiozucchi.it

Coop Italia: dalla cooperazione alla salute pubblica

Intervista a Domenico Brisigotti, direttore generale Coop Italia

LA CONSAPEVOLEZZA DEL RUOLO SISTEMICO

La dieta rappresenta il principale fattore di rischio comportamentale modificabile per le malattie non trasmissibili in Europa. Coop, attraverso cui passano milioni di scelte alimentari quotidiane, ha maturato una consapevolezza del proprio ruolo nel sistema sanitario del Paese? Come state evolvendo la vostra missione aziendale per tenere conto di questa responsabilità verso la salute pubblica?

Coop, per la sua natura di impresa, è da sempre ben consapevole del proprio ruolo nel sistema Paese. È forse utile ricordare che, in quanto cooperativa, si contraddistingue da altre imprese della distribuzione: i proprietari di Coop sono i soci consumatori.

Ciò detto, le modalità con cui Coop agisce la propria mission si sono evolute nel tempo, anche per integrare la responsabilità verso la salute pubblica, ad esempio promuovendo la corretta alimentazione, la trasparenza, la qualità e la sicurezza dei prodotti.

L’impegno si concretizza in particolare sui prodotti a marchio Coop, nella selezione di fornitori e nella definizione di rigorosi capitolati tecnici, spesso più restrittivi delle norme di legge anche per quanto riguarda gli imballaggi.

«In quanto cooperativa, si contraddistingue da altre imprese della distribuzione: i proprietari di Coop sono i soci consumatori»

PRODOTTI A MARCHIO COOP GLI STANDARD

Ingredienti esclusi dai prodotti a marchio Coop:

n Grassi idrogenati

n Olio di palma

n Coloranti sintetici

n Alcuni additivi

Collaborazioni istituzionali:

n Ministero della Salute per campagne di sensibilizzazione

n Associazione Italiana Celiachia per prodotti senza glutine

Standard più restrittivi delle norme di legge applicati sia ai prodotti che agli imballaggi

Il Rapporto Coop 2025 documenta che il 71% degli italiani legge abitualmente le etichette nutrizionali e che cresce la domanda di prodotti “fr-healthy”. Ma resta il paradosso: 1 prodotto su 4 negli scaffali della grande distribuzione contiene almeno uno dei 20 additivi alimentari più diffusi. Come state traducendo operativamente questa consapevolezza in politiche concrete di assortimento, posizionamento prodotti e comunicazione al consumatore?

Come già accennato, uno degli strumenti più forti che Coop ha per veicolare la propria mission ed i propri valori è il prodotto Coop. Viene favorita la trasparenza in etichetta, con indicazioni dettagliate su ingredienti, provenienza e valori nutrizionali, spesso andando oltre gli obblighi di legge.

Coop promuove anche prodotti “free from” e collabora con l’Associazione Italiana Celiachia per i prodotti senza glutine. La comunicazione al consumatore avviene tramite campagne, etichette chiare e strumenti digitali, come il sito dedicato alla trasparenza delle materie prime.

Il ruolo della dieta mediterranea come standard di riferimento

Emerge che la dieta mediterranea resta “bussola culturale” per il 44% degli italiani, ma convive con regimi sempre più personalizzati. Può diventare non solo una referenza nutrizionale ma anche uno standard scientifico condiviso per orientare le scelte di acquisto? Come evitare che si trasformi nell’ennesimo marketing claim senza sostanza?

DALLA CONSAPEVOLEZZA ALL’AZIONE OPERATIVA

Anche in questo caso, si tratta di collaborare con tutti gli attori coinvolti: per Coop è possibile promuovere la dieta mediterranea incentivando la corretta informazione, la collaborazione con enti scientifici e la trasparenza, in modo che sia sempre di più uno standard condiviso e non uno slogan vuoto.

«È possibile promuovere la dieta mediterranea incentivando la corretta informazione, la collaborazione con enti scientifici e la trasparenza, in modo che sia sempre di più uno standard condiviso e non uno slogan vuoto»

LE ALLEANZE STRATEGICHE PER IL CAMBIAMENTO SISTEMICO

Il cambiamento del sistema alimentare richiede collaborazioni lungo tutta la filiera. Come immaginate il rapporto con l’industria alimentare in questa transizione: una partnership per innovare insieme verso prodotti più salutari, o una pressione per modificare le formulazioni esistenti? Quali incentivi concreti potete offrire ai produttori per questa evoluzione?

Il rapporto tra Coop e i fornitori dei prodotti a marchio si basa sulla condivisione dei valori Coop: solo chi rispetta gli elevati standard richiesti può diventare fornitore di prodotto Coop. Questa relazione ha favorito negli anni una crescita complessiva di competenze sia per Coop che per il mondo della produzione.

Il sistema alimentare deve evolvere, ma non solo per quanto riguarda la formulazione dei prodotti e gli aspetti nutrizionali, bensì per l’impatto a 360° della produzione e distribuzioni dei prodotti stessi.

Coop lavora con i fornitori su iniziative volontarie di riduzione delle emissioni e promuove la sostenibilità ambientale e sociale attraverso il Code of Conduct on Responsible Food Business and Marketing Practices della Commissione europea.

«Solo chi rispetta gli elevati standard richiesti può diventare fornitore di prodotto Coop. Questa relazione ha favorito negli anni una crescita complessiva di competenze»

GLI STRUMENTI CONCRETI PER ORIENTARE

LE SCELTE

Il rapporto mostra che il 53% dei manager prevede che l’intelligenza artificiale guiderà la rivoluzione dei punti vendita nei prossimi 5 anni. Come può la tecnologia aiutare concretamente i consumatori a fare scelte più equilibrate? Pensate a sistemi di scoring nutrizionale, percorsi guidati, personalizzazione dell’offerta? Coop sta già sperimentando strumenti tecnologici per aiutare i consumatori a fare scelte più equilibrate, come sistemi di scoring nutrizionale, percorsi guidati e personalizzazione dell’offerta. Vengono utilizzati QR code sulle etichette per fornire informazioni ambientali e nutrizionali, test digitali nei punti vendita per orientare la scelta dei prodotti, e campagne digitali per aumentare la consapevolezza.

LE SFIDE E LE RESISTENZE AL CAMBIAMENTO

MISURAZIONE DELL’IMPATTO E ACCOUNTABILITY

Se Coop accetta questa responsabilità verso la salute pubblica, come intendete misurarne l’impatto? Avete allo studio metriche per valutare il contributo delle vostre politiche commerciali al miglioramento dei profili nutrizionali della spesa dei vostri clienti? E come renderete conto di questi risultati?

Coop più che accettare è responsabilmente consapevole del proprio ruolo anche verso la salute pubblica. Nel 2024 Coop ha ottenuto la validazione delle emissioni di gas serra secondo lo standard internazionale Greenhouse Gas Protocol e monitora costantemente gli impatti ambientali e sociali delle proprie attività.

Nel 2025 quasi 16 milioni di italiani seguono una dieta controllata, ma parallelamente crescono fenomeni come la “pharma diet” con i farmaci GLP-1. Come bilanciate la spinta verso prodotti salutari con la necessità di mantenere un assortimento che risponda anche a desideri meno virtuosi dei consumatori? Dove trovate il punto di equilibrio?

Come accennato in precedenza, l’approccio di Coop è quello di non criminalizzare alcun alimento, promuovendo piuttosto scelte di acquisto e consumo consapevoli e informate.

L’equilibrio si trova offrendo una gamma ampia e trasversale, con linee dedicate al benessere (Bene.sì), prodotti “free from”, ma anche prodotti tradizionali, sempre garantendo qualità, sicurezza e trasparenza.

Sono in fase di studio indicatori per valutare il contributo delle politiche commerciali al miglioramento dei profili nutrizionali della spesa dei clienti, con audit periodici, certificazioni di terza parte e attività di rendicontazione trasparente.

La pubblicazione annuale del rapporto di sostenibilità e la collaborazione con enti scientifici garantiscono la rendicontazione dei risultati.

I NUMERI DEL CAMBIAMENTO

Trend dal Rapporto Coop 2025:

Consapevolezza dei consumatori

n 71% degli italiani legge abitualmente le etichette nutrizionali

n 44% considera la dieta mediterranea la propria bussola culturale

n 15,8 milioni di italiani hanno seguito una dieta nel 2025

Crescita dei prodotti salutari (I semestre 2025)

n +9,2% paniere salutistico

n +27% latte fermentato/kefir

n +26% yogurt greco

n +4,8% biologico

Inversione di tendenza

n -3,3% contrazione degli ultraprocessati nel 2024

n 9 milioni di italiani hanno ridotto o eliminato il consumo di carne

Tecnologia e futuro

n 53% dei manager prevede che l’AI guiderà la rivoluzione retail nei prossimi 5 anni

Il retail può orientare le scelte, ma oggi deve sopravvivere

Intervista a Mario Gasbarrino, amministratore delegato Decò Italia

L’AD di Decò Italia analizza possibilità e limiti della grande distribuzione nel guidare verso una spesa più sostenibile e salutare

«La capacità di indirizzare verso alcune categorie di prodotto piuttosto che altre esiste, il problema è come la usiamo»

Mario Gasbarrino, amministratore delegato Decò Italia

Perché lavora sul 95% dell’impatto di un retailer, che deriva dai prodotti venduti, non dal punto vendita. Con il Covid abbiamo visto che riducendo i consumi del 7,5% il costo è stato enorme perché non era programmato. Se invece aiuti le persone a scegliere consapevolmente una dieta che è insieme più sana, più economica e meno impattante, fai vera innovazione.

DOVE SI GENERA DAVVERO L’IMPATTO

95% dell’impatto di un retailer deriva dai prodotti venduti (non dal punto vendita)

84% della spesa italiana va a prodotti con green claim, ma impatto ambientale effettivo irrilevante

97.821 morti prevenibili all’anno in Italia per cattiva alimentazione (terzo fattore di rischio principale)

7,5% riduzione consumi durante Covid: dimostrazione che piccole variazioni hanno effetti enormi

CSRD 2026: obbligo rendicontazione impatto per tutte le aziende sopra 50 milioni di fatturato

Fonte: Agenzia Europea Ambiente, Global Burden of Disease Study 2017

In teoria, è davvero mestiere del retailer indirizzare gli acquisti dei consumatori?

Tecnicamente sì, sarebbe proprio questo il nostro mestiere. Da 30-40 anni continuiamo a fare sempre gli stessi volantini sapendo che non funzionano, eppure li facciamo ancora. Questo dimostra che già orientiamo le scelte, ma in modo inefficace. La capacità di indirizzare verso alcune categorie di prodotto piuttosto che altre esiste, il problema è come la usiamo.

Secondo lei, su cosa dovrebbe concentrarsi questo orientamento?

Invece di focalizzarsi sui singoli prodotti con green claim - che oggi rappresentano l’84% della spesa degli italiani ma hanno un impatto ambientale effettivo irrilevante - bisognerebbe orientare verso intere categorie naturalmente più sostenibili. La dieta mediterranea, ad esempio: più frutta, verdura, cereali integrali, legumi e meno cibi ultra-processati. Non serve cambiare l’assortimento, c’è già tutto. Bisogna spingere su alcune cose e far capire che mangiare così conviene sia al portafoglio che alla salute.

Perché questo approccio sarebbe più efficace dei green claim attuali?

Cosa potrebbe spingere il retail in questa direzione?

Dal 2026 scatta l’obbligo di rendicontazione Csrd per tutte le aziende sopra i 50 milioni di fatturato - quindi tutto il retail. Dovranno misurare l’impatto sull’ambiente e sulle persone di tutto quello che vendono. Questo, unito al fatto che una cattiva dieta è il terzo fattore di rischio principale per mortalità in Italia, rende l’orientamento verso la dieta mediterranea non solo opportuno ma necessario.

«Il 95% dell’impatto di un retailer deriva dai prodotti venduti, non dal punto vendita»

Eppure sembra scettico sulla possibilità che questo avvenga davvero. Perché?

Perché il retail italiano oggi è impegnato in una guerra di sopravvivenza. Negli ultimi quattro anni - due di Covid e due di inflazione - si sono anestetizzati problemi strutturali che ora vengono al pettine. I prezzi sono aumentati del 25% e non sono più scesi. I bilanci cominciano a mostrare le prime crepe.

I PROBLEMI STRUTTURALI DEL RETAIL ITALIANO

Quali sono questi problemi strutturali?

Principalmente tre. Primo: i margini. I supermercati hanno Ebitda medio dell’1,5-2%, i discount del 4-5%. Molte aziende storiche hanno dimezzato gli utili. Secondo: la competizione. I discount stanno vincendo anche sull’ortofrutta, offrendo la stessa qualità a prezzi più bassi. Terzo: siamo troppo frammentati, sprechiamo energia aprendo sempre più punti vendita mentre la gente mangia sempre meno.

LA CRISI DEL RETAIL TRADIZIONALE

Margini operativi:

n Supermercati tradizionali: 1,5-2% Ebitda

n Discount: 4-5% Ebitda

Inflazione alimentare:

n +25% prezzi negli ultimi 4 anni (2020-2024)

n Prezzi non più scesi ai livelli pre-inflazione

Quote di mercato MDD:

n Italia totale: 21% (tra le più basse d’Europa)

n MDD premium: solo 3-4% del totale

n Resto: prodotto omologato uguale alla concorrenza

Top retailer 10 anni fa: Carrefour, Tesco, Casino

Top retailer oggi: Lidl, Aldi, Mercadona, Trader Joe’s

Fonte: dati di mercato e bilanci aziendali

In questo scenario, come può il retail investire in sostenibilità?

Con grande difficoltà. La parola d’ordine oggi è «sopravvivere». Quando i bilanci sono in difficoltà, questi ragionamenti diventano green washing. È chiaro che qualcuno se ne può approfittare, ma diventa una nicchia. Il cliente è disposto alla sostenibilità, basta che non la paghi lui.

«La parola d’ordine oggi è “sopravvivere”. Il cliente è disposto alla sostenibilità, basta che non la paghi lui»

Ha mai provato iniziative in questa direzione?

Sì, avevamo lanciato progetti per ridurre la plastica: acqua minerale senza fardello, contenitori in plastica riciclata. Risparmiavamo il 15% di plastica solo togliendo il fardello esterno e mettendo due regette. Non ci ha copiato quasi nessuno. Nel frattempo il consumo di acqua minerale - che rappresenta il 30% dei volumi movimentati di un supermercato - continua a crescere.

Perché queste iniziative non si diffondono?

Perché manca un’azione di sistema. Non può essere il singolo a fare il fautore del green e poi fallire. Servirebbero imposizioni a livello di comparto, come hanno tentato con le auto elettriche. Da noi invece ognuno mette qualcosa, ma spontaneamente non riesco a immaginare che possa funzionare su larga scala.

«Non può essere il singolo a fare il fautore del green e poi fallire. Serve un’azione di sistema»

L’INNOVAZIONE CHE NON C’È (E QUELLA CHE FUNZIONA)

Anche l’innovazione tecnologica sembra bloccata...

Nel 2016 un’azienda importante lanciò “il supermercato del futuro” destinato al 2050. Sono passati 10 anni e di quelle applicazioni non ne ho trovata neanche una. Mentre 10 anni fa le aziende top si chiamavano Carrefour, Tesco, Casino, oggi si chiamano Lidl, Aldi, Mercadona, Trader Joe’s. E se li vai a vedere, di innovazione tecnologica sembrano supermercati degli anni Ottanta, eppure hanno successo.

Cosa funziona allora?

L’innovazione è molto più semplice di quello che pensiamo. Non serve la tecnologia avanzata. Mercadona fa 36 miliardi di fatturato, cresce da 30 anni, ma ogni volta che porto qualcuno a vederlo rimane deluso. Eppure funziona. Forse l’innovazione vera è togliere il superfluo, non aggiungere complessità.

«L’innovazione è molto più semplice di quello che pensiamo. Forse l’innovazione vera è togliere il superfluo, non aggiungere complessità»

I discount come Lidl stanno già muovendosi sulla sostenibilità...

Lidl ha annunciato di voler far mangiare il 20% in più di frutta ai propri clienti. Ma è un’operazione facile per loro: fino all’altro ieri vendevano solo scatolette, quindi se investono sulla frutta è normale che crescano. Lidl ha il vantaggio di chi pesa 60 kg e vuole diventare mister muscolo: deve solo mettere i muscoli. Noi italiani siamo a 90 kg: dobbiamo prima togliere, ed è più difficile.

LA MARCA DEL DISTRIBUTORE: LABORATORIO O ILLUSIONE?

La marca del distributore può essere un laboratorio per questi cambiamenti?

Sì, ma con dei limiti. Noi lavoriamo con due marche: Decò mainstream per la convenienza e Gastronauta premium per la qualità. Più riesco a far crescere Gastronauta, più sposto i clienti verso la qualità. Ma è un processo lento. Se in Italia la marca privata ha una quota del 21%, quella premium non fa più del 3-4%. Il resto è prodotto omologato, uguale agli altri.

Come si esce da questa situazione?

Il supermercato deve trovare una sua ricetta diversa dal discount. Deve lavorare sul freschissimo, sfruttare il vantaggio della distribuzione micro-territoriale. Se devo fare la guerra sul pacchetto di pasta Barilla, il discount partirà sempre avvantaggiato. Ma se riesco a differenziarmi sulla qualità del fresco, sulla competenza degli addetti, allora ho una chance.

Ma questo richiede investimenti che oggi sembrano difficili...

Esatto. Servono competenza degli addetti e probabilmente anche partecipazione ai risultati. Non posso trattare la frutta come una scatoletta. Ma se non faccio questo salto, ho già perso. L’alternativa è continuare a bruciare ricchezza facendo promozioni sempre più aggressive.

LA VIA D’USCITA SECONDO GASBARRINO

Focalizzarsi su categorie, non su singoli prodotti

Orientare verso dieta mediterranea (frutta, verdura, cereali integrali, legumi) invece che su green claim inefficaci

Differenziarsi sul freschissimo

Sfruttare vantaggio micro-territoriale e competenza addetti, non competere sul secco con i discount

Azione di sistema, non iniziative isolate Imposizioni a livello di comparto, come per le auto elettriche, per evitare che i pionieri falliscano

Far crescere la MDD premium Usare marchi premium per spostare progressivamente i clienti verso la qualità

Movimento culturale più ampio «Noi siamo quello che mangiamo» - deve diventare consapevolezza diffusa, non solo iniziativa retail

LA SINTESI REALISTICA

In sintesi, il retail può orientare verso scelte più sostenibili?

La capacità tecnica c’è, ma oggi siamo impegnati in guerre di sopravvivenza. Probabilmente dovremmo spostare l’attenzione dal green generico alla qualità del cibo. Far capire che noi siamo quello che mangiamo. Ma deve diventare un movimento culturale più ampio, non può partire solo da noi. E soprattutto serve un’azione di sistema che al momento non vedo.

Dobbiamo aiutare a mangiare meglio spendendo meno

Intervista a Alessia Bonifazi, responsabile

Corporate Affairs e Sostenibilità Lidl Italia

Dalla Planetary Health Diet al ruolo del retailer come ponte tra industria e consumatori: la visione di Lidl sulla transizione verso un’alimentazione più sana e sostenibile

«Dobbiamo semplificare la vita al consumatore e aiutarlo a mangiare meglio spendendo meno. La ricetta vincente sembra essere proprio questa»

Alessia Bonifazi, responsabile

Corporate Affairs e Sostenibilità

Lidl Italia

La sostenibilità nel retail non è più solo una questione di comunicazione, ma un asset strategico che ridefinisce l’offerta e guida le scelte dei consumatori. Ne abbiamo parlato con Alessia Bonifazi, responsabile Corporate Affairs e Sostenibilità di Lidl Italia, per approfondire la visione dell’insegna e il suo impegno verso un’alimentazione più sana e rispettosa del pianeta. Dall’impegno sulla Planetary Health Diet al ruolo della grande distribuzione come motore del cambiamento, emerge un quadro chiaro: il futuro del retail è orientato alla responsabilità.

LIDL ITALIA IN NUMERI

780 punti vendita in Italia

23.000 collaboratori sul territorio nazionale

80% dell’assortimento composto da private label

15 referenze biologiche già presenti nella gamma frutta e verdura

Dal 2016 la sostenibilità è integrata nella strategia aziendale come asset strategico

Fonte: Lidl Italia

IL PERCORSO:

STRATEGICA

Domenico Canzoniero: Alessia, innanzitutto partiamo dal conoscerti meglio. Questa infatti è la prima di una serie di interviste in cui vorremmo raccontare ai nostri lettori non solo quali sono le strategie green dei retailer ma anche chi sono i protagonisti della sostenibilità nella distribuzione. Parlaci un po’ di te: qual è il percorso che ti ha condotto a diventare responsabile Corporate Affairs e Sostenibilità di Lidl?

Sono entrata in Lidl Italia nel giugno 2015, quindi ho da poco compiuto i 10 anni in azienda. Inizialmente facevo parte della direzione Risorse Umane, dove mi occupavo di comunicazione interna e di progetti legati al miglioramento continuo del clima aziendale e al welfare per i nostri ormai quasi 23.000 colleghi in tutta Italia. Dopo un anno mi è stata proposta l’opportunità di diventare responsabile comunicazione, sfida che ho accettato con grande entusiasmo. Alla fine del 2016 è stato deciso di sviluppare all’interno della mia funzione anche l’area legata alla Csr, quella che io chiamo Corporate Sustainability.

DALLA COMUNICAZIONE ALLA SOSTENIBILITÀ

Quindi il vostro impegno nella sostenibilità è relativamente recente?

Non abbiamo iniziato tantissimi anni fa, ma da quando abbiamo iniziato a fine 2016 non ci siamo mai fermati. È un ambito che appassiona me e il mio team, ma soprattutto in cui l’azienda crede tantissimo perché viene considerata un vero e proprio asset strategico d’impresa. La sostenibilità da noi è integrata in ogni processo aziendale, è parte integrante della nostra mission e della nostra strategia di business.

«La sostenibilità da noi è integrata in ogni processo aziendale, è parte integrante della nostra mission e della nostra strategia di business»

Mi sembra che il vostro percorso vada in parallelo con l’evoluzione della sostenibilità nelle aziende retail. Corporate Affairs riferisce direttamente al presidente, quindi è in staff con chi prende le decisioni strategiche?

Esatto. Siamo da tempo consapevoli del nostro ruolo di ponte tra industria e consumatore finale. La sostenibilità per noi è un’assunzione di responsabilità nei confronti del pianeta e delle persone. Siamo consapevoli che la nostra attività e la nostra dimensione generano un impatto. Con circa 780 punti vendita e 23.000 collaboratori, siamo consapevoli del nostro ruolo all’interno del territorio in cui operiamo.

LA STRATEGIA: PLANETARY HEALTH DIET E OBIETTIVI 2030

Veniamo al tema principale. Il cuore della vostra strategia sostenibile è l’impegno sulla Planetary Health Diet. In cosa consiste esattamente e perché Lidl ha intrapreso questa strada?

Abbiamo preso questo impegno, in collaborazione con il Wwf, per allineare il nostro assortimento ai principi della Planetary Health Diet. L’obiettivo è ambizioso: entro il 2030, vogliamo aumentare del 20%

la quota di proteine vegetali, frutta e verdura vendute. Le azioni concrete includono: aumentare i prodotti plant-based nell’assortimento; incrementare del 10% la quota di cereali integrali nei prodotti a marchio; sviluppare ulteriormente la gamma di frutta e verdura, che già oggi conta 15 referenze biologiche.

Questa iniziativa segna una svolta, perché passiamo dal semplice “educare” il consumatore a intervenire direttamente sull’offerta. Siamo infatti convinti che sia necessaria una trasformazione del sistema alimentare globale e il nostro obiettivo è guidare il cliente verso scelte di consumo più responsabili, offrendo alternative sane, sostenibili e, grazie al nostro modello di business, a un prezzo accessibile.

+20% quota di proteine vegetali, frutta e verdura vendute entro il 2030

+10% quota di cereali integrali nei prodotti a marchio entro il 2030

2050 allineamento completo alla Planetary Health Diet Partnership strategica con Wwf per la definizione degli obiettivi Approccio: intervento diretto sull’offerta, non solo educazione del consumatore

Fonte: Lidl Italia, partnership Wwf

IL RUOLO DEL RETAILER: PONTE TRA INDUSTRIA E CONSUMATORE

Con un assortimento composto per l’80% da private label, Lidl ha una notevole influenza sul mercato. Come vedete il ruolo del retailer nel guidare il cambiamento?

Riconosciamo pienamente il nostro ruolo di “ponte” tra l’industria e il consumatore finale. La nostra vera leva è l’assortimento a marchio proprio. Questo controllo diretto ci permette di agire non solo sulla tipologia di prodotti, ma anche sulle ricette e sulle politiche di approvvigionamento, lavorando a stretto contatto con i nostri fornitori.

«Siamo consapevoli

che determinate

scelte fatte da un retailer della nostra dimensione possano fungere da volano positivo per l’intero settore»

Siamo consapevoli che determinate scelte fatte da un retailer della nostra dimensione possano fungere da volano positivo per l’intero settore; vogliamo influenzare i trend e le dinamiche di mercato, contribuendo così a contrastare le sfide globali della grande distribuzione.

LA QUESTIONE DEI GREEN CLAIMS

Secondo i dati dell’Osservatorio Immagino, l’84,2% della spesa degli italiani va a prodotti con green claim sul packaging. Questo dato fa parte delle premesse della vostra azione? E più in generale secondo te c’è consapevolezza nel settore che “il green è ovunque” e quindi serve un green diverso?

Penso che la consapevolezza ci sia nel nostro settore ed è cresciuta negli ultimi anni, anche grazie alle normative. Quello che mi chiedo è se ci sia altrettanta consapevolezza nel consumatore. Quanto è consapevole di aver fatto un acquisto perché il prodotto aveva un green claim?

Direi che proprio perché sono dappertutto i green claim non rappresentano un motivo di scelta per il consumatore, piuttosto sono diventati una commodity che viene utilizzata per rafforzare il posizionamento di qualsiasi prodotto.

Infatti. Tutto è green da un lato, dall’altro diventano più stringenti le regole della comunicazione in questo ambito quindi certamente andiamo a migliorare sul fronte della trasparenza. Sono comunque temi complessi e la cosa che può fare la differenza è trovare la chiave per far sì che il consumatore possa fruire efficacemente dei claim ambientali e sentirsi così parte di una grande azione per il benessere umano e del pianeta.

LA SEMPLIFICAZIONE PER IL CONSUMATORE

Tornando all’impegno per la Planetary Health Diet direi che questo forse è il modo migliore per semplificare anche il carico cognitivo del consumatore, non credi?

Assolutamente. L’idea di aumentare la quota di prodotti di origine vegetale venduti è un’alternativa più sana che nella sua produzione prevede un utilizzo inferiore di risorse. È un mix tra scelte fatte a monte dai retailer che indirizzano il comportamento d’acquisto e storytelling che deve trovare la chiave giusta per essere compreso dal consumatore.

Certo. E il consumatore di solito fa la spesa velocemente, spesso distratto. Non possiamo pensare che calcoli l’impronta di ogni prodotto...

Esatto. Dobbiamo semplificargli la vita e aiutarlo a mangiare meglio spendendo meno. La ricetta vincente sembra essere proprio questa: mangiare meglio, spendendo meno.

«Dobbiamo semplificare la vita al consumatore e aiutarlo a mangiare meglio spendendo meno»

L’APPROCCIO LIDL ALLA SOSTENIBILITÀ

Intervento diretto sull’offerta Non solo educare il consumatore, ma modificare concretamente l’assortimento verso alternative più sane e sostenibili

Leva della private label (80%) Controllo diretto su ricette, ingredienti e politiche di approvvigionamento

Prezzo accessibile Alternative sane e sostenibili rese disponibili a prezzi competitivi grazie al modello discount

Semplificazione per il consumatore Ridurre il carico cognitivo: il consumatore sceglie prodotti migliori senza dover calcolare impatti

Fare sistema Consapevolezza che le scelte di un grande retailer possono essere volano per l’intero settore

HUMAN & GREEN RETAIL EXPERIENCE: FARE SISTEMA

Proprio con questa idea di fondo, aiutare il consumatore a mangiare meglio, riducendo l’impronta ambientale e spendendo meno, è nato il nostro progetto Human & Green Retail Experience che propone di applicare i principi della dieta mediterranea ai fondamentali del retail - un’idea vicina al vostro impegno per la Planetary Health Diet.

Il progetto di cui parli mi ha incuriosito molto. Sicuramente sarà utile un primo confronto per capire se possiamo fare sistema, visto che l’obiettivo pare essere comune.

Siamo in fase di avvio con i nostri obiettivi al 2030, che sono una prima anticipazione del nostro allineamento alla Planetary Health Diet entro il 2050. La sfida ora è rendere questi principi un’esperienza d’acquisto semplice per il consumatore. Dobbiamo trovare il modo corretto di raccontare queste alternative, spiegando che una scelta più sana comporta anche un minor utilizzo di risorse.

Allora ci diamo appuntamento al prossimo Human & Green Retail Forum?

Assolutamente. Spero che potremo confrontarci per unire le forze e fare sistema. La transizione ecologica è una responsabilità di tutti, e l’azione di leadership che stiamo facendo vuole essere di stimolo perché tutto il mondo della distribuzione vada verso una maggiore consapevolezza del proprio ruolo nell’aiutare le persone a vivere meglio e mangiare meglio.

«La transizione ecologica è una responsabilità di tutti. Vogliamo essere di stimolo perché tutto il mondo della distribuzione vada verso una maggiore consapevolezza»

Parte II: Dalla dieta mediterranea all’intelligenza artificiale

Quando il patrimonio Unesco diventa algoritmo per il retail del futuro

Come trasformare secoli di sapienza alimentare in uno strumento operativo per guidare le scelte quotidiane di milioni di persone

La Dieta Mediterranea è un patrimonio immateriale dell’umanità Unesco, un modello di sostenibilità e un pilastro di salute scientificamente validato. Ma come si traduce tutto questo in uno strumento concreto che aiuti davvero le persone a fare una spesa migliore? Come si trasforma la saggezza di secoli di cultura alimentare in intelligenza operativa per il business del retail?

È la sfida del progetto Human&Green Retail Experience: non fornire una soluzione preconfezionata, ma costruire insieme un percorso che sia scientificamente rigoroso e operativamente praticabile. Perché siamo consapevoli che le scelte nella costruzione di questo sistema avranno un impatto diretto sull’intera filiera agroalimentare italiana.

«La riforma costituzionale del 2022 ha posto salute e ambiente come limiti all’attività economica. Non è più solo un’opportunità, è un imperativo. E il retail, attraverso cui passa la maggior parte delle scelte alimentari, si trova al centro di questa responsabilità»

Enrico Giovannini, coordinatore scientifico del progetto e direttore scientifico Asvis

UN SISTEMA CHE INIZIA DAL DIALOGO

La base di partenza è un algoritmo a due livelli, progettato per essere flessibile e trasparente. Al primo livello, ogni categoria merceologica riceve un punteggio base calcolato su dati scientifici consolidati: quanto quella categoria si avvicina ai principi della Dieta Mediterranea, qual è il suo impatto ambientale, quale livello di trasformazione industriale subisce, quale densità nutrizionale offre.

Prendiamo la pasta di grano duro: parte con un punteggio alto perché i cereali sono alla base della piramide mediterranea. Una conserva di legumi parte ancora più in alto perché i legumi sono proteine vegetali raccomandate. Un preparato per dolci ultra-proces-

sato parte da valori più bassi. È il punto di partenza, la fotografia scientifica di quella categoria.

Al secondo livello entrano in gioco gli attributi specifici del singolo prodotto: è stagionale? È di origine locale? Proviene da agricoltura biologica? È prodotto in filiera corta? Ogni caratteristica aggiunge o sottrae punti, permettendo ai prodotti virtuosi di emergere anche in categorie tradizionalmente meno valorizzate.

Ma questa architettura è solo il punto di partenza, non di arrivo. Sarà il confronto con i produttori, gli esperti di nutrizione, i rappresentanti del mondo agricolo a permetterci di calibrare pesi e valutazioni in modo equo ed efficace.

LE DOMANDE CHE RISOLVEREMO INSIEME

Siamo consapevoli che la teoria deve confrontarsi con la complessità del mercato reale. Alcuni nodi cruciali emersi durante lo sviluppo del prototipo richiederanno un dialogo costruttivo con l’intera filiera.

Come si traduce un criterio pensato per una dieta individuale in una valutazione su un singolo prodotto? Prendiamo l’olio d’oliva: il sistema Medas raccomanda di consumarne almeno quattro cucchiai al giorno. Ma come valutiamo una salsa pronta che contiene olio d’oliva? Quali soglie quantitative dobbiamo definire per gli ingredienti chiave? Serve un lavoro accurato di traduzione dal consumo alla composizione.

Poi c’è la questione della tradizione. Molti prodotti d’eccellenza del patrimonio mediterraneo potrebbero essere penalizzati da classificazioni pensate per l’industria moderna. L’aceto balsamico tradizionale di Modena richiede anni di invecchiamento in batterie di botti, un processo complesso che alcune classificazioni catalogano come “ultra-processato”. Alcuni formaggi stagionati seguono metodi tramandati da generazioni. Come distinguiamo un processo industriale standardizzato da uno artigianale che è parte integrante della nostra cultura?

C’è poi il tema dell’autenticità. Che peso dare all’origine geografica certificata - una Dop, una Igp - rispetto alla pura composizione nutrizionale? Come premiare l’uso di varietà autoctone e la tutela della biodiversità, elementi chiave del riconoscimento Unesco della Dieta Mediterranea? Un pomodoro San Marzano Dop coltivato con metodi tradizionali ha lo stesso valore di un pomodoro generico? La risposta sembra ovvia, ma tradurla in numeri richiede metodo e condivisione.

E infine la sostenibilità culturale: i metodi di conservazione tradizionali - i sott’olio, l’essiccazione al sole, la salatura - fanno parte del nostro patrimonio culinario ma possono comportare un maggior contenuto di sale o grassi. Come valutiamo questi processi rispetto a quelli industriali moderni? Serve un equilibrio tra rigore nutrizionale e rispetto per la tradizione.

L’ARCHITETTURA DELL’ALGORITMO

Livello 1 - Punteggio base di categoria (su 100 punti totali)

n Aderenza principi Dieta Mediterranea: 40 punti

n Impatto ambientale: 30 punti

n Livello trasformazione Nova: 20 punti

n Densità nutrizionale: 10 punti

Livello 2 - Attributi specifici del prodotto (bonus/malus)

n Stagionalità: +15 punti

n Origine locale: +10 punti

n Filiera corta: +10 punti

n Certificazione biologica: +8 punti

n Varietà autoctone: valutazione in fase di definizione

n Dop/Igp: valutazione in fase di definizione

Partner scientifici: Università di Milano, Future Food Institute, Asvis

Partner operativi: Ndb, Plef, Cortilia, EasyCoop

Nota: pesi e valutazioni soggetti a perfezionamento attraverso workshop con gli stakeholder della filiera

L’OPPORTUNITÀ CHE SI APRE

Queste non sono domande a cui risponderemo da soli chiusi in un laboratorio. Il metodo prevede workshop e tavoli di lavoro per definire insieme all’industria, al mondo agricolo, ai nutrizionisti e ai retailer le linee guida più corrette e scientificamente fondate.

Perché questa è l’opportunità vera: costruire un linguaggio comune che permetta al meglio della produzione italiana di emergere, che dia valore alla qualità senza penalizzare la tradizione, che orienti verso scelte più sane senza imporre una visione rigida e moralistica.

«La Dieta Mediterranea non è solo un modello alimentare, ma un codice culturale e antropologico. Un sistema di relazioni che abbraccia biodiversità, stagionalità, convivialità, interdipendenza con il territorio. Un manifesto di sostenibilità integrale, scritto in secoli di equilibrio tra natura e cultura» sottolinea Sara Roversi, founder e presidente del Future Food Institute, partner scientifico del progetto.

Immaginate un sistema dove un piccolo produttore di pasta artigianale può dimostrare il valore del suo grano antico coltivato in collina. Dove un’azienda che investe in filiera corta e sostenibilità vede riconosciuto questo impegno non solo a parole ma in modo misurabile.

Dove un consumatore può fare scelte consapevoli senza dover decifrare etichette complesse o sentirsi in colpa per ogni acquisto.

Il prototipo sarà presentato il 14 ottobre al forum di Milano, non come punto di arrivo ma come invito all’intera filiera a partecipare attivamente alla fase successiva: testing, perfezionamento, implementazione. I partner scientifici e operativi stanno già lavorando per creare le interfacce e gli strumenti che trasformeranno questo sistema in cruscotti strategici per i retailer e in esperienze semplici per i consumatori.

VERSO UNA MEDITERRANEAN INTELLIGENCE

La “Mediterranean Intelligence” non è solo un algoritmo. È una piattaforma di dialogo per trasformare il sistema alimentare partendo da ciò che l’Italia e il Mediterraneo hanno di più prezioso: una tradizione millenaria di alimentazione sana, piacevole e sostenibile.

«Il progetto Human&Green Retail Experience nasce dalla volontà di trasformare la Dieta Mediterranea non in un claim nostalgico, ma in un criterio concreto di progettazione della distribuzione alimentare contemporanea» spiega Sara Roversi. «Non è un giudizio morale, né una pagella per premiare o punire i prodotti. È un linguaggio condiviso tra industria, distribuzione, ricerca e cittadinanza, che permette di parlare di cibo non solo in termini di costo e gusto, ma di valore culturale, nutrizionale, ambientale e relazionale».

È il tentativo di dare dignità scientifica e operativa a un patrimonio che rischiamo di perdere sotto l’onda dell’omologazione industriale e del marketing superficiale. È la possibilità di far emergere il valore vero in un mercato dove l’84% dei prodotti porta claim ambientali che non significano nulla.

La trasformazione può iniziare. Ma solo se la affrontiamo come una responsabilità condivisa, con umiltà scientifica e ambizione di sistema. Solo se accettiamo che la complessità del nostro patrimonio alimentare richiede strumenti sofisticati quanto la sua ricchezza.

Il 14 ottobre inizieremo a scrivere insieme questo nuovo capitolo. Perché la Dieta Mediterranea merita di essere molto più di un’etichetta nostalgica: merita di diventare l’intelligenza che guida il futuro del nostro cibo.

Il Retail che Fa Bene: Promuovere Benessere e Sostenibilità Attraverso la Dieta Mediterranea

1. DAL MARKETING ALLA VISIONE SISTEMICA DEL CIBO

Il tuo background imprenditoriale parte dal marketing e comunicazione (You Can Group, Unindustria Bologna), per poi evolvere verso l’innovazione alimentare sistemica. Qual è stato il momento o l’esperienza che ti ha fatto capire che il cibo poteva essere molto più di un business - diventando uno “strumento chiave per curare il mondo”?

[Focus sul percorso imprenditoriale: dalla consulenza marketing (esperienza C-level) alla visione sistemica, passaggio da profit optimization a purpose-driven business, lessons learned applicabili ai retailer in trasformazione]

Il mio percorso nasce da una profonda passione per l’imprenditorialità, la comunicazione strategica e il community engagement. Con You Can Group ho sperimentato fin da subito modelli innovativi di impresa capaci di generare valore economico, culturale e sociale. Abbiamo dato vita a luoghi e iniziative in cui il cibo diventava piattaforma di dialogo, creatività, sperimentazione e partecipazione.

In quegli anni, prima ancora che si parlasse di ecosistemi o di open innovation, stavamo già costruendo comunità attive, ibride, capaci di mettere in connessione persone e competenze, imprese e territori, in nome di un’economia più umana.

Ma è stato proprio lavorando sul campo, osservando da vicino i comportamenti emergenti, le fragilità del-

le filiere e i cambiamenti nelle abitudini di consumo, che ho compreso quanto il cibo fosse molto più di un settore produttivo: era una leva sistemica, una chiave di lettura del mondo. E soprattutto, uno strumento concreto per attivare trasformazioni profonde, in ogni ambito della società.

È stata una palestra straordinaria: mi ha insegnato a leggere i segnali deboli del cambiamento, ad ascoltare i bisogni delle persone e delle imprese, a costruire ecosistemi intorno a un’idea.

Ma qualcosa non mi bastava più. Perché comunicare un prodotto, se quel prodotto non ha impatto positivo sulla vita delle persone o del pianeta? In un mondo iperconnesso, ipercomplesso e vulnerabile, ho sentito il bisogno di passare dal branding alla sostanza. Di lavorare non per vendere meglio, ma per costruire modelli migliori.

Nella società post-industriale e globalizzata in cui viviamo, la rivoluzione digitale sta accelerando ogni processo, ma anche disgregando relazioni, culture, abitudini. Per questo oggi più che mai dobbiamo ri-imparare a riconoscere il valore del cibo: non come merce, ma come connettore universale tra uomo e natura, salute e cultura, tecnologia e tradizione.

Il cibo è vita, nutrimento, cura. È un linguaggio che ci definisce, ci educa, ci forma. È cultura viva e patrimonio condiviso. Mangiare è un atto politico, ecologico, identitario. E se vogliamo davvero affrontare le sfide del nostro tempo — cambiamento climatico, malattie croniche, disuguaglianze — dobbiamo partire da qui.

Da questo sentire profondo è nato il Future Food Institute: un ecosistema ibrido, con un’anima filantropica e una imprenditoriale. Un laboratorio globale che genera conoscenza, forma talenti, supporta istituzioni e imprese. Lavoriamo ogni giorno per trasformare la consapevolezza in azione, l’innovazione in impatto, la ricerca in benessere diffuso.

Il messaggio che oggi rivolgo anche al mondo del retail è semplice ma radicale: non si tratta più solo di ottimizzare i margini, ma di abbracciare un nuovo ruolo sociale. Il punto vendita può diventare un luogo educativo, uno spazio di relazione, un acceleratore di scelte consapevoli. E questo, a mio avviso, è uno dei più grandi atti imprenditoriali del nostro tempo.

Ma la trasformazione riguarda anche il consumatore: è arrivato il momento di ridefinire cosa intendiamo per “convenienza”. Per troppo tempo abbiamo associato il concetto al prezzo, alla promozione, al 3x2. Ma oggi dobbiamo chiederci: “Cosa mi conviene davvero, alla fine dei giochi?”

Mi conviene comprare tanto, a basso costo e di bassa qualità, per poi spendere in salute ciò che ho risparmiato sulla spesa? O mi conviene scegliere un cibo che cura, che previene, che nutre davvero il mio corpo, il mio territorio e la mia comunità? Questa nuova ecologia della scelta è il cuore della rivoluzione alimentare che stiamo costruendo, insieme a chi ha il coraggio di cambiare.

2. LA SCOPERTA DELLA DIETA MEDITERRANEA E LA SCELTA DI POLLICA

A un certo punto del tuo percorso sei arrivata alla dieta mediterranea: come nasce il grande amore per questo modello culturale e perché ti sei trasferita per buona parte del tempo a Pollica? Cosa rappresenta per te oggi la dieta mediterranea, per il tuo lavoro di catalizzatore di innovazioni sociali e sostenibili?

[Focus su: scelta strategica Pollica come case study territoriale, scalabilità modello campus per altre aree marginali, ruolo della GDO nel supportare economie locali, Paideia Campus come R&D lab per innovazioni retail sostenibili]

Ci sono sliding doors nella vita che sembrano piccole deviazioni, e invece cambiano tutto. A me è successo con Pollica, un incontro che ha trasformato il mio modo di vedere il mondo, il cibo, e il mio stesso lavoro.

La verità è che, come tanti, avevo sentito mille volte parlare di Dieta Mediterranea. Un’espressione che scivola via con leggerezza, spesso ridotta a una lista di alimenti.

Ma confesso con onestà: non avevo mai letto davvero il dossier dell’UNESCO che l’ha riconosciuta come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Non avevo mai approfondito il significato più profondo, valoriale, relazionale, sistemico.

È stato un americano a farmi scoprire Pollica — e trovo incredibile che sia stato un altro americano, Ancel

Keys, a scegliere proprio Pollica per codificare scientificamente ciò che oggi chiamiamo “Dieta Mediterranea”. Un paradosso meraviglioso, che ci ricorda quanto a volte gli sguardi esterni ci aiutino a vedere meglio le nostre radici.

Da quel momento, ho iniziato ad andare a fondo. A leggere, studiare, ascoltare. A vedere nella Dieta Mediterranea non solo un modello alimentare, ma un codice culturale e antropologico. Un sistema di relazioni che abbraccia biodiversità, stagionalità, convivialità, interdipendenza con il territorio. Un manifesto di sostenibilità integrale, scritto in secoli di equilibrio tra natura e cultura.

Quando ho camminato per la prima volta tra le colline di Pollica, ho sentito un’energia speciale. Quel luogo non era solo un borgo cilentano: era un laboratorio a cielo aperto dove questa saggezza millenaria poteva essere attualizzata, reinterpretata, trasmessa.

È lì che è nato il Paideia Campus: uno spazio in cui formazione, ricerca e innovazione si fondono con la vita della comunità. Un luogo in cui la Dieta Medi-

terranea si vive, ogni giorno, non come nostalgia del passato, ma come visione del futuro.

Il nostro obiettivo è trasformare Pollica in un modello replicabile, una matrice da adattare ad altri territori marginali. Non per copiarla, ma per trasferirne il metodo, i valori, la visione. E qui entra in gioco anche il ruolo strategico della GDO.

Perché la grande distribuzione può, anzi deve, diventare alleata delle comunità locali, custode delle microfiliere, ambasciatrice della qualità culturale del cibo. La scalabilità del modello mediterraneo non è solo nei prodotti che finiscono sugli scaffali, ma nei processi, nei legami, nella capacità di rigenerare economie e relazioni.

La Dieta Mediterranea non deve diventare l’ennesimo claim pubblicitario, ma può essere un criterio operativo per una distribuzione moderna, responsabile, che promuove salute, coesione sociale e sviluppo sostenibile.

Un nuovo paradigma di prossimità culturale e nutrizionale.

3. L’ALGORITMO

MEDITERRANEO: TRASFORMARE MEDAS IN STRUMENTO OPERATIVO

Il progetto Human&Green Retail Experience rappresenta il primo tentativo di tradurre la Dieta Mediterranea UNESCO in un sistema operativo per la GDO. La sfida tecnica principale è adattare MEDAS - il sistema scientifico per valutare l’aderenza mediterranea individuale - alla classificazione di singoli prodotti commerciali. Esempio concreto: una salsa pronta con olio EVO, pomodoro San Marzano DOP e basilico - come la valutiamo scientificamente “mediterranea”? Quali parametri quantitativi saranno necessari per trasformare i criteri MEDAS in tool di category management?

Tradurre la Dieta Mediterranea da patrimonio immateriale dell’umanità a sistema operativo per la GDO è una sfida tanto tecnica quanto culturale. E forse, proprio questa seconda dimensione è la più delicata.

Perché stiamo parlando di un patrimonio che promuove l’agricoltura contadina, la stagionalità, il mangiare insieme attorno a una tavola, il rispetto del tempo, delle relazioni, del gesto di cucinare. Un’eredità che, a prima vista, sembra lontana anni luce dalle logiche della grande distribuzione.

Verrebbe quasi da dire: teniamo la Dieta Mediterranea fuori dal retail.

E invece no.

Proprio oggi dobbiamo fare il contrario: portare la campagna vera anche dentro il retail, avvicinare il cittadino alla terra, creare un ponte sistemico tra piazze, aziende agricole, comunità e punti vendita.

Il progetto Human&Green Retail Experience nasce esattamente da qui: dalla volontà di trasformare la Dieta Mediterranea non in un claim nostalgico, ma in un criterio concreto di progettazione della distribuzione alimentare contemporanea.

Un modo per restituire al retail il suo potenziale trasformativo, riconoscendogli anche un ruolo sociale ed educativo.

La chiave operativa è stata la trasformazione del sistema MEDAS, originariamente pensato per misurare l’aderenza mediterranea degli individui, in uno strumento oggettivo di valutazione dei prodotti. Un lavoro di ricerca che abbiamo condotto con rigore, consapevoli che senza basi scientifiche rischiamo di alimentare mode, non cambiamenti reali.

Siamo partiti da domande molto pratiche: n Come valutiamo un prodotto industriale in chiave “dieta mediterranea”?

Radicate nella natura, Coltivate biologicamente

350 agricoltori altoatesini si dedicano da generazioni alla coltivazione di mele biologicheun impegno costante per la qualità e per una disponibilità assicurata tutto l’anno.

n Quanto incide la qualità dell’olio, la provenienza del pomodoro, il metodo di trasformazione?

n Possiamo costruire una metrica che traduca la cultura in numeri, senza svuotarla di significato?

La risposta è stata un sistema di scoring da 0 a 100, sviluppato su una matrice di parametri ponderati:

n composizione degli ingredienti principali,

n presenza e quantità di elementi chiave della dieta mediterranea (es. EVO, legumi, vegetali freschi, cereali integrali),

n valore territoriale e culturale del prodotto (es. DOP, IGP, filiera corta),

n grado di trasformazione,

n impatto ambientale,

n e soprattutto aderenza ai principi di stagionalità, territorialità e convivialità.

Questo algoritmo è pensato per essere integrato nei sistemi gestionali della GDO, ma anche reso visibile al consumatore, per accompagnarlo verso scelte più consapevoli e coerenti.

Non è un giudizio morale, né una pagella per premiare o punire i prodotti. È un linguaggio condiviso tra industria, distribuzione, ricerca e cittadinanza, che permette di parlare di cibo non solo in termini di costo e gusto, ma di valore culturale, nutrizionale, ambientale e relazionale.

Per questo crediamo che il retail debba e possa ripensarsi: non più solo luogo di consumo, ma spazio di connessione tra città e campagna, tra chi produce e chi consuma, tra chi semina cultura e chi ha il potere di coltivarla.

E forse, in questo processo, l’algoritmo non è un punto di arrivo, ma un nuovo punto di partenza.

4. BUSINESS CASE VS RIGORE SCIENTIFICO: LA SFIDA NOVA

Nell’algoritmo Human&Green abbiamo integrato la classificazione NOVA (ultra-processati) con i principi mediterranei, ma emerge un dilemma commerciale: prodotti DOP storici come l’Aceto Balsamico di Modena o conserve tradizionali sotto olio EVO potrebbero tecnicamente classificarsi NOVA 3-4. Per un retailer, questi sono prodotti premium ad alta marginalità e forte identità territoriale. Come bilanciare rigore scientifico e realtà commerciale? La tua esperienza internazionale suggerisce strategie per portare industry, fornitori e GDO verso standard condivisi che non penalizzino le eccellenze italiane?

Questa è davvero una delle domande più complesse — e per me anche una delle più importanti. Perché tocca il cuore della tensione tra modelli scientifici universali e specificità culturali locali.

E ci obbliga a chiederci: qual è il limite del rigore scientifico, quando incontra la complessità della vita reale?

Il sistema NOVA, nato per classificare gli alimenti secondo il grado di trasformazione, è uno strumento utile per interpretare la crescente industrializzazione del cibo. Ma se applicato in modo rigido, rischia di non cogliere le sfumature e di penalizzare ingiustamente prodotti che sono pilastri della cultura alimentare italiana.

Penso all’Aceto Balsamico di Modena, alle conserve artigianali sotto olio EVO, ai prodotti fermentati o stagionati: tecnicamente, possono rientrare nei livelli 3 o 4 di NOVA. Ma culturalmente, economicamente e socialmente sono tutto tranne che “ultraprocessati” nel senso negativo del termine. Sono testimoni di sapere, territorio, biodiversità e identità.

Ecco perché, in Human&Green, abbiamo lavorato per affiancare alla lente NOVA quella mediterranea, costruendo un modello di lettura più integrato, più umano e più sistemico.

Serve una nuova metrica di sostenibilità, ispirata ai principi dell’ecologia integrale, come indicato anche nell’Enciclica Laudato Sì di Papa Francesco: una visione che non separa l’ambiente dalla salute, dalla cultura, dalla dimensione sociale ed economica.

Questa prospettiva è la stessa che oggi guida anche i criteri ESG nei grandi fondi di investimento internazionali, che finalmente iniziano a valutare l’impatto non solo ambientale, ma anche sociale e di governance. E se vale per l’energia o per l’industria, deve valere ancora di più per il cibo, che ha un impatto quotidiano, intimo e trasformativo sulle persone e sui territori. Per questo, la nostra proposta non è mai “contro la scienza”, ma oltre la semplificazione.

Proponiamo un metodo che:

n integra il rigore con il contesto, n valorizza le eccellenze territoriali senza distorcerne l’identità, n accompagna l’industria alimentare nella transizione, senza creare barriere insostenibili.

Lo facciamo con un approccio diplomatico e co-creativo: coinvolgendo consorzi, produttori, distributori, scienziati e comunità locali. Lavoriamo per creare standard condivisi, che siano scientificamente fondati ma anche culturalmente rispettosi e socialmente giusti.

L’obiettivo non è mai punire i prodotti, ma guidarli in una traiettoria di miglioramento, nel rispetto della loro identità e del loro valore simbolico. Anche perché molti prodotti “critici” dal punto di vista della trasformazione possono diventare eccellenti se miglioriamo ingredientistica, processi, trasparenza e impatto ambientale.

E il retail ha un ruolo cruciale in tutto questo: può diventare promotore di questa nuova cultura alimentare, capace di integrare valore economico, impatto positivo e patrimonio culturale.

Non possiamo più permetterci una sostenibilità a compartimenti stagni. Il cibo è troppo importante per essere valutato solo per calorie o processi. È cultura viva. È capitale sociale. È futuro.

5. DOMANDE DI SINTESI E VISIONE FUTURA

Se dovessi immaginare l’Italia del 2035, dopo 10 anni di implementazione del Mediterranean Retail Intelligence, come sarebbe cambiata la spesa quotidiana delle famiglie italiane? E quale ruolo avrebbe il retail nella promozione della salute pubblica e della sostenibilità ambientale? Il progetto richiede un cambio di paradigma: da retailer “intermediari commerciali” a retailer “promotori di benessere”. Quali sono le resistenze maggiori che prevedi nel sistema distributivo italiano? E quali sono invece le leve più potenti per accelerare questa trasformazione?

In un’epoca in cui molti parlano di “sostenibilità” ma spesso in modo superficiale, come distingui tra genuine innovazioni rigenerative e “green washing”? E quali sono i criteri che usi per valutare se un progetto sta davvero contribuendo al cambiamento sistemico che promuovi?

Se chiudo gli occhi e penso all’Italia del 2035, dopo dieci anni di implementazione del Mediterranean Retail Intelligence, immagino un Paese dove la spesa è quasi quotidiana e non è più un atto meccanico, ma un gesto consapevole.

Un’Italia in cui le famiglie entrano nei punti vendita non solo per “comprare alimenti”, ma per nutrire la propria salute, per sostenere la propria comunità, per partecipare a un’economia che ha rimesso al centro la vita.

I supermercati saranno spazi di orientamento e educazione, veri e propri hub di benessere diffuso. Non più solo “intermediari commerciali”, ma promotori attivi di stili di vita sani, sostenibili, accessibili e culturalmente radicati.

I prodotti saranno raccontati per ciò che sono davvero: non solo etichette nutrizionali, ma storie di filiera, relazioni di fiducia, scelte etiche.

E il concetto di “convenienza” sarà stato rivoluzionato: non sarà più solo il prezzo al chilo, ma il valore nel lungo periodo, per la salute, per l’ambiente, per l’economia locale.

Questa trasformazione richiede un cambio di paradigma profondo, che non si può delegare a un algoritmo.

Serve coraggio. Serve leadership.

E servono alleanze nuove tra industria, distribuzione, ricerca, istituzioni e cittadini.

Le resistenze?

Le vediamo già oggi. Sono legate al “sistema”, all’inerzia dei modelli dominanti, alla paura di perdere margini, alla frammentazione delle competenze, ma anche a una certa sottovalutazione del potenziale educativo del retail. Troppo spesso il punto vendita è ancora visto come canale, e non come ecosistema.

Le leve più potenti?

n La domanda crescente di autenticità, soprattutto da parte delle nuove generazioni.

n La trasparenza radicale abilitata dai dati.

n L’urgenza di risposte sistemiche alla crisi climatica e sanitaria.

n E soprattutto, il fatto che tutto questo può essere anche una straordinaria opportunità economica, se approcciato con intelligenza e visione.

Ma per distinguere tra chi cavalca la “sostenibilità” per moda e chi lo fa per vocazione, servono criteri chiari.

Personalmente, valuto i progetti attraverso alcune domande molto semplici, ma radicali:

1. Genera un impatto positivo reale, misurabile, duraturo?

2. Coinvolge più attori della filiera in modo inclusivo e trasparente?

3. Mette al centro l’essere umano, nella sua salute, dignità e relazioni, oppure si limita a ottimizzare performance ambientali?

4. Rispetta e valorizza il capitale culturale e sociale del cibo, oppure lo riduce a commodity?

5. È replicabile e scalabile, senza tradire i suoi principi fondativi?

Se la risposta a queste domande è “sì”, allora non è green washing.

È transizione vera, è sistema che evolve, è futuro che si costruisce.

E chi guida la trasformazione, oggi, non è chi ha la tecnologia migliore, ma chi ha la visione più profonda e la coerenza per portarla avanti.

Dalla tradizione al sistema: come rendere operativo il patrimonio dieta mediterranea

Intervista a Enrico Giovannini, direttore scientifico ASviS e coordinatore scientifico Human&Green Retail Experience

Di Domenico Canzoniero

«La riforma costituzionale del 2022 ha introdotto per la prima volta nella storia repubblicana “salute e ambiente” come limiti costituzionali all’attività economica. Si tratta di una svolta epocale che forse ha avuto ancora poca risonanza e applicazione nella quotidianità delle imprese. Ma le conseguenze arriveranno, attraverso leggi, giurisprudenza, politiche pubbliche. Chi anticipa questa evoluzione si posiziona meglio per il futuro»

Enrico Giovannini, direttore scientifico ASviS

Quando Enrico Giovannini parla di sostenibilità, non usa il linguaggio delle buone intenzioni. Usa quello della Costituzione, dei dati scientifici e del difficile bilanciamento tra interessi legittimi. Economista, ex ministro, ex presidente dell’Istat, oggi direttore scientifico di ASviS e coordinatore scientifico del progetto Human&Green Retail Experience, Giovannini rappresenta quella sintesi rara tra rigore accademico e pragmatismo operativo che serve per trasformare principi in sistemi concreti.

Ed è proprio l’applicazione di principi e sistemi che andiamo ad esplorare in questa intervista in cui Giovannini ci guida alla scoperta del progetto Human&Green Retail Experience e del suo contesto scientifico e normativo.

LA RIFORMA COSTITUZIONALE: UN PRINCIPIO CHE RICHIEDE ATTUAZIONE

Professor Giovannini, partiamo dalla riforma costituzionale del 2022. Lei è stato tra i promotori di questa modifica. Che natura ha questo cambiamento: è un vincolo giuridico operativo o un principio programmatico?

La riforma richiede un profondo cambiamento nei comportamenti privati e nelle politiche pubbliche. Modificare, per la prima volta nella storia repubblicana, i principi fondamentali della Costituzione è stato un atto forte e simbolico, denso di conseguenze culturali oltre che giuridiche. L’articolo 9 impone alla Repubblica di tutelare l’ambiente, gli ecosistemi e la biodiversità “anche nell’interesse delle future generazioni, mentre l’articolo 41 ora stabilisce che l’iniziativa economica privata “non può svolgersi” in modo da recare danno alla salute e all’ambiente: quel “non può” è un imperativo costituzionale, non un suggerimento.

Ma attenzione: cambiare la Costituzione non basta. Servono azioni, collettive e individuali, coerenti con quei principi e quelle norme. Servono leggi e regole per tutelare pienamente nella pratica quei principi. Il compito di realizzare il difficile bilanciamento tra interessi diversi spetta al Parlamento e alla magistratura costituzionale.

Quindi la riforma da sola non crea automaticamente nuovi obblighi immediati per le imprese?

Non nel senso di obblighi dettagliati e direttamente azionabili. Ma già stiamo vedendo le conseguenze concrete. Si pensi alla storica sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il Decreto Priolo, proprio citando gli articoli 9 e 41 della Costituzione. Ora ben presto ogni nuova legge dovrà essere accompagnata da una sua valutazione d’impatto intergenerazionale, se verrà approvato definitivamente dalla Camera dei deputati il relativo disegno di legge già approvato in Senato. Questo significherebbe tutelare concretamente anche gli interessi delle future generazioni.

Cambia qualcosa per chi fa impresa oggi?

Cambia il contesto interpretativo generale. Prima, ambiente e salute erano valori impliciti o derivati da altre norme. Ora sono nella Carta fondamentale, con pari dignità rispetto alla libertà d’impresa. Quando si legifera, quando si valutano politiche pubbliche, quando le imprese definiscono strategie di lungo periodo e decidono quali processi produttivi intendono attuare, c’è un riferimento costituzionale esplicito che prima non c’era. E questo tenderà a tradursi – attraverso leggi, giurisprudenza, politiche pubbliche – in aspettative crescenti verso comportamenti responsabili.

«La riforma crea un imperativo costituzionale che richiede attuazione legislativa e comportamenti individuali coerenti con i nuovi principi. Non è solo un’aspirazione etica»

IL QUADRO COSTITUZIONALE E SANITARIO

Riforma Costituzionale 2022:

n Art. 9: tutela ambiente, biodiversità, ecosistemi per le future generazioni

n Art. 41: attività economica “non può svolgersi” in modo da recare danno a salute e ambiente

n Natura giuridica: imperativo costituzionale che richiede attuazione legislativa e interpretazione giurisprudenziale

n Prima applicazione: sentenza Corte costituzionale su Decreto Priolo (citazione esplicita art. 9 e 41)

n In arrivo: valutazione impatto intergenerazionale per ogni nuova legge (DDL in discussione)

Impatto sanitario dieta in Italia (GBD 2017):

n 97.821 morti prevenibili all’anno per cattiva alimentazione

n 13,5% di tutti i DALYs (anni di vita persi per disabilità) nazionali

n 8 milioni di persone affette da disabilità dieta-correlate annualmente

n 10° posizione tra i 20 paesi più popolosi del mondo per impatto dieta su mortalità

Impatto climatico alimentazione Europa (JRC):

n 50% delle emissioni consumer deriva da scelte alimentari

n 30% delle emissioni totali europee dal sistema alimentare

n 4,8 miliardi tonnellate CO₂eq annue dai consumi europei

Rapporto WHO Climate-Health Nexus (2025):

n 100.000 morti per caldo estremo in Europa (2022-2023)

n Europa si riscalda al doppio della media globale

SALUTE

Il rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Saluta a cui state lavorando documenta una convergenza drammatica tra crisi climatica e crisi sanitaria. Come si collega questo alle scelte alimentari?

Il sistema alimentare è responsabile di circa il 30% delle emissioni di gas serra in Europa, e il 50% dell’impronta ambientale dei consumi europei deriva dalle scelte alimentari individuali. Contemporaneamente, secondo i dati del Global Burden of Disease Study analizzati dalla Società Italiana di Nutrizione Clinica e Metabolismo, in Italia abbiamo 97.821 morti prevenibili all’anno attribuibili alla cattiva alimentazione. Come ASviS sosteniamo il principio del One Health, un approccio integrato che riconosce l’interconnessione fondamentale tra la salute delle persone, degli animali, delle piante e degli ecosistemi. Anche come conseguenza del Covid-19, una fascia sempre più ampia della popolazione è consapevole che ciò che mangiamo e come gli alimenti vengono prodotti e trasformati sono rilevanti per la nostra salute e per l’ambiente.

Cosa intende quando parla di interconnessione?

Tra i tasselli che tornano a essere di primaria importanza, sotto i diversi profili di sostenibilità economica, sociale, ambientale, ci sono le pratiche di allevamento, la ricchezza del suolo, la salubrità delle acque e dell’aria, gli aspetti nutrizionali delle nostre produzioni, i prodotti di qualità a prezzi accessibili e la fiducia del consumatore verso il prodotto. Tutto questo ha comportato l’assegnazione al cibo di un ruolo centrale da parte dell’opinione pubblica e dei policy maker.

E dove entra in gioco la distribuzione?

La maggior parte delle decisioni alimentari degli italiani avviene nei supermercati. La grande distribuzione non si limita a vendere prodotti: orienta concretamente quelle scelte che rappresentano la metà delle emissioni climatiche dei cittadini e una percentuale significativa dei loro rischi sanitari. Durante la pandemia, la grande distribuzione si è dimostrata un’infrastruttura di resilienza sociale. Quella stessa infrastruttura può giocare un ruolo chiave nella transizione verso stili alimentari più sani e sostenibili.

Lei coordina scientificamente il progetto Human&Green Retail Experience. Perché ha accettato questo ruolo?

Per tre ragioni. La prima è metodologica: il progetto parte da basi scientifiche solide, non da suggestioni. I valori e i prodotti che caratterizzano la dieta mediterranea consentono di disporre di cibo salubre, di provenienza affidabile e spesso ravvicinata, la cui produzione determina i minimi impatti ambientali possibili. Non è un caso che essa sia stata riconosciuta in seno all’UNESCO come patrimonio immateriale dell’umanità.

La seconda ragione è operativa: il progetto traduce complessità scientifica in uno score comprensibile e utilizzabile. Integra i parametri UNESCO della Dieta Mediterranea, le metodologie LCA per l’impatto ambientale, i dati epidemiologici validati. È l’opposto del greenwashing.

La terza è sistemica: coinvolge l’intera filiera, dalla produzione alla distribuzione, creando un linguaggio comune.

Ma sistemi di scoring alimentare esistono già. Cosa rende questo diverso?

«Abbiamo una convergenza storica tra principi costituzionali, urgenza climatica, necessità sanitaria e domanda di mercato. Chi la coglie per primo acquisisce vantaggio strategico»

La differenza è che questo non parte da un algoritmo astratto o da una visione parziale della nutrizione. Parte da un patrimonio UNESCO validato scientificamente. Non stiamo inventando nulla: stiamo rendendo operativo ciò che già sappiamo funzionare. È un modello che ha dimostrato efficacia sanitaria e sostenibilità ambientale nel lungo periodo.

DALLA TEORIA AL SISTEMA: PERCHÉ HUMAN&GREEN FUNZIONA

E funziona davvero su scala industriale?

I test pilota su Cortilia ed EasyCoop dimostrano che sì, è scalabile. Lo stesso algoritmo serve mercati diversissimi: dal gourmet al mainstream. Questo è fondamentale: se crei un sistema che funziona solo per nicchie di mercato, non cambi il sistema. Qui l’obiettivo è diverso: rendere le scelte salutari e sostenibili accessibili, comprensibili e convenienti per la maggioranza della popolazione.

Alcuni critici sostengono che questi sistemi semplificano troppo la complessità nutrizionale.

Ogni sistema di misurazione è per definizione una semplificazione. La domanda è: questa semplificazione è scientificamente fondata e operativamente utile? Nel nostro caso pensiamo che la risposta sia positiva. Stiamo costruendo un comitato scientifico che includerà esperti di nutrizione, LCA, economia circolare, epidemiologia. Non è un algoritmo nato in una stanza di tecnici distanti dal mondo reale: è uno strumento che si basa su decenni di ricerca e che traduce conoscenze validate in un punteggio utilizzabile.

Come si inserisce tutto questo nel quadro europeo?

Non dimentichiamoci che già nel 2020, nell’ambito del Green Deal, la Commissione europea ha adottato la strategia Farm to Fork, finalizzata a migliorare la sostenibilità del sistema agroalimentare e l’accesso al cibo sano e sostenibile, incrementando il reddito dei produttori primari. Nel 2024, con il secondo mandato Von der Leyen, questo impegno è stato rinnovato attraverso la nuova “Visione per l’agricoltura e l’alimentazione” che indica come garantire la competitività e la sostenibilità a lungo termine del nostro settore agricolo entro i confini planetari.

«I valori della dieta mediterranea consentono cibo salubre, di provenienza affidabile, con minimi impatti ambientali. Ora si tratta di rendere operativo questo patrimonio UNESCO»

GLI INGREDIENTI DELLA CREDIBILITÀ SCIENTIFICA

Basi metodologiche Human&Green Retail Experience:

1. Patrimonio UNESCO: Dieta Mediterranea riconosciuta come modello sostenibile

2. Validazione epidemiologica: Dati GBD, WHO, JRC su impatti sanitari e ambientali

3. Metodologia LCA: Life Cycle Assessment per impatto ambientale prodotti

4. Comitato scientifico in costruzione: Nutrizione, ambiente, economia, epidemiologia

5. Test pilota realizzati: Cortilia (gourmet) ed EasyCoop (mainstream) dimostrano scalabilità

6. Integrazione filiera: Coinvolgimento agricoltura, industria, distribuzione

7. Trasparenza algoritmica: Ogni punteggio tracciabile e verificabile

Differenza da altri sistemi:

n Non parte da algoritmo astratto ma da modello UNESCO validato

n Non si limita a nutrizione ma integra impatto ambientale

n Non è strumento di nicchia ma scalabile su massa

n Non è autoreferenziale ma coinvolge filiera completa

Quadro europeo di riferimento:

n Farm to Fork Strategy (2020): riduzione pesticidi, aumento superficie bio, lotta sprechi

n Visione Von der Leyen 2024: competitività e sostenibilità entro confini planetari

n Obiettivi: reddito giusto agricoltori, premialità per chi lavora con la natura, zero emissioni 2050

«La credibilità scientifica non è opzionale: è il fondamento che distingue uno strumento serio dal greenwashing» - E. Giovannini

Il progetto richiede una governance condivisa tra tutti gli stakeholder: produttori, distributori, istituzioni. È fattibile?

È complesso ma necessario. E abbiamo modelli da cui imparare. Prendiamo il protocollo FSC per le foreste o il Marine Stewardship Council per la pesca: sono sistemi multi-stakeholder che funzionano perché hanno governance chiare, standard verificabili, terze parti indipendenti. HG Retail Experience può seguire questo modello: uno standard scientifico, una governance partecipata, meccanismi di verifica trasparenti. Ma nel settore alimentare italiano la frammentazione è estrema.

Vero, ed è proprio questo il punto. Un sistema di scoring condiviso può diventare il linguaggio comune che manca. Oggi ogni attore parla il proprio dialetto: il produttore parla di qualità, il distributore di margini, l’ambientalista di emissioni, il nutrizionista di salute. Uno score mediterraneo integrato traduce tutto questo in un’unica metrica comprensibile. Diventa l’esperanto della filiera.

Chi deve guidare questa governance?

Serve un’architettura a tre livelli. Al vertice, un comitato scientifico indipendente che valida metodologie e aggiornamenti: università, enti di ricerca, ASviS. Al centro, un tavolo operativo con i rappresentanti della filiera: agricoltura, industria, distribuzione. Alla base, meccanismi di verifica trasparenti e audit indipendenti. È un modello che richiede investimento iniziale, ma una volta implementato diventa autosostenibile.

«Serve un’architettura chiara: comitato scientifico indipendente al vertice, tavolo operativo della filiera al centro, verifica trasparente alla base»

VISION 2030: IL RETAIL COME INFRASTRUTTURA DI RESILIENZA

Guardando al 2030, quale ruolo vede per il retail alimentare in un mondo di crisi climatiche e sanitarie ricorrenti?

Il retail può evolversi da semplice canale distributivo a vera infrastruttura di resilienza sociale. La grande distribuzione si è già dimostrata tale durante la crisi pandemica. Nel 2020, come ASviS, lanciammo “AlleanzaAgisce”, una campagna di solidarietà per raccogliere e diffondere le iniziative messe in campo dalla nostra rete sul territorio. La risposta fu straordinaria e il settore del retail alimentare fu uno dei primissimi ad attivarsi con la donazione di buoni pasto o la distribuzione della spesa ai più bisognosi.

Analogamente, i centri commerciali sono sempre più luoghi di accoglienza per anziani e persone fragili durante le ondate di calore che colpiscono il nostro Paese. Sono funzioni importanti, che andrebbero “messe a sistema” con un impegno più complessivo delle imprese della grande distribuzione a favore dello sviluppo sostenibile.

È una visione molto ambiziosa.

Ma è anche pragmatica. Pensate a cosa è successo durante la pandemia: i supermercati sono stati l’infrastruttura essenziale che ha tenuto in piedi il paese. Ora immaginate se quella stessa infrastruttura lavorasse quotidianamente per migliorare la salute pubblica e ridurre l’impatto climatico. Non sto parlando di retorica: sto parlando della possibilità di trasformare ogni supermercato in uno spazio dove le scelte più salutari per le persone coincidano con quelle più rispettose per il pianeta.

E il settore pubblico che ruolo gioca?

Il settore pubblico deve creare il contesto favorevole: politiche fiscali che premiano comportamenti virtuosi, appalti pubblici che valorizzano i sistemi di scoring certificati, integrazione con le politiche sanitarie nazionali. Ma non deve sostituirsi al mercato. Il modello migliore è quello delle partnership pubblico-private: lo Stato definisce gli obiettivi di salute pubblica e riduzione emissioni, il mercato trova le soluzioni più efficienti per raggiungerli.

Con la Direttiva CSRD che obbliga a rendicontare impatti ambientali e sociali, cambia qualcosa?

Si, soprattutto se non viene interpretata come un obbligo, ma come l’occasione per ripensare i processi produttivi e la qualità dei prodotti, cioè la sostenibilità del tutto. Per un retailer alimentare, questo significa

dover misurare e comunicare l’impatto ambientale del proprio assortimento, ma anche il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori. Chi si sta già dotando di sistemi di misurazione come HG Retail Experience partirà avvantaggiato. Chi no, dovrà correre ai ripari.

«Il retail può diventare infrastruttura di resilienza sociale: una rete che ogni giorno orienta milioni di persone verso scelte salutari e sostenibili»

UN’OPPORTUNITÀ DI DIALOGO E COSTRUZIONE CONDIVISA

Il Forum del 14 ottobre 2025 rappresenta un momento importante per il progetto. Quale valore può avere questo incontro tra tutti gli stakeholder?

Prima della pandemia l’ASviS aveva lanciato l’iniziativa “Saturdays for Future” proprio per coinvolgere la grande distribuzione nella sensibilizzazione della popolazione sui temi della sostenibilità. Forse sarebbe il caso di rilanciare quell’idea. Vedo il Forum come un’opportunità preziosa per far dialogare tutti gli attori della filiera attorno a una visione comune.

Non è tanto questione di prendere decisioni definitive in quella giornata, quanto di creare le condizioni perché il progetto possa evolversi da prototipo a sistema condiviso. Servirà a raccogliere adesioni di principio, comprendere le diverse prospettive, identificare le questioni operative che dovranno essere affrontate.

Quindi più un momento di ascolto che di commitment immediato?

Esattamente. Con i primi test abbiamo dimostrato la fattibilità tecnica. Ora serve comprendere come i diversi attori vedono la propria partecipazione: quali opportunità intravedono, quali criticità percepiscono, quali condizioni considerano necessarie. Da questo dialogo emergerà naturalmente la volontà di strutturare una governance più articolata nei mesi successivi.

E se alcuni stakeholder restassero in attesa?

È comprensibile. I grandi cambiamenti nel retail sono sempre avvenuti per tappe progressive. Pensi al codice a barre, alla tracciabilità alimentare, alle certificazioni bio: all’inizio c’erano pionieri, poi una massa critica crescente, infine uno standard consolidato. Il Forum permetterà a ciascuno di capire in quale fase vuole posizionarsi. Chi vede l’opportunità di muoversi per primo acquisisce esperienza e visibilità, chi preferisce attendere potrà valutare l’evoluzione del sistema.

Parte III: La filiera si modifica

Industria, agricoltura e finanza: le quattro voci della transizione mediterranea

«Non puoi dire che ti interessa la salute del consumatore e poi spingere prodotti con molto zucchero. Non puoi fare il paladino della sostenibilità e poi far entrare fornitori che non sanno cosa sia un bilancio Esg. O ci credi o non ci credi».

Le parole di Stanislao Fabbrino, presidente di Fruttagel e amministratore delegato di Deco Industrie, aprono questa sezione con una provocazione necessaria: il retail può orientare quanto vuole, ma se a monte della filiera manca coerenza tra dichiarazioni e azioni, il sistema non cambia. Se la mano destra decide una cosa e la sinistra non lo sa, non si tira in porta: si continua a riparlarsi addosso.

La transizione verso un modello mediterraneo guidato da metriche oggettive richiede l’allineamento di tre forze che operano prima dello scaffale: l’agricoltura

che produce, l’industria che trasforma e la finanza che rende possibili gli investimenti. Non si tratta di buone intenzioni o manifesti valoriali. Si tratta di tradurre principi in dashboard, trasparenza in tracciabilità algoritmica, educazione alimentare in comunicazione dello score.

È quella che Fabbrino chiama «la sostenibilità del secondo tempo»: quella che ti fa sposare principi anche quando possono mettere in discussione un po’ il tuo profitto. Quella dove alle intenzioni devono seguire le azioni.

I QUATTRO PROTAGONISTI DELLA TRASFORMAZIONE

L’agricoltura si trova davanti a una scelta strategica: continuare a difendere culturalmente la Dieta Mediterranea o trasformarla in vantaggio competitivo misurabile. Un sistema di scoring oggettivo può finalmente dare valore sistematico alle produzioni italiane, rendere la stagionalità una leva di marketing anziché un vincolo, incentivare l’aggregazione necessaria per dialogare con la Gdo da posizioni di forza. Ma serve superare la storica frammentazione e accettare che il mondo è cambiato: il racconto nostalgico del «mio padre viveva con un bicchiere di vino e un panino al salame e siamo tutti belli» non basta più.

L’industria di trasformazione si presenta in questa sezione con due voci complementari. Da un lato, la grande cooperativa che deve rispondere a una domanda concreta: come si quantifica la mediterraneità su scala industriale senza banalizzarla? La risposta emerge quando si parte dai dati sulla salute pubblica invece che solo dalle analisi di mercato. Quando si accetta che un formaggio sta verso l’apice della piramide, non alla base, e si costruisce strategia di conseguenza: esportare l’eccellenza invece di spingere il consumo interno. Il modello cooperativo, con la sua capacità di resistere nel tempo perché «prima delle altre ha iniziato a parlare di Esg, a modo suo», può rappresentare un vantaggio nella costruzione di strategie a lungo termine.

Dall’altro lato, il produttore di eccellenza territoriale che vive quotidianamente la difficoltà di far comprendere il valore dell’innovazione sostenibile. Chi ha investito per primo in qualità e ricerca si trova spesso di fronte a buyer che non percepiscono la differenza tra un prodotto autentico e una commodity. «L’innovazione ha successo solo se dall’altra parte hai interlocutori in grado di comprenderla velocemente», racconta chi ha aperto strade poi sfruttate da altri. Per questi produttori, la sfida è comunicare efficacemente perché un prodotto di qualità territoriale merita un posizionamento diverso, trasformando l’etica profonda in valore riconosciuto dal mercato.

La finanza sta imparando a misurare il valore della sostenibilità, integrandola nei modelli di valutazione del rischio e del merito creditizio. Le metriche scientifiche come le analisi Lca e le certificazioni diventano fattori rilevanti nel rating. Il modello farm-to-shelf e le filiere integrate non sono più solo vantaggi operativi, ma elementi di valorizzazione nelle operazioni di M&A. Chi è capace di misurare e comunicare i propri impatti acquisisce un vantaggio competitivo finanziariamente sostenibile.

Le interviste che seguono mostrano come questi mondi stiano iniziando a muoversi verso una visione comune. Non per altruismo, ma perché - come dice ancora Fabbrino - «se non sei capace di costruire una strategia coerente tu, sarà il consumatore a costringerti. Meglio adattarsi prima, perché la direzione sarà quella».

Dal presidente di una delle più importanti cooperative agroalimentari italiane al pioniere che ha portato il primo burro senza lattosio nella Gdo, dal rappresentante del mondo agricolo al partner finanziario che rende possibili gli investimenti: quattro prospettive diverse su una stessa consapevolezza. Il sistema alimentare sta cambiando. E chi si muove per primo, con coerenza operativa e non solo con manifesti, si troverà dalla parte giusta della storia.

Dalla piramide mediterranea alla strategia di impresa

Intervista a Stanislao Fabbrino, presidente Fruttagel e amministratore delegato Deco Industrie

Di Domenico Canzoniero

«Non puoi dire che ti interessa la salute del consumatore e poi spingere prodotti con molto zucchero. Questa è la sostenibilità del secondo tempo: quella che ti fa sposare principi anche quando possono mettere in discussione un po’ il tuo profitto»

Stanislao Fabbrino, presidente Fruttagel e amministratore delegato Deco Industrie

Stanislao Fabbrino torna dal Giappone con una certezza: la Dieta Mediterranea non è nostalgia, è il futuro. E i numeri lo dimostrano. Nella sua recente presentazione a Osaka ha aperto con dati che solitamente appartengono agli epidemiologi, non agli amministratori delegati: 97.821 morti prevenibili all’anno in Italia per cattiva alimentazione. Una scelta precisa, che anticipa la direzione del suo gruppo cooperativo.

IL CEO CHE PARLA DI SALUTE OLTRE

Perché un Ceo industriale parte da statistiche epidemiologiche invece che da analisi di mercato?

Per due motivi fondamentali. Il primo è coerenza con i principi cooperativi: non ci limitiamo alla sostenibilità economica, ma lavoriamo su quella ambientale e sociale. Salute e alimentazione sono strettamente correlate, e una società cooperativa non può ignorarlo. Il secondo motivo è strategico: il consumatore guida le sue scelte di acquisto in base alla salute, indipendentemente da come le imprese promuovono i prodotti.

Può fare un esempio concreto?

Prendiamo Fruttagel e i nettari di frutta. La Dieta Mediterranea dice chiaramente che lo zucchero va consumato con moderazione. Noi potremmo fare pressione comunicativa sui prodotti zuccherati, ma vediamo che il consumatore premia spontaneamente quelli con la scritta “senza zuccheri aggiunti”. Il consumatore sa meglio dell’uomo di marketing cosa fa bene alla sua salute. Allora dico: è meglio raccontare la verità, non una verità che ci conviene perché abbiamo quei prodotti in gamma.

«Il consumatore sa meglio dell’uomo di marketing cosa fa bene alla sua salute. È meglio raccontare la verità, non una verità che ci conviene»

I NUMERI CHE GUIDANO LE SCELTE

97.821 morti prevenibili all’anno in Italia per cattiva alimentazione €741 risparmio pro capite annuo con adozione dieta mediterranea 40% del fatturato Granarolo viene dall’export (burrata, gorgonzola, parmigiano) 5 anni di crescita costante per i prodotti Fruttagel “senza zuccheri aggiunti”

Trend vino Italia: consumi in calo da decenni, strategia di risposta basata sulla qualità Mission Fruttagel: Creare benessere alimentare alle persone

Fonte: Global Burden of Disease Study 2017, dati aziendali

LA SOSTENIBILITÀ DEL SECONDO TEMPO

Ma questo approccio non mette in discussione il vostro stesso business?

Ecco il punto. C’è una sostenibilità del secondo tempo, quella che ti fa sposare dei principi anche quando possono mettere in discussione un po’ il tuo profitto. Altrimenti stai dicendo un’altra cosa. Se faccio merendine al cioccolato, faccio fatica a dire al mondo che lo zucchero fa male. Però allora devo decidere cosa voglio fare: l’approccio sostenibile e il bene del consumatore, o un’altra cosa. Non posso stare in tutte e due le parti.

L’esempio più emblematico?

Granarolo, di cui sono consigliere di amministrazione. Il formaggio nella Dieta Mediterranea sta verso l’apice della piramide, non alla base. Non voglio demonizzare nessun cibo, ma non possiamo pensare che gli italiani consumino tonnellate di formaggio senza

conseguenze. Qual è la risposta strategica? Quella che fa Granarolo: esportare l’eccellenza italiana nel mondo. Il 40% del fatturato viene dall’export di burrata, gorgonzola, parmigiano. La coerenza la trovi lì. Un parallelo illuminante.

Pensi al vino. Sono decenni che i consumi calano in Italia, e nessuno lo ha imposto: il consumatore c’è è arrivato da solo. La risposta delle aziende? Focalizzarsi sulla qualità. Io al ristorante bevo un calice di vino a pasto, ma lo voglio buonissimo. È il lavoro che ha fatto la Francia meglio di noi. Non serve andare contro concetti nutrizionali chiari: se non ci arriva il consumatore perché glielo dico io, ci arriverà da solo. Meglio adattare la strategia prima.

«Non serve andare contro concetti nutrizionali chiari: se non ci arriva il consumatore perché glielo dico io, ci arriverà da solo. Meglio adattare la strategia prima»

IL PUNTEGGIO MEDITERRANEO: UNA

BUSSOLA NECESSARIA

Il 14 ottobre a Milano verrà presentato un sistema che assegna un punteggio mediterraneo a ogni prodotto. Che ne pensa?

Sono assolutamente favorevole. Serve una bussola, perché il messaggio deve arrivare al consumatore in modo semplice e oggettivo. Altrimenti prevale il racconto distorto: «Mio padre è vissuto con un bicchiere di vino e un panino al salame e siamo tutti belli». Peccato che il mondo sia cambiato. E questo racconto l’ho sentito fare anche da persone eccellenti, per difendere l’eccellenza agroalimentare italiana.

Ma i sistemi di valutazione creano sempre resistenze. Lo abbiamo visto con il Nutriscore. Le discussioni nascono perché ognuno difende il suo prodotto: ogni scarrafone è bello a mamma sua, come diceva Pino Daniele. Ma i meccanismi di misurazione, se oggettivamente coerenti, danno al consumatore uno strumento in più per scegliere. Certo, possono spaventare. Ma torno al punto di prima: c’è una sostenibilità del secondo tempo che ti fa sposare dei principi anche quando mettono un po’ in discussione il profitto.

Fruttagel e Deco sono pronte per questa valutazione? Le nostre ricerche e sviluppo lavorano da tempo su prodotti più coerenti con la Dieta Mediterranea. A volte non è possibile: un dolce è un dolce. Ma per i sostitutivi del pane, che non contengono zuccheri, stiamo lavorando per ridurre il “dolce” mantenendo il gusto piacevole. Come su Fruttagel col “senza zuccheri aggiunti”: solo gli zuccheri della frutta, lavorando su aromi naturali. Non edulcoranti, ormai sdoganati in negativo.

E il tema della frequenza di consumo?

Fondamentale. Io interpreto la Dieta Mediterranea da sempre, anche personalmente. Tutte le mattine bevo latte completamente scremato, consumo prodotti dolci, ma il tema è lo stile di vita e la quantità di prodotti al vertice della piramide. Le imprese devono focalizzare la ricerca e sviluppo su prodotti posizionati il più possibile alla base, e dare con schiettezza consigli nutrizionali sul consumo adeguato. È delicato, lo so, ma è l’unico modo per essere coerenti.

LA SOSTENIBILITÀ DEL SECONDO TEMPO

«Non puoi dire che ti interessa la salute del consumatore e poi spingere prodotti con molto zucchero. Non puoi fare il paladino della sostenibilità e poi far entrare fornitori che non sanno cosa sia un bilancio Esg. O ci credi o non ci credi. Se ci credi davvero, alle intenzioni devono seguire le azioni. Questa è la sostenibilità del secondo tempo: quella che ti fa sposare principi anche quando possono mettere in discussione un po’ il tuo profitto. Altrimenti stai solo parlando»

GOVERNANCE CONDIVISA E COERENZA OPERATIVA

Il progetto richiede una governance condivisa tra tutti gli stakeholder. Siete disponibili a investire in questa azione di sistema?

Te lo dico con un sì convinto. Un cooperatore non può non cooperare: è la nostra identità, il nostro mestiere. È il motivo per cui esistiamo da trent’anni Fruttagel, ottanta Deco. Se abbiamo questa longevità è perché abbiamo capito, forse prima degli altri, che non basta parlare di profitto. Bisogna pensare a come impiegarlo, e non solo per condividerlo coi soci: per qualcosa di più importante. Se fai questo, duri nel tempo. È il segreto della cooperazione, dell’intergenerazionalità: la capacità di resistere nel tempo perché prima delle altre ha iniziato a parlare di Esg, a modo suo.

«Un cooperatore non può non cooperare: è la nostra identità, il nostro mestiere»

Stanislao Fabbrino

Quali requisiti vede come necessari perché il progetto funzioni davvero?

La coerenza. Faccio un forte richiamo su questo. Lavoro da tantissimo con la distribuzione, sono favorevolmente colpito dalla volontà di impegnarsi. Ma l’importante è verificare che i livelli più alti dell’organizzazione siano collegati e coerenti con quelli più bassi. Ancora vedo troppe dichiarazioni d’intenti nobilissime ai vertici, ma quando si fanno le scelte pratiche non c’è la stessa coerenza. Se la mano destra decide una cosa e la sinistra non lo sa, non si tira in porta: si continua a riparlarsi addosso.

Un esempio concreto?

Il buyer power, i meccanismi di contrattazione. Noi lavoriamo su bilanci di sostenibilità pluripremiati da decenni, come imprese. Ma a volte vedo entrare al mio posto, come fornitori, aziende che i bilanci di sostenibilità non li usano neanche per pareggiare l’altezza dei tavoli, non sanno cosa siano. Allora dico: bisogna essere coerenti. Non puoi dire pubblicamente che fai il paladino della sostenibilità e poi far entrare uno scappato di casa nella tua platea fornitori. O ci credi o non ci credi. Se ci credi, alle intenzioni devono seguire le azioni.

«Non puoi fare il paladino della sostenibilità e poi far entrare fornitori che non sanno cosa sia un bilancio Esg. Se la mano destra decide una cosa e la sinistra non lo sa, non si tira in porta»

DAL MANIFESTO AL SISTEMA OPERATIVO

Se la distribuzione abbracciasse davvero questo sistema, il Manifesto Cooperativo della Dieta Mediterranea di Legacoop troverebbe finalmente applicazione operativa?

Assolutamente. I valori che abbiamo sottoscritto - filiera etica, trasparenza, cultura del cibo basata su conoscenza - si tradurrebbero in metriche operative, dashboard condivise, standard comuni. La trasparenza diventa tracciabilità algoritmica, l’educazione alimentare diventa comunicazione dello score. E le cooperative che hanno già interiorizzato questi principi si troverebbero con processi e competenze già allineati.

Un vantaggio competitivo?

Un vantaggio di coerenza. Guardi la mission di Fruttagel: lavoriamo con l’obiettivo di creare benessere alimentare alle persone. È un concetto che va oltre il fare impresa, ha una visione più olistica, più futura. E

se colleghi questo al fatto che alla base della piramide mediterranea ci sono i cibi con minore impatto ambientale, capisci che è il meccanismo più virtuoso per sposare nutrizione corretta e sostenibilità. Non possiamo far finta di non vederlo solo perché siamo posizionati su altri prodotti. È possibile costruire una strategia coerente. E se non sei capace di costruirla tu, sarà il consumatore a costringerti. Meglio adattarsi prima, perché la direzione sarà quella.

«Se non sei capace di costruire una strategia coerente, sarà il consumatore a costringerti. Meglio adattarsi prima, perché la direzione sarà quella»

LA FORZA DELLA COOPERAZIONE

30 anni Fruttagel 80 anni Deco Industrie

Longevità della forma cooperativa:

n Sostenibilità economica, ambientale e sociale integrate

n Profitto impiegato per obiettivi che vanno oltre i soci

n Bilanci di sostenibilità pluripremiati da decenni

n Principi Esg applicati “a modo suo” prima che diventassero mainstream

Manifesto Cooperativo Dieta Mediterranea Legacoop:

n Filiera etica

n Trasparenza e tracciabilità

n Cultura del cibo basata su conoscenza

n Educazione alimentare

Fonte: dati aziendali, Legacoop

Human&Green Retail

Experience: Qualità, Innovazione e Sostenibilità Autentica

nel Largo Consumo

Intervista a Sauro Corzani, Titolare Dalla

1. PIONIERE DELL’INNOVAZIONE: IL PRIMO BURRO SENZA LATTOSIO NELLA GDO ITALIANA

Lei nel 1992 è stato il primo imprenditore a portare sugli scaffali della grande distribuzione italiana un prodotto senza lattosio, anticipando di anni una tendenza che oggi è consolidata nel mercato. Cosa l’ha spinta a questa scelta pionieristica? Come ha convinto i buyer della GDO a credere in un prodotto che allora sembrava di nicchia? E come valuta oggi l’evoluzione del mercato verso prodotti più attenti alle esigenze di salute e benessere dei consumatori? Questa esperienza le ha insegnato qualcosa sul rapporto tra innovazione responsabile e successo commerciale?

Sauro Corzani: «Dalla Torre è da sempre impegnata a sviluppare referenze sulla merceologia burro che soddisfino concretamente le esigenze del consumatore. Quando abbiamo iniziato a studiare il mercato, ci siamo resi conto che una percentuale significativa della popolazione italiana soffriva di intolleranza al lattosio, ma non aveva alternative di qualità disponibili nella grande distribuzione. Dopo una ricerca accurata sui processi produttivi e sulle tecnologie disponibili, abbiamo deciso di investire in questa direzione.

Convincere i buyer della GDO non è stato affatto facile. Il prodotto sembrava troppo di nicchia, troppo specializzato. E devo dire che ancora oggi, a distanza di anni, alcuni buyer non comprendono fino in fondo la differenza tecnica e nutrizionale tra un prodotto delattosato e un prodotto completamente senza lattosio ottenuto con un sistema microfiltrante eliminando la molecola che compone il lattosio. IL burro Dalla Torre senza lattosio non contiene nè lattosio né zuccheri e questa differenza rende più difficile comunicare il valore reale dell’innovazione, ma insegne come COOP che ci ha per prima messo in assortimento e poi CONAD, CARREFOUR, BENNET, SELEX ed altri hanno compreso questo valore e infatti sono state ripagate con il successo delle vendite.

Oggi valuto molto positivamente l’evoluzione del mercato verso prodotti più attenti alla salute e al benessere dei consumatori. È una tendenza che si sta consolidando e che premia chi ha investito presto in questa direzione.

Questa esperienza mi ha insegnato una lezione fondamentale: l’innovazione è sempre un’esperienza forte che può portarti al successo, ma solo se dall’altra parte hai interlocutori in grado di comprenderla velo-

cemente. Altrimenti, il rischio è che arrivino altri player che sfruttano il lavoro di ricerca e sviluppo fatto da chi ha aperto la strada, riducendo drasticamente i vantaggi competitivi di chi ha investito per primo».

2. SOSTENIBILITÀ AUTENTICA: DALLE ENERGIE RINNOVABILI AL PACKAGING COMPOSTABILE

Dalla Torre non fa “green washing” ma sostenibilità concreta: incarti compostabili certificati TUV, imballi secondari al 50% da materiale riciclato, produzione alimentata da fonti rinnovabili locali e il prestigioso certificato gold Ecovadis 2023. Questo approccio rigoroso alla sostenibilità nasce da una convinzione etica o anche da una strategia competitiva? Come risponde il mercato - sia i retailer che i consumatori finali - a questi investimenti in sostenibilità autentica? E quali sono i prossimi obiettivi ambientali che si è posto per l’azienda?

Sauro Corzani: «Non c’è nessuna strategia di marketing dietro le nostre scelte ambientali. Nasce tutto da un comportamento etico profondo, da una visione di come dovrebbe essere condotta un’impresa responsabile. Quando investi in packaging compostabile certificato, in energie rinnovabili, in materiali riciclati,

lo fai prima di tutto perché credi che sia la cosa giusta da fare.

Per quanto riguarda la risposta del mercato, devo essere onesto: non sempre vediamo un ritorno immediato e tangibile da parte dei retailer o dei consumatori finali. Ma questa non è la misura giusta del successo. L’unica vera risposta che conta è il miglioramento della qualità della nostra vita, dell’ambiente in cui operiamo, del futuro che lasciamo. Il certificato gold Ecovadis 2023 è per noi il riconoscimento che stiamo andando nella direzione giusta, ma non è il punto di arrivo.

I prossimi obiettivi ambientali? Continuare a essere attenti al miglioramento costante. Vogliamo portare la percentuale di materiale riciclato negli imballi secondari oltre il 50%, ottimizzare ulteriormente i consumi energetici, esplorare nuove soluzioni per ridurre l’impronta ambientale in ogni fase del processo produttivo. Non ci fermiamo mai, perché la sostenibilità vera è un percorso continuo, non un traguardo da raggiungere una volta per tutte».

3. QUALITÀ TERRITORIALE E DIETA

MEDITERRANEA: IL BURRO TRA TRADIZIONE E MODERNITÀ

Il burro non è tradizionalmente considerato un pilastro della Dieta Mediterranea, che privilegia l’olio extravergine d’oliva. Tuttavia, un burro di alta qualità, prodotto con latte locale della Val di Non, ottenuto con processi sostenibili e confezionato responsabilmente, può trovare un suo spazio in un’alimentazione equilibrata e consapevole. Come interpreta il ruolo dei prodotti lattiero-caseari di qualità nel contesto di

un’alimentazione più sana e sostenibile? Il progetto Human&Green Retail Experience, che premia qualità, territorialità e sostenibilità, può aprire nuove opportunità di valorizzazione per produttori come voi che investono nell’eccellenza?

Sauro Corzani: «Interpreto il ruolo dei prodotti lattiero-caseari di qualità in modo assolutamente positivo nel contesto di un’alimentazione sana e sostenibile. Non si tratta di contrapporre il burro all’olio d’oliva, ma di riconoscere che in un’alimentazione equilibrata c’è spazio per entrambi, quando sono prodotti con attenzione alla qualità e alla sostenibilità. Il nostro burro viene dal latte della Val di Non, da una filiera corta e controllata, da processi che rispettano l’ambiente. Questo fa una differenza enorme rispetto a prodotti industriali di massa.

Per quanto riguarda il progetto Human&Green Retail Experience, ritengo che ogni attività che migliora l’esperienza di vendita e la qualità dei prodotti disponibili sia positiva per il settore. Tuttavia, la vera valorizzazione avviene solo se riesce a soddisfare concretamente il consumatore finale. Non bastano i sistemi di scoring o le certificazioni se poi il consumatore non percepisce il valore aggiunto del prodotto.

Il punto cruciale è riuscire a comunicare efficacemente perché un burro di qualità, territoriale e sostenibile come il nostro merita un posizionamento diverso rispetto ai prodotti commodity. Se il progetto Human&Green Retail Experience riesce a creare questo ponte tra le nostre scelte produttive e la consapevolezza del consumatore, allora sì che può aprire opportunità di valorizzazione reali per chi come noi investe nell’eccellenza».

L’INDUSTRIA ALIMENTARE DEL FUTURO TRA RESPONSABILITÀ E PERFORMANCE

Lei rappresenta una generazione di imprenditori che non vede contraddizione tra successo commerciale e responsabilità ambientale. Guardando al futuro del largo consumo, come immagina l’evoluzione del rapporto tra produttori e grande distribuzione? Il progetto Human&Green Retail Experience può contribuire a premiare davvero chi investe in qualità, innovazione sostenibile e autenticità territoriale? E quale consiglio darebbe a colleghi imprenditori che ancora considerano la sostenibilità più un costo che un’opportunità?

Sauro Corzani: «L’evoluzione del rapporto tra produttori e grande distribuzione è sempre un tema molto difficile da trasmettere e da realizzare concretamente. Il problema principale sono gli interlocutori: servono buyer e category manager che siano in grado di percepire il valore dell’innovazione e della qualità, per poi trasmetterlo efficacemente al consumatore finale. Il consumatore, dal canto suo, attende spesso con piacere un cambiamento che soddisfi le proprie esigenze di salute, sostenibilità e autenticità. Ma il nodo cruciale rimane sempre l’interlocutore che fa da ponte.

Per quanto riguarda il progetto Human&Green Retail Experience, vedo potenzialità interessanti ma anche criticità concrete. Purtroppo uno dei temi principali sono i volumi: non sempre un produttore di qualità può garantire le quantità che la grande distribuzione organizzata richiede. Questo tipo di valorizzazione funzionerebbe meglio se gestita più localmente, con un approccio territoriale. Ma qui emergono le difficoltà nella gestione degli acquisti, nella logistica, nel coordinamento tra tanti piccoli produttori e le centrali di acquisto nazionali.

Il mio consiglio ai colleghi imprenditori è molto semplice e parte da un principio di vita: se curi il tuo benessere personale, di conseguenza penserai anche al benessere degli altri. Questo significa prendersi cura del proprio stabilimento, delle risorse umane che lavorano con te, della produzione, della qualità delle materie prime, del prodotto finito e dell’impatto che tutto questo ha sull’ambiente. Se segui questa logica, scoprirai che il costo della sostenibilità non è mai troppo alto, perché quello che ottieni in cambio è un miglioramento della qualità della nostra vita, di tutti noi. E questo valore non ha prezzo».

Misurare l’olio: la sfida di dare valore a un settore

frammentato

Il caso Oleificio Zucchi e la difficoltà di far percepire la qualità al consumatore

L’olio extra vergine di oliva concentra in sé tutti i paradossi della filiera agroalimentare italiana: qualità produttiva riconosciuta a livello internazionale, frammentazione estrema, difficoltà cronica a far percepire il valore al consumatore finale. Se un sistema di scoring mediterraneo deve tradurre la qualità in metriche comprensibili, l’Evo rappresenta probabilmente il test più complesso.

«Il problema non è produrre olio di qualità», osserva Alessia Zucchi, presidente e amministratore delegato di Oleificio Zucchi. «Il problema è che il consumatore medio non percepisce la differenza tra un extra vergine industriale a 4 euro e uno di fascia alta a 12. E senza questa percezione, il mercato resta orientato al prezzo più basso».

Oleificio Zucchi – azienda cremonese fondata nel 1810, con un fatturato di 344 milioni di euro nel 2024 – ha affrontato questa sfida investendo in certificazioni misurabili. Nel 2017 ha lanciato il primo olio 100% italiano certificato sostenibile secondo un disciplinare di 150 parametri. Nel 2024 ha ottenuto la certificazione Made Green in Italy del ministero dell’Ambiente.

Certificare non basta

Eppure proprio l’esperienza di Zucchi evidenzia il limite dell’approccio: accumulare certificazioni non genera automaticamente valore percepito. «Puoi avere tutti i bollini che vuoi», ammette Zucchi, «ma se arrivi allo scaffale e il consumatore guarda solo il prezzo, non cambia nulla. La vera sfida è culturale, non tecnica».

Per questo l’azienda ha avviato nel 2024 EVO Masterclass, un progetto di formazione in 130 istituti alberghieri. L’obiettivo: formare operatori che domani sappiano riconoscere e comunicare la qualità dell’olio. «Servono anni prima di vedere risultati concreti», riconosce Zucchi. «Ma è l’unico modo per superare la competizione sul prezzo».

Il nodo della comunicazione

«Conduciamo oltre 42.000 analisi annue sui nostri prodotti», spiega Zucchi. «Ma come traduci questo dato in uno scaffale dove hai tre secondi per catturare l’attenzione? Come fai capire che dietro una bottiglia c’è una filiera tracciata, un sistema di ridu-

zione delle emissioni, un riconoscimento economico equo agli agricoltori?»

È esattamente il problema che un sistema di scoring dovrebbe risolvere: condensare complessità scientifica in un’informazione immediata e confrontabile. Ma servirebbe l’adesione dell’intero settore, cosa tutt’altro che scontata in un comparto frammentato e spesso diffidente verso standard comuni.

Oleificio Zucchi rappresenta un caso interessante perché ha scelto di anticipare questa direzione, investendo in misurazione e comunicazione della sostenibilità già prima che diventasse obbligo normativo. Ma la domanda resta aperta: quante aziende possono permettersi questo percorso? E soprattutto: il retail è davvero disposto a premiare chi investe in qualità misurabile, magari accettando margini più contenuti sugli scaffali di ingresso?

«Il rischio», conclude Zucchi, «è che alla fine a vincere sia chi comunica meglio, non chi produce meglio. Per questo servirebbero metriche oggettive e condivise. Ma il settore è ancora lontano da questa consapevolezza».

OLEIFICIO ZUCCHI IN NUMERI

Storia e dimensioni:

n Fondata nel 1810, 6 generazioni della stessa famiglia

n 100% italiana, sede a Cremona

n Fatturato 2024: oltre 344 milioni di euro

n Export in 48 paesi

Qualità e controllo:

n Oltre 42.000 analisi annue

n 2017: primo olio Evo 100% italiano certificato sostenibile (150 parametri del disciplinare)

n 2024: prima azienda italiana del settore food con certificazione Made Green in Italy

Sostenibilità ambientale:

n 2009: raccordo ferroviario (-70% emissioni CO2 da trasporto)

n 2014-2015: impianto cogenerazione (95% del fabbisogno elettrico autoprodotto)

n Carbon Footprint certificata

n Dal 2005: report di sostenibilità annuale

Formazione:

n 2024: EVO Masterclass in oltre 130 classi di istituti alberghieri

n 2023: Linee Guida per valutazione e comunicazione sostenibilità oli da olive italiani (comitato scientifico triennale)

Dal farm-to-shelf al rating creditizio: l’evoluzione della finanza alimentare

Intervista a Laura Asperti, Global Head of Food & Beverage and Distribution della Divisione IMI CIB di Intesa Sanpaolo

Dalla sostenibilità misurata alle filiere integrate: come salute, nutrizione e metriche scientifiche stanno ridisegnando le strategie di investimento nel settore distributivo. I meccanismi finanziari che accelerano la transizione verso modelli alimentari più responsabili

a cura di Domenico Canzoniero - direttore editoriale greenretail.news e magazine

Laura Asperti, Global Head of Food & Beverage and Distribution della Divisione IMI CIB di Intesa Sanpaolo, osserva da una posizione privilegiata come il sistema finanziario stia iniziando ad adattare i propri criteri di valutazione. La sua esperienza nell’advisory strategico e nelle operazioni M&A del comparto agroalimentare offre uno sguardo realistico sui tempi e le modalità con cui banche e investitori stanno integrando parametri di sostenibilità nelle decisioni di credito e investimento.

Le analisi LCA, le certificazioni ambientali e i framework scientifici per la misurazione degli impatti stanno diventando sempre più rilevanti nelle valutazioni di merito creditizio, anche se il processo è ancora in evoluzione. L’interesse crescente verso operazioni di consolidamento che integrano sostenibilità e performance economiche apre scenari nuovi, ma i vantaggi competitivi concreti sono ancora da dimostrare sul campo.

Quale ruolo sta assumendo realmente il sistema bancario in questa transizione? E quali opportunità concrete si stanno aprendo per retailer e produttori che investono in modelli più scientifici e responsabili?

“La sostenibilità è un driver di competitività e le aziende F&B che adottano metriche oggettive - come le analisi LCA - sono valutate con attenzione”

Come Intesa Sanpaolo valuta gli investimenti delle aziende F&B che adottano parametri scientifici riconosciuti per misurare l’impatto ambientale dei prodotti? Esistono linee di credito dedicate alla transizione verso modelli distributivi sostenibili?

Laura Asperti: « Intesa Sanpaolo è stata tra le prime banche a confermare la coerenza della propria leadership con gli investimenti dedicati alla sostenibilità, ponendosi come punto di riferimento sia per il settore finanziario che per il mondo produttivo. La sostenibilità è un driver di competitività e le aziende F&B che adottano metriche oggettive - come le analisi LCAsono valutate con attenzione. L’offerta di prodotti e servizi di advisory e finanziamento - in Italia ed all’e -

stero - include ESG loan, green e sustainable bond, soluzioni di hedging legate a performance ESG, Circular Economy Plafond e strumenti a supporto dell’economia circolare. Definizione degli obiettivi ESG, strutturazione della finanza e coinvolgimento degli investitori, criteri specifici per operazioni sostenibili e gestione dei rischi ambientali e sociali: in tutto ciò le imprese possono contare sul rapporto strettissimo con la nostra banca e le nostre strutture ».

Quale peso hanno le certificazioni e le evidenze LCA nelle vostre valutazioni di rating creditizio per le aziende agroalimentari?

Laura Asperti: « Le certificazioni ambientali e le evidenze scientifiche - come le analisi LCA - sono sempre più rilevanti nelle valutazioni di merito creditizio e rappresentano indicatori di trasparenza ed allineamento a standard internazionali. Per le aziende, adottarle significa dimostrare responsabilità ambientale ed accrescere la credibilità verso gli istituti finanziari, facilitando l’accesso a condizioni di finanziamento più favorevoli. L’approccio integra gli aspetti ESG come fattori di competitività e sostenibilità di lungo periodo, premiando le imprese che trasformano i criteri ambientali in leve di innovazione e crescita ».

I NUMERI DELLA FINANZA SOSTENIBILE NEL F&B

Impatto del settore:

n 50% delle emissioni dei consumi derivano da scelte alimentari (JRC UE)

n 70% delle decisioni alimentari avvengono nei supermercati

n 97.821 decessi annui in Italia correlati alla cattiva alimentazione (fonte: SINuC)

Mercato green bond e investimenti ESG:

n €33,55 miliardi di green bond corporate emessi nell’UE nel 2024 (+30% vs 2023)

n 6,9% tutti i bond emessi nell’UE nel 2024 sono green (+1,6 punti vs 2023)

n $40 trilioni previsti per asset ESG globali entro il 2030 (Bloomberg Intelligence)

Trend finanziari verificati:

n 10-20% riduzione consumi energetici con monitoraggio real-time (fonte: ASHRAE)

n $2+ milioni risparmi annui documentati per retailer con 1.000 location (casi studio EMS)

n 28% crescita vendite prodotti F&B certificati “Eco Friendly” nel 2024 (Nielsen IQ)

n Oltre 14x multipli EV/EBITDA per leader F&B sostenibili (Nestlé, Mondelez)

M&A e sostenibilità:

n 165 operazioni F&B chiuse in H2 2024 negli USA (+26% vs H1)

n $40,8 miliardi valore totale M&A F&B H2 2024 (+600% vs H1, incluso deal Kellanova-Mars)

n 67% delle acquisizioni F&B riguarda aziende con focus su prodotti alimentari vs beverage

Osservate operazioni di consolidamento tra aziende agroalimentari e retailer finalizzate a creare filiere integrate sostenibili? Il modello “farm-to-shelf” influenza le valutazioni nelle operazioni M&A?

Laura Asperti: « Assistiamo ad un crescente interesse verso operazioni di consolidamento che vanno ad integrare le diverse fasi della filiera agroalimentare, dalla materia prima, alla lavorazione fino allo scaffale. Il modello “farm-to-shelf” sta diventando un riferimento strategico per i nostri clienti, in quanto consente un controllo diretto e puntuale della qualità, della sostenibilità e della tracciabilità dei prodotti. Certamente tale modello rappresenta un elemento di forte valore aggiunto nelle valutazioni M&A del settore F&B. Esso genera efficienze operative ed economiche, rafforza la reputazione aziendale e risponde in modo proattivo alle aspettative di consumatori e stakeholder sempre più attenti ai temi ESG. In prospettiva, riteniamo che la capacità di costruire filiere integrate e trasparenti si confermerà un fattore di successo e resilienza per i nostri clienti ed elemento di valorizzazione nelle transazioni M&A del settore alimentare ».

“La capacità di costruire filiere integrate e trasparenti si confermerà un fattore di successo e resilienza per i nostri clienti”

Le partnership strategiche tra industria e distribuzione per obiettivi ESG stanno creando nuove opportunità di investimento o acquisizione?

Laura Asperti: « L’integrazione di obiettivi ESG nelle partnership tra industria e distribuzione porta con sé importanti sviluppi sia sul fronte degli investimenti sia su quello delle acquisizioni. Si vanno formando joint venture e collaborazioni che aggiungono alla logica della semplice fornitura l’obiettivo strategico di sviluppare soluzioni innovative e sostenibili. Dal punto di vista finanziario, risultano particolarmente attrattive perché combinano innovazione, impatto sociale e ritorno economico, generando valore per le imprese e per gli investitori in una prospettiva di lungo periodo. Stiamo assistendo a forme varie di integrazione verticale, che puntano a unire produzione e distribuzione per innovare la rete, aumentare l’efficienza e rispondere a nuove pressioni competitive ed a cambiamenti nei modelli di consumo ».

Come giudicate gli investimenti dei retailer in tecnologie per la misurazione real-time degli impatti ambientali dei prodotti? Rappresentano un vantaggio competitivo finanziariamente sostenibile?

Laura Asperti: « Sì lo saranno. Gli investimenti in tecnologie per la misurazione real-time degli impatti ambientali stanno trasformando il retail (es. piattaforme

di tracciabilità, packaging intelligente, gestione degli sprechi), fornendo dati oggettivi ad imprese e consumatori. Per la banca, questi strumenti rappresentano un vantaggio competitivo finanziariamente sostenibile, riducendo rischi operativi e normativi e migliorando l’efficienza. La trasparenza dei risultati rafforza la fiducia dei clienti e favorisce la fidelizzazione, sostenendo una crescita duratura ».

“Gli investimenti in tecnologie per la misurazione real-time rappresentano un vantaggio competitivo finanziariamente sostenibile”

PROSPETTIVE E CONCLUSIONI

L’intervista con Laura Asperti conferma che il sistema finanziario si sta gradualmente adattando per valutare la transizione verso modelli distributivi più sostenibili. La trasparenza e la misurabilità scientifica iniziano a essere considerate non solo come imperativi etici, ma come potenziali fattori di vantaggio competitivo nelle valutazioni creditizie e nelle operazioni M&A.

La prospettiva di Intesa Sanpaolo offre uno sguardo realistico su un processo ancora in evoluzione: i retailer che adotteranno framework scientifici rigorosi per misurare i propri impatti ambientali potrebbero beneficiare, nel tempo, di migliori condizioni nell’accesso al credito e nelle valutazioni per operazioni straordinarie.

Come sottolinea Asperti, non si tratta più di semplice fornitura, ma di costruire partnership strategiche che combinano « innovazione, impatto sociale e ritorno economico », generando valore per tutti gli attori della filiera in una prospettiva di lungo periodo.

Il modello “farm-to-shelf” e le tecnologie di monitoraggio real-time rappresentano strumenti che potrebbero diventare driver di competitività finanziaria, capaci di « ridurre rischi operativi e normativi », migliorare l’efficienza e rafforzare la fiducia dei consumatori.

La finanza, insomma, sta imparando a considerare nella propria valutazione anche la capacità delle aziende di bilanciare sostenibilità ambientale, responsabilità sociale e performance economiche nel lungo periodo.

Parte IV: Il momento delle decisioni

Human&Green Retail Forum 2025: dalla teoria all’azione

Il 14 ottobre 2025 non sarà un convegno. Sarà un crocevia. Dopo mesi di analisi, sviluppo e dialogo con i pionieri del settore, il progetto Human&Green Retail Experience esce dalla fase concettuale per entrare in quella operativa. L’evento di Milano non è pensato per presentare una teoria, ma per prendere decisioni concrete e definire una tabella di marcia condivisa.

L’agenda della giornata è la prova di questa ambizione. Non si parlerà solo di visione, ma si metteranno sul tavolo i nodi cruciali che separano un prototipo da uno standard di settore. Quando i vertici del retail (Conad, Coop Italia, CRAI, Penny, Lidl), i protagonisti dell’industria (Fruttagel, Bolton Food, Oleificio Zucchi), le associazioni di categoria (Confagricoltura) e le istituzioni scientifiche (ASviS, Future Food Institute) si siedono allo stesso tavolo, l’obiettivo non può che essere operativo.

Al centro della discussione ci sarà la presentazione del prototipo funzionante dell’algoritmo mediterraneo, ma il focus si sposterà immediatamente sulle questioni pratiche. Come testimonieranno i retailer e le aziende già coinvolte – da Cortilia a Easy Coop, da Coralis a Decò – il passo successivo richiede impegni precisi.

Le domande a cui il Forum è chiamato a rispondere sono quelle che determinano il successo o il fallimento di ogni grande innovazione:

n Governance: Chi definirà gli standard dell’algoritmo e come verranno aggiornati in modo trasparente e inclusivo?

n Budget e investimenti: Quali sono le risorse necessarie per la filiera per adattare processi, riformulare prodotti e implementare la tracciabilità richiesta?

n Timeline: Qual è un piano di implementazione realistico per creare una massa critica e rendere il sistema rilevante per il mercato?

n Standardizzazione: Come si trasforma un’esperienza pionieristica in uno standard aperto, capace di diventare un linguaggio comune per l’intero settore del largo consumo?

Il 14 ottobre non si applaudirà a una nuova idea, ma si contribuirà a costruire un’infrastruttura. L’obiettivo è uscire dal Forum non con degli atti di un convegno, ma con le fondamenta di un piano operativo per il 2026. La transizione è iniziata. Ora è il momento di governarla.

PROGRAMMA

14 ottobre 2025

Fondazione UNIMI, Palazzo Filarete

Viale Ortles 22/4 - Milano

La dieta mediterranea come bussola del retail sostenibile

H. 9.30

INTRODUZIONE E SALUTI

n Paolo Mamo, Presidente Planet Life Economy Foundation ETS

n Maria Pia Abbracchio, Professore ordinario di Farmacologia, Università degli Studi di Milano

H. 9.45

KEYNOTE SPEECH

n Enrico Giovannini - Direttore scientifico ASviS

n Sara Roversi - Founder Future Food Institute

H. 10.15

TAVOLA ROTONDA sui temi toccati nei keynote

n Enrico Giovannini, ASviS

n Mauro Lusetti, Conad

n Nicola Gherardi, Confagricoltura

n Sara Caggiati, Coop Italia

n Stanislao Fabbrino, Fruttagel

n Chiara Mauri, Honest Food/LIUC

n Modera: Domenico Canzoniero (NDB Marketing)

H. 11.30

CONVERSAZIONE CON PAOLO IABICHINO: “IL GREEN MARKETING È FINITO?”

H. 11.45

COFFEE BREAK

H. 12.00

H&G RETAIL EXPERIENCE – Confronto sulle applicazioni pratiche

Presentazione del prototipo del progetto

n Domenico Canzoniero - NDB Marketing

n Giovanni Righini - UNIMI

n Andrea Colombo - Cortilia

n Gian Maria Gentile - Easy Coop

Testimonianze Player industriali

n Stanislao Fabbrino, Fruttagel

n Mariella Cerullo, Oleificio Zucchi

Testimonianze retailer

n Roberta De Natale, CRAI Secom

n Paola Dimaggio, Penny Italia

n Roberta Gigante, Consorzio Coralis

H. 13.30

LIGHT LUNCH

H. 14.30

ESEMPI DI RETAIL FUTURO

Casi internazionali di retailer che innovano su assortimento e stili alimentari salutistici.

n Natalia Massi - Kiki Lab (Gruppo Promotica)

H. 14.45

COME GDO E INDUSTRIA POSSONO AIUTARE I CONSUMATORI?

Applicazioni pratiche già in progetto o realizzate.

n Alberto Dolci, Bolton Food

n Antonio Galatà, Consulente nutrizione Consorzio Coralis

n Sara Caggiati, Coop Italia

n Gabriele Nicotra, Decò Italia

n Sauro Corzani, Dalla Torre

n Alessia Bonifazi, Lidl Italia

n Modera: Ilaro Ghiselli (PLEF)

H. 16.30

PREMIO EMPORIO SOLIDALE ITALIANO 2025 - 7° EDIZIONE

H. 16.45

CONCLUSIONI E SALUTI

La tabella di marcia del progetto “Experience” e la sua traslabilità su altri settori.

n Domenico Canzoniero - NDB Marketing

n Ilaro Ghiselli - Planet Life Economy Foundation ETS

Oltre lo scontrino: il valore dell’inclusione nei negozi italiani

L’ultima edizione dell’Osservatorio Diversity, Equity & Inclusion di Federdistribuzione fotografa un settore della distribuzione moderna in profonda trasformazione. La ricerca, realizzata insieme ad ALTIS,l’Alta Scuola di ricerca e formazione dell’Università Cattolica su 27 grandi aziende del retail, mostra che nel biennio 2024-2025 la cultura della diversità è passata dalla semplice “compliance” a una gestione più strategica. Le imprese con comitati manageriali dedicati alla DE&I sono salite dal 20 al 37 %, mentre quelle dotate di politiche strutturate sono cresciute dal 26,7 al 48,1. In parallelo è aumentata la disponibilità di budget specifici per la DE&I, raddoppiati dal 33,3 al 70,4 % delle aziende e sono in crescita anche gli strumenti di monitoraggio, passati dal 43,3 al 51,8 %. Le iniziative dedicate all’ascolto attivo sono salite dal 73,3 al 85,2 %, mentre il coinvolgimento dei dipendenti nei processi decisionali è cresciuto dal 63,3 al 92,6 %

La ricerca 2025 evidenzia inoltre una maggiore attenzione alla formazione sul linguaggio inclusivo (dal 13,3 al 44,4 % delle imprese) e una crescita del supporto alle persone con disabilità, con la presenza di figure interne di supporto salita dal 33,3 al 44,4 %. Nella seconda parte dell’Osservatorio vengono analizzate le esperienze dei lavoratori stranieri: le aziende migliori offrono mense che rispettano esigenze alimentari specifiche, flessibilità in orari e ferie per le festività religiose, tutoraggio linguistico e spazi di preghiera. Tuttavia permangono barriere legate alla lingua, alla comprensione dei codici non scritti e alla burocrazia per i permessi di soggiorno.

UN SALTO DI QUALITÀ

L’Osservatorio DE&I di Federdistribuzione mostra il passaggio dalla semplice “compliance” a una gestione strategica della diversità nel retail moderno:

l 37% dei retailer ha comitati DE&I.

Il 48,1% dispone di policy strutturate.

Il 70,4% assegna budget dedicati.

Il 51,8% usa strumenti di monitoraggio.

L’85,2% realizza ascolto attivo.

Il 92,6% coinvolge i dipendenti nelle decisioni.

L’ITALIA NEL CONFRONTO EUROPEO

Per capire dove si colloca l’Italia nel panorama europeo, può essere utile il DEI Index elaborato da EY su nove Paesi. Il rapporto 2024/2025 rivela che l’Italia si classifica sesta con un punteggio medio 5,63/10, alle spalle di Svizzera (6,0), Spagna (5,92), Portogallo (5,85), Austria (5,68) e Paesi Bassi (5,65), ma davanti a Francia (5,56), Belgio (5,48) e Germania (5,44). Solo il 6 % delle aziende italiane rientra tra le “DEI leaders” con una cultura realmente inclusiva. L’indagine mette inoltre in luce un ampio divario di percezione tra manager e dipendenti: se il 72 % dei manager dichiara di sentirsi se stesso e accettato sul lavoro, la percentuale scende al 41 % tra i dipendenti. Il 47 % dei lavoratori italiani ha subito episodi di discriminazione (contro il 36 % dei colleghi europei) e il 60 % li ha segnalati. L’Italia resta quindi indietro nell’attuare la diversity in maniera olistica: solo il 29 % delle aziende ha misure per l’inclusione LGBTQIA+ e il 14 % per le persone con disabilità

LE SFIDE INTERNE: OCCUPAZIONE FEMMINILE E GENDER GAP

Sul fronte del lavoro, l’Italia continua a registrare tassi di occupazione femminile inferiori alla media europea. I dati più recenti parlano di un tasso femminile del 53,54 % a gennaio 2025 contro il 72,04 % degli uomini, con un divario di 18,5 punti percentuali. La quota di donne inattive rimane elevata: 43,4 % contro una media europea del 35 %. Inoltre, il gender pay gap continua a essere un problema strutturale: secondo il Global Gender Gap Report 2023 citato dall’agenzia AGI, in Italia le donne guadagnano in media 7.922 euro in meno degli uomini. La stessa fonte ricorda che il tasso di occupazione femminile (fascia 20-64 anni) è pari al 55 %, mentre la media europea raggiunge il 69,3 %.

Nel terziario italiano, che comprende la distribuzione e i servizi, la presenza delle donne nelle posizioni apicali cresce ma resta limitata. Secondo i dati di Manageritalia, tra il 2008 e il 2021 le manager sono aumentate del 77%, molto più degli uomini, ma rappresentano ancora soltanto il 20,5% dei dirigenti. La

quota sale al 24,7% nel terziario, mentre scende al 15,1% nell’industria. Questa dinamica riflette anche un ricambio generazionale: molti uomini senior lasciano il posto a donne più giovani.

Nonostante questo progresso, la percezione di disparità è ancora forte. Un’indagine EY-SWG mostra che la metà delle lavoratrici ritiene di non avere le stesse opportunità di carriera dei colleghi uomini. Le principali barriere riguardano la gestione del doppio ruolo, tra impegni familiari e lavoro, e la difficoltà di accedere agli stessi spazi di crescita.

A questo si aggiunge il cosiddetto carico mentale: anche quando i servizi di assistenza sono disponibili, la responsabilità di organizzare baby sitter, attività dei figli o supporto ai genitori anziani continua a ricadere soprattutto sulle donne.

Le conseguenze sono visibili nelle carriere. Ogni cento uomini promossi, soltanto 72 donne compiono lo stesso passaggio. Molte rimangono intrappolate in contratti part-time o in posizioni entry-level, che consentono maggiore conciliazione ma limitano la progressione. Emblematico il caso di grandi catene della distribuzione in cui oltre il 60% del personale è a part-time. Sommando stereotipi culturali, mancanza di welfare e ostacoli organizzativi, la leadership femminile nel retail italiano rimane un percorso a ostacoli.

UN QUADRO NORMATIVO IN ESPANSIONE

Il contesto legislativo italiano ed europeo sta spingendo il retail verso una maggiore responsabilità sociale. Tra i provvedimenti più rilevanti:

n Legge 162/2021 e UNI/PdR 125:2022 – hanno rafforzato il sistema di gestione per la parità di genere. Secondo Accredia, la UNI/PdR 125:2022 si colloca già al quarto posto per diffusione tra le certificazioni italiane, con oltre 16.000 siti aziendali certificati e 54 organismi di certificazione accreditati.

n European Accessibility Act – la direttiva 2019/882, recepita in Italia dal D.Lgs. 82/2022, estende l’obbligo di accessibilità ai prodotti e servizi digitali del settore privato (inclusi gli e -commerce). Dal 28 giugno 2025 tutte le aziende dovranno rispettare requisiti che riguardano hardware, software e servizi online. Il sito SeeCommerce ricorda che le sanzioni italiane possono arrivare al 5 % del fatturato e fino a 40.000 euro.

n Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) – la direttiva europea recepita in Italia con il D.Lgs. 125/2024 estende l’obbligo di reporting di sostenibilità a tutte le grandi imprese dal 1º gennaio 2025 e alle PMI quotate dal 2026. Le funzioni HR dovranno raccogliere dati sociali e riportare informazioni su diversità, inclusione e condizioni di lavoro.

n Direttiva UE 2023/970 sulla trasparenza retributiva – da recepire entro giugno 2026, obbligherà le aziende a comunicare fasce retributive negli annunci e a fornire ai dipendenti informazioni sui criteri di determinazione delle retribuzioni. Le imprese con più di 100 dipendenti dovranno inoltre pubblicare periodicamente il divario retributivo di genere

PROSPETTIVE E LEVE PER IL FUTURO

La doppia transizione digitale e demografica rende indispensabile un cambiamento culturale. Le grandi catene del retail che hanno investito in comitati DE&I, monitoraggio e budget dedicati stanno dimostrando che l’inclusione non è solo un imperativo etico ma una leva competitiva: l’Osservatorio Federdistribuzione registra un netto miglioramento nell’adozione di sistemi di avanzamento professionale basati sul merito (dal 70 all’81,5 % delle aziende)it. In un Paese con forte invecchiamento demografico, aprirsi a talenti femminili, giovani e stranieri non è più una scelta, ma una condizione per sostenere la crescita.

Al tempo stesso, la frammentazione normativa rischia di pesare soprattutto sulle piccole e medie imprese della distribuzione. Sarà quindi cruciale accompagnare il settore con formazione e consulenza, affiancando gli obblighi normativi con incentivi concreti,

come prevede la certificazione di parità di genere (esenzioni contributive e punteggi nei bandi) e la stessa CSRD. Infine, occorre ampliare lo sguardo oltre il genere, includendo diversità culturale, LGBTQIA+ e disabilità: gli stessi dati EY indicano che solo il 29 % delle aziende italiane ha misure specifiche per l’inclusione LGBTQIA+.

Il largo consumo mostra segnali di progresso, ma rimangono gap significativi rispetto ai Paesi europei più avanzati. La sesta posizione nel DEI Index e gli alti tassi di discriminazione testimoniano un ritardo culturale da colmare. Tuttavia, l’impegno crescente delle imprese della distribuzione moderna e la spinta del quadro normativo lasciano intravedere un’accelerazione nei prossimi anni. Sostenibilità sociale e performance economica non sono più dimensioni separate: nel retail del futuro l’attenzione alla diversità e all’inclusione diventerà una componente imprescindibile della competitività.

Nei prossimi approfondimenti racconteremo tre casi: Coop, Carrefour e Cameo. Tre esperienze che, con approcci diversi, stanno contribuendo a far evolvere le pratiche inclusive nel settore.

“CLOSE THE GAP. RIDUCIAMO LE

DIFFERENZE”

Lanciato nel marzo 2021, “Close the Gap. Riduciamo le differenze” rappresenta la strategia organica di Coop Italia per affrontare il tema della parità di genere e dell’inclusione a 360 gradi. Il progetto, giunto nel 2025 alla sua quinta edizione, si articola su molteplici fronti operativi che spaziano dall’azione interna al coinvolgimento della filiera, dalle battaglie civili all’innovazione sociale.

LE CIFRE DI COOP SULLA PARITÀ

n 71,5% dei dipendenti sono donne (in crescita costante)

n 34,8% dei ruoli direttivi ricoperti da donne

n 40,9% dei consiglieri nei CdA delle cooperative sono donne

n 54,5% dei soci eletti negli organismi rappresentativi sono donne

n Prima insegna della GDO italiana ad ottenere la Certificazione Parità di Genere UNI PdR 125:2022

LE DECLINAZIONI OPERATIVE DEL PROGETTO

1. GOVERNANCE E CERTIFICAZIONI

n Certificazione UNI PdR 125:2022: prima nella GDO italiana (febbraio 2024)

n Sistema di monitoraggio su 6 aree: cultura e strategie, governance, processi HR, opportunità di crescita, equità remunerativa, tutela genitorialità

n Obiettivo: estensione della certificazione a tutte le grandi cooperative del sistema

2. BATTAGLIA CIVILE E PETIZIONI

n Stop Tampon Tax: sostegno alla petizione per ridurre l’IVA sui prodotti mestruali dal 10% al 5% (oltre 700.000 firme raccolte)

n Congedo di paternità: supporto alla petizione #GenitoriAllaPari per estendere il congedo a 3 mesi (78.400 firme)

n “Il ciclo è ancora un lusso”: neutralizzazione IVA sui prodotti a marchio Coop (gennaio-maggio 2024)

3. FORMAZIONE E SVILUPPO

n E-learning per fornitori: format formativo sviluppato con Oxfam e Scuola Coop destinato al management di circa 800 aziende fornitrici

n Percorsi interni: formazione continua per dipendenti e dirigenti su inclusione e parità

n Empowerment nelle filiere: formazione per 150 donne nelle filiere di pomodoro (Campania), clementine (Calabria), uva (Puglia)

4. PREMIO AI FORNITORI

n Close the Gap Award: riconoscimento annuale (alla 5a edizione) per fornitori virtuosi in tema di inclusione

n Premiati 2024: Iffco Italia, Andriani, Cooperativa Chico Mendes, Dial

n Coinvolgimento di circa 60 aziende candidate per edizione

5. SOLIDARIETÀ

INTERNAZIONALE E SOCIALE

n “Donna. Vita. Libertà.”: iniziativa per l’Iran con Amnesty International (112.000 cartoline raccolte)

n Sensibilizzazione violenza di genere: partnership con Differenza Donna, campagna “Il silenzio parla”, numero 1522 sugli scontrini

n Supporto comunità LGBTQIA+: collaborazione con Arcigay, glossari e timeline educative

6. EDUCAZIONE E PREVENZIONE (NOVITÀ 2025)

n“Dire, fare, amare”: campagna per rendere obbligatoria l’educazione alle relazioni nelle scuole

n Survey “La scuola degli affetti”: ricerca con Nomisma su 2.000 persone

n 70% degli italiani favorevole all’educazione alle relazioni come materia obbligatoria

7.

SERVIZI INCLUSIVI

n “La Coop per tutti”: servizio di accompagnamento alla spesa per persone con disabilità e anziane

n Inserimento lavorativo: percorsi dedicati per donne vittime di violenza

n Welfare aziendale: politiche di conciliazione vita-lavoro

Intervista a Maura Latini, A.D. Coop Italia a cura di Domenico Canzoniero

1. “Close the Gap” compie 5 anni: guardando indietro, qual è stata la sua evoluzione?

“In realtà a cinque anni dalla nascita della campagna, la cosa che davvero ci stupisce e allo stesso tempo ci rende orgogliosi e tenaci nel proseguire, è il successo che questa campagna ha riscosso. Quando abbiamo iniziato, il nostro primo obiettivo era migliorarci e in seconda istanza suscitare un dibattito su questi temi. Da lì in poi invece, non solo abbiamo partecipato a diversi momenti di riflessione dell’opinione pubblica, ma abbiamo spesso incontrato diverse organizzazioni e movimenti della società civile attente e attive, con le quali abbiamo fatto campagne, formazione e abbiamo avviato riflessioni comuni. Siamo entrati a far parte di un movimento ben più grande di noi, al quale speriamo di aver dato il nostro contributo”.

2. Nel retail, spesso sostenibilità sociale ed economica vengono percepite in conflitto. Come dimostrate che l’inclusione genera valore per l’azienda?

“Per Coop la sostenibilità, sin dalla sua fondazione, è stata sia sociale che economica ed ormai da decenni è anche ambientale. Abbiamo festeggiato nel 2024 i nostri 170 anni in ottima salute; quindi possiamo dire che aver superato il secolo e mezzo di vita ci sembra un buon modo per dimostrare il valore di questa idea”.

3. La certificazione UNI PdR 125 vi ha resi pionieri nella GDO. Oltre al riconoscimento, quali benefici operativi avete riscontrato?

“Sicuramente adottare in tempi così anticipati quella certificazione è stata una scelta che ci ha concesso un tempo di adattamento e sperimentazione importante. Oltre, quindi, ad un efficientamento interno, seguire il dettato della certificazione ci ha aiutati ad ottenere una maggiore fluidità interaziendale e inoltre il fatto che la certificazione una volta ottenuta imponga step successivi di avanzamento per mantenerla è da un lato un impegno e dall’altro una grande occasione di miglioramento continuo”.

4. Come misurate il ROI degli investimenti in inclusione? Esistono KPI specifici che correlano parità di genere e performance aziendali?

“Non ci sono correlazioni specifiche ma sicuramente ci sono collegamenti indiretti di cui è opportuno tenere di conto. Nella valutazione della reputazione aziendale, ad esempio, che eseguiamo con un monitoraggio trimestrale attraverso una società esterna il KPI relativo alla parità di genere e più estesamente al fattore inclusione ha un preciso valore di riferimento”.

5. Il progetto coinvolge sia l’interno che la filiera esterna. Quale approccio risulta più complesso da implementare e perché?

“Ovviamente quando usciamo da Coop, ci confrontiamo con una pluralità di soggetti e di esigenze che determinano una complessità di azione più articolata rispetto al core delle nostre cooperative. Eppure, proprio dalla collaborazione con l’esterno, traiamo spesso spunti e stimoli che poi risultano efficaci e produttivi anche all’interno di Coop. È comunque una relazione win win, sia dentro che fuori il sistema della cooperazione di cooperatori”.

6. L’educazione alle relazioni come materia scolastica: un retailer che si fa promotore di politiche educative. Non è un azzardo uscire dal proprio core business?

“Il core business della cooperazione è per Statuto e Carta dei Valori, il tessuto sociale di cui si nutre e che nutre l’insieme dei suoi soci. Quindi non stiamo uscendo dal nostro business ma ci prendiamo cura di chi è proprietario delle nostre cooperative. Imprese certo ma imprese di persone”,

INNOVAZIONE E SCALABILITÀ

7. Il format e-learning per i fornitori: come convince 800 aziende diverse ad abbracciare i vostri standard di inclusione? Qual è la leva più efficace?

“Abbiamo con i fornitori di prodotto a marchio rapporti consolidati, duraturi. Li consideriamo nostri alleati più che fornitori. Da sempre sono coinvolti in processi di miglioramento sia della filiera produttiva ma anche legati a fattori valoriali che fanno parte da sempre del modo di Coop di fare impresa. Si tratta di adesioni volontarie non di costrizioni, ma sono parte integrante del rapporto che appunto stabiliamo con loro”.

8. Quali resistenze incontrate nella filiera? E come trasformate gli scettici in alleati?

“In realtà abbiamo visto che i nostri fornitori sono sempre più attenti alle proposte che facciamo loro in tema di inclusione. Ovviamente ci sono filiere in cui questo tipo di dinamiche sono più o meno difficili da affrontare, ma il vero ostacolo è la complessità della messa in pratica. Una volta che offriamo loro un know how fruibile, troviamo spesso fornitori interessati ad utilizzarlo”.

9. Il modello “Close the Gap” può essere replicato da altri retailer? O richiede necessariamente la cultura cooperativa di Coop?

“Saremmo lieti se altri retailer ci seguissero in ciò che stiamo facendo. Certo la natura di Coop, collettiva e allo stesso tempo unitaria, aiuta la realizzazione dei progetti, ma ognuno potrebbe ritagliarsi su misura quella stessa idea in base alle proprie necessità aziendali”.

10. I consumatori riconoscono questo impegno? Si traduce in preferenza di marca o fidelizzazione?

Purtroppo, viviamo in anni in cui la fidelizzazione non esiste più. Per nessun retailer. In anni complessi come questi, il driver che guida principalmente è il risparmio e subito dopo la qualità. Oltretutto veniamo da anni in cui siamo stati abituati a deprezzare il cibo, convinti che al prezzo più basso venisse comunque venduto lo stesso prodotto. Cosa che, anche solo intuitivamente non può essere vera. Con il PAM andiamo quindi incontro alle famiglie italiane in difficoltà. Il resto lo facciamo perché fa parte della nostra natura e ad essere sinceri, fa anche parte della natura dei nostri soci. 11. Le nuove generazioni di dipendenti e manager valutano diversamente un’azienda certificata per la parità di genere?

Attrarre le nuove generazioni è molto importante per una azienda. E viviamo in un mondo in cui è cambiato il paradigma che sottostà l’approccio al lavoro. Oggi non è la carriera l’obiettivo finale. Ma è l’equilibrio vita privata-lavoro il punto imprescindibile dai Millennials in poi. In questo contesto, la parità di genere diviene ovviamente essenziale.

PROSPETTIVE E SFIDE

13. Quali sono gli obiettivi per i prossimi due anni? Su quale fronte intendete accelerare maggiormente?

“Close the Gap è una campagna che si nutre molto delle dinamiche contemporanee e delle emergenze che di volta in volta si palesano. Stiamo già progettando il 2026, cercando le nuove necessità da aiutare a manifestare, ma a prescindere dalla concretezza dei progetti dei prossimi mesi o anni, la certezza è che non abbandoneremo questa campagna e questo impegno.”

14. La sostenibilità sociale nel retail: siamo ancora in una fase pionieristica o sta diventando mainstream? “Noi possiamo parlare solo per Coop. E direi che ci stiamo dando molto da fare affinché sia una normale dimensione della quotidianità”.

15. Un consiglio a un competitor che volesse avviare un percorso simile: da dove iniziare e quali errori evitare?

“Non sta certo a noi dare consigli. Possiamo dire da dove abbiamo iniziato cinque anni fa. Da noi stessi”.

DE&I in Cameo: una ricetta quotidiana

Nel dibattito su diversità e inclusione, la differenza la fanno le pratiche quotidiane. cameo, storica realtà alimentare con sede a Desenzano del Garda e circa 330 persone, negli ultimi anni ha introdotto strumenti che segnalano la volontà di trasformare la cultura aziendale. I numeri lo confermano: le donne sono il 51,9% della popolazione e occupano il 47% delle posizioni di leadership. Ancora più significativo: circa il 60& delle manager è anche madre, segno che il percorso di carriera non si interrompe nei momenti di maggiore fragilità.

L’attenzione si traduce anche nelle condizioni di lavoro. Lo smart working (avviato in pilota nel 2018) oggi consente fino a otto giornate al mese da remoto per i ruoli eleggibili. Strumenti semplici ma concreti, che aiutano a conciliare vita privata e impegni professionali.

Il capitolo genitorialità e maternità poggia su politiche dedicate: proroga del part-time oltre quanto previsto dalla normativa, mantenimento dei benefit durante il congedo, percorsi di supporto per gestire le pratiche

amministrative. Al rientro è previsto un welcome back con momenti strutturati di accompagnamento, per ridurre l’impatto di un cambiamento che non è mai automatico.

In parallelo, l’azienda ha definito la «Ricetta della Diversità, Equità e Inclusione», documento nato dal confronto con le persone e pensato per fissare principi e comportamenti. Sono inoltre state messe in campo iniziative specifiche: «Genitori in Action», un ciclo di incontri dedicati al sostegno alla genitorialità e al disagio giovanile; webinar aperti a tutta la popolazione su fertilità e procreazione assistita; seminari di prevenzione sulla salute femminile e maschile. Dal 2025 nei locali aziendali sono disponibili gratuitamente assorbenti compostabili, un gesto semplice che normalizza un tema spesso marginalizzato.

Infine, sono stati introdotti moduli formativi brevi per riconoscere e gestire linguaggi e comportamenti non inclusivi. Non grandi piani teorici, ma micro-contenuti che trasformano i principi in pratica. È la somma di questi passaggi - dalla flessibilità organizzativa al sostegno nei momenti di vita, fino alla formazione diffusa - a comporre una traiettoria credibile: cameo dimostra che la DE&I non è un’etichetta, ma un lavoro di manutenzione quotidiana che rafforza il clima interno e rende più solide le prospettive di crescita.

Parità in corsia: il piano di Carrefour Italia

Carrefour Italia negli ultimi anni ha trasformato la diversità e l’inclusione in un asset strategico della propria identità aziendale. Non si tratta più di un insieme di buone pratiche volontarie, ma di un vero e proprio sistema di governance con obiettivi misurabili e monitoraggio continuo. Il segnale più forte è arrivato a giugno 2024 con la certificazione UNI/PdR 125, che vincola l’azienda a piani concreti su assunzioni, carriere, formazione e retribuzioni, sottoposti a verifiche periodiche indipendenti. Non un riconoscimento simbolico, dunque, ma uno strumento che impone trasparenza e risultati.

Parallelamente Carrefour Italia ha avviato progetti specifici per valorizzare il talento femminile e sostenere l’equilibrio vita-lavoro. Tra questi il programma “Carrefour Per Lei”, pensato per affrontare in maniera strutturata temi come maternità, gender pay gap e accesso ai percorsi di carriera, affiancato da iniziative contro la violenza di genere e da percorsi formativi per manager e collaboratori. L’azienda ha inoltre introdotto policy di flessibilità oraria e supporto psicologico, per rafforzare una cultura di inclusione che non sia confinata ai soli numeri.

Il fronte forse più innovativo è quello della coalizione con i fornitori: a marzo 2025 Carrefour Italia ha riunito tredici partner e Bureau Veritas per costruire una rete dedicata alla parità di genere nella filiera. Obiettivo: condividere metriche, piani di miglioramento e sistemi di audit, estendendo i criteri di inclusione oltre i confini aziendali. È un cambio di paradigma: non più solo responsabilità interna, ma catena del valore come leva di trasformazione sociale.

Accanto a questi progetti, Carrefour Italia ha lanciato iniziative di inserimento lavorativo per persone con disabilità, fissando traguardi quantitativi al 2026 e collaborando con realtà del terzo settore per favorire l’occupazione. La Fondazione Carrefour, dal canto suo, continua a sostenere percorsi di inclusione sociale e lotta all’insicurezza alimentare, coinvolgendo i dipendenti in attività di volontariato d’impresa.

Il quadro che emerge è quello di un’azienda che ha scelto di mettere la diversità al centro delle proprie politiche: certificazioni, programmi mirati, filiera inclusiva e impegno sociale. Restano sfide da affrontare, ma la traiettoria è netta: trasformare l’inclusione in un valore concreto per collaboratori, clienti e comunità.

Oleificio Zucchi: brand rinnovato e gamma completa per il retail

Oleificio Zucchi, storica azienda italiana attiva nel settore oleario dal 1810, ha annunciato il restyling della propria identità di marca e una nuova linea di oli d’oliva destinata al canale Retail.

L’iniziativa rafforza la presenza del brand Zucchi sugli scaffali della grande distribuzione, con un’offerta che unisce tradizione, qualità e sostenibilità.

Il rinnovo coinvolge logo, packaging e design delle bottiglie. Il logo è stato aggiornato con elementi decorativi rivisitati, un font più leggibile e l’indicazione dell’anno di fondazione. La bottiglia, sviluppata da Verallia in vetro scuro riciclato per l’88%, adotta un design ergonomico con etichetta in carta goffrata e un versatore microforato. Queste soluzioni migliorano funzionalità, conservazione del prodotto e impatto visivo a scaffale.

Filiera tracciata

La nuova linea comprende cinque referenze principali. Il prodotto di punta è l’olio extra vergine di oliva 100% italiano sostenibile, certificato Made Green in Italy e conforme a un disciplinare con 150 parametri di sostenibilità. Completano l’offerta l’olio extra vergine 100% italiano con tracciabilità via QR code, una referenza biologica, un extra vergine da olive UE e un olio di oliva per uso quotidiano.

Questa articolazione consente di rispondere in modo mirato alle esigenze di mercato, dalla cucina domestica attenta alla qualità fino alla domanda di sostenibilità tracciabile. Tutti i prodotti sono proposti in vetro scuro, superando la consuetudine del vetro trasparente per una migliore protezione dall’ossidazione.

Posizionamento di Zucchi e test con i consumatori Il restyling è stato validato da test di mercato che ne hanno evidenziato la capacità di comunicare tradizione e contemporaneità, insieme a una percezione premium dell’immagine. Il packaging distintivo mira a rendere le referenze Zucchi immediatamente riconoscibili e rafforzare la brand equity nel settore Retail.

L’Amministratore Delegato Alessia Zucchi sottolinea il ruolo centrale della qualità e della selezione delle cultivar nella nuova proposta, frutto di oltre due secoli di esperienza nel blending degli oli.

Sostenibilità certificata

Zucchi conferma la centralità della sostenibilità nella propria strategia industriale. La certificazione Made Green in Italy, ottenuta nel 2024, rappresenta un traguardo rilevante per il settore oleario italiano e rafforza la leadership dell’azienda in termini di filiera trasparente e certificata. L’adozione di parametri ambientali, sociali ed economici nei processi produttivi si traduce in un valore tangibile per il consumatore finale e per gli operatori del retail.

Con 215 anni di storia, Oleificio Zucchi consolida così il proprio posizionamento tra i principali player dell’olio da olive in Italia e all’estero, con un’offerta orientata alla qualità, alla sicurezza alimentare e alla responsabilità d’impresa.

R-Hybrid SKY: FLO presenta il bicchiere vending in PS riciclato post-consumo

FLO presenta R-Hybrid SKY, nuova generazione di bicchieri per vending che combina eco-design e riciclabilità post-consumo idonea al contatto alimentare. Il modello, riconoscibile dal colore azzurro, sarà disponibile da fine 2025 e sostituirà progressivamente l’attuale R-Hybrid.

Cosa cambia con R-Hybrid SKY

Il bicchiere introduce un’ottimizzazione di ecodesign che ne riduce il peso e l’impiego di materia prima vergine, abbattendo la Carbon Footprint (CFP) senza penalizzare le prestazioni in erogazione. La struttura monomateriale in PS, priva di filler minerali, favorisce il design for recycling negli impianti esistenti e l’uso di polistirene riciclato post-consumo idoneo al contatto diretto con il caffè.

Conformità anticipata alla PPWR R-Hybrid SKY è progettato per allinearsi ai tre assi del regolamento europeo PPWR: design for recycling (monomateriale, niente cariche minerali), ecodesign (forma alleggerita con pari performance) e contenuto ricicla-

to post-consumo fino al 25%, valore che supera di oltre il doppio il target indicativo al 2030. L’obiettivo è offrire agli operatori un’opzione già pronta rispetto agli standard emergenti su circolarità e contenuto riciclato.

Integrazione di filiera e tracciabilità

Il prodotto si inserisce nel circuito RiVending (Confida e Corepla), abilitando il recupero e il riciclo del bicchiere usato. Il modello Cup2Cup promuove un ciclo chiuso: dallo scarto al ritorno a nuova materia prima. Per gli operatori vending questo consente di semplificare la raccolta dedicata e la rendicontazione ambientale.

«R-Hybrid SKY rappresenta per noi una nuova tappa di crescita, che unisce evoluzione tecnologica e sostenibilità, sia ambientale che economica… Con il nostro team di LCA specialist affianchiamo i clienti nella rendicontazione ESG, offrendo dati puntuali sulla CFP richiesti dallo Scope 3», afferma Erika Simonazzi, Direttrice Marketing di Gruppo FLO.

Implicazioni per gli operatori

Per gestori e clienti finali, l’adozione del nuovo bicchiere può contribuire alla riduzione delle emissioni Scope 3 lungo la catena del valore, supportando KPI ambientali misurabili. La soluzione risponde inoltre alle esigenze dei capitolati pubblici e privati che richiedono contenuto riciclato certificabile, riciclabilità effettiva e trasparenza sui dati LCA.

RETAIL FORECAST 2026 COMING

SOON

Jingold presenta il Bilancio di Sostenibilità

Jingold ha pubblicato il suo primo Bilancio di Sostenibilità, un documento che racconta l’impegno del gruppo nella gestione etica e responsabile della filiera del kiwi e che definisce traguardi ambientali e sociali per i prossimi anni. L’azienda, che riunisce produttori di kiwi in diverse aree d’Italia, conferma con questo passo il proprio orientamento verso criteri ESG e trasparenza nella rendicontazione. Obiettivi di Jingold

Dal Bilancio emergono obiettivi concreti per ridurre l’impatto ambientale delle coltivazioni e migliorare la gestione delle risorse. Tra le azioni indicate rientrano il contenimento delle emissioni lungo la filiera, l’uso efficiente dell’acqua e del suolo, l’adozione di pratiche agricole rispettose della biodiversità e l’introduzione di sistemi innovativi di tracciabilità. L’azienda punta a integrare metodi di agricoltura sostenibile in tutte le fasi, dalla produzione alla distribuzione, per garantire qualità, sicurezza alimentare e minore impatto ecologico.

Filiera etica e sostegno ai produttori

Il Bilancio mette in evidenza anche l’aspetto sociale: sostegno ai produttori, sicurezza sul lavoro e valorizzazione delle competenze nelle aree rurali. Jingold promuove rapporti stabili e trasparenti con i partner della filiera e intende rafforzare il modello cooperativo come leva per assicurare redditività e sviluppo. La governance del gruppo è orientata a principi di correttezza e tracciabilità, in linea con le richieste dei mercati internazionali.

Verso un futuro sostenibile del kiwi

Con la pubblicazione del Bilancio di Sostenibilità, Jingold inaugura un percorso strutturato di monitoraggio e comunicazione dei progressi ESG. La scelta risponde alla crescente attenzione dei consumatori per i prodotti ortofrutticoli certificati e di provenienza etica e rafforza la reputazione del marchio nel largo consumo. Questo approccio integra innovazione tecnologica e responsabilità sociale, indicando una rotta precisa per il futuro della filiera del kiwi.

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