Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB - FILIALE DI FORLÌ - Contiene i. p. - Reg. al Tribunale di Forlì il 16/01/2002 n. 1 - EURO 3,00
FAENZ A N° 4 OTTOBRE/NOVEMBRE 2019
SANGIORGI
Giordano
SCOUTING MUSICALE
MARCO BONITTA / Mister volley BITWAYS / Rinascere dalle ceneri ALBERTO MARCHESANI / Sfide estreme
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EDITORIALE
SOMMARIO
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Per questo numero autunnale, intervistiamo Marco Bonitta, oggi ritornato al volley maschile con la Consar Ravenna, e Giordano Sangiorgi, storico promoter musicale e culturale. L’azienda Bitways ci parla della rinascita dopo l’incendio che ne ha distrutto la sede, mentre il giornalista Alberto Marchesani ci racconta della terrificante maratona in Islanda. Incontriamo giovani talenti: Matilde e Celeste Pirazzini, che ripropongono le cante romagnole, Marta Severgnini e Andreina Cristino, vincitrici del Premio Tesi per il mosaico, e Cecilia Ruffini, stella del dressage. Andiamo poi alla scoperta delle Ville Unite e di un appartamento nel cuore di Ravenna. L’artista Cesare Baracca ci spiega perché il ritratto è la forma d’arte più elevata, e infine Fabrizio Bergonzoni ci racconta della nascita di Scattisparsi, l’unico negozio di via Sant’Agata, già battezzata via del Libraio. Buona lettura! Andrea Masotti
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ANNOTARE
Brevi IN
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ESSERE
Marco Bonitta
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ESSERE
Giordano Sangiorgi
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RIPARTIRE
Bitways
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CORRERE
Sfide estreme
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SUONARE
Matilde e Celeste Pirazzini
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EDIZIONI IN MAGAZINE S.R.L. Via Napoleone Bonaparte, 50 - 47122 Forlì Tel. 0543.798463 / Fax 0543.774044 www.inmagazine.it info@inmagazine.it DIRETTORE RESPONSABILE: Andrea Masotti REDAZIONE CENTRALE: Clarissa Costa, Gianluca Gatta, Beatrice Loddo COORDINAMENTO DI REDAZIONE: Roberta Bezzi ARTWORK: Lisa Tagliaferri IMPAGINAZIONE: Francesca Fantini UFFICIO COMMERCIALE: Gianluca Braga, Elvis Venturini STAMPA: La Pieve Poligrafica Villa Verucchio (RN) ANNO XVIII - N. 4 Chiuso per la stampa il 20/10/2019 Collaboratori: Chiara Bissi, Nicoletta Brina, Andrea Casadio, Anna De Lutiis, Silvia Manzani, Aldo Savini. Fotografi: Lidia Bagnara, Andrea Casadio, Massimo Fiorentini, Marathonman.com
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ABITARE
Contemporanea classicità
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DIPINGERE
Cesare Baracca
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RICERCARE
Scattisparsi
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CREARE
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Viaggio nel mosaico
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CAVALCARE
Edizioni IN Magazine si impegna alla salvaguardia del patrimonio forestale aderendo al circuito di certificazione di FSC-Italia.
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Cecilia Ruffini
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ESPLORARE
Ville Unite
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ANNOTARE
Teatro SOCJALE
A cena con GUERRINI
PIANGIPANE Da Ana Popovica
LUGO Nell’ambito della
a Vincenzo Mollica, passando per Ray Gelato e Mario Biondi. Questa in sintesi, la nuova stagione del Teatro Socjale di Piangipane che, nel 2020, si appresta a festeggiare i primi trent’anni di attività e, al contempo, il centenario dell’apertura del teatro. Dopo l’apertura-anteprima il 31 ottobre, con la virtuosa chitarrista Popovica, headliner dei principali festival blues mondiali, c’è attesa per il carico di classic swing, jazz e blues, il 6 dicembre, con Roy Gelato & The Giants che hanno suonato anche per la regina Elisabetta. Gran finale il 20 dicembre con Mario Biondi che si confronterà con i giovani dell’Orchestra dei Giovani di Ravenna diretta dal maestro Franco Emaldi. Chiusura il 10 gennaio con uno dei più grandi giornalisti, Vincenzo Mollica, e il suo Prima che mi dimentico di tutto… Parole e canzoni con il compositore Fabio Frizzi.
rassegna culturale del Caffè Letterario, venerdì 8 novembre alle ore 20.30 il Ristorante Hotel Ala d’Oro ospiterà l’evento A cena con Olindo Guerrini, una serata convivialmusicale dedicata al poeta e gastronomo romagnolo Olindo Guerrini, raccontato dagli scrittori Mariavittoria Andrini e Pietro Caruso. L’incontro tra la giornalista e scrittrice Mariavittoria Andrini e Olindo Guerrini avviene nel 2012, quando Andrini propone la riedizione del libro di Olindo Guerrini L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa, pubblicato postumo nel 1918, due anni dopo la sua morte. Fra le opere che l’autrice ha dedicato alla figura di Guerrini, pubblicate da Edizioni IN Magazine, troviamo: L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa (2012), Olindo Guerrini. Ricordi Autobiografici (2016) e l’opera teatrale Ho un arcobaleno nella testa (2019).
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Caviro che è stata proclamata Best Erzeuger aus italien, ossia miglior produttore italiano, durante la 25° edizione di Mondus Summer Tasting, la sessione estiva del noto concorso enologico tedesco. Un traguardo importante che porta l’Italia al primo posto assoluto nella classifica non ufficiale delle nazioni rappresentate, con 487 medaglie totali. Seguono a lunga distanza i viticoltori tedeschi, con 307 medaglie, che per la prima volta superano i colleghi spagnoli fermi a 283; quarto e quinto posto per Portogallo e Francia, a quota 132 e 122. Mondus Vini è una delle competizioni più rinomate al mondo nel suo genere che, nei suoi due appuntamenti annuali (uno a febbraio e uno ad agosto), vede gareggiare oltre 10.000 tra vini, spumanti e vini liquorosi, valutati da una giuria di esperti enologi, viticoltori, rivenditori specializzati e sommelier.
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IN MAGAZINE
ESSERE
Mister
VOLLEY IL RAVENNATE MARCO BONITTA È STATO IL PRIMO A CONQUISTARE I MONDIALI CON LA NAZIONALE FEMMINILE NEL 2002. ORA È RITORNATO AL VOLLEY MASCHILE CON LA CONSAR RAVENNA. di Roberta Bezzi / ph Massimo Fiorentini
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Allenare è qualcosa che fa parte del suo DNA. Perché proprio non ci sa stare lontano dalla panchina, malgrado ci abbia provato in più occasioni. D’altra parte: come dargli torto? Il ravennate Marco Bonitta, classe 1963, ha vissuto le stagioni più gloriose del volley italiano. Con gli uomini ha esordito nel 1996 alla guida della Olimpia Teodora con cui ha ottenuto la promozione in Serie A1. L’anno successivo è stato ingaggiato dal Volley Bergamo con cui ha vinto due scudetti (1997/98 e 1998/99) e una Champions League. Con le donne è andata ancor meglio se si considera che, quando nel marzo 2001 ha sostituito Angelo Frigoni alla guida tecnica della nazionale femminile italiana, ha vinto la medaglia d’argento agli Europei di quello stesso anno e il Mondiale nel 2002. Un risultato storico quello ottenuto a Berlino, perché è stata la prima medaglia d’oro del volley femminile, ottenuto sconfiggendo in finale gli Stati Uniti. La carriera di Bonitta è fatta di addii e ritorni. Nel 2006 lascia la nazionale femminile italiana, che
riprende ad allenare nel 2014 per partecipare al World Grand Prix, con una parentesi curiosa anche come allenatore della nazionale femminile della Polonia. Nel 2012 è ritornato a Ravenna nella B1 maschile alla guida del Porto Ravenna con cui ha ottenuto la promozione in A2. Dopo essersi preso una pausa da mister, da quest’anno ha firmato un contratto annuale con il Consar Ravenna in A1 in cui sarà impegnato nella triplice veste di allenatore, direttore tecnico e sportivo. Marco Bonitta, che obiettivi si pone per la stagione 2019/20? “Non ho particolari ambizioni di risultato e classifica in senso stretto, privilegiando la strada del miglioramento continuo dei punti di forza e di debolezza del gruppo. Ciò che più mi interessa è vedere i ragazzi giocare con entusiasmo in modo da compattare la squadra e contagiare il pubblico.” Come nasce l’interesse per la pallavolo? “Tantissimi anni fa, ormai… Sin da bambino mi divertivo a seguire le gesta delle squadre ravennati IN MAGAZINE
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“SIN DA BAMBINO MI DIVERTIVO A SEGUIRE LE GESTA DELLE SQUADRE RAVENNATI DOVE GIOCAVANO I MIEI PRIMI ALLENATORI E INSEGNANTI DI GINNASTICA. HO TRATTO ISPIRAZIONE DA TRE GRANDI: ALDO BENDANDI, ALEXANDER SKIBA E JULIO VELASCO.”
IN APERTURA, MARCO BONITTA. IN QUESTA PAGINA, L’ALLENATORE DURANTE UNA PARTITA DELLA CONSAR RAVENNA.
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IN MAGAZINE
dove giocavano i miei primi allenatori e insegnanti di ginnastica. Crescendo, mi è stato presto chiaro che non avrei avuto grosse speranze come giocatore, per via di alcune doti fisiche che mi mancavano. Altrettanto in fretta ho sviluppato il senso dell’insegnamento, ossia la voglia di tra-
smettere questa mia passione ai più giovani.” Quindi, si può dire che abbia studiato per fare l’allenatore? “Sì. Dopo il diploma all’Itis, mi sono iscritto immediatamente all’Isef perché quello era il percorso più consigliato all’epoca. Poi ho mosso i primi passi, facendo la classica gavetta.” Chi considera i suoi maestri? “Ho tratto ispirazione fondamentalmente da tre grandi. Il primo è Aldo Bendandi, un giocatore molto importante a livello ravennate e nazionale: era il mio idolo. Il secondo è l’allenatore polacco Alexander Skiba che mi ha praticamente formato quando, nei primi anni Novanta, allenavo le giovanili. Lui venne a fare il direttore tecnico e, con i suoi consigli e i suoi rimbrotti, mi ha aiutato ad acquisire un metodo. Il terzo è Julio Velasco che è arrivato nel
momento in cui avevo già intrapreso una carriera di alto livello da allenatore. Da lui ho assorbito la grande capacità di sintesi e di fare sembrare facili le cose difficili.” Questo è il suo ventiquattresimo anno da allenatore. Quali sono stati, in assoluto, i momenti migliori? “Mi piace dividere la mia carriera in pochi contenitori. In ordine cronologico, il primo riguarda il periodo del settore giovanile a Ravenna, dove ho incontrato talenti indiscussi come Vigor Bovolenta e Simone Rosalba. Il secondo ha indubbiamente a che fare con il volley femminile a cui mi sono dedicato incessantemente nel decennio 1996-2006, con l’apice della vittoria dei Mondiali. Il terzo e ultimo, visto che corrisponde all’attualità, riguarda il ritorno al volley maschile ravennate, prima come dirigente e ora anche come allenatore.” Spesso i periodi più belli sono correlati a quelli più brutti. Cosa è successo con le ragazze della nazionale che lei ha portato in cima al mondo in quel nero 2006? “Il rapporto si era deteriorato al punto che le giocatrici chiesero un nuovo allenatore. Così, la federazione mi invitò a dimettermi e ho fatto un passo indietro. Però con gran parte delle ragazze ho conservato un buon rapporto nel tempo, in particolare con Francesca Piccinini ed Eleonora Lo Bianco che sono state protagoniste nel 2006 così come nel 2014, quando sono rientrato in Nazionale per due anni.” C’è differenza nell’allenare gli uomini e le donne?
“È IMPORTANTE CREARE UNA SQUADRA GRANITICA, CON OBIETTIVI CONDIVISI E RUOLI BEN DEFINITI. LA MENTALITÀ VINCENTE SI SVILUPPA NEL TEMPO. FONDAMENTALE È IL SENSO DI APPARTENENZA, OSSIA CHE CIASCUNO SI SENTA PARTE DI UN RISULTATO.”
IN ALTO, UN RITRATTO DEL MISTER MARCO BONITTA.
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“Per natura, le donne fanno più fatica degli uomini a scindere le problematiche personali da quelle professionali, se le portano in palestra… Anche se in realtà, tra le giovani di oggi, la mentalità sta cambiando perché più abituate al professionismo. Con i ragazzi, inoltre, ci si può permettere qualcosa in più a livello di rimbrotto, mentre con le ragazze ci vuole più attenzione. In termini di entusiasmo non ci sono differenze anche se gli uomini fanno più gruppo pur magari non uscendo insieme la sera. Se le donne non si trovano bene in gruppo, invece, può essere un disastro.” Qual è il segreto per vincere i mondiali? “Nel nostro caso, l’aver avuto una squadra granitica, con obiettivi condivisi e ruoli ben definiti. La mentalità vincente si sviluppa nel tempo. Fondamentale è il senso di appartenenza, ossia che ciascuno si senta parte di un risultato.” Restando al volley femminile, cosa le resta del biennio in Polonia? “A livello personale, è stato un modo per mettere ordine dopo l’amaro 2006. Mi sono confrontato
con una cultura diversa rispetto alla nostra e ho aiutato la squadra a qualificarsi per le Olimpiadi di Pechino del 2008.” Quali sono i giocatori di talento che ricorda con maggiore affetto? “Nel settore femminile, ho provato grande empatia con Silvia Croatto, vice campione d’Europa nel 2001, anche se l’anno successivo non poté venire ai Mondiali per un infortunio. In quello maschile, cito Simone Rosalba che ho seguito sin da quando arrivò a Ravenna a 15 anni: sono orgoglioso della sua strepitosa carriera fino a campione del mondo, così come sono contento di poter contare sulla sua riconoscenza.” Nel 2016, dopo le Olimpiadi di Rio ha deciso di appendere le scarpe al chiodo da allenatore… “Invece, quella fiammella non si è spenta… Dopo tre anni, il consiglio d’amministrazione l’ha capito e mi ha offerto di tornare in campo.” Qual è lo stato di salute del volley italiano? “Molto buono, soprattutto a livello femminile. Ma anche nel maschile, il livello è ottimo e c’è un bel ricambio.” Quali sono le due doti che più la contraddistinguono come allenatore? “Prima di tutto la conoscenza, che significa sapere ciò di cui si sta parlando. Poi l’autorevolezza che ho conquistato nel tempo, e che ogni tanto in gioventù ho scambiato per autorità.” Cosa le piace fare nel tempo libero? “Tutte le mie passioni sono legate allo sport. Seguo tante manifestazioni e sono innamorato del rugby e del tennis, in pratica agli antipodi. Mi piace anche viaggiare e leggere, soprattutto Gabriel Garcia Marquez.” Dica la verità, le piacerebbe ritornare in nazionale in futuro? “Non lo nego, vorrei di nuovo calcare palcoscenici internazionali.”
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ESSERE
Scouting
MUSICALE ANIMA DEL MEI – MEETING DELLE ETICHETTE INDIPENDENTI, CHE HA CELEBRATO I 25 ANNI A FAENZA, È GIORDANO SANGIORGI, STORICO PROMOTER MUSICALE E CULTURALE.
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di Roberta Bezzi / ph Massimo Fiorentini
Un’edizione da incorniciare, quella dei venticinque anni del MEI – Meeting delle Etichette Indipendenti, che ha fatto registrare 35.000 presenze in tre giorni dal 4 al 6 ottobre. In particolare, resterà nella storia della manifestazione la Notte Bianca con la gremita piazza del Popolo di Faenza dove si sono alternati sul palco big della musica come Morgan e i Negrita, affiancati da giovani talenti quali Fulminacci e Tredici Pietro, il figlio minore di Gianni Morandi, seguitissimo dai teenager. Anima instancabile dietro questa poderosa macchina organizzativa è Giordano Sangiorgi, un nome molto noto e apprezzato dagli operatori del settore musicale. Il patron del MEI, la più nota manifestazione delle produzioni indies in Italia, ha alla spalle una carriera lunga più di quarant’anni come promoter musicale e culturale. Ha creato Supersound, la vetrina della nuova musica giovanile emergente italiana attraverso i festival di musica dal vivo. È presidente di AudioCoop, il coordinamento delle piccole etichette discografiche indipendenti di area pop-rock italiane e ha ideato gli Oscar degli Indipendenti: il Pimi (Premio italiano musica indipendente) e
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il Pivi (Premio italiano videoclip indipendente). Negli anni ha creato anche Faenza Rock, Radiopanico con Carlo Lucarelli, Hip Hop MEI con Piotta, Onda Rosa Indipendente e tanti altri progetti. Rivelandosi, quindi, un vulcano di idee, inarrestabile. Giordano Sangiorgi, il MEI ha un legame molto speciale con Morgan, giusto? “Sì. Con i Bluvertigo fu uno dei primi artisti ad aderire al Festival delle autoproduzioni che diede origine al MEI nel 1995. Vent’anni dopo è anche tornato alla manifestazione per ritirare il premio per il miglior videoclip indipendente di sempre per il brano Altrove. Così, non potevamo celebrare questo quarto di secolo, senza assegnare al nostro caro amico il Premio MEI alla carriera.” Cosa rappresenta il MEI oggi? “Anzitutto, una scommessa vinta. Non sono tante le manifestazioni che possono vantare questa crescita e longevità. Vuol dire che il tema che proponiamo continua a interessare. La nostra battaglia per la valorizzazione della musica indipendente, un tempo considerata di serie B, è andata a buon fine.”
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“NON SONO TANTE LE MANIFESTAZIONI CHE POSSONO VANTARE QUESTA CRESCITA E LONGEVITÀ,” RACCONTA SANGIORGI. “VUOL DIRE CHE LA NOSTRA BATTAGLIA PER LA VALORIZZAZIONE DELLA MUSICA INDIPENDENTE È ANDATA A BUON FINE.”
IN APERTURA, GIORDANO SANGIORGI. IN ALTO, SANGIORGI CON IL LIBRO I MEI VENT’ANNI DEDICATO AL FESTIVAL. NELLA PAGINA SEGUENTE, IL PROMOTER, AL CENTRO, SUL PALCO DEL MEI.
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L’edizione dei 25 anni da cosa è stata caratterizzata? “Abbiamo asciugato il programma il più possibile, per dare spazio a un numero ristretto di artisti che hanno segnato il MEI, ma senza dimenticare di rivolgere lo sguardo al futuro. Da sempre, infatti, il ricordo della tradizione è compensato dall’alta valorizzazione dei giovani promettenti che sono il 90% dei nostri artisti.” La musica accompagna la sua vita da sempre. Com’è nato il colpo di fulmine? “Sui banchi della scuola media… Poi, con alcuni amici, abbiamo improntato la prima band, che a quei tempi si chiamava complesso. Da allora, mi sono sempre dedicato alla musica prima come ascolto e poi come esecuzione e organizzazione. Il mio primo concerto è stato in occasione delle elezioni studentesche: un bel successo.” Quando ha capito che la passione poteva trasformarsi in una professione? “Proprio alla fine degli anni Settanta, grazie all’esperienza con i
gruppi giovanili studenteschi legati a tematiche ambientali, pacifiste e lavorative. All’epoca organizzare concerti era un’avventura perché spesso in quelle occasioni si sfogavano i disagi dei ragazzi. Molto formativo è stato anche il decennio in cui mi sono occupato di concerti ed eventi per l’Arci e per il Palio del Niballo grazie al quale ho girato l’Italia con il gruppo degli sbandieratori.” Come nasce l’idea di un festival dedicato alla musica indipendente? “Verso la metà degli anni Novanta, si riusciva facilmente a portare in piazza 4-5.000 persone con Faenza Rock, a cui partecipavano soprattutto band sconosciute o della nuova scena rock alternativa. Ci accorgemmo che le proposte erano sempre maggiori, così come l’interesse del pubblico. Da qui, l’intuizione di mettere insieme tutte queste etichette indipendenti della Provincia, nell’ambito dell’Indipendent Music Meeting, poi esauritosi.” I risultati sono presto arrivati… “Abbiamo costruito le prime edizioni con grandi gruppi, fino ad allora sconosciuti, che si autoproducevano quali Afterhours, Subsonica e Negramaro e abbiamo proseguito in questa direzione. Abbiamo assegnato tanti premi, fra cui al cantautore Motta, ai primi passi, e ai Måneskin che fecero il loro esordio davanti a trenta persone. Il nostro è stato un grande movimento di rinnovo della musica. Poi, è stata una sorpresa scoprire l’interesse del mondo politico, prima con Walter Veltroni,
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Qual è lo stato di salute del settore? “Il mercato musicale attuale ha perso il 90% del fatturato in 25 anni, pertanto le risorse sono scarsissime. Oggi si lavora quindi in un piccolo mercato che però, proprio grazie a internet, dà molte più opportunità agli artisti indipendenti. Nel senso che più gente sconosciuta può arrivare a un successo immediato, arrivando dall’underground all’Arena di Verona, esasperando il concetto.” Quanto conta oggi la musica
vicepresidente del consiglio nel 1996, e poi durante il secondo governo Prodi 2006-08, ed essere chiamati come rappresentanti della musica indipendente, in un momento in cui ancora le grandi case discografiche milanesi ci snobbavano.” Tra le tante edizioni, ne ricorda una in particolare? “Lo sono tutte. Le definisco tsunami dal punto di vista organizzativo, relazionale, umano e professionale. Così come infinite sarebbero le storie da raccontare. Mi piace ricordare un episodio recente accaduto a Caserta, dove facevo parte della giuria di un concorso. Avevo al mio fianco un produttore danese che a un certo punto mi ha ringraziato, dicendomi: Se non fossi venuto al MEI, non avrei mai vinto Sanremo Giovani con un artista conosciuto proprio durante il meeting. La cosa mi ha lusingato.” La musica è molto cambiata in questi ultimi due decenni… “Sì. Le trasformazioni del settore sono state molteplici e fulminee, tant’è che è quasi difficile seguirle tutte per me che faccio parte della generazione delle cassette. Anche MySpace, di cui si è parlato molto, oggi è un cimitero virtuale, scalzato da YouTube che ha ucciso le tv musicali, mentre oggi Facebook e Spotify rappresentano una pericolosa concorrenza per le radio.” 16
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“ABBIAMO COSTRUITO LE PRIME EDIZIONI DEL MEI CON GRANDI GRUPPI, FINO AD ALLORA SCONOSCIUTI, CHE SI AUTOPRODUCEVANO QUALI SUBSONICA, NEGRAMARO E MÅNESKIN, I QUALI FECERO IL LORO ESORDIO DAVANTI A TRENTA PERSONE.”
indipendente? “Circa il 40% del mercato, contro il misero 2% di un tempo. Questo vuole dire che abbiamo fatto bene a investire in questa direzione, anche perché altrimenti avremmo rischiato di avere solo musica straniera”. Ha appena detto che le risorse sono scarsissime. Cosa si può realmente fare? “Bisogna anzitutto distribuire i soldi dalle piattaforme online agli artisti. Per riequilibrare il mercato, è necessario quindi impedire a Facebook e Spotify di trattenere quasi tutto il fatturato. C’è poi la questione dei diritti dei giovani che devono poter entrare nel mercato. Infine, serve dare più opportunità in termini di visibilità nei media e nei live, per fare conoscere gli emergenti.” Un sogno nel cassetto? “Credo che il MEI meriterebbe di essere ogni anno un programma fisso in Rai, in prima serata.”
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RIPARTIRE
Rinascere
DALLE CENERI DOPO UN INCENDIO CHE HA DISTRUTTO LA LORO SEDE, L’AZIENDA FAENTINA BITWAYS RIPARTE GRAZIE ALLA SOLIDARIETÀ DEL TEAM E DEL TERRITORIO. OGGI PORTANO LA LORO ESPERIENZA COME CASE HISTORY. di Nicoletta Brina
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L’azienda di consulenza informatica Bitways, con sede a Faenza, è guidata da Mirko Guerra, Ceo, insieme ai soci Luca Giustra e Gilberto Gherardi, e dieci dipendenti. Lo scorso 9 agosto, un incendio ne ha divorato letteralmente i locali. Lo spirito del team e la grande corsa alla solidarietà da parte dei faentini sono stati gli ingredienti per la rinascita, insieme al Disaster Recovery System che ha permesso alla società, in un tempo record di 48 ore dopo il rogo, di tornare a operare. Mirko Guerra, di cosa si occupa esattamente l’azienda? “La nostra è un’azienda informatica, nata nel 2011 a Faenza. Rappresenta il coraggio e la passione di un gruppo di tecnici informatici che hanno riunito le loro competenze, per proporsi sul mercato con un progetto sul tema della tutela della privacy, che rappresenta una delle questioni più importanti nello sviluppo delle piattaforme informatiche. Email, documenti e database sono il principale patrimonio di qualunque azienda ma sono vulnerabili. Bitways si pone a servizio della ricerca di soluzioni sempre più innovative in questo ambito, offrendo ai clienti le migliori opportunità per proteggere i propri dati, mantenendoli al contempo facilmente accessibili su ogni piattaforma e device.” Un obiettivo complicato da raggiungere… “Sì, perché richiede un profondo impegno tecnico, coniugato allo sviluppo di una vera cultura della sicurezza informatica, nonché investimenti consistenti. Grazie a Bitways, però, i clienti hanno la certezza che l’esposizione finanziaria sia adeguata alle loro reali necessità senza inutili eccessi. Infatti, l’azienda opera a stretto contatto con il cliente, mettendosi a disposizione in qualità di problem solver e aiutandolo a restare al passo con le evoluzioni tecnologiche.” L’incendio del 9 agosto ha duramente colpito lo stabilimento che ospitava la vostra sede, presso la Lotras System. Quali danni avete
subìto e qual è stata la prima reazione? “I danni subiti sono stati devastanti. Appena ci siamo recati sul luogo, alle 2 del mattino, ci siamo subito resi conto delle dimensioni del rogo e abbiamo capito che non sarebbe rimasto più nulla. I nostri uffici non esistevano più. Nonostante la situazione drammatica ci siamo però focalizzati su quello che non era materiale tangibile – i dati informatici – e abbiamo avviato immediatamente la procedura di Disaster Recovery per recuperare i dati delle aziende presenti in quello stabile, operazione vitale in quel momento.” Quali sono state le fasi della vostra ripartenza e quali le priorità? “La nostra ripartenza era secon-
“LA NOSTRA RIPARTENZA ERA SECONDARIA A QUELLA DEI NOSTRI CLIENTI, SENZA DI LORO BITWAYS NON POTEVA RIPARTIRE. CI SIAMO SUDDIVISI I RUOLI PER LA GESTIONE DEL DISASTER RECOVERY: CHI HA GESTITO LA PARTE TECNICA, CHI I FORNITORI, CHI I CLIENTI.”
daria a quella dei nostri clienti, senza di loro Bitways non poteva tornare operativa. Ci siamo suddivisi i ruoli per la gestione del Disaster Recovery: chi ha gestito la parte tecnica, chi il rapporto con i fornitori, chi l’identificazione di una location temporanea e chi, infine, il rapporto con i clienti. L’obiettivo primario era quello di renderli operativi entro lunedì 12 agosto alle 7.30 e ci siamo riusciti. Solo a quel punto, ci siamo concentrati su di noi: era necessario identificare una nuova sede – avevamo creato una base operativa temporanea negli uffici di un nostro cliente – eseguire le opportune denunce e identificare cosa era
A LATO, DA SINISTRA, I SOCI MIRKO GUERRA, LUCA GIUSTRA E GILBERTO GHERARDI. NELLA PAGINA SEGUENTE, IL TEAM DI BITWAYS.
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“BITWAYS È COMPOSTA DA UN TEAM MERAVIGLIOSO, SE DIVENTEREMO PIÙ FORTI DI PRIMA NON POSSIAMO SAPERLO, MA POSSIAMO FARE IL MASSIMO PER NON ESSERE RICORDATI PER QUELLI CHE HANNO PRESO FUOCO, MA PER QUELLI CHE NON HANNO MAI MOLLATO.”
indispensabile riprodurre a livello amministrativo. Si ripartiva da zero. Oggi siamo a Faenza, in via Volta, 3, in uffici trovati grazie alla solidarietà del territorio.” Vi sentite in qualche modo una sorta di Fenice, rinata più forte di prima? “Il percorso è ancora lungo, ma siamo determinati a non mollare. Bitways è composta da un team meraviglioso che si è reso disponibile fin da subito, sostenuto dai clienti e dal territorio. Se diventeremo più forti di prima non possiamo saperlo, ma possiamo fare il massimo per non essere ricordati per quelli che hanno preso fuoco, ma per quelli che non hanno mai mollato.”
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La vostra rinascita è diventata punto di partenza per porre l’accento sulla vostra esperienza e su temi che avete voluto rendere pubblici mediante un convegno lo scorso 12 settembre. “Ci siamo aggrappati agli aspetti positivi dopo il rogo e ne abbiamo trovati tanti: il lavoro e la solidarietà delle istituzioni pubbliche che hanno partecipato alla gestione di questo evento, la splendida risposta del team, quella dei fornitori che hanno provveduto al supporto e al materiale in un periodo anomalo (il week prima di Ferragosto, Ndr), la fantastica solidarietà dei clienti e di imprenditori a livello nazionale tramite i social, l’incredibile sostegno del territorio e di persone che non ci conoscevano prima dell’incendio e infine, l’esperienza del Disaster Recovery in una condizione di emergenza totale.” Il Disaster Recovery System è un tema che avete voluto approfondire nel corso del convegno. “È l’aspetto basilare all’interno di un’infrastruttura informatica: spesso si crede che i dati siano eterni o che basti chiamare il proprio sistemista di fiducia in caso di problemi, ma non è cosi. Il Di-
saster Recovery è una procedura tecnica e organizzativa da applicare in situazioni di emergenza con l’obiettivo di fornire l’operatività al cliente finale nei tempi e nei modi prestabiliti. Se non avessimo implementato questa procedura in maniera strutturata, chiara e soprattutto in accordo col cliente, molto probabilmente non saremmo stati in grado di recuperare i dati o lo avremmo fatto con tempi molto più lunghi, causando disservizi importanti.” Avete attivato una campagna di crowdfunding per la formazione su questi temi affinché la vostra esperienza possa essere d’aiuto ad altre imprese. Avete altri progetti simili in previsione? “Per l’autunno, l’obiettivo è quello di portare avanti il progetto di crowdfunding che si può trovare sul nostro sito e social. Stiamo partecipando a eventi e convegni per portare la nostra esperienza come case history, per sensibilizzare le persone e renderle consapevoli di quanto siano ormai diventati vitali i dati informatici. Se il progetto andrà a buon fine organizzeremo un evento a inizio 2020 su questo tema, anche per ringraziare di persona tutti i nostri sostenitori e clienti.”
UNA TESSERA GASTRONOMICA NELLA MOSAICALE CREATIVITÀ DI RAVENNA
Aperto a pranzo anche per colazioni di lavoro, ideale la sera, per cene intime, in una romantica atmosfera. Via Faentina, 275 San Michele Ravenna (chiuso giovedì) - Tel. 0544 414312
Cucina del territorio rivisitata Specialità di carne e pesce Pane fatto in casa Preparazione a base di foie gras e tartufi in stagione Formaggi d’alpeggio con mostarde e confetture Ampia selezione di vini nazionali.
CORRERE
Sfide
ESTREME DOPO LA SIBERIA E IL DESERTO DELL’OMAN, IL GIORNALISTA ALBERTO MARCHESANI HA REALIZZATO IL SOGNO DI PARTECIPARE ALLA TERRIFICANTE MARATONA FIRE AND ICE IN ISLANDA, PERCORRENDO 250 KM IN SEI GIORNI.
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di Anna De Lutiis / ph Marathonman.com
Alberto Marchesani si è lasciato coinvolgere da un sogno, Fire and Ice, un modo per mettere alla prova la sua resistenza fisica, forse, o per uscire dalla quotidianità quale giornalista e socio fondatore di TuCo-Tutta la Comunicazione. L’ultramaratona di 250 km che si è svolta in Islanda fra geyser, ghiacciai, distese di lava e temperature molto diverse da quelle che, in luglio, si lasciava alle spalle. Un’impresa rigorosa sia dal punto di vista dei percorsi obbligati ogni giorno che da quello dell’alimentazione. Alberto, qual è stato il pensiero assillante prima di intraprendere l’impresa? “Forse, la preoccupazione di aver preso tutto l’occorrente per la sopravvivenza: uno zaino di 9 kg da portare in spalla contenente il necessario per garantire la sicurezza, come torcia o medicinali, e 2.000 calorie al giorno per avere l’autosufficienza alimentare.” Questa non è stata la sua prima gara estrema in giro per il mondo… “No. Nel 2017 avevo già affrontato la Oman Desert Marathon, una maratona nel deserto, dall’Oasi di Bidya al Mar Arabico, e quella in
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Siberia, a Omsk, nel 2015, dove le temperature arrivavano fino a -18°. Si tratta di competizioni che non vedo tanto come gare ma come mezzi che mi portano ad alzare sempre più l’asticella delle mie possibilità, della mia resistenza. In fondo è una passione.” È più importante la resistenza fisica o quella mentale? “Entrambe. Però, quando la resistenza fisica viene meno, bisogna puntare su quella mentale, altrimenti ci si sente persi. Durante la maratona Fire and Ice ho avuto paura perché, dopo i primi due giorni, ho camminato con una gamba gonfia. Questo mi ha portato a restare indietro e mi sono ritrovato solo. Ecco, in quei momenti ho temuto davvero, anche perché pur correndo in 45 ci si può ritrovare soli, che a volte è anche il suo bello, immersi in paesaggi deserti con lo sguardo che può vagare all’infinito…” Anche nel deserto di Oman ha avuto dei problemi? “Sì. C’era stata una violenta tempesta di sabbia che aveva fatto volare via la tenda e il pannellino solare per ricaricare il Gps. Per cui mi avviai di notte per la tappa di 42 km ma senza precise indicazioni, ossia senza sapere se avevo preso la giusta direzione e la distanza dalla meta. Sono paure diverse da quelle che vivo nel mio quotidiano, ma quando ci sono dentro le avverto intensamente. E quando arrivo al traguardo e la maratona è conclusa comincio subito a pensare a quella successiva. Dopo la maratona in Islanda, però, mi ci è voluto molto per il recupero fisico e in quanto a quello mentale… ci sto ancora lavorando!” La maratona, il camminare a contatto con la natura, è uno dei motivi che la spinge ad affrontare lunghi percorsi, sacrifici e una preparazione continua prima di partecipare. È questa la sua passione? “La natura è meravigliosa, ma è anche arcigna e matrigna, come scriveva Leopardi, e in questi contesti non si può far altro che
“LA NATURA È MERAVIGLIOSA, MA È ANCHE ARCIGNA E IN QUESTI CONTESTI NON SI PUÒ FAR ALTRO CHE SUBIRLA: IL FREDDO INTENSO, IL CALDO, LE DISTESE INFINITE CHE METTONO ALLA PROVA LE PROPRIE RISORSE. MA È IMPORTANTE QUELLO CHE RIMANE DENTRO.”
subirla: il freddo intenso, il caldo, le distese infinite che mettono alla prova le proprie risorse. Ma è importante quello che rimane dentro, le immagini di paesaggi inconsueti, la consapevolezza di fare esperienze uniche e gratificanti, quando si sente dentro il desiderio di diventare una cosa sola con la natura e si è disposti a modificare i propri passi, la velocità e a sopportare il vento che soffia in faccia violento. Non sono importanti solo i risultati ma il fatto stesso di partecipare a questi eventi estremi.”
A SINISTRA, ALBERTO MARCHESANI DURANTE LA CORSA IN ISLANDA. IN ALTO, UN RITRATTO DEL MARATONETA.
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SUONARE
Canti dalla
ROMAGNA LE SORELLE MATILDE E CELESTE PIRAZZINI PORTANO AVANTI LA TRADIZIONE DELLE CANTE IN DIALETTO ROMAGNOLO E FANNO PARTE DI UN CORO CHE UTILIZZA LA LINGUA DEI SEGNI.
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di Chiara Bissi / ph Massimo Fiorentini
Matilde e Celeste Pirazzini, oltre che sorelle sono le migliori amiche l’una dell’altra. Ventotto e venticinque anni di passione per la musica che le ha portate a studiare pianoforte, canto corale e ad avvicinare diversi stili musicali, dal melodramma al jazz per arrivare al canto a cappella senza accompagnamento. Un approdo, quest’ultimo, dettato dall’amore per le proprie radici e per la tradizione delle cante in dialetto romagnolo, poi tradotto in un’incisione discografica. Non è difficile sentirle cantare con grazia e precisione motivi d’altri tempi. E se si è cresciute a Castiglione di Ravenna il dialetto è una cosa seria. Per le due sorelle con il passare degli anni si sono aperte le porte dei Conservatori di Cesena e Ferrara, i corsi di Musicoterapia, all’Università quello di Sociologia e Scienze Criminologiche per la Sicurezza e ancora per Celeste l’attuale studio per diventare interprete della Lingua dei Segni Italiana (LIS), tenuto dall’Ente Nazionale Sordi (ENS) a Bologna. Un percorso che le vede impegnate al momento nell’insegnamento della musica, pianoforte, canto, propedeutica, tra una scuola paritaria di Faenza, una
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scuola di musica di Piangipane e una scuola di musica di Ravenna, ma soprattutto le ha portate a realizzare il proprio sogno, ovvero prendere parte a un coro misto composto da persone sorde e persone udenti che utilizza la Lingua dei Segni Italiana (LIS). Matilde e Celeste, com’è entrata la musica nella vostra vita? “Non ci sono musicisti in famiglia ma solo appassionati, dal nonno ai genitori che ci hanno sostenuto con fatica e sacrificio nel percorso di studio fino all’Università. Abbiamo avvicinato la musica all’età di 4 anni e in seguito, al Conservatorio, con lo studio del pianoforte è cominciato anche quello del canto corale. Un interesse che ci ha permesso di entrare nei cori di opere liriche allestite al Bonci di Cesena. Poi abbiamo deciso di approfondire la parte del duo.” Perché eseguire il repertorio musicale in romagnolo? “Nel 2009 Sauro Mambelli, uno degli ex presidenti dell’Associazione culturale Umberto Foschi di Castiglione di Ravenna, ci chiese di eseguire una canta in dialetto tratta dalla raccolta dei mesi dell’anno, nel corso di un’occasione pubblica proprio nel no-
IN ALTO, DA SINISTRA, MATILDE E CELESTE PIRAZZINI.
“LA NOSTRA GIOVANE ETÀ NON È STATO UN OSTACOLO, HA PORTATO A UN DIALOGO CON LA TRADIZIONE E IL PUBBLICO. COSÌ SONO ARRIVATI GLI INVITI A EVENTI INCENTRATI SUL DIALETTO, IN CUI MOSTRIAMO IL NOSTRO LAVORO. DA QUESTA ESPERIENZA È NATO L’ALBUM.”
stro paese. Grazie al nonno Luigi conoscevamo le incisioni in vinile eseguite del coro Pratella Martuzzi diretto dal Maestro Bruto Carioli. Così è nata l’idea di proporre una libera interpretazione del repertorio in romagnolo adattato al duo vocale senza accompagnamento.” Dalla ricerca alle esibizioni il passo è stato breve? “Cantando alla fine li abbiamo imparati tutti e abbiamo inserito nel repertorio l’intera raccolta su musiche di Guido Bianchi e parole di Rino Cortesi. Poi sono arrivati altri brani come La Piȇ, A Gramadora e tanti altri canti dei primi del Novecento. E così sono iniziate le esibizioni.” La vostra è un’immagine fresca e giovane, non si era mai visto niente di simile. Com’è stata accolta la vostra idea? “La nostra giovane età non è stato un ostacolo, anzi ha portato a un dialogo con la tradizione e il pubblico. Sono così arrivati gli inviti a partecipare a eventi incentrati sul dialetto, conferenze e incontri durante i quali mostriamo il nostro lavoro e il dialetto che varia da paese a paese. Da questa esperienza è nato l’album, che abbiamo chiamato Radici: una soddisfazione personale sentire le nostre voci impegnate in un repertorio che sentiamo vicino e che suscita grande interesse negli ascoltatori. L’album, autoprodotto, contiene una scelta di brani di antiche cante in dialetto romagnolo, vere e proprie poesie in musica, che rimandano al paesaggio romagnolo, a racconti vissuti, alle grandi emozioni umane.” Un’altra esperienza originale è quella del coro misto di persone sorde e persone udenti che utilizza la Lingua dei Segni Italiana (LIS). “Si è trattato di una sorta di evoluzione della nostra ricerca. Ce-
leste frequenta il corso Interpreti a Bologna, così è nata l’idea con Marian Manea, docente sordo LIS e presidente della Cooperativa sociale Service & Work di Ravenna. Abbiamo debuttato nel dicembre 2018 con un concerto promosso dal Ravenna Festival. Noi cantiamo e usiamo la LIS con i testi in lingua italiana e straniera con più di passaggi di traduzione, accompagnate dal percussionista Lorenzo Mercuriali. Con noi 20 coristi diretti dalla direttrice e interprete LIS Lydia Josephine Noce. Ci siamo esibiti a Marina di Ravenna in occasione di un evento dell’associazione Marinando, chiamati dal presidente Sante Ghirardi, a Castiglione di Ravenna invitati dall’associazione Umberto Foschi e al Teatro di Cagli grazie al direttore artistico Sandro Pascucci. I riscontri sono positivi per un progetto nuovo e innovativo che vuole rendere la musica visibile oltre che udibile per chi non può sentire o ha gravi difficoltà nella percezione della musica.” Quale repertorio avete curato? “Eseguiamo musica da tutto il mondo, dalle cante romagnole a canzoni italiane degli anni Quaranta e Cinquanta, fino a brani sudafricani, e poi in lingua ebraica, in spagnolo, in lingua romanì (una canzone di Goran Bregović). I coristi sono della zona di Ravenna, Imola, Bologna, Forlì, Pesaro e Urbino, Rimini e Cesena.” La musica sarà il vostro futuro? “Sogniamo di continuare a fare esperienza nell’ambito della didattica musicale e di coniugare musica e Lingua dei Segni in coro. Cerchiamo insomma di unire i vari percorsi della nostra formazione, mettendoli a disposizione della comunità. Vogliamo condividere la bellezza della musica in tutte le sue forme.” IN MAGAZINE
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GAMBI UNA STORIA LUNGA 50 ANNI
LA STORIA DELLA FAMIGLIA GAMBI SI INTRECCIA A DOPPIO FILO CON LA STORIA DELL’AZIENDA: MEZZO SECOLO AL SERVIZIO DEL CLIENTE.
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L’azienda Gambi ha festeggiato il 28 settembre i 50 anni di attività nella prestigiosa cornice di Palazzo Rasponi a Ravenna, alla presenza di amici e collaboratori. Mezzo secolo di storia che non è semplicemente quella di un’azienda, bensì quella di una famiglia che ha intrecciato il suo nome e la propria visione etica con il nome dell’impresa. A fare gli onori di casa, l’attore Ivano Marescotti, che ha dialogato con Gabriella, moglie del fondatore Giuliano Gambi e presidente, la cui storia si intreccia a doppio filo, insieme a quella dei figli Stefania e Alberto, con quella dell’azienda. Una storia che parte da lontano e vede
negli anni un continuo sviluppo al servizio del cliente alla ricerca della sua completa soddisfazione. Nel 1969, Giuliano avvia l’attività in forma di ditta individuale come agenzia per la vendita di carrelli elevatori CESAB, con mandato per le zone di Cesena, Ravenna, Ferrara e Rovigo. All’epoca, i carrelli elevatori erano macchine assolutamente innovative, e il mercato era tutto da costruire. C’era dunque spazio per la crescita di un’attività di rilievo. Bisogna arrivare al 1980, con la costruzione della sede di via Faentina a Ravenna, perché prenda forma quella che sarebbe divenuta negli anni successivi
un’eccellenza del territorio. Il 12 dicembre di quell’anno nasce infatti la Gambi s.r.l. con l’assunzione di un venditore e di una impiegata e con la presenza di un’officina negli spazi dell’azienda. Nello stesso anno si crea una collaborazione per il settore batterie con l’azienda DPE, di Emilio Di Pasquantonio. Nel 1984 si costituisce Gambi Carrelli a Ferrara con officina propria. Nel 1987 Giuliano viene a mancare, e Gabriella, la moglie, che fino a quel momento aveva seguito l’amministrazione della società, prende le redini dell’azienda, successivamente affiancata dalla figlia Stefania. Nel 1998, dalla fusione con la preesistente Ditta Sermolini s.r.l. di Franco Sermolini, viene costituita l’officina di Ravenna, in via Faentina. Grazie anche alla professionalità e dedizione di dipendenti e collaboratori, gli anni successivi sono testimoni di una crescita inarrestabile. Nel 1999 si costituisce Gambi Cesena con officina propria e nel 2010 nasce Adriatica Carrelli per le zone di Rimini, Pesaro e San Marino, seguita da Sandro Vico, marito di Stefania. Nel frattempo, lo storico marchio CESAB e il marchio BT entrano a far parte del più importante produttore mondiale: il gruppo TOYOTA. L’azienda cresce nel tempo sviluppando nuove divisioni nel settore dell’usato, del noleggio,
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OGGI, TRA FORZA VENDITA E PERSONALE DI ASSISTENZA, L’AZIENDA GAMBI DÀ LAVORO A 48 PERSONE, TUTTE ACCOMUNATE DA UNA FILOSOFIA CHE PONE AL CENTRO LA PROFESSIONALITÀ E L’AFFIDABILITÀ NELL’AFFIANCAMENTO DEI CLIENTI, PER FORNIRE LORO UNA CONSULENZA COMPLETA SULLA LOGISTICA.
delle batterie, delle porte rapide, e dell’outdoor con l’ingresso in azienda del figlio Alberto. Oggi, tra forza vendita e personale di assistenza, l’azienda Gambi dà lavoro a 48 persone, tutte accomunate da una filosofia che pone al centro la professionalità e l’affidabilità nell’affiancamento dei clienti, per fornire loro una consulenza completa sulla logistica, con particolare attenzione agli aspetti della sicurezza, formando anche il personale addetto alla movimentazione delle merci con corsi per una guida sicura dei mezzi. Formazione che è fondamentale per restare al passo con le inno-
vazioni tecniche e con le nuove soluzioni offerte dal mercato. Per il futuro, la famiglia Gambi intende mantenere la rotta tracciata dal 1969 da Giuliano in termini di presenza capillare sul mercato, rafforzando e sviluppando le proprie competenze nel segno della sicurezza e qualità del lavoro, e della efficienza e convenienza dei servizi offerti.
Il percorso di certificazione ASEC, compiuto dalle proprie officine di assistenza, secondo gli standard TOYOTA, rende possibile ogni giorno trasferire alle imprese dei propri clienti i benefici di un lavoro qualitativo e performante e di risposte puntuali e innovative. Punto di partenza: la centralità del Cliente; punto di arrivo: la sua completa soddisfazione.
Ravenna - Via Faentina, 169 - www.gambi.it IN MAGAZINE
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CREARE
Viaggio nel
MOSAICO
MARTA SEVERGNINI E ANDREINA CRISTINO SI INCONTRANO ALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI RAVENNA E INSIEME VINCONO IL PREMIO TESI E UNA RESIDENZA D’ARTISTA IN RUSSIA.
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Questo è il racconto di due ragazze, Marta Severgnini, trent’anni, nata a Milano, e Andreina Cristino, 28 anni, nata a Foggia, che si incontrano a Ravenna dove frequentano l’Accademia di Belle Arti scegliendo il corso di mosaico. Provenienze e formazioni diverse ma entrambe unite dalla passione per il mosaico che ognuna di loro affronta e interpreta in maniera personale. Insieme partecipano e vengono selezionate al Premio Tesi: la vittoria dà loro la possibilità di una borsa di studio con residenza d’artista a Tarusa, vicino Mosca, grazie al mecenatismo di Ismail Akhmetov e alla Fondazione che porta il suo nome. Il noto mosaicista ravennate Marco Bravura è il naturale collegamento in questo progetto dal momento che da anni vive in Russia dove l’arte musiva si va sempre più diffondendo. Le due ragazze trascorrono in Russia quattro mesi lavorando alla realizzazione di due opere che sono state poi collocate nel Parco delle Opere. Andreina Cristino realizza un grande gomitolo che riprende i colori e il filo del tappeto musivo realizzato da Akomena Spazio Mosaico per la tomba del grande ballerino
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di Anna De Lutiis
russo. Marta Severgnini realizza una doppia stele ispirata all’art nouveau della Maison Coillot a Lille. “Avevo otto anni,” racconta Andreina, “quando mio padre mi portò ad ammirare i mosaici della maestosa Basilica di San Marco a Venezia. Fui catturata dallo splendore di quelle immagini ed espressi il desiderio di voler fare mosaico una volta diventata grande. Nel percorso dei miei studi mi sono dedicata allo studio delle lingue, pensando che quel sogno di bambina fosse irraggiungibile, fino a quando non incontrai Luigi La Ferla.” Nel corso di un soggiorno in Francia per una full immersion nella lingua, un pomeriggio Andreina entrò al 59 di Rue de Rivoli, una residenza d’artista nel cuore pulsante di Parigi, quando vide un giovane preso dalla realizzazione di un mosaico: Luigi, il quale le spiegò com’era possibile creare un volto con piccoli cubetti di marmo. Così, a distanza di quindici anni dal primo incontro col Cristo Pantocratore, si ritrovò a crearli lei, quei piccoli cubetti di marmo, all’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Per Marta Severgnini la strada per giungere al mosaico è stata diversa. “Il mio è stato un colpo di fulmine,” ricorda. “Dopo gli studi di Architettura ho scoperto il mosaico e ho capito subito che quella era la mia strada: la mia passione per i puzzle, i pattern decorativi e l’esigenza di creare con le mani hanno trovato massima espressione nella tecnica musiva, un’arte che richiede grande precisione e pazienza. I miei studi sono iniziati al Liceo Artistico, dove fin da subito mi sono appassionata a un tipo di raffigurazione schematico e lineare. Successivamente ho conseguito una laurea triennale in Architettura al Politecnico di Milano, facoltà scelta proprio per la volontà di approfondire temi quali il disegno geometrico e lo studio della prospettiva, che anche ora sono ricorrenti nelle mie opere personali.” “Sono stata molto felice di que-
LE DUE RAGAZZE VINCONO IL PREMIO TESI E TRASCORRONO IN RUSSIA QUATTRO MESI, LAVORANDO ALLA REALIZZAZIONE DI DUE OPERE DAI TITOLI FEELING HOME E ROSSO NUREYEV CHE SONO STATE POI COLLOCATE NEL PARCO DELLE OPERE.
sta vittoria,” spiega poi Marta. “La residenza in Russia è stata un esperienza di grande valore per me. Artisticamente parlando, lo studio di Marco Bravura è un luogo di grande ispirazione, quieto, immerso nella natura, dove le idee hanno il giusto tempo per prendere forma. E il rapporto con i russi, superate le ovvie diversità iniziali, è stato davvero speciale. Ho incontrato persone infinitamente gentili e disponibili.” In Russia ha realizzato l’opera Feeling Home, lo stile grafi-
A LATO, MARTA SEVERGNINI CON LA SUA OPERA FEELING HOME. IN ALTO, ANDREINA CRISTINO CON L’OPERA DAL TITOLO ROSSO NUREYEV.
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A LATO, CAMILLO L’ARMADILLO DI MARTA SEVERGNINI. IN BASSO, ODI ET AMO DI ANDREINA CRISTINO.
co del design è una rivisitazione della facciata principale della Maison Coilliot, una casa in stile Art Nouveau situata a Lille, in Francia. La scultura mostra le sue due facciate contrapposte, similarmente allo Yin e Yang. “Trae ispirazione,” aggiunge Marta, “dal concetto di casa/abitazione, che influenza la nostra vita già dalla prima infanzia fino alla più tarda età. Simboleggia il rifugio e trasmette sensazioni di sicurezza. Il nostro modo d’essere e la nostra identità non sono null’altro che il risultato del viaggio intimo e solitario che ci conduce a casa.” “Ho fatto una meravigliosa esperienza nella Fondazione Akhmetov,” ricorda Andreina. “Si incon-
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trano opere di Verdiano Marzi, CaCO3, Marco de Luca insieme a quelle di Dusciana Bravura. In questo scenario ho avuto quindi il privilegio di condividere tempo, spazio e creatività con il maestro mosaicista Marco Bravura. L’opera da me realizzata si intitola Rosso Nureyev e rappresenta il gomitolo ispirato dal tappeto che ricopre la tomba del ballerino russo, voluto dallo scenografo nonché suo amico Ezio Frigerio. L’opera richiama il concetto di destino, come immaginato dai Greci, simile alla filatura e alla tessitura, un destino che viene tessuto giorno dopo giorno. Rosso Nureyev voluto e pensato per il Parco che lo ospita, rappresenta le
origini, quel gomitolo che intreccia e tesse il morbido e prezioso tappeto che è stata la vita estrosa del grande ballerino russo.” Dopo questa esperienza, continuano la loro carriera artistica: Marta da quest’anno insegna mosaico alla Scuola Superiore d’Arti Applicate del Castello Sforzesco, a Milano, e realizza mosaici di sua ideazione e su commissione. Andreina attualmente partecipa alla Biennale del Mosaico Contemporaneo con una mostra a FaroArt di Marina di Ravenna: Materia&Memoria, bipersonale insieme a Alex De Muzio. Resterà a Ravenna ancora a lungo per condurre lezioni di mosaico per bambini, laboratori organizzati dalla Fondazione RavennAntica.
Avevamo la città: Ravenna, silenziosa, avvolta nel fascino secolare dei suoi monumenti. Avevamo l’arte nascosta e perduta: il Salone dei Mosaici, con i più bei mosaici parietali del ‘900, dimenticati e riscoperti. Marcello Veneziani: “poi raggiungendo il salone quei pannelli murali ti proiettano in una atmosfera epica ed eroica che trasfigura i tempi, gli eventi, gli uomini e le loro memorie d’epoca”. Avevamo un sogno: unire l’arte e la cucina, del territorio, del mare, dei sapori veri. Abbiamo messo le nostre energie, la nostra passione, la nostra visione:
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CAVALCARE
Stella del
DRESSAGE CECILIA RUFFINI, 14 ANNI, È INARRESTABILE IN SELLA AL SUO BAILANDO COBRA. DI RECENTE HA PARTECIPATO AI CAMPIONATI EUROPEI CON LA SQUADRA ITALIANA CHILDREN DOVE SI È CLASSIFICATA AL TERZO POSTO.
C IN BASSO, LA CAMPIONESSA CECILIA RUFFINI IN SELLA A BAILANDO CROBRA.
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di Anna De Lutiis
Cecilia Ruffini, 14 anni, è stata selezionata nel luglio scorso per i campionati europei di dressage, per la squadra italiana Children, che si sono svolti a San Giovanni in Marignano. Incontriamo Cecilia un momento prima che si rechi agli allenamenti giornalieri, già pronta in completo adeguato, minuta e con due occhi vivacissimi che fanno capire subito che, nonostante la sua giovane età, sa perfettamente quello che vuole. Frequenta il secondo anno dell’Istituto per il Mosaico Severini dove riesce a soddisfare la sua creatività, ma la sua passione vera è un’altra. “Prima di imparare a cavalcare,” racconta Cecilia, “sono andata sulla spiaggia
di Marina Romea dove portano a passeggiare i cavalli. Mi sono innamorata di un cavallo e ho sentito subito che era qualcosa di corrisposto. Vicino a casa mia c’era un maneggio e lì ho cominciato. È importante che ci sia un’intesa con l’animale che si monta perché, durante le gare, si crea una vera e propria simbiosi, ci si capisce anche con un semplice gesto.” Ovviamente adesso ha un cavallo tutto suo, Bailando Cobra, che cavalca e accudisce. Con soddisfazione parla di come è andata la sua partecipazione ai campionati europei: “In una gara si può scegliere di partecipare per il completo, cioè dressage, cross-country e ostacoli; io ho scelto dressage e mi sono classificata bene, il mio cavallo mi ha dato grande soddisfazione.” Cecilia è accompagnata sempre da suo padre Andrea ma è mamma Elena che si occupa del grooming, pulizia del mantello e altro. “Il dressage,” spiega Cecilia, “consiste in un percorso obbligato da effettuarsi in un campo di misure ben determinate, ad andature prestabilite. È in questo che si dimostra il legame con il cavallo, le sue risposte ai comandi. Comunque, prima
di essere selezionata per i campionati europei ho partecipato durante l’inverno a molte gare sia nazionali, sia internazionali ottenendo sempre buoni risultati. Prima mi allenavo al Circolo Ippico ravennate seguita da Chiara Siboni, Enrico Fiorentini e Alberto Protti, ora mi sono trasferita al Savio Riding Club e sono seguita da Alberto Protti.” Cecilia continua la sua scalata. A metà settembre ha partecipato al Bologna Progetto Sport piazzandosi con due primi posti e un terzo. Il suo ultimo successo lo ha realizzato classificandosi al terzo posto al campionato italiano di dressage Children, a Roma, a fine settembre. “Il campionato italiano Juniores,” continua Cecilia, “prevede partecipanti da 14 a 18 anni ed è molto più difficile perché ovviamente ci sono partecipanti con maggiore esperienza. Comunque vada rimane sempre una importante esperienza che fa crescere.” Cecilia è molto concentrata sulla sua carriera dove prevale sempre il suo amor per il cavallo, si nota anche quando ricorda la prima cavalla, Chelana, che ha dovuto abbandonare per via dell’età ma che è stata la sua prima compagna d’avventura.
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RAVENNA INTERNI PROGETTAZIONE DI DESIGN
ROBERTO MASCELLANI, ALL’INTERNO DEL NEGOZIO RAVENNA INTERNI, PROPONE ARREDO DI DESIGN MA ANCHE SERVIZI DI PROGETTAZIONE, DALLA RISTRUTTURAZIONE AL PROGETTO COMPLETO.
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Fra arredare e riempire uno spazio, c’è una profonda differenza. Perché arredare significa progettare, ricercare e saper scegliere, con passione, dedizione ed entusiasmo. Potrebbe riassumersi così la filosofia di Roberto Mascellani, titolare di Ravenna Interni in via Faentina 218/S, che – grazie a una pluridecennale esperienza nel settore – è in grado di capire le esigenze del cliente e di realizzare qualsiasi desiderio. “Non a caso,” spiega, “il passaparola è sempre stata la nostra migliore pubblicità. Ci inorgoglisce quando chi entra in negozio, ha già avuto modo di vedere e apprezzare come lavoriamo guardando la casa di un amico o conoscente. Il tal caso, il potenziale cliente è già fiducioso e più disposto a lasciarci progettare in libertà, fino ad arrivare al cliente fidelizzato che ci dà addirittu-
ra carta bianca. D’altra parte, mettiamo il cuore nei nostri lavori, che curiamo fin nei minimi dettagli, per garantire la massima soddisfazione.” La storia di Mascellani parte nel 1983 a Quarta Dimensione, per molti anni un’istituzione a Ravenna, dove è rimasto per circa vent’anni. Nel 2001 si è avvicinato a Ezio Solaini, subentrando nella sua ditta che si chiamava Cucina e Piastrelle, ribattezzata nel 2006 Ravenna Interni. “Quando sono arrivato qui, ho ricominciato tutto da capo,” ricorda Mascellani. “Ora lavoriamo con una clientela medio-alta attenta alla qualità dei mobili, con un occhio di riguardo ai prezzi, e ai giusti consigli per vivere in armonia e comfort all’interno della propria abitazione. In un settore in cui molti si improvvisano venditori di arredi e complementi, noi met-
tiamo a disposizione la nostra lunga e consolidata esperienza per trovare insieme la giusta soluzione. Gran parte dei nostri clienti sono ormai storici e non si rivolgono a noi per la ricerca di un marchio, ma per la progettualità. Così, vendiamo le nostre idee più che i mobili tant’è che, in molti casi, la merce viene venduta anche senza averla vista in esposizione, perché la fiducia supera qualsiasi barriera.” Anche le richieste progettuali sono cambiate nel corso degli anni e, oggi, la tendenza nella case è un ambiente open-space per la cucina e il soggiorno. E se un tempo si guardava con maggiore attenzione alla camera da letto, attualmente il bagno ha acquisito un ruolo di primo piano: sempre meno servizio, sempre più stanza da arredare e accessoriare bene, con qualche pezzo
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“PER INDIVIDUARE LA GIUSTA AMBIENTAZIONE, SEGUENDO I GUSTI DEL CLIENTE, LAVORIAMO INOLTRE MOLTO SUI MATERIALI: PARQUET, CARTA DA PARATI, PIASTRELLE E ACCESSORI VARI CHE DEVONO SEMPRE ESSERE ABBINATI AI MOBILI E AI COLORI DA VALORIZZARE”.
importante. “Chi ha appena comprato una casa nuova,” afferma Mascellani, “spesso ci richiede un progetto completo. Chi invece è alle prese con una parziale ristrutturazione, un progetto per ambienti. In questo modo, il risultato sarà certamente bello, omogeneo e coerente. Qualora fosse necessario, possiamo contare sulla collaborazione con geometri, architetti, ingegneri ed esperti artigiani, in modo da progettare gli interni su misura, per la massima personalizzazione dell’ambiente. A chi investe molto sulla cucina riusciamo, per esempio, a realizzare cappe su progetto della forma e dimensione voluta, così come a ricercare ditte che fanno piastrelle a mano. Per individuare la giusta ambientazione, seguendo i gusti del cliente, lavoriamo inoltre mol-
to sui materiali: parquet, carta da parati, piastrelle e accessori vari che devono sempre essere abbinati ai mobili da valorizzare, ai colori scelti e al tipo di luci. In definitiva, il punto di forza del nostro negozio più che la vendita in sé è lo studio progettazione.” Come non restare colpiti, entrando, dai numerosi disegni realizzati alla vecchia maniera, con carta, matita e colori pantone? Ravenna Interni ha una particolare predilezione per
aziende più votate al design, con prodotti che lasciano il segno e quindi meno commerciali rispetto a quelli utilizzati maggiormente dalla grande massa. Vanta una proposta a 360°, per ogni zona della casa, dai pezzi di design molto ricercati per conferire un tocco in più agli ambienti ai mobili più abbordabili, con possibilità di scelta su catalogo, adatti per esempio per arredare appartamenti piccoli a uso investimento.
Via Faentina 218/s Ravenna (RA) | Fraz. Fornace Zarattini Tel: 0544 463621 info@ravennainterni.it | www.ravennainterni.com IN MAGAZINE
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ESPLORARE
Ville
UNITE SAN PIETRO IN VINCOLI È LA PICCOLA CAPITALE DEI PAESI DISSEMINATI NELLA PIANURA A SUD DI RAVENNA, CARATTERIZZATI DA UN FORTE SENSO DI IDENTITÀ COMUNE.
V A DESTRA, PALAZZO GINANNI DI SANTO STEFANO.
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di Andrea Casadio / ph Massimo Fiorentini
Ville Unite – Ai suoi caduti. Le parole incise sul marmo del monumento nella piazza di San Pietro in Vincoli applicano i precetti della lingua italiana in un modo che farebbe storcere il naso a più di un professore di lettere. Se però quel professore si armasse anche di cognizioni storiche, e magari psicologiche, capirebbe che l’innegabile svarione grammaticale ha una sua giustificazione nel significato intrinseco che quell’epigrafe sottende: quello di una comunità che le circostanze storiche hanno portato a definirsi al plurale, ma che, di fatto, pensa se stessa al singolare. La comunità a cui ci riferiamo è quella formata dai paesi (le ville, appunto) disseminati nella pianura a sud di Ravenna, in un territorio che va all’incirca da San Zaccaria al Ronco (oltre il quale si trovano le sorelle Ville Disunite) e dal confine forlivese a San Bartolo: paesi uniti attorno a un forte senso di identità comune, forgiato da secoli di storia e oggi gravitante attorno al perno di una vera e propria piccola capitale, appunto San Pietro in Vincoli. Per comprendere meglio il genius loci delle Ville Unite occorre però abbandonare
per il momento la piazza del monumento e incamminarsi lungo la via del Sale, dove la teoria dei tigli sopravvissuti alla mannaia degli amministratori pubblici conduce fino al cancello di quella che un tempo era la scuola elementare di San Pietro in Campiano (San Pierino per gli amici), e che oggi ospita il Museo didattico del territorio. Gestito attualmente da RavennAntica, il museo ha origini lontane, precisamente da quando, negli anni Cinquanta, i bambini del paese cominciarono a portare a scuola i reperti affioranti dalle prime arature profonde dei campi e a scuola trovarono un gruppo di maestri pronti a coglierne le potenzialità. Quell’iniziativa nata dal basso e sviluppatasi nei percorsi di una didattica d’avanguardia ha prodotto, col museo, la sintesi della prima fra le tante eccellenze di questo territorio, e cioè la sua vocazione archeologica. Zona di popolamento antichissimo, le campagne delle Ville Unite hanno rivelato testimonianze materiali che datano fin dall’età del Bronzo, in una linea senza soluzione di continuità che passa attraverso le civiltà preromane (si pensi all’elmo etrusco-italico
di cui si è tanto parlato per il suo discusso trasferimento al museo di Classe) fino all’età imperiale e tardo antica, quando la zona era disseminata di ville rustiche di notevole livello architettonico. Quando il mondo antico cominciò a declinare e il cristianesimo ad affermarsi, il profilo della pianura iniziò a popolarsi di una presenza nuova, quella delle pievi. Centri di presidio della civiltà nella campagna profonda, le chiese plebane costruite allora sopravvivono ancor oggi, pur spesso ampiamente modificate, a San Pietro in Vincoli, San Zaccaria, Pievequinta, Campiano. Quest’ultima, in particolare, con il suo magnifico campanile quadrangolare e la popolare statuetta della Bartolla a vegliare dall’alto sulla campagna, può a buon diritto considerarsi uno dei simboli indiscussi delle Ville Unite. Del resto, tanto importante era il ruolo di questo territorio nel
contesto ravennate che nell’alto Medioevo fu sede di un comitato autonomo, il Decimano, che comprendeva le attuali Campiano e San Zaccaria, più la semiforlivese Pievequinta e la cesenate Pievesestina. La pieve di San Lorenzo in Vado Rondino, a San Pietro in Vincoli, apparteneva invece a quello di Traversara, che prendeva il nome da un attraversamento del Ronco, il cui corso passava allora in questa zona. In seguito, in quel punto, sarebbe sorto il maniero che fu culla d’origine dei Traversari, la potente famiglia del Medioevo ravennate, e di cui resta memoria nel nome della frazione di Massa Castello. Dal punto di vista religioso la pieve di San Lorenzo gravitava verso il forlivese, dal momento che il confine delle due diocesi era tracciato dal corso del fiume, che allora passava proprio in mezzo all’attuale abitato di San Pietro
QUATTRO SONO LE PECULIARITÀ DELLE VILLE UNITE: LA VOCAZIONE ARCHEOLOGICA, LE PIEVI PALEOCRISTIANE, LA FOLTA PRESENZA DI RESIDENZE DI VILLEGGIATURA DELLE PIÙ RICCHE FAMIGLIE RAVENNATI E UN SEVERO MAZZINIANESIMO.
in Vincoli. Oggi scorre vari chilometri più a ovest, ma il confine rimane, come un fossile che, insieme al tracciato serpeggiante di tante strade di campagna, ci testimonia l’evoluzione di un territorio plasmato in gran parte dalla presenza mutevole di fiumi e paludi. Lo stesso Vado Rondino significa appunto guado del Ronco. Ancora a San Pietro in Vincoli, le sponde
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ph Andrea Casadio IN ALTO, LA STATUETTA DELLA BARTOLLA. IN BASSO, LA CHIESA DI SAN PIETRO IN CAMPIANO.
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del fiume – questa volta però sul lato ravennate – videro sorgere poco dopo l’anno Mille l’omonima abbazia, che avrebbe poi dato il suo nome al paese. La sua fondazione avvenne per iniziativa nientemeno che di Santo Stefano, primo re d’Ungheria, con lo scopo di fornire un punto di sosta per i pellegrini sulla strada verso Roma. Soppressa l’abbazia in età napoleonica, l’edificio divenne dapprima una villa privata, mentre oggi ospita la caserma dei Carabinieri e alcune abitazioni. La sua trasformazione in villa padronale fu la manifestazione di un fenomeno che fin dal Cinquecento aveva arricchito le Ville Unite della terza peculiarità che ancora le caratterizza, dopo le testimonianze archeologiche e le pievi paleocristiane, e cioè la folta presenza delle residenze di
villeggiatura delle più ricche famiglie ravennati. Nascoste dietro le cortine verdeggianti dei parchi o inglobate nei centri abitati, non c’è quasi località del territorio che non ne ospiti almeno una: dal tono ancora militaresco del palazzone Ginanni di Santo Stefano e della Corradina di Campiano all’eleganza neoclassica del palazzo Della Torre di Coccolia, con il suo spettacolare viale di pini che si estende per più di un chilometro nella campagna; dalla sobrietà ottocentesca delle ville Masini e Guiccioli, che presidiano il confine a Massa e Bastia, al grande parco dei Ghezzo a San Pierino, centro di una florida azienda agricola che ebbe un marchio inconfondibile nelle grandi case coloniche quadrangolari tuttora assai riconoscibili; fino alle tante residenze di San Pietro in Vincoli, la villa Vignuz-
zi (già Gamba) oggi dei missionari Saveriani, quella Triossi già Donati, e ancora la villa Iole sulla strada di Gambellara. Non è un caso che l’élite del capoluogo scegliesse queste terre come centro dei suoi possedimenti e teatro delle sue villeggiature. Ancor oggi le Ville Unite sono la parte più ricca e gradevole della campagna ravennate, con quel tono di romagnolità rurale che conferisce loro un carattere verace e genuino, ma anche alieno da certe degenerazioni macchiettistiche. Anzi, con sviluppi culturalmente ben solidi, come l’associazione Friedrich Schürr, dedita allo studio del dialetto e con sede a Santo Stefano, nel cuore di quel territorio di mezzadri e di braccianti che, secondo il filologo tedesco, parlavano l’idioma romagnolo nella sua versione più pura. Quello stesso territorio che ha prodotto in passato i cori di Bruto Carioli e le poesie di Gioacchino Strocchi, e ora quelle di Nevio Spadoni, e il teatro di Ermanna Montanari. Forse, al di là delle fedi religiose e politiche, a tutto questo contribuisce una certa austerità assorbita dal severo mazzinianesimo che alla fine dell’Ottocento divenne il carattere dominante della politica locale (ed eccoci alla quarta peculiarità), sotto l’azione di personaggi come Epaminonda Farini, della nota famiglia di patrioti russiani, che per anni fu farmacista di San Pietro in Vincoli. Oggi il suo ritratto osserva ancora con piglio autorevole gli avventori della vecchia sede repubblicana del paese, un grande palazzo ornato di stucchi che sembra fare il verso alle ville dei notabili, coronato nella facciata dall’effigie di un pensoso Giuseppe Mazzini. Ma forse, in questo modo, rischiamo anche noi di cadere nello stereotipo. Non resta, dunque, che l’invito alla conoscenza di un angolo di Romagna così raccolto ma così pieno di suggestioni, e così adatto per mettere alla prova chi, anche nel contesto in apparenza più banale, sa viaggiare come si deve nello spazio e nel tempo.
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ABITARE
Contemporanea
CLASSICITÀ ENTRIAMO NELL’APPARTAMENTO RISTRUTTURATO DALL’INTERIOR DESIGNER LUNELLA DOLCINI, UN PALAZZO STORICO NEL CUORE DI RAVENNA. di Roberta Bezzi / ph Massimo Fiorentini
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Nel cuore storico di Ravenna, a due passi dai celebri monumenti Unesco, si trova un delizioso appartamento situato al primo piano di un palazzo storico recentemente ristrutturato. Curato sin nei minimi dettagli, ha nella verticalità il motivo dominante: ispirandosi al soffitto in legno e laterizio con una bella altezza di 3 metri e 47 centimetri, l’interior designer Lunella Dolcini ha ricercato aperture verticali scenografiche, nella suddivisione della zona giorno e notte, a partire da un’area già descritta dai muri. Verticalità che, in maniera coerente, ritorna poi in ogni ambiente anche negli accessori ricercati
L’AMPIO LIVING DALLA FORMA QUADRATA È CARATTERIZZATO DA POCHI PEZZI, IN UN FELICE CONNUBIO DI CONTEMPORANEITÀ E CLASSICITÀ. UNA SOLUZIONE FELICE ANCHE PER VALORIZZARE ALCUNI PEZZI DI FAMIGLIA DELLA PADRONA DI CASA.
o realizzati ad hoc con sapienza certosina, per sorprendere di continuo. L’appartamento, di circa 80 mq, rappresenta inoltre un perfetto esercizio di sintesi, come richiesto dalla committenza che, provenendo da una casa molto grande, ha espresso il desiderio di un ambiente più raccolto e funzionale, completamente improntato sui suoi gusti e sulle sue esigenze di vita. Entrando nell’abitazione si resta subito colpiti dai colori in prevalenza scuri, che vanno però al di là della moda del total black. Nell’ingresso, che si apre immediatamente sul salotto, si notano due applique a muro di Catellani & Smith in ottone opaco che offrono immediatamente il senso della verticalità. L’ampio living 42
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dalla forma quadrata è caratterizzato da pochi pezzi, in un felice connubio di contemporaneità e classicità, come è tipico dello stile di Dolcini. Una soluzione felice anche per valorizzare alcuni pezzi di famiglia della padrona di casa che, proprio grazie all’accostamento con arredi di design, acquistano nuova vita. Una bella luminosità è garantita dalla presenza di due finestre e una portafinestra che dà su un bel balcone, con vista sul tranquillo e curato giardino interno del palazzo. Per garantire la massima privacy, sono state scelte tende opache di color bordeaux, con un’alta bal-
za doppia dello stesso colore ma in tessuto cangiante, che trasformano la parete in un sipario che all’occorrenza può essere aperto o chiuso. Analogo il colore delle tende esterne alla bolognese per le finestre, ripreso anche nei cuscini che decorano il divano-icona di Studio De Padova, modello Square 16 (2016). Un divano sofisticato, di proporzioni armoniose, dal profilo rigoroso, netto e squadrato, addolcito dai morbidi cuscini in piuma. A completare le sedute del salotto, sul lato opposto, c’è una poltrona originale dei primi Novecento della Chesterfield con pelle verde capitonné origi-
nale e con al fianco un tavolinetto tondo in ottone di Fornice Objects di Chiara Ravaioli, che ha disegnato anche le luci del comodino in camera da letto e dell’antibagno giorno. In mezzo, c’è un baule di recupero. Sempre sul filo della memoria, impossibile non notare l’importante credenza del 1600 – con sopra un pregiato vaso di Venini – appoggiata a una parete su cui campeggiano anche due applique in vetro di Murano. Sull’ampia parete opposta c’è poi un gigantesco arazzo dei primi del Settecento, sempre di proprietà della famiglia della committente, che ha ispirato tutti i colori degli arredi e complementi vari. Completano l’ambiente il tavolo rotondo in marmo, in nero marquinia, modello Tulip di Knoll (1957), realizzato dal designer Eero Saarinen che ha firmato anche le sedie Conference (1950) per lo stesso marchio. A illuminarlo sono le lampade in sospensione Flos by Michael Anastassiades con una piacevole trama grafica di fili, perfetta fusione tra moderno e antico. Da segnalare anche la presenza nel living della pregiata lampada piantana di Flos Toio, creata dai fratelli Castiglioni nel 1962. Leggermente nascosta è la cucina laccata bianca della Bulthaup acquistata da Oggetti D’Autore (così come il letto), piccola ma ben attrezzata, che ha anche un piacevole angolo snack. In tutta la casa, il pavimento è in rovere tinto con battiscopa di 4 centimetri dipinto come le pareti. Un’altra caratteristica che salta subito all’occhio è la quasi totale assenza di porte, se si esclude quella in legno di fine Ottocento che divide il living dalla zona notte. Al loro posto, ci sono altissime tende teatrali e – per celare i servizi del reparto giorno e nella camera da letto – che, oltre a mettere in evidenza la verticalità ricercata, garantiscono una maggiore fluidità agli spazi da vivere in libertà. Il reparto notte è una vera e propria suite, visto che dalla camera da letto si accede direttamente alla
cabina armadio e poi al bagno. La parete dove appoggia il letto di Cappellini disegnato da Jasper Morrison nel 1991, semplice e minimalista, è rivestita da un tessuto scolpito in verde petrolio, sontuoso ed elegante, che ricopre anche l’unico comodino. Sopra la testata del letto spicca un fregio dorato, trovato in un mercatino d’antiquariato, che dà luce alla parete. Le lampade a muro sono di Panzeri. La cabina armadio passante è il modello Novenove di Lema (1999) che consente una perfetta suddivisione degli spazi grazie a moduli su misura. È stata acquistata da Biagetti Design Club, così come il divano, il tavolo, le sedie e le luci del living. Da qui, si accede al bagno padronale in cui troneggia un ampio lavandino grigio, dietro il quale c’è uno specchio verticale a tutta altezza. L’ambiente, che inclu-
IMPOSSIBILE NON NOTARE L’IMPORTANTE CREDENZA DEL 1600 E IL GIGANTESCO ARAZZO DEI PRIMI DEL SETTECENTO, SEMPRE DI PROPRIETÀ DELLA FAMIGLIA DELLA COMMITTENTE, CHE HA ISPIRATO TUTTI I COLORI DEGLI ARREDI E DEI COMPLEMENTI VARI.
de anche due mobiletti in legno disegnati da Lunella Dolcini, in cui spiccano maniglie verticali coerenti con il tema dell’appartamento, è rischiarato dalle lampade Flos Ic di Michael Anastassiades, perfettamente simmetriche. Nel complesso, la casa è un nido intimo in cui stare bene e sentirsi liberi e coccolati.
IN QUESTE PAGINE, GLI AMBIENTI RISTRUTTURATI DELL’APPARTAMENTO NEL CUORE DEL CENTRO STORICO DI RAVENNA.
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Quello dell’assistenza agli anziani è un problema oggi molto sentito. L’idea di sviluppare il progetto Serenitas nasce per soddisfare un bisogno sociale molto importante per il nostro Paese: quello di assistere gli anziani in un’ottica nuova, visti il taglio dei costi della Sanità pubblica, i dati demografici che sempre più evidenziano come l’Italia sia un Paese di anziani e il progressivo calo del reddito medio degli italiani. Perché e come nasce il progetto Serenitas? “La Casa Assistenziale rappresenta una possibilità reale di coabitazione legata ai modelli familiari tradizionali e finalizzata a garantire adeguate cure, un invecchiamento attivo e inclusione sociale dell’anziano, evitando isolamento e solitudine. Abbiamo deciso di partire con il primo progetto di Case Assistenziali Serenitas
nel 2011, fino a svilupparne altre 6 a distanza di tre anni, durante i quali abbiamo potuto analizzare diverse tipologie di immobili da adibire a case assistenziali. Nello specifico ville, appartamenti, rustici e case a schiera, nonché uffici
con cambio di destinazione d’uso. Una parte rilevante del patrimonio immobiliare risulta sfitto; pensare di recuperare architettonicamente questi spazi attraverso interventi mirati, conferendogli una nuova funzione con forte finalità sociale, creando impiego, valore e generare un reddito continuativo, è una prospettiva importante. Il nostro obiettivo era creare un ambiente famigliare per gli ospiti e per i visitatori, un luogo di compagnia dove offrire serenità nel vivere la terza età sposando l’idea di famiglia, di calore domestico. Pochi ospiti – al massimo 16, con gli stessi bisogni assistenziali – che mantengono le proprie identità. Seguendo varie pubblicazioni scientifiche abbiamo sviluppato il progetto Serenitas, oltre che da un punto di vista sociale, anche da un punto di vista medico, poiché in compagnia e in un ambiente fa-
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miliare viene realizzato un recupero cognitivo importante. Volevamo creare qualcosa di opposto agli istituti di grandi dimensioni dove l’ospite è spesso solo un numero.” Come si sviluppa il format che proponete? “Proponiamo tre fasi per sviluppare un progetto, dalla A alla Z, da far gestire direttamente all’affiliato e/o gestendolo per suo conto (solo per alcuni immobili). La prima è la fase di fattibilità, dove si verifica tecnicamente, sia dal punto di vista economico-finanziario sia dal punto di vista progettuale-architettonico, la possibilità di ottenere una chiara definizione di costi, ricavi, tempistiche, iter burocratici per autorizzazioni, fino alla realizzazione di un progetto di fattibilità e un business plan. Poi c’è la fase di esecuzione, ovvero la stesura del progetto esecutivo fino all’ottenimento dell’autorizzazione da parte
degli enti preposti e fornitura di strumenti tecnici e organizzativi per iniziare l’attività. Infine, la fase di avviamento prevede una formazione direttamente presso le nostre strutture, arredo tecnico interno e strumenti per la promozione e acquisizione e gestione del cliente. Le attività delle fasi proposte sono formulate per consentire risparmio di tempo e denaro.” Quali sono i principali vantaggi di sviluppare un progetto con Serenitas? “È fondamentale partire bene con qualcuno che attutisca il colpo in caso di errori, visto
che parliamo di servizi alle persone, quindi un’immagine imprenditoriale di estrema risonanza per la comunità locale. Si tratta di colloquiare con istituzioni ed enti locali, bisogna fare un ottimo lavoro da subito ed essere professionali. Va ricordato che si è sotto il controllo degli enti operativi pubblici, quindi non si può sbagliare. Inoltre bisogna ottimizzare la gestione per avere un’alta redditività e il nostro modello è collaudato per questo. Serenitas ha una cooperativa di gestione delle case assistenziali che ha gestito più di 150 pazienti dal 2011.”
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DIPINGERE
Oltre
L’APPARIRE PER CESARE BARACCA, ARTISTA NATO A FUSIGNANO, IL RITRATTO È LA FORMA D’ARTE PIÙ ELEVATA, TECNICAMENTE PIÙ DIFFICILE E IMPEGNATIVA SOTTO IL PROFILO PSICOLOGICO.
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Cesare Baracca, nato a Fusignano nel 1965, vive e ha lo studio nelle campagne di Bagnacavallo, in località Masiera. Dal 2005 insegna regolarmente Pittura, prima alla Scuola di Disegno del Comune di Fusignano poi presso l’Università per Adulti
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di Aldo Savini / ph Lidia Bagnara
di Lugo. Fin dalle prime esperienze pittoriche giovanili, Cesare Baracca in solitudine realizza dal vero paesaggi, marine, rocce, nature morte. All’Accademia di Ravenna segue per due anni l’insegnamento di Umberto Folli, pittore che aveva assorbito
gran parte dei percorsi innovativi delle avanguardie novecentesche, reinterpretandole e convergendole all’interno di una tradizione verista-naturalista venata da accenti espressionisti. C’è un episodio che ha lasciato un segno nella sua formazione per aver stimolato
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una riflessione sulla necessità di andare oltre la pura e semplice riproduzione di come il mondo appare: un giorno Folli, vedendolo impegnato già da qualche tempo con una natura morta, volle aiutarlo e, presi i suoi pennelli, con sicurezza intervenne sulla sua tela che si scaldò subito di un dolce colore e di accordi tonali accorti. Ne risultò non più una forma descrittiva e mimetica ma una forma rivissuta e sognata da dentro. Gli intimò di continuare, ma lui altezzoso gli rese i pennelli affermando che in tale maniera non era intenzionato a procedere (senza prima essere passato da una pura analisi naturalista). Folli fu preso da una rabbia incontrollabile, spezzò i pennelli e le sue urla si sentirono per tutta l’Accademia. Conclude poi gli studi all’Accademia di Bologna nel 1990 con una tesi su Piero Manai. Successivamente frequenta il pittore Francesco Verlicchi, abilissimo ritrattista, presso la scuola di disegno di Fusignano. In quegli anni, si sentiva isolato perché nessuno si cimentava più con la pittura figurativa. Nei primi anni del Duemila, mentre sempre più si andava confondendo arte con comunicazione e opera con prodotto, Baracca decide che la figura umana poteva e doveva essere la protagonista nella sua produzione
pittorica. Così, dopo decenni di censura perpetrata ai danni della figurazione, riprendendo Schopenhauer e considerando l’arte rappresentazione della rappresentazione, ritiene necessario un aumento volontario e progettuale del potenziale rappresentativo, per la creazione di un mondo ideale che modifichi sostanzialmente quello delle apparenze. Intende, pertanto, sottrarsi alla schiavitù del caso e della necessità, consapevole che la natura bella che si può ammirare contiene sempre il mistero del dolore. Su questi principi Baracca arriva a considerare il ritratto la forma d’arte più elevata e propria, il principe più ardito tra generi pittorici, il più tecnicamente difficile e il più impegnativo sotto il profilo psicologico, dato che vi fa irruzione l’oltre tramite l’altro. Per procedere in questa direzione trova conforto anche dalla storia dell’arte a partire da quella veneta di fine Cinquecento, e passando per la grande tradizione della pittura barocca, ammirando le innovazioni della grande figurazione ottocentesca, sino ad approdare alle tensioni espressive del Novecento. Ora segue con passione le ultime evoluzioni della pittura di figurazione che torna a riproporsi in gran parte dell’Europa (e non solo), con grade forza di nuovi autori, tra cui Kiefer, Baselitz e i nuovi espressionisti.
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Una delle soddisfazioni più grandi degli ultimi anni è stata ritrovare la prima edizione del Il dottor Živago, quella che Feltrinelli pubblicò per prima, portandone poi la versione in cirillico, clandestinamente, in Russia: “Quella volta è stata dura staccarsene. Verso libri così rari nutro una sorta di gelosia che, ogni volta, mi devo imporre di superare.” Fabrizio Bergonzoni, 55 anni, bolognese,
è l’anima di Scattisparsi, l’unico negozio di via Sant’Agata a Ravenna, una strada in cui ha creduto da subito nonostante i molti allarmismi sul degrado. A dispetto dei pregiudizi, dopo l’estate la superficie della libreria raddoppierà per dare spazio alla letteratura per ragazzi e per la prima infanzia: “Qui abbiamo solo libri usati e foto d’epoca che vengono reperiti in giro, non solo
dai fornitori ma anche nelle case delle persone, che può capitare nascondano tesori inimmaginati.” Se quella rara copia dell’opera di Pasternak è stata venduta in tempi rapidissimi e a una cifra importante, nel quotidiano non è sempre facile incappare in perle di un certo valore: “La mia ricerca, che è senza dubbio la parte più dolce e interessante del mio lavoro, è assidua e costante.
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Ogni giorno metto in programma almeno due visite per reperire e selezionare i materiali.” Materiali che vengono venduti direttamente ma anche online: “Molti mi chiedono come io riesca a campare con un’attività come questa. Io rispondo che non si diventa ricchi ma che si galleggia. Ci sono periodi migliori, altri peggiori. Molto dell’ottimismo viene dai giovani: se ne parla male, si dice che non leggan, ma qui arrivano e cercano, inaspettatamente, i classici.” Nei ritagli, anche Bergonzoni si dedica alla lettura. “In generale, sono appassionato di Sciascia e Pirandello. Mi dedico molto poco, invece, agli autori di oggi. In Italia
“A VOLTE CI SI AFFEZIONA ALLA GRAFICA, ALTRE AL TESTO. È UNA QUESTIONE ISTINTIVA, CHE NULLA HA A CHE VEDERE CON IL VALORE ECONOMICO. CIÒ NON TOGLIE CHE RIUSCIRE A TROVARE IL LIBRO BUONO E RICERCATO È SEMPRE UNA BELLISSIMA SORPRESA.”
c’è una proliferazione di pubblicazioni che non corrispondono a qualità. Preferisco riscoprire titoli e scrittori del passato, anche seguendo i consigli e le richieste dei miei clienti, ai quali, però, a volte va messo un filtro: sui miei scaffali non ci saranno mai i libri di Bruno Vespa, per fare un esempio.” A dare una mano a Bergonzoni tra un mappamondo, una vecchia valigia e una poltrona rétro, c’è la moglie Rita Ossani, che ufficialmente è la titolare dell’attività. “Il lavoro non finisce mai. A volte si rischia di essere sommersi dai libri. Che, essendo usati, vanno puliti e sistemati prima di essere inventariati e messi in vendita. Per fortuna, di recente mi sono dotato di un moderno software che mi sta aiutan50
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do molto.” Tra gli assidui clienti di Scattisparsi c’è una libreria di Pesaro che si rifornisce a Ravenna per i mercati estivi dei libri. “In questi casi, da qui escono gli scatoloni pieni, perché sui titoli ancora sul mercato, quelli che io propongo usati, la convenienza è davvero alta.” Non dipende dal prezzo, invece, l’attaccamento che il librario prova spesso per i pezzi che trova: “A volte ci si affeziona alla grafica, altre al testo. È una questione istintiva, che nulla ha a che vedere con il valore economico che una pubblicazione, magari perché introvabile, può in effetti avere. Ciò non toglie che riuscire a trovare il libro buono e ricercato è sempre
una bellissima sorpresa.” Alle cose vecchie, del resto, Bergonzoni è sempre stato legato. “Ho sempre coltivato la mia passione per l’antiquariato, girando l’Italia a fare mercati. Quando mi sono innamorato dei locali in cui attualmente ho la libreria, ho lavorato per qualche tempo al chiuso, occupandomi solo di vendita online. Ma poi la gente ha iniziato a venire, a chiedermi di entrare e di aprire al pubblico. E ora eccomi qua, speranzoso che questo quartiere possa rivivere anche grazie alla cultura e all’arte, in quella che ho sentito definire la via del libraio.”
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