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UNIVERSITÀ
«Inutile avere la norma se poi non la si fa applicare»
L'eccesso di garantismo e le politiche passive di sussidio hanno vanificato quel che di buono c'era nel sistema italiano. E le riforme, secondo il giuslavorista Francesco Rotondi, rischiano di essere vane
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di Sergio Luciano
«NEL NOSTRO PAESE VIENE MESSO IN DISCUSSIONE IL PRINCIPIO DEL LAVORO, ORMAI. IL PRINCIPIO CHE È STATO L’ELEMENTO FONDANTE DELLA COESIONE SOCIALE CHE HA PORTATO ALLA NASCITA DELLA NOSTRA COSTITUZIONE, ALLE NORME CHE REGOLANO LA NOSTRA SOCIETÀ CIVILE»: è severo Francesco Rotondi, managing partner dello Studio Lablaw, tra i più qualificati del mercato giuslavoristico, non solo italiano: «Si stanno rimettendo in discussione ruoli, mansioni, poteri, doveri. Un dibattito che sarebbe in sé anche accettabile se non ruotasse attorno a una finzione».
Quale finzione, avvocato?
Negli ultimi decenni abbiamo continuato a dire che tutto andava bene, mentre tutto andava male. Perché i molti elementi critici nel rapporto di lavoro com’è configurato oggi in Italia e che avrebbero dovuto essere sistemati, non lo sono stati in alcun modo. E ora si discute di scrivere una norma inesistente quando tutti sanno che se alla norma non segue l’indicazione del controllo non cambierà nulla. Il guaio è che a noi italiani non piace che qualcuno ci dica esattamente come le cose funzionano.
Be’: la stilista Elisabetta Franchi un po’ di cose pesanti le ha dette, recentemente…
Sì! Ed è stata subissata di critiche! Mentre aveva sostanzialmente ragione, cioè: possiamo discutere su forma e metodo, ma l’imprenditrice non ha fatto altro che rendere edotti tutti su come realmente si gestiscono certe dinamiche all’interno di molte imprese e di come le donne sono penalizzate. Se tutto funzionasse bene e tutti facessero il loro dovere seguendo principi di efficienza e buon senso non dovremmo immaginare quote rosa, pay-gap, congedi parentali eccetera. Veda, in generale il guaio è che in Italia ci fermiamo alla forma, e non verifichiamo il contenuto. Mentre è sul contenuto che dovremmo indignarci.
Partiamo dal fatto che il nostro sistema giuslavoristico è garantista. Giusto?
Come pochi nel mondo. Ma il tema più pericoloso, in generale, è quello della responsabilità dello Stato nella gestione ottimale del rapporto tra erario e risorse collettive. Lo Stato italiano esprime una capacità di tassazione enorme rispetto ai servizi che offre ai cittadini, ed in particolare a una stretta percentuale di essi, perché i più i servizi li pagano e non ne trovano di qualità pari alle medie europee.
La sanità funziona, però. Comunque: questa incapacità dello Stato che conseguenze ha?
In generale, la conseguenza è scaricare sul privato responsabilità che sono tipicamente dello Stato. Parliamo della responsabilità sociale dell’impresa: non deve significare che l’imprenditore deve farsi carico della disoccupazione, degli esuberi eccetera. O della formazione che occorre per rendere occupabile il lavoratore. La responsabilità sociale dell’impresa consiste nell’applicare le leggi.
FRANCESCO ROTONDI
Il resto è welfare. Se nella sua libertà d’impresa un imprenditore vuol chiudere bottega, non deve essere di fatto costretto a farsi carico di quel che capita ai suoi dipendenti. Non sono figli minorenni, sono dipendenti.
Parliamo del tema spinosissimo del reddito di cittadinanza…
Quello è un tema politico, non giuridico né giuslavoristico. Stiamo parlando di un reddito che viene erogato a qualcuno per non fare nulla, come captatio benevolentiae a fini elettorali. Ed anche altri ammortizzatori sociali sono stati finora gestiti così, come semplici coperture economiche per far stare a casa la gente a far nulla, coprendo l’emergenza sociale e anche qualche inefficienza imprenditoriale: perché a volte anche alcuni imprenditori ci marciano. Ora, in particolare, il reddito di cittadinanza è una politica passiva di sussidio, non compresa né comprensibile da nessuno. Si dice da anni che dobbiamo andare verso le politiche attive e ci ritroviamo in questa condizione. Io dico che bisognerebbe invece immaginare una sorta di sostegno non integralmente sostituitivo del reddito, unicamente finalizzato a sostenere la persona che s’impegna a cercare il lavoro, ma assolutamente insufficiente a sostituire il reddito da lavoro.
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Professionista 4.0 il futuro è già presente
Con la transizione digitale si possono aprire nuovi spazi di mercato per le attività a maggior valore aggiunto, ma solo avviando il processo di “imprenditorializzazione” del lavoro intellettuale
di Gaetano Stella, presidente di Confprofessioni
Le trasformazioni dell’economia intervenute negli ultimi dieci anni hanno determinato un radicale riposizionamento del professionista e del suo ruolo nella società. A partire dalle crisi finanziarie del 2008, passando dalla pandemia fino al conflitto in Ucraina, si va delineando una nuova geografia delle professioni senza confini, costantemente aggiornata dal processo di transizione digitale e, più in generale, dalle missioni previste dal Pnrr sulla rivoluzione green, sulle infrastrutture, sull’inclusione sociale e sulla salute che impattano direttamente e indirettamente sullo sviluppo delle libere professioni. I profondi cambiamenti sociali ed economici non sono neutrali e si riflettono inevitabilmente anche sulle attività professionali, arrivando a modificare l’organizzazione dello studio, le relazioni con il cliente e il ruolo stesso del professionista, chiamato a ridefinire la propria sostenibilità economica, la propria identità sociale e imprenditoriale in un mercato sempre più concorrenziale. A queste conclusioni giunge l’indagine “I nuovi paradigmi del mondo delle professioni nella transizione digitale”, commissionata da Confprofessioni a The European House – Ambrosetti, presentata lo scorso 28 giugno a Roma alla presenza del ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale, Vittorio Colao. Non c’è alcun dubbio che la digitalizzazione rappresenti oggi il principale fattore evolutivo delle professioni: da diversi anni assistiamo, da un lato, a una progressiva erosione di prestazioni a basso contenuto intellettuale che si stanno orientando sempre più verso servizi a maggior valore aggiunto; dall’altro lato, prolificano nuove attività che stanno progressivamente occupando posizioni di rilevo nell’economia 4.0 (pensiamo, per esempio, all’emersione delle nuove professioni legate al web, ai servizi alla persona e al tempo libero). Per molti aspetti si tratta di un fenomeno fisiologico, che però rivela trasformazioni più profonde, che attengono alla cultura e alla valorizzazione della componente intellettuale del sapere professionale, in ogni sua forma. In ogni ambito, il professionista del futuro dovrà saper gestire i mutamenti repentini delle prestazioni professionali, delle mutate e mutevoli esigenze dei clienti, delle normative di riferimento in continuo divenire, degli standard internazionali che è chiamato ad applicare, delle nuove forme di collaborazione che deve intrattenere con colleghi e partner. Un work in progress che lo obbliga all’apprendimento continuo e allo sviluppo di competenze trasversali, non più concentrate esclusivamente sulle competenze tecniche specialistiche, ma su abilità flessibili quali il team-working, le competenze tecnologiche e la comprensione dei dati, il project-management anche al fine di intercettare le necessarie risorse per lo sviluppo della propria attività. Le conseguenze di questo inesorabile processo sono sotto gli occhi di tutti noi. In un mercato dei servizi sempre più liquido e competitivo, dove lo stesso valore intellettuale della prestazione professionale viene spesso messo in discussione, i sistemi tradizionali della professione sono oggi chiamati a fare un salto di qualità, accettando la sfida dell'innovazione, dei nuovi modelli organizzativi e gestionali dello studio e delle reti d'impresa. Si tratta di un passaggio ineludibile che richiama a precise responsabilità anche e soprattutto chi si è fatto carico di rappresentare e tutelare gli interessi dei liberi professionisti davanti alle istituzioni e di fronte al Paese. Un processo che vede impegnata Confprofessioni per sensibilizzare e guidare i professionisti verso una moderna “imprenditorializzazione” del lavoro intellettuale. Perché il passato non è ancora passato, ma il futuro è già presente.

L'autore, Gaetano Stella, è presidente di Conprofessioni