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Spinus atratus

Un lucherino d’altura

della Bolivia

testo di PIERCARLO ROSSIE MASSIMO CORBELLA, foto P. ROSSI, M. CORBELLA, A. LA VOLPE, D. CAUTILLOE A. FRANCHI

Per scoprire il protagonista di questo mio scritto dobbiamo attraversare l’oceano ed atterrare in Sudamerica, più precisamente sulle Ande centrali, dove ci attende la “puna”.

Prima parte

Questo altopiano andino è costituito da alte montagne con neve e ghiaccio permanenti, prati, laghi, altipiani e valli. Passa dalla puna umida andina centrale a nord alla puna secca andina centrale a sud e si estende dal lago Titicaca in Perù passando per la Bolivia, terminando nel nord ovest argentino. Tutte le piante che la compongono sono perenni; vi predominano piante a cuscinetto, piante a rosetta e arbusti nani, che forniscono gli ambienti ideali per una straordinaria storia evolutiva.

Il protagonista di questa storia evolutiva è lo Spinus atratus, conosciuto più comunemente con il nome di Negrito della Bolivia.

Questa specie nel corso dei secoli ha saputo adattarsi a queste altitudini e a questo territorio veramente austero.

Personalmente credo che la teoria

“QUANTO PIÙ È NERO IL PIUMAGGIO, TANTO PIÙ LA SPECIE È GIOVANE” ipotizzata dal Professor De Baseggio sia e rimanga appunto una teoria.

Nei giorni scorsi, infatti, discutendo con l’amico Renzo Esuperanzi riflettevamo sul fatto che solitamente Madre Natura tende a togliere i colori, nel corso dei secoli e delle evoluzioni, piuttosto che aggiungerli alla livrea dei soggetti presenti in natura; se analizziamo il genere Carduelis, ad esempio, scopriremo che il cardellino caniceps risulta essere una specie più “giovane “rispetto al Carduelis carduelis ed infatti questa specie ha perso la croce nera presente nel C. carduelis.

In base a quanto appena affermato noi crediamo che lo Spinus atratus sia una delle specie più vecchie tra gli Spinus e che la colorazione ipermelanica sia dovuta in realtà all’altitudine dove vive, alla possibilità di assorbire maggiori raggi solari ed alla scarsità di predatori, quindi scarso mimetismo.

A conferma di quanto appena affermato e basandoci sulle prove di ibridazione, potremo notare che se il Negrito viene accoppiato con specie ataviche, come il crociere ed il verdone, la sua dominanza risulta essere totale; infatti, con il genere Loxia si ha l’impressione di trovarsi di fronte a dei crocieri melanici in miniatura, mentre con specie più “giovani” come ad esempio il canarino domestico, questa dominanza non risulta essere totale, ma nei soggetti realizzati si ha un cappuccio, più o meno esteso, fattore atavico della specie.

L’atratus in natura Questa specie vive sull’alta catena montuosa andina dell’area settentrionale, dalla Valle de la luna in Cile passando per il Perù meridionale, dalla Bolivia e Argentina nord occidentale fino alla catena montuosa di Mendoza, ad altitudini che possono variare da 3500 metri raggiungendo oltre i 4500, dove sono stati trovati nidi e pulli.

In un territorio così ampio, la puna è il suo habitat principale; si dice che un giorno nella puna racchiuda le 4 stagioni: dalle 8 alle 11 la primavera, dalle 11 alle 16 l’estate, dalle 16 alle 18 l’autunno, per finire con l’inverno durante la notte.

A fronte di tutto questo, il suo piumaggio nero lucente gli permette di assorbire le radiazioni fornite dai preziosi raggi solari. La melanizzazione può quindi avvantaggiare gli animali ectotermi, in particolare quelli che vivono in ambienti freddi, poiché oltre a proteggere dai raggi UV favorisce anche l’aumento della temperatura corporea.

La vita in quota comporta, inoltre, un adattamento ad un’aria più rarefatta e per scoprire meglio come la specie si è adattata ci affidiamo a studi effettuati sul campo da Cornell e da Sahas Barve, da cui emerge quanto segue:

“Gli alpinisti conoscono molto bene la sensazione di muoversi in quota. I polmoni fanno male e il cuore batte più velocemente, le gambe sembrano di piombo e il cervello diventa torbido. A fronte di tutto ciò, possiamo immaginare come si sentano gli uc- celli ad alta quota mentre seguono i loro stili di vita con dispendio di energie ed uno sforzo maggiore”. La maggior parte delle creature viventi si è adattata a respirare facilmente sotto la colonna d’aria che preme su di noi al livello del mare. Ma ad altitudini più elevate l’aria è rarefatta, quindi un polmone non fornisce la stessa quantità di ossigeno per alimentare i muscoli. Per avere dati più precisi, i ricercatori hanno utilizzato reti da nebbia per catturare diverse specie di uccelli ad altitudini comprese tra 3.280 e 10.500 piedi (1.000-3.200 metri). A queste altitudini, l’aria ha tra l’89% e il 69% di ossigeno in meno rispetto al livello del mare.

Hanno raccolto una goccia di sangue da ogni uccello, in modo da studiare l’emoglobina, la molecola nei globuli rossi che trasporta l’ossigeno dai polmoni ai muscoli. Il campione di sangue ha fornito loro due misurazioni chiave: il volume del sangue composto da globuli rossi (ematocrito) e la concentrazione di emoglobina nel sangue.

I ricercatori hanno testato le specie residenti, ovvero quelle che vivono alle stesse altitudini tutto l’anno, ed i cosiddetti migratori.

Come si è scoperto, i due differenti gruppi hanno risolto il problema dell’ipossia in modi diversi.

“Abbiamo scoperto che le specie migranti rispondono all’ipossia proprio come fa la maggior parte degli esseri umani quando si sposta dal livello del mare a quote più elevate”, afferma Barve. “Lo fanno aumentando il loro trasporto di ossigeno con un numero maggiore di globuli rossi”.

Sembra una buona idea, dal momento che più globuli rossi significa più emoglobina, che può trasportare più ossigeno. Ma la strategia ha uno svantaggio: sangue più denso e un rischio maggiore di coaguli e vasi sanguigni ostruiti. E funziona solo per un tempo limitato.

“La quantità di ossigeno erogata agli organi in realtà diminuisce perché il sangue si muove più lentamente”, dice Barve. “È come pompare ketchup invece del sangue; negli esseri umani è una classica causa di un disturbo noto come mal di montagna cronico. Ma è una risposta su cui il corpo ha molto controllo, ecco perché è presente in molti organismi”.

Come un abitante delle pianure che va in vacanza sugli sci, le specie mi- granti hanno apparentemente trovato una soluzione a breve termine che consente loro di sopravvivere ad alta quota abbastanza a lungo da completare la stagione di nidificazione. Questa soluzione rapida ha anche il vantaggio di essere reversibile, consentendo alla loro composizione del sangue di tornare alla normalità quando tornano a quote più basse. Nel frattempo, Barve ha scoperto che le sei specie residenti, tra cui lo Spinus atratus, si erano tutte evolute indipendentemente secondo una tecnica diversa per aumentare il proprio assorbimento di ossigeno senza limitazioni di tempo.

“Gli uccelli residenti non aumentano il numero di globuli rossi”, spiega

Barve. “Invece, aumentano la quantità di emoglobina all’interno di ciascuna cellula”. In sostanza, producono più emoglobina che trasporta ossigeno senza dover costruire anche tutte le altre parti di un globulo rosso. “Quindi evitano tutte le cose brutte che possono accadere a causa del sangue più denso”.

Dopo aver scoperto le strategie adottate da questa specie per un ambiente così ostile, andiamo ora a scoprire come si comporta nei vari mesi dell’anno.

Durante i mesi delle piogge si sviluppa la vegetazione la quale, nel successivo periodo secco, forma grandi quantità di semi di moltissime specie di piante erbacee, cespugliose ed arbustive che servono da nutrimento a questa e ad altre specie di volatili, insieme alla riproduzione degli insetti

In un areale così vasto, diversi sono i nomi locali che lo indicano, come Tintinse, Negrillo, Cabecitanegra oscuro utilizzati dalla specie nell’allevamento dei nidiacei.

Da un esame “sul campo”, nei loro gozzi sono stati rilevati semi, alcuni molto piccoli, come la Cañigua, ricca di aminoacidi essenziali; in più, un alto apporto di proteine a fronte di un basso contenuto di grassi. Si tratta dunque di un seme energetico (1437 KJ-342 Kcal ogni 100 grammi). Abbiamo poi la Thlaspiarvense, conosciuta in Italia come erba storna co- mune, e la Quinoa, altro seme ad alto valore proteico, che costituisce l’alimento base per le popolazioni andine. Gli Inca chiamano la quinoa Chisiya mama, ovvero «madre di tutti i semi».

La piantaggine (Plantago major) possiede proprietà antinfiammatorie conferitele dalla baicaleina e dall’aucubina e anche proprietà emollienti che le vengono garantite dalle mucillagini in essa contenute. Sono stati rinvenuti anche semi di Chillihua, una pianta coltivata dall’uomo nei terreni deputati ai pascoli, lasciati brulli dal continuo brucare delle mandrie, la Chilca mamil e l’amaranto Amaranthus caudatus: questo seme ha un elevato tenore di lisina. Grazie alle fibre di cui è ricco, agevola le funzioni dell’intestino e rafforza il sistema immunitario grazie alla notevole presenza di ferro.

Visto un areale così vasto, diversi sono i nomi locali che lo indicano, come Tintinse (Aymara) Negrillo (Argentina), Cabecitanegra oscuro (Argentina Bolivia).

Il periodo riproduttivo

L’habitat del Negrito presenta terreno arido a causa dei lunghi mesi di siccità che si alternano al breve periodo delle piogge da dicembre a marzo.

Al termine della stagione delle piogge, con la rinnovata disponibilità di cibo ha inizio la stagione riproduttiva. Il nido, a forma di coppa, viene costruito dalla femmina nel mezzo dei cespugli ed arbusti, alle più disparate altezze da terra. Come materiali di costruzione per la struttura esterna vengono usati ramoscelli e crini vegetali, mentre il rivestimento interno è costituito da lanuggine vegetale. Tale rivestimento è molto accurato per garantire il necessario isolamento termico durante le ore notturne quando la temperatura si abbassa fino a raggiungere temperature anche sotto lo 0.

Vengono deposte solitamente 4/5 uova di colore azzurro-verdognolo con le tipiche macchie brune concentrate sulla parte ottusa. I piccoli nascono dopo 13 giorni di incubazione e restano nel nido per ben tre settimane in modo da riscaldarsi tra loro il più lungo possibile, alimentati da entrambi i genitori che, per reperire i semi immaturi necessari all’alimentazione del pullus sono costretti a esplorare zone molto vaste. Le lunghe ali del Negrito sono caratteristiche di un eccellente volatore e lo aiutano in questo compito arduo. I gruppi si formano al termine del ciclo riproduttivo e si sfaldano solo all’inizio del successivo.

Il Negrito in ibridazione

Il Negrito è un uccello magnifico che ti seduce al primo sguardo, con quel nero corvino spezzato dal lipocromo giallo delle barrature alari tipiche, anche, del nostro cardellino; con il passare degli anni, ceppi sempre più consolidati ci hanno permesso di ammirare, nelle varie mostre, splendidi ibridi.

Ma andando con ordine, come non ricordare i tentativi pioneristici nella speranza di ottenere l’ambito “canarino nero”? Si tentò di percorrere la stessa strada intrapresa con lo Spinus cucullatus, vera chimera degli allevatori del Serinus canaria, ricerca mai venuta meno, basti pensare ai monomelanici dei giorni nostri.

I sogni svanirono ben presto; infatti, gli F1 ottenuti si rivelarono per lo più sterili. Alcuni testi riportano la notizia di uova feconde dopo il terzo anno di età, troppo poco per poter lavorare in maniera concreta.

Si pensò in seguito di passare dal cardinalino e, visto il numero importante di soggetti fecondi, in ambedue i sessi si ottennero R3/R4 molto melanizzati, ma dopo alcuni anni anche questo progetto naufragò.

Abbandonato il sogno del canarino nero, con il passare degli anni e con una scelta sempre più oculata della femmina di canarino da utilizzare, apparvero i primi soggetti con un cappuccio nero, privo di infiltrazioni, più o meno esteso. Il Serinuscanaria dona ai soggetti un ottimo disegno dorsale, sempre ben visibile e marcato; sarà presente la barratura alare gialla e risulteranno molto apprezzati anche i soggetti ardesia, ottenuti con una canarina nero bianco dominante, ex ardesia, ed i più recenti diluiti ottenuti con la canarina Jaspe.

Continua sul prossimo numero