MasterX Luglio 2024

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L’intervista alla professoressa Emanuela Prandelli: il fast fashion ricicla meno dell’1% dei capi _ p.14

Lavoro Quanto ci costano i giovani che studiano in Italia e poi lavorano all’estero? _ p.5

Tecnologia e diritti 100 anni fa nasceva l’obsolescenza programmata. L’Ue sceglie le riparazioni _ p.12

Anno XXII | Numero 4 | Luglio 2024 | www.masterx.iulm.it

Ambiente Il 30% del cibo globale viene buttato a causa degli eventi climatici estremi _ p.24

MasterX

Periodico del master in giornalismo dell’Università IULM Facoltà di comunicazione

Non solo ambiente: tecnologia, persone e diritti. Stiamo utilizzando bene le nostre risorse?

SPRECO DI ULTIMA GENERAZIONE

Diretto da:

DANIELE MANCA (responsabile)

Progetto grafico: ADRIANO ATTUS

In redazione: Elena Capilupi, Valentina Cappelli, Andrea Carrabino, Umberto Cascone, Filippo Riccardo di Chio, Andrea Di Tullio, Christian Leo Dufour, Thomas Fox, Sara Leombruno, Alessandra Pellegrino, Ivan Torneo, Letizia Triglione, Erica Vailati, Davide Aldrigo, Elena Betti, Elena Cecchetto, Serena Del Fiore, Alessandro Dowlatshahi, Vittoria Giulia Fassola, Glenda Veronica Matrecano, Cosimo Mazzotta, Francesca Neri, Tommaso Ponzi, Riccardo Rimondini, Rebecca Saibene, Ettore Saladini, Giulia Spini

Registrazione: Tribunale di Milano n.477 del 20/09/2002

Stampa: RS Print Time S.r.l

Master in Giornalismo Iulm

Direttore strategico: Daniele Manca

Coordinatrice organizzativa: Marta Zanichelli

Coordinatore didattico: Ugo Savoia

Responsabile laboratorio digitale: Paolo

Liguori

Tutor: Sara Foglieni

Docenti:

Anthony Adornato (Mobile Journalism)

Adriano Attus (Art director e grafica digitale)

Federico Badaloni (Architettura dell’informazione)

Luca Barnabé (Giornalismo, cinema e spettacolo)

Ivan Berni (Storia del giornalismo)

Silvia Brasca (Fact checking and Fake news)

Federico Calamante (Giornalismo e narrazione)

Marco Capovilla (Fotogiornalismo)

Marco Castelnuovo (Social Media curation)

Maria Piera Ceci (Giornalismo radiofonico)

Pierluigi Comerio (Idoneità professionale)

Mario Consani (Deontologia)

Cipriana Dall’Orto (Giornalismo periodico)

Giovanni Delbecchi (Critica giornalismo Tv)

Andrea Delogu (Gestione dell’impresa editoriale)

Luca De Vito (Videoediting)

Guido Formigoni (Storia contemporanea)

Alessandro Galimberti (Diritto d’autore)

Paolo Giovannetti (Critica del linguaggio giornalistico)

Alessio Lasta (Reportage televisivo)

Stefania Lazzaroni (Comunicazione istituzionale)

Nino Luca (Videogiornalismo)

Bruno Luverà (Giornalismo Tv)

Caterina Malavenda (Diritto penale e Diritto del giornalismo)

Matteo Marani (Giornalismo sportivo)

Anna Meldolesi (Giornalismo scientifico)

Alberto Mingardi (Giornalismo e politica)

Micaela Nasca (Laboratorio di pratica televisiva)

Elisa Pasino (Tecniche dell’ufficio stampa)

Martina Pennisi (Social Media Curation I)

Aldo Preda (Giornalismo radiofonico II)

Davide Preti (Tecniche di ripresa e montaggio)

Roberto Rho (Giornalismo economicoGiornalismo quotidiano)

Giuseppe Rossi (Diritto dei media e della riservatezza)

Federica Seneghini (Social Media Curation II)

Gabriele Tacchini (Giornalismo d’agenzia)

Marta Zanichelli (Publishing digitale)

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Editoriale

Deficit day di Andrea Di Tullio ed Erica Vailati

Emigrato un medico non se ne fa un altro di Valentina Cappelli e Ivan Torneo

Centro di recupero per smartphone di Sara Leombruno

Green, ma a che prezzo di Andrea Di Tullio

100 anni di obsolescenza di Ivan Torneo

Ricompro? No, riparo di Elena Capilupi

Il costo ambientale del fast fashion

Intervista a Emanuela Prandelli di Thomas Fox

Armi, terapia antiruggine cercasi di Umberto Cascone

Edifici (riciclati) e cultura (nuova)... di Letizia Triglione

Assenze alle stelle di Elena Capilupi e Alessandra Pellegrino

Non tappiamo un tubo! di Christian Leo Dufour

I semi dell’odio di Davide Aldrigo e Alessandro Dowlatshahi

DEFICIT DAY

19 maggio 2024. L’Italia ha raggiunto l’overshoot day, il giorno che segna l’esaurimento delle risorse, destinate al fabbisogno della popolazione, che la Terra è in grado di rigenerare in un anno. Questo significa che se apriamo il rubinetto non vediamo più scendere acqua? O che al supermercato gli scaffali della pasta via via si svuotano perché non c’è più grano? In realtà, possiamo continuare a cucinare gli spaghetti al sugo senza il timore di non riuscire a lavare le stoviglie, anche il 20 maggio. Ma è come se stessimo già mangiando il primo piatto del 2025.

esaurimento scorte

Immaginiamo che il pianeta abbia un magazzino in cui conserva le risorse rinnovabili. Ogni scaffale ha 365 prodotti, uno per ogni giorno. L’uomo, però, consuma tutte le scorte fino all’ultimo ripiano prima che l’anno sia finito, cominciando a prendere anche quelle dello scaffale successivo. Il risultato di questo comportamento sono scarti e rifiuti che si accumulano. Uno di questi è l’anidride carbonica, che stiamo emettendo in quantità tali da non permettere all’atmosfera di assorbirla. Così, l’attività umana contribuisce, da un lato, al peggioramento delle condizioni climatiche e ambientali. Dall’altro aggrava il “deficit ecologico”, un bilancio negativo tra le risorse che la Terra produce e rigenera e quelle che l’uomo sfrutta intensivamente.

L’overshoot day è la conseguenza di tendenze in costante aumento: la popolazione mondiale sempre più numerosa, il benessere crescente che provoca un incremento dei

consumi, la trasformazione di zone incolte e disabitate in superfici agricole e aree industriali e residenziali. Alla base di questi cambiamenti c’è l’utilizzo, più o meno ragionevole, delle risorse. Ecologiche, ma non solo.

quali e quante risorse?

Gli studenti freschi di laurea e pronti a entrare nel mondo del lavoro, i migranti che arrivano in Italia in cerca di una nuova vita, il diritto (e dovere) di voto che garantisce la possibilità di esprimere la nostra opinione. Si tratta di risorse, meno tangibili rispetto al legno per costruire e all’acqua per coltivare, ma altrettanto necessarie. Perché gli edifici non potrebbero essere fabbricati senza architetti, ingegneri e muratori. Lo stesso vale per risorse più concrete, prime fra tutte quelle tecnologiche. In questi casi, però, a preoccupare è il rovescio della medaglia. Pensiamo agli smartphone: quanti, appena uscito il nuovo modello, lo cambiano senza che quello “vecchio” sia rotto? E dove finiscono quelli che non utilizziamo? Dimenticati in un cassetto, che diventa il cestino della raccolta differenziata in cui buttare gli scarti elettronici che non ci servono più. Anche i cellulari, però, possono rigenerarsi, in una seconda vita in cui alcune loro componenti sono impiegate per altri scopi.

Disporre di molte risorse significa avere tante possibilità non soltanto di utilizzo, ma anche di spreco. E in un mondo in cui rincorriamo costantemente il nuovo e il più bello, non ci pensiamo due volte prima di buttare via il vecchio e il più brutto. Metteremo mai fine allo spreco?

Foto: Jim Forest, EuropeanMigrantCrisis
Nella pagina a fianco, fonte: Fotolia

RISORSE Emigrato un medico non se ne fa un altro

Una volta formati, i giovani professionisti italiani scelgono di andare via. Tra il 2000 e il 2022 sono 180mila gli specialisti espatriati: come aver “regalato” all’estero 27 miliardi di euro

Di Valentina Cappelli e Ivan Torneo

sempre più anziana, che vive all’ombra di una forte crisi demografica. Ma quanti di questi futuri dottori lavoreranno davvero nei nostri ospedali?

Circa 150mila euro. Ecco quanto costa allo Stato – secondo le stime del Ministero dell’Università e della Ricerca – il percorso formativo di 11 anni di uno studente di Medicina. Una spesa che ammonta a 25mila euro per la laurea e 128mila per la specializzazione. E fino al 2030 – in base alla media degli accessi universitari proiettata a 6 anni – sono circa 145mila i futuri medici che si stanno formando e si formeranno a spese dello Stato. Se mettiamo insieme i dati, scopriamo che l’Italia spenderà, dal 2020 al 2030, la cifra astronomica di 21.750.000.000 (21 miliardi e 750 milioni) di euro per addestrare la nuova generazione di medici. Cifra che non include tutti gli anni di formazione precedenti al diploma. Un investimento più che giustificato dall’importanza di questa professione in una società >

Le stime non sono incoraggianti. Secondo i calcoli dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), tra il 2000 e il 2022 sono andati a lavorare all’estero circa 180mila medici italiani. Le mete preferite? Il Belgio, con 10.238 espatri, la Svizzera (10.942), il Regno Unito (12.881) e la Francia (13.240). Nella top 3 ci sono la Germania (15.496 espatri), gli Stati Uniti (25.690) e a sorpresa Israele, con 33.215 medici italiani.

Mettendo da parte il valore umano e culturale di un medico formatosi attraverso le nostre università, è come se nell’ultimo ventennio l’Italia avesse “regalato” a questi Paesi circa

Lasciandoci il Bel Paese alle spalle

1. REGNO UNITO

Un quarto degli italiani che si trasferiscono all’estero preferisce il Regno Unito. Secondo i dati Istat del 2021, «rallentano ma restano numerose le partenze». In un solo anno sono stati 23 mila i connazionali che si sono diretti verso il Paese, che corrisponde al 24% del totale degli espatri. La maggior parte di loro raggiungono l’area della capitale inglese, Londra.

2. GERMANIA

Circa un italiano su sei sceglie la Germania, dove a inizio 2021, secondo l’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero, abitavano 800 mila connazionali. Come la città di Torino. La Germania è la seconda meta preferita anche da 12 mila laureati. Le zone a maggiore densità di italiani sono Monaco di Baviera, Stoccarda e Francoforte.

3. FRANCIA

Il 12% degli italiani espatriati nel 2021 ha scelto la Francia. La destinazione più gettonata è l’Île-de-France, dove gli italiani sono la terza comunità europea più numerosa. Una preferenza con profonde radici storiche: dall’inizio del XX secolo agli anni ’60, quello italiano è stato il gruppo straniero più nutrito del Paese.

Alla ricerca del sogno chiamato Italia

1. ROMANIA

Come certifica il Centro Studi e Ricerche Idos, quella rumena è la prima comunità straniera in Italia, dove un immigrato su cinque (20,7%) proviene dalla Romania. Un gruppo che, nel 2021, contava più di un milione di persone. Così tante che potrebbero occupare l’intera città metropolitana di Palermo. Eppure, nel 1991, in Italia erano solo 10 mila. In 30 anni sono aumentati quasi del 10.000%.

2. ALBANIA

Nel 2021, quasi uno straniero su tre era di origine albanese. Il fenomeno migratorio si è intensificato dal 1991, con la caduta della Repubblica Popolare Socialista d’Albania. Secondo un rapporto del 2023 del Ministero del Lavoro, sono 389 mila gli albanesi in Italia: il 60% vivono al Nord e, in particolare, uno su cinque del totale risiede in Lombardia.

3.

I marocchini sono la popolazione mediamente più giovane tra i migranti presenti sul territorio italiano. Secondo il Ministero del Lavoro, al primo gennaio 2021, erano 141 mila i minorenni originari del Marocco arrivati nel nostro Paese. Torino è in testa alla classifica delle città con la massima concentrazione di marocchini (1,9% dei residenti totali).

27 miliardi di euro. Una cifra che vale solo per i dottori, ma alla quale andrebbe aggiunta la fuga di infermieri, ingegneri, informatici, economisti ed esperti di finanza. Un dissanguamento statale di risorse umane ed economiche che non accenna a rallentare.

Alla radice del problema, c’è la differenza tra lo stipendio italiano e quello di altre nazioni. Tanto che molti giovani nel nostro Paese sono disincentivati a conseguire una laurea.

Come evidenzia uno studio di AlmaLaurea, i neolaureati alla prima busta paga guadagnano in media 1.366 euro se in possesso di una laurea magistrale, 1.332 euro con una triennale. I diplomati, invece, ricevono in media 829 euro. Una differenza che, se consideriamo gli sforzi in termini di tempo e di spesa, non è alta. Lo confermano anche le statistiche dell’Ocse. Rispetto a un diplomato, un neolaureato italiano tra i 25 e i 34 anni guadagna il 25% in più. Contro una differenza del 27% per un collega francese, del 35% per uno tedesco e addirittura del 48% per uno studente appena uscito dall’università in Spagna.

Non c’è da stupirsi se molti giovani scelgono di fuggire. Secondo uno studio pubblicato dalla Fondazione Nord-Est e dall’associazione Tiuk, nel decennio 2011-2021 circa 1,3 milioni di italiani tra i 18 e i 34 anni hanno deciso di emigrare in Paesi della UE e in Gran Bretagna. Tra di loro, i laureati erano 390mila. Una cifra che non tiene conto di chi emigra al di fuori del nostro continente. Per ogni giovane straniero che sceglie di vivere e lavorare in Italia, sono 17 gli italiani che abbandonano lo Stivale. I migranti 2.0 che il nostro Paese offre al mondo – a differenza di quelli del secolo scorso – non sono utili solo alla bassa manovalanza per gli Stati che li accolgono. Si tratta in buona parte di giovani altamente specializzati, con una formazione particolarmente onerosa e la grande forza di volontà e lo spirito di adattamento che, storicamente, hanno sempre caratterizzato gli italiani all’estero.

DA DOVE ARRIVANO
MAROCCO

Ma per ogni migrante che va, c’è un migrante che viene. In Italia, secondo le statistiche del Viminale, dal 2013 al 2023 sono più di un milione gli stranieri che hanno deciso di trasferirsi da noi – in maniera più o meno lecita – dalle zone povere del mondo. E dal 2014 a oggi, secondo un rapporto di Save The Children, sono arrivati via mare più di 112mila minori non accompagnati. Una situazione che, però, potrebbe avere anche risvolti positivi. Prendiamo l’esempio tedesco. Tra il 2015 e il 2016 sono giunti in Germania circa 1,2 milioni di richiedenti asilo siriani. Si trattava per lo più di professionisti già formati. L’allora Cancelliere Angela Merkel aveva aperto le porte del Paese a pochi mesi dallo scoppio della guerra civile in Siria.

Due facce della stessa medaglia

A sinistra, un giovane manifesta contro la precarietà del lavoro in Italia.

A destra, il presidente dell’Associazione nazionale dei medici africani in Italia Omar Abdulcadir

La stessa cosa non è avvenuta in Italia, dove, sul totale dei nuovi contratti, quelli firmati da migranti sono soprattutto nei settori dell’agricoltura (39,2%) e delle costruzioni (30,1%). Ma mancano le professioni sanitarie. Anche per questo, nel 2020 il decreto Cura-Italia ha aperto agli specialisti di Stati extra-UE. Un provvedimento che dovrebbe trovare conferma definitiva nel dicembre 2025.

Tra il 2011 e il 2021

Ma il mercato del lavoro tedesco è stato in grado di assorbire così tante persone in così poco tempo? A Norimberga, uno studio dell’aprile 2020 dell’Istituto di ricerca federale per il lavoro ha rilevato che il 49% dei rifugiati arrivati in quel periodo aveva un’occupazione. La Germania ha attivamente collaborato con le aziende per finanziare corsi e tirocini di avviamento. Ed entro 5 anni dall’arrivo, 6 siriani su 10 hanno trovato un lavoro che gli ha permesso di trasferirsi dai centri governativi a un appartamento privato. Un passaggio che è riuscito al 75% dei richiedenti asilo.

1,3 milioni di italiani tra 18 e 34 anni sono emigrati verso i Paesi UE e in Gran Bretagna

Questa scelta si è rivelata utile durante gli anni della pandemia. In quel periodo, l’associazione dei medici tedeschi ha “chiamato alle armi” i circa 14mila dottori di origine siriana arrivati nel Paese dal 2015 per sopperire alle carenze di personale sanitario. Molti di loro, però, non possedevano la licenza medica tedesca. Una difficoltà burocratica che è stata superata nell’ottica del bene comune.

Nel frattempo le regioni, per ovviare alla carenza di personale medico, selezionano professionisti dai Paesi in via di sviluppo. La Calabria, ad esempio, ha siglato un accordo con Cuba nel luglio del 2022 per il reclutamento di 497 medici. Anche il Lazio ha patti simili con Messico e Argentina. E persino la Lombardia – eccellenza italiana nel campo della sanità – è andata alla ricerca di personale in Argentina e Paraguay. «Speriamo di avere 500 infermieri in più – ha dichiarato il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana –per poter utilizzare meglio le nostre case di comunità». E infine la Sicilia, che fa un po’ da asso pigliatutto. L’isola ha selezionato 16 medici provenienti da Ucraina, Argentina, Cuba, Venezuela, Ecuador, Libia, Guinea. «Questo è soltanto l’inizio della strategia del mio governo di ricorrere a medici dall’estero per rimediare alla mancanza di personale sanitario, garantendo così il diritto alla salute ai siciliani», ha commentato Renato Schifani, presidente della Regione Sicilia. Il contributo dei migranti alla medicina italiana si fa sempre più deciso. Anche tra quelli di origine africana. Tanto che nel 2023 è stata fondata l’Associazione nazionale dei medici e sanitari africani in Italia (Amsai). L’organizzazione rappresenta professionisti attivi nel Paese di origine camerunense, somala, eritrea e togolese. Tra questi spiccano il presidente

dell’associazione, il ginecologo fiorentino di origini somale Omar Abdulcadir, e il vicepresidente e primario di cardiologia pediatrica all’ospedale di Parma, il camerunense Bertrand Tchana.

«Siamo cittadini italiani, professionisti e diamo il nostro contributo allo Stato italiano – ha commentato in un’intervista per La Repubblica Abdulcadir –, che ci ha accolto e di cui siamo diventati cittadini. Noi non avevamo nulla, nonostante ciò quando siamo arrivati qui anni fa abbiamo studiato, ci siamo laureati ci siamo inseriti».

«Come professionisti stiamo diventando fondamentali per il sistema sanitario italiano, che è un modello che andrebbe esportato nei Paesi in via di sviluppo, un patrimonio per i cittadini, che purtroppo si sta progressivamente perdendo e che si tende a svilire. Noi rappresentiamo persone che fanno parte di quel modello. La nostra associazione sarà veicolo di pace», ha concluso il vicepresidente Tchana. Nonostante gli sforzi per reclutare personale sanitario dalle aree meno sviluppate, manca ancora una strategia coordinata a livello nazionale che possa rispondere alle carenze di specialisti in modo efficace e sostenibile. L’iniziativa di regioni come Calabria, Lazio e Lombardia di reclutare medici dall’estero è un passo nella giusta direzione, ma non risolve il problema alla radice: la necessità di rendere il mercato del lavoro italiano più attrattivo per i propri professionisti.

L’Italia si trova di fronte a una doppia sfida: trattenere i suoi talenti e integrare efficacemente i nuovi arrivati. Affrontare queste criticità richiede una visione strategica a lungo termine, che includa riforme strutturali nel mercato del lavoro, investimenti nella formazione e nell’integrazione professionale, e una politica migratoria che sappia valorizzare le competenze dei nuovi cittadini. Solo così il Paese potrà trasformare le sue difficoltà in opportunità.

Centro di recupero per sm

I cellulari sono gli oggetti che sostituiamo più di frequente anche se funzionanti. Spesso finiscono dimenticati in un cassetto. Ecco cosa fare dei vecchi modelli

dal marketing aggressivo delle aziende e dalla continua innovazione tecnologica. Ma è davvero necessario sostituire i cellulari così frequentemente? Da un lato, i nuovi modelli offrono spesso miglioramenti in termini di prestazioni, fotocamere e durata della batteria. Tuttavia, molte delle funzionalità di un telefono nuovo non sono essenziali per l’utente medio.

e sono corredate da un sistema di controllo che avvisa gli operatori in caso di necessità di svuotamento.

Negli ultimi decenni, l’evoluzione tecnologica ha trasformato radicalmente il nostro modo di vivere, portando con sé una crescita esponenziale dei dispositivi elettronici. Questa innovazione ha un costo ambientale significativo: i Raee, ovvero i Rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche. Secondo i dati del Centro di Coordinamento Raee, nel 2021, sono state 378 mila le nuove Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (Aee) immesse sul mercato. In aumento del 27% rispetto al 2019. Ogni anno, milioni di tonnellate di questi rifiuti vengono generate in tutto il mondo. Si stima che nel 2022 siano stati raccolti 62 miliardi di chili di Raee. Una media di 7,8 chili a persona. Ma solo il 22,3% è stato smaltito in modo corretto. Gli smartphone costituiscono larga parte dei rifiuti elettronici. Molte persone cambiano il proprio dispositivo ogni due o tre anni, spinte

dove portare i dispositivi inutilizzati? Quando non si sa cosa fare dei “vecchi” telefoni spesso finiscono dimenticati in un cassetto. Invece di accumularli, esistono diverse opzioni ecologiche e pratiche per gestirli. Una prima soluzione è il riciclo: gli oggetti elettronici contengono materiali preziosi come oro, argento e rame, che possono essere recuperati e riutilizzati. In Italia ci sono oltre 4.500 punti di raccolta comunali per la raccolta differenziata dei Raee. Molti negozi di elettronica hanno contenitori dove poter conferire i dispositivi elettronici obsoleti. Inoltre, il consorzio senza scopo di lucro Ecolight dal 2015 sta sviluppando le Ecoisole per incentivare una raccolta di prossimità dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche di piccole dimensioni. Sono infatti posizionate in corrispondenza di grandi punti vendita, centri commerciali e luoghi di interesse pubblico, così da garantire una corretta gestione dei rifiuti elettronici. Le Ecoisole Raee sono cassonetti automatizzati: si aprono previa registrazione con la tessera sanitaria

Che fine fanno i vecchi dispositivi

Un’Ecoisola dove poter buttare i rifiuti elettronici (foto a destra). In alto, un punto di raccolta. Al centro, pile di smartphone in attesa di essere smaltite e recuperate in modo corretto

Altra strada è quella del ricondizionamento e della rigenerazione: molti vecchi smartphone possono essere ricondizionati e venduti come dispositivi usati. Questo processo include la riparazione, la pulizia e l’aggiornamento del software, rendendoli nuovamente utilizzabili e prolungandone la vita. Un’altra opzione è la donazione: se il telefono è ancora funzionante, considerare di donarlo a organizzazioni no-profit o a scuole può fare una grande differenza, fornendo accesso alla tecnologia a chi ne ha più bisogno.

Ultima soluzione è quella dell’upcycling: trasformare un vecchio smartphone in una videocamera di sicurezza domestica, un lettore musicale o un dispositivo di controllo per la domotica può essere un modo creativo per riutilizzarlo.

in italia la raccolta arranca

Nel 2019 l’Unione Europea ha fissato al 65% la soglia minima di raccolta dei Raee. L’Italia è ancora lontana dall’obiettivo. Anzi, a leggere i numeri, sta facendo passi indietro: dal 36,5% nel 2020, si è passati al 34,6% nel 2021 e al 34% nel 2022. La tendenza si conferma anche nel 2023. Il Centro di Coordinamento Raee documenta una flessione del 6% dei rifiuti gestiti rispetto al 2022. L’anno scorso sono state raccolte nel nostro Paese 349 mila tonnellate di Raee, contro le 361 mila del 2022.

Di Sara Leombruno

artphone

Anche diverse aziende si impegnano per evitare la sovrapproduzione di rifiuti elettronici. Gli esempi più conosciuti sono quelli di Apple o Samsung, che offrono programmi di recupero e riciclo per i loro dispositivi. Per il think tank Laboratorio Ref Ricerche tuttavia «servirebbero campagne di informazione e di comunicazione più efficaci ed estese, come nel caso dell’“uno contro uno” e “uno contro zero”». Due modalità di riconsegnare i dispositivi elettronici ai punti vendita. La prima prevede il ritiro gratuito di un Raee al momento della vendita di una nuova apparecchiatura della stessa tipologia, in sostituzione di una non più funzionante (per esempio, un frigorifero per un frigorifero, ma anche il cambio di un cellulare purché di equivalente funzionalità). È possibile lasciare il vecchio dispositivo direttamente in negozio al momento dell’acquisto. Il ritiro è gratuito ed è previsto anche con acquisto online e con consegna al domicilio. La seconda, invece, prevede l’obbligo per i distributori con superficie di vendita di Aee al dettaglio di almeno 400 mq, e la facoltà per gli altri distributori, di ritirare gratuitamente i Raee di piccolissime dimensioni (inferiori a 25 centimetri) provenienti dai nuclei domestici e conferiti dai consumatori, senza obbligo di acquisto di una nuova apparecchiatura. Ma il 64% dei cittadini non è a conoscenza del principio “uno contro uno” o lo conosce ma non l’ha mai utilizzato, mentre la percentuale sale al 77% nel caso del sistema “uno contro zero”.

COMPONENTI

Tre risorse da recuperare e riciclare

1. METALLI PREZIOSI

Gli smartphone contengono molti materiali preziosi che possono essere recuperati e riutilizzati. Tra questi, l’oro che viene usato nei circuiti stampati per le sue eccellenti proprietà conduttive. Stesso discorso vale per argento e rame, presenti nelle schede elettroniche e nei cavi elettrici. Questi metalli vengono estratti e riutilizzati in nuovi dispositivi, contribuendo a ridurre la necessità di estrazione mineraria.

COMPONENTI

2. ELETTRONICA

Tra gli altri elementi degli smartphone che possono essere recuperati ci sono diverse componenti elettroniche, come chip e processori. Se ancora funzionanti, possono essere riutilizzati in altri dispositivi o per la riparazione di smartphone ricondizionati. Stessa cosa per schermi LCD e OLED: questi possono essere riparati e impiegati in altri dispositivi, riducendo i costi di produzione di nuovi schermi.

3. MATERIALI DI BASE

Altri elementi che permettono un corretto riutilizzo parziale degli smartphone sono alcuni materiali di base che li compongono, come l’alluminio e la plastica. L’alluminio viene utilizzato nelle strutture esterne e nelle scocche, è facilmente riciclabile e può essere reimpiegato in vari settori industriali. La plastica, sebbene sia meno preziosa dei metalli, può essere riciclata e utilizzata per produrre nuovi oggetti.

Attenzione a come li smaltisci!

1. BATTERIE AL LITIO

Le batterie agli ioni di litio sono altamente inquinanti e richiedono un trattamento speciale. Se non smaltite correttamente possono causare incendi a causa della loro natura chimica instabile. Litio, cobalto e nichel possono essere recuperati attraverso processi di riciclaggio complessi e costosi. In questo modo si riduce l’impatto ambientale e diminuiscono le estrazioni di nuovi metalli.

2. SOSTANZE TOSSICHE

Piombo, mercurio e cadmio sono presenti in alcune componenti elettroniche degli smartphone. Il piombo è spesso utilizzato nelle saldature, mentre il mercurio può essere presente nei display a cristalli liquidi (LCD). Il cadmio è un componente di alcune batterie ricaricabili e pigmenti. Queste sostanze sono estremamente tossiche e, se non trattate con cura, possono contaminare il suolo e le falde acquifere

3. MATERIALI IGNIFUGHI

Le sostanze ignifughe bromurate sono utilizzate nei circuiti degli smartphone per prevenire incendi. Questi composti chimici, se rilasciati nell’ambiente, possono essere molto dannosi per la salute umana e la fauna selvatica, essendo persistenti e bioaccumulabili. Anche il vetro dei display degli smartphone deve essere smaltito con attenzione perché contiene ossidi metallici.

Green, ma a che prezzo

I motori elettrici azzerano le emissioni nocive in città, ma per avere auto a impatto zero servono processi produttivi e di smaltimento 100% sostenibili

Per estrarre una tonnellata di litio servono 500 mila litri d’acqua, pari alla produzione di 45 batterie da 75kWh. Le autovetture 100% elettriche sono al centro del dibattito sulla loro sostenibilità ed efficienza. E il problema non è il funzionamento, quanto la produzione e il ciclo di vita delle batterie che le alimentano.

Perché è innegabile che, in termini di emissioni dirette, tra motori a combustione ed elettrici non c’è confronto, ma la realtà è più complessa – e a tratti opaca – sul processo di generazione e smaltimento delle batterie al litio.

quanto inquina la produzione di Batterie?

Per poter rispondere alla domanda bisogna contrapporre le emissioni causate dalla raffinazione del petrolio a quelle provocate dalla produzione di accumulatori elettrici.

Secondo l’Agenzia per le informazioni energetiche statunitense (EIA) per dare origine a un litro di benzina serve circa 1kWh di energia, che porta all’immissione nell’atmosfera di 530 grammi di CO2. Quindi, facendo il pieno con 50 litri di benzina, già solo con questo più di 26 chili di anidride carbonica sono stati rilasciati in atmosfera, prima ancora di aver acceso un’automobile termica.

Dall’altra parte ci sono le emissioni di CO2 causate dalla produzione delle batterie per le vetture elettriche che derivano in gran parte dalla lavorazione dei materiali grezzi che vengono usati per produrre accumulatori.

Secondo un’analisi condotta dall’Environmental Protection Agency (EPA), la produzione di una batteria agli ioni di litio da 75 kWh, genera circa 7,5 tonnellate di CO2. Mentre per un altro studio, pubblicato su Nature Climate Change, l’estrazione e la lavorazione del litio e del cobalto contribuiscono significativamente alle emissioni totali, con un impatto che può superare i 350 chili di CO2 per ogni kWh. Sono però emissioni indirette, cioè prodotte dal processo di produzione che, attualmente, utilizza ancora per buona parte i combustibili fossili. È però certo che, negli anni a venire, la quota di energie rinnovabili sfruttate nell’industria sarà sempre maggiore, diminuendo quindi an-

che l’inquinamento indiretto delle auto elettriche.

e il fine vita?

La produzione di una batteria da 75kWh genera circa 7,5 tonnellate di CO2

La questione più spinosa che si sta affacciando sempre più nel dibattito attorno alla transizione verso l’elettrico è cosa fare delle batterie una volta che giungono alla fine della loro vita. Quello che preoccupa è lo smaltimento di elementi inquinanti recuperabili all’interno, ovvero litio, nichel, cobalto e manganese. I processi metallurgici moderni consentono di salvare oltre il 90% dei metalli ma in Europa sono al momento pochi i Paesi che dispongono di impianti per smantellare le batterie, maggiormente in Germania, Francia, Belgio e Spagna. E i costi sono non indifferenti: 4-4,5 euro al chilogrammo. Se, in media, le batterie pesano 250-300 chili, si parla di circa 1.200 euro a vettura. E anche qui si ritorna al tema delle emissioni indirette. Perché il processo di smaltimento viene effettuato in parte grazie ai combustibili fossili. Quindi se durante il loro utilizzo le vetture elettriche sono a impatto ambientale nullo, nel complesso del loro ciclo di vita non si può dire lo stesso. verso un “solido” futuro?

A livello globale, nel 2022 sono stati prodotti

7,6 milioni di autovetture elettriche, ovvero il 14% di tutte quelle vendute nel mondo. Finora, nelle batterie viene utilizzato un elettrolita (una sostanza che consente il transito della corrente elettrica) allo stato liquido. In un prossimo futuro gli elettroliti solidi potrebbero sostituirlo portando diversi vantaggi. In primis si ridurrebbero i rischi di incendi ed esplosioni perché si annullerebbero eventuali perdite di elettrolita liquido che è infiammabile. Anche la durata delle batterie ne beneficia, in quanto gli elettroliti solidi riescono a essere ricaricati molte più volte senza che subiscano un degrado significativo delle prestazioni. Si stima che dopo decine di migliaia di cicli carica/scarica le batterie allo stato solido mantengano il 90% della capacità di accumulare energia. Quelle tradizionali scendono al 7080% dopo qualche migliaio di cicli.

Questa tecnologia permette di allungare anche di tre volte la vita delle batterie, da una media di 200-300 mila chilometri attuali a oltre un milione.

Il tutto senza andare a modificare in modo importante i metodi produttivi. Di conseguenza, si ridurrebbe anche la domanda mondiale di accumulatori per auto, che nel 2022 è cresciuta del 65% rispetto al 2021. E un prodotto con una potenziale durata trentennale anziché di dieci anni consente di “spalmare” le emissioni di CO2 correlate alla produzione su un arco temporale maggiore, a tutto vantaggio dell’ambiente.

PACCO BATTERIE. I processi di trattamento consentono di recuperare il 90% dei metalli

ROTTAMAZIONE

Il costo (alto) per disfarsi di un’auto

Comparando i dati dell’Automobile Club d’Italia (ACI) e di alcuni centri di smaltimento e riciclo locali, rottamare un’auto termica può costare in media tra 300 e 800 euro.

Ma andiamo nel dettaglio. Il primo passo è trasportare il veicolo a un centro di smaltimento. Qui subentrano variabili come distanza e tariffe del servizio che possono essere sintetizzate in un range che va dai 50 ai 150 euro. Il secondo passo è mettere in sicurezza l’auto, rimuovendo materiali potenzialmente pericolosi. Generalmente, prima si rimuove la batteria (operazione che può costare tra i 20 e i 50 euro) poi si drenano e raccolgono i fluidi (carburante, olio motore, liquido di freni, radiatore e servosterzo), operazione che può oscillare tra i 50 e i 100 euro.

Nella fase successiva si smonta l’auto e si separano i materiali: motore, alternatore, starter, trasmissione, ferro, plastica, vetro e gomme. I costi variano a seconda di quantità e tipo di componenti che possono essere venduti o riutilizzati. Si può sintetizzare il tutto in un range che oscilla tra i 50 e i 200 euro.

Il passo successivo è la frantumazione della carrozzeria con macchinari specifici e magneti per separare i materiali non metallici da quelli metallici, raccogliendo ulteriori parti adatte al riciclo. Anche in questo caso i prezzi possono variare tra i 50 e i 150 euro. Ora bisogna pensare al riciclo. I metalli vengono fusi e riutilizzati, le plastiche selezionate e riciclate, i vetri di finestrini e fari riutilizzati. Discorso diverso per i rifiuti pericolosi, come i fluidi e le batterie, che vengono trattati e inviati in impianti specializzati.

I metalli: un’energia che non muore mai

Il programma HVBatCycle dimostra che gli elementi contenuti nelle batterie delle auto elettriche possono essere riutilizzati mantenendo inalterate le prestazioni

La Germania sta sperimentando un programma di riciclo multiplo delle batterie che consente di recuperare all’infinito gli accumulatori ormai giunti a fine vita. HVBatCycle è il nome del progetto che ha dimostrato come i metalli, l’elettrolita e la grafite prelevate dalle batterie esauste possono essere riutilizzati in più cicli per produrne di nuove. E l’aspetto sorprendente è che quegli stessi materiali mantengono inalterate le loro proprietà una volta riutilizzati. Quindi le prestazioni delle nuove batterie rimangono massime, dimostrando anche che il riciclo multiplo non ha alcuna influenza sulla qualità dei materiali.

nuove opportunità per l’ue

Questo apre una grande possibilità per l’Europa, continente costretto a importare le materie prime dal resto del mondo. Soprattutto visto che a partire dal 2035 nell’UE potrebbero essere venduti solo veicoli elettrici o a idrogeno. L’aspetto ancora più interessante è la relativa semplicità del processo che permetterebbe una rapida ed economica diffusione, caratterizzata da un basso fabbisogno energetico. Eppure oggi solo il 5% delle batterie dei veicoli elettrici viene riciclato. Il resto finisce in discarica. In media, la loro vita utile nel settore trasporti attualmente è di circa 10 anni. Ma quando gli accumulatori diventano poco adatti alla trazione – ovvero quando la loro

capacità di immagazzinare energia scende al 70% - le batterie possono essere reimpiegate per usi meno intensivi. Secondo Circular Energy Storage Research and Consulting, entro il 2030 più di 300 gigawattora di batterie in tutto il mondo non saranno più in grado di muovere un’auto e diventeranno pronti per il riutilizzo. Si tratta di un numero pari al consumo energetico di un anno per circa 75 mila famiglie di quattro persone.

fine viaggio ma non fine vita

Anche se non più atte al trasporto, le batterie possono trasformarsi in sistemi di stoccaggio stazionari. Per esempio gli impianti fotovoltaici domestici o industriali per immagazzinare l’energia in eccesso prodotta durante il giorno e utilizzarla la sera o per fronteggiare picchi di domanda nei consumi. Oppure le celle ancora performanti si racchiudono in “pacchetti” più piccoli sufficienti per alimentare elettrodomestici e sistemi di illuminazione.

Nel 2050 si stima che arriveranno a fine vita 17 milioni di batterie ogni anno. Equivalgono a 3,4 milioni di tonnellate di materiale da raccogliere, trattare e rimettere sul mercato. Nel 2023 la capacità di riciclo non superava le 80 mila tonnellate annue. Quindi è enorme lo spazio per creare quasi da zero una nuova industria che creerà ricchezza e occupazione. Solo il recupero e la rivendita dei metalli utilizzati (litio, nichel, cobalto) potrà valere almeno 6 miliardi di euro in Europa e non meno di 400-600 milioni in Italia. E creerà nuovo lavoro per decine di migliaia di addetti.

SOLUZIONI INNOVATIVE. I metalli contenuti nelle batterie possono essere riutilizzati all’infinito
“ROTTAMAT”. Vetture in demolizione

100 anni di obsolescenza

Nel 1924 le prime lampadine cotruite per durare meno

della loro vita utile. Un secolo dopo molti prodotti sono ancora progettati per invecchiare prima del dovuto

Ginevra, 24 dicembre 1924. I più grandi produttori di lampadine si riuniscono nell’associazione Phoebus, un vero e proprio “cartello dell’illuminazione”. L’obiettivo? Creare oggetti fatti per non durare.

«La vita media delle lampadine non può essere garantita, dichiarata o pubblicizzata per valori superiori alle 1.000 ore», recita un loro documento del febbraio 1925, periodo in cui una ne durava fino a 2.500.

Nasce l’obsolescenza programmata. Dentro Phoebus – la forma inglese per il dio del Sole Apollo – c’era la tedesca Osram, l’olandese Philips, l’ungherese Tungsram, la francese Compagnie des lampes e l’italiana Società

Edison Clerici. Tutte in accordo con la General Electric americana. Esattamente un secolo dopo, nel 2024, l’obsolescenza programmata –la pratica di accorciare volontariamente la durata degli oggetti – è un fenomeno che genera spreco e inquinamento in molti settori industriali, soprattutto in quello dell’elettronica.

un “equatore” di rifiuti

Gli e-waste (“rifiuti elettronici”) sono in costante crescita da almeno un decennio. Secondo il Global e-waste monitor, nel 2022 si sono prodotti 62 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, l’82% in più rispetto al 2010. E si stima che entro il 2030 gli e-waste generati in un anno raggiungeranno gli 82 milioni di tonnellate (+32%). Per comprendere l’enormità di questa cifra, sarebbe come riempire 1,55 milioni di camion da 40 tonnellate. Così tanti che se li mettessimo in fila, paraurti contro paraurti, formerebbero una linea che circonda l’equatore.

Di questa massa di “spazzatura tech”, solo il 22,3% è stato correttamente riciclato. Una percentuale che – sempre secondo il rapporto – scenderà al 20% nel 2030, «a causa della crescente differenza negli sforzi di riciclaggio rispetto all’aumento sconcertante della produ-

Auto colorata, concorrenza sbaragliata

Negli anni ’20 Alfred Sloan, capo della General Motors, deve combattere lo strapotere della Ford Model T, la prima vera auto di massa. Nel 1922 il 51% degli americani ne possiede una. Il veicolo in sé, per i tempi, è perfetto, ma Sloan nota che manca qualcosa: il colore. Le Ford Model T sono solo nere. Un motto di Henry Ford, difatti, è: «Date al cliente un’auto di qualsiasi colore, a patto che sia nera». Sloan, invece, adotta la strategia di «offrire un’auto per ogni borsa, esigenza e personalità». Ogni 2 o 3 anni escono nuovi modelli e nuovi colori con modifiche marginali, che fanno apparire “vecchie” le vetture in circolazione (vi ricorda qualcosa?).

E se una Ford dura decenni, le macchine della General Motors hanno un ricambio molto più rapido. Tra il 1920 e il 1923, infatti, la produzione della Ford crolla dal 55% al 12% del mercato statunitense. Mentre General Motors diventa il primo produttore di auto negli USA. Un’auto che dura decenni, d’altronde, è bella solo per chi la compra.

zione di rifiuti elettronici in tutto il mondo». Il report sottolinea che se i Paesi riuscissero a portare i tassi di raccolta e riciclaggio di questi rifiuti al 60% entro il 2030, «i benefici – anche attraverso la minimizzazione dei rischi per la salute umana – supererebbero i costi di oltre 38 miliardi di dollari».

Lo spreco maggiore riguarda le batterie di telefoni e computer. L’associazione tedesca Bitkom ha scoperto in un sondaggio che il 75% degli intervistati ha sostituito il proprio smartphone a causa del deterioramento della batteria.

In questo senso, nel 2017 il quotidiano inglese The Guardian ha rivelato il cosiddetto BatteryGate. Apple, con gli aggiornamenti al nuovo sistema operativo, rallentava intenzionalmente gli iPhone meno recenti.

Poco dopo è arrivata anche l’ammissione da Cupertino, che sarebbe poi stata multata negli USA per 113 milioni di dollari.

vestiti “oBsoleti”

Non solo elettronica. L’obsolescenza programmata da anni ha raggiunto anche il mondo della moda.

In questo caso, la pratica riguarda la produzione di abiti con una durata limitata, sia attraverso materiali di bassa qualità, sia creando un trend breve che sarà rapidamente sostituito dal successivo.

Stando a una pubblicazione di Springer Science del 2014, il ciclo di vita di vestiti e accessori si è ridotto del 50% tra il 1992 e il 2002. Al centro del problema, l’industria del fast-fashion, con marchi come Zara e H&M che iniziavano in quegli anni il loro sviluppo aziendale.

In Timeout for fast-fashion, pubblicato da Greenpeace, si è calcolato che già nel 2016 una persona comprava circa il 60% in più di abiti all’anno, conservandoli in media la metà rispetto a 15 anni prima.

Nello stesso report si vede come annualmente in Europa vengano generati circa 2 milioni di tonnellate di abiti usati. Di essi, solo il 12% è rivenduto. Il resto viene esportato nel sud del mondo.

Comprare di più, spendere di meno: il nuovo diktat della moda alla portata di tutti. Non per niente nell’industria del fashion si dice: “le tendenze di oggi sono la spazzatura di domani”. Una spazzatura che non possiamo più permetterci di accumulare.

la regolamentazione ue

E vanno in questa direzione molte delle normative dell’Unione Europea approvate negli ultimi anni. Come il regolamento pubblicato dal Consiglio UE, che ha imposto alle aziende di progettare tutti gli smartphone con batterie rimovibili e rimpiazzabili entro il 2027. Inoltre, dal 2024 la porta Usb-C è l’unica consentita in Europa per i caricatori di cellulari e tablet. Un obbligo che, dal 2026, si estenderà anche ai personal computer.

STORIA DEL MARKETING

Ricompro? No, riparo

L’Unione Europea ha approvato due direttive per rendere i prodotti più sostenibili e i pezzi di ricambio facilmente accessibili

Il diritto alla riparazione è pronto a diventare una legge. Il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza la normativa dedicata all’elettronica, compiendo un altro passo verso l’obiettivo di realizzare un modello di economia circolare entro il 2050, nel quadro del Patto Verde europeo.

l’ue mette il turBo

Con 584 voti a favore, 3 contrari e 14 astensioni, la nuova legge renderà più semplice ed economico riparare i dispositivi difettosi anche dopo la scadenza della garanzia. Il prossimo passo è l’adozione da parte del Consiglio europeo, dopodiché gli Stati membri avranno 24 mesi per integrare la direttiva nel loro ordinamento nazionale. Parallelamente, il Parlamento ha approvato anche il testo sull’Ecodesign, un ulteriore passo verso la realizzazione del Green Deal europeo. Mentre l’Ecodesign si focalizza sull’abbigliamento, il diritto alla riparazione riguarda i beni di consumo.

sprechi su sprechi

Un’indagine condotta nel 2020 da Eurobarometro fa sapere che il 77% dei consumatori dell’UE preferirebbe riparare i propri beni piuttosto che acquistarne di nuovi, ma alla fine decide di sostituirli o scartarli a causa degli elevati costi di riparazione. Secondo i dati

della Commissione europea, infatti, i cittadini del Vecchio Continente spendono 12 miliardi di euro all’anno per cambiare i prodotti anziché aggiustarli. Dal punto di vista ambientale, questo comportamento genera 261 milioni di tonnellate di emissioni di CO2, consuma 30 milioni di tonnellate di risorse e produce 35 milioni di tonnellate di rifiuti ogni anno. La nuova normativa sulle riparazioni mira a ridurre questi numeri, fornendo indicazioni precise ai produttori.

i dispositivi riparaBili

La direttiva si applica ai “beni di consumo” come definiti dalla direttiva UE 771 del 2019, includendo qualsiasi bene mobile materiale, compresi quelli interconnessi con contenuti o servizi digitali. Questo comprende, potenzialmente, ogni oggetto della vita quotidiana, con particolare attenzione ai dispositivi elettronici e agli elettrodomestici.

Un altro ostacolo a un consumo più sostenibile è l’obsolescenza: alcuni prodotti sono progettati per guastarsi dopo un certo tempo di utilizzo. In alcuni casi, i componenti dei dispositivi sono assemblati in modo tale da non poter essere rimossi e sostituiti. Ora, però, beni come lavatrici, lavastoviglie, televisori e smartphone, spesso rimpiazzati per piccoli difetti a causa dei costi di riparazione elevati, saranno più facili da aggiustare. Produttori e fornitori dovranno fornire le informazioni necessarie e offrire assistenza a un «costo ragionevole». Inoltre, dovranno rendere disponibili i pezzi di ricambio anche ai centri di assistenza terzi. Ad accogliere favorevolmente la normativa, la coalizione Right to Repair Europe, che l’ha definita «un passo nella giusta direzione», ma ha anche eviden-

ziato alcune criticità. Tra queste, la definizione di «costo ragionevole» appare troppo vaga e non fa riferimento ai prodotti industriali o per le imprese, concentrandosi invece su dispositivi già soggetti a requisiti di riparabilità per 5-10 anni.

sempre più importanza al ricondizionato

Una novità importante del diritto alla riparazione riguarda l’abolizione del divieto di utilizzare componenti creati in modo indipendente o con la stampa 3D. I produttori ufficiali non potranno più rifiutare ulteriori riparazioni su dispositivi già manipolati da terzi. La direttiva promuove anche il mercato del ricondizionato, offrendo ai consumatori la possibilità di scegliere un prodotto ricondizionato al posto di uno nuovo se la riparazione non è fattibile.

Alcuni componenti sono assemblati in modo tale da non poter essere rimossi e sostituiti

tempi e modalità di applicazione

Un altro aspetto rilevante riguarda le garanzie: infatti, scegliendo di aggiustare anziché sostituire, il consumatore avrà diritto a un anno di garanzia aggiuntivo sul prodotto. Le riparazioni dovranno essere completate entro 30 giorni, con la possibilità di ricevere un dispositivo sostitutivo durante il periodo di sistemazione.

La Commissione europea lancerà una piattaforma online per permettere ai cittadini di trovare i centri di riparazione più vicini e i venditori di prodotti usati. Ogni Stato membro dovrà invece creare un proprio sito locale per aiutare le persone a scegliere l’opzione più conveniente.

Infine, l’Unione Europea metterà anche a disposizione un modulo, di cui non è obbligatorio l’uso, per facilitare l’avviamento delle riparazioni dei dispositivi elettronici.

ELETTRONICA. Un’attenzione particolare è riservata a smartphone ed elettrodomestici
30 GIORNI. Gli interventi devono essere completati entro un mese
PREZZI CALMIERATI. Produttori e fornitori devono offrire assistenza a costi ragionevoli

Emanuela Prandelli

Docente di Fashion and Luxury Management - Bocconi

Migliaia di tonnellate di magliette, pantaloni, camicie e abiti d’ogni tipo: una montagna di indumenti, usati o invenduti, si staglia tra le dune del deserto di Atacama, nel nord del Cile. L’enorme discarica illegale, come tante altre sul pianeta, è solo uno degli effetti perversi di un fenomeno cominciato negli anni ‘80 ed esploso verso la fine del decennio successivo: il fast fashion. Un fenomeno che si potrebbe sintetizzare nella formula della “moda usa e getta”. Si tratta, cioè, di «quel segmento del mercato dell’abbigliamento che realizza capi di qualità ridotta a prezzi particolarmente competitivi». Così lo definisce Emanuela Prandelli, docente di Fashion and Luxury Management presso l’Università Bocconi di Milano. Un modello di business che ha decretato il successo di aziende come H&M, Zara, Primark e Bershka, con una caratteristica chiave: «quella di lanciare collezioni ripetute che si susseguono su tempi molto brevi, dunque abbandonando la logica delle “stagioni” che era tipica del passato».

Certo, il fast fashion rappresenta una forma di democratizzazione della moda, in quanto rende accessibili prodotti e tendenze prima riservati alle fasce più ricche della società. Dall’altro lato, però, si configura come uno spreco di dimensioni epocali. I consumatori – sottolinea Prandelli – vengono infatti spinti «a fenomeni di over-consumption», cioè «all’acquisto continuo di capi che vengono indossati un numero di volte spesso limitato», e che presto vengono buttati via. Il tutto con un impatto devastante sull’ambiente, tra dispersione di microplastiche negli oceani, emissioni di gas serra, consumo di acqua e danni alla respirazione. Un impatto che rischia di aumentare, malgrado le contromisure prese da alcune aziende. Perché il settore, come ricorda Prandelli, è in crescita continua.

A che valore ammonta il mercato del fast fashion?

Le statistiche offrono numeri non sempre coincidenti. Statista, ad esempio, stima un valore di 123 miliardi di dollari al 2023, che saliranno a 136 miliardi nel 2024. Un’ulteriore crescita dovrebbe portare il settore, nel 2027, intorno ai 185 miliardi: un incremento di circa il 50% in quattro anni.

Quest’impennata è dovuta a nuovi fenomeni come la cinese Shein?

È dovuta anche a quello. Perché negli ultimi anni è emerso un nuovo modello di business nel fast fashion. Quello più “classico” – per quanto si tratti di un fenomeno comunque recente – è quello di Zara o H&M. Sono player che nascono da competenze di natura retail e logistica, e che quindi si caratterizzano per una distribuzione estensiva, con una catena di punti vendita fisici. Più di recente è comparsa una nuova categoria di operatori, quelli del cosiddetto “super fast fashion”, come Shein e Temu.

In cosa differiscono dal modello “classico”?

Si distinguono per una presenza puramente online e per una maggiore velocità di rilascio di collezioni a cicli sempre più contratti nel tempo e a prezzi particolarmente bassi. La chiave del loro successo è una capacità legata all’e-commerce e al social media marketing.

Cioè alla profilazione degli utenti?

Esatto. Questi player sono in grado di acquisire una mole smisurata di dati e di utilizzare capacità predittive, così da suggerire outfit che rispondono in maniera sempre più mirata alle esigenze degli individui.

Ma qual è l’impatto del fast fashion sull’ambiente?

L’industria della moda in generale è una di quelle che più contribuisce all’inquinamento. Secondo le stime del-

le Nazioni Unite, assorbe circa un quinto dei 300 milioni di tonnellate di plastica prodotte ogni anno e conta circa per il 10% delle emissioni globali. Di questa percentuale, la componente imputabile al fast fashion è di gran lunga la più importante, proprio in virtù dei cicli produttivi particolarmente serrati che caratterizzano il settore.

In quale fase della produzione si concentrano i rischi per l’ambiente?

Il problema si estende lungo tutta la catena del valore. L’impatto ambientale comincia a monte, con la scelta delle materie prime: per scendere lungo la curva dei prezzi vengono utilizzati materiali che non necessariamente hanno un’origine naturale.

E poi?

Dopo la scelta degli ingredienti di partenza il problema si estende nel processo di lavorazione: per contenere i costi, non c’è garanzia che siano utilizzati componenti che rispettino l’ambiente e la salute degli esseri umani. E al di là dell’impiego di colori chimici e solventi, la produzione rapida genera comunque un elevato consumo di risorse naturali, in primis l’acqua. Questi effetti si moltiplicano per via dell’elevata quantità di capi prodotti e immessi sul mercato.

Quanto invece all’ultima fase, quella dello smaltimento?

La continua fabbricazione di abiti genera una tensione anche sul processo di smaltimento. Secondo una ricerca del The Guardian, a livello globale vengono realizzati circa 150 miliardi di capi d’abbigliamento all’anno: una porzione tra il 10% e il 40% di questi rimane invenduta e viene perlopiù distrutta. Meno dell’1% viene riciclato in nuovi articoli. Solo in Europa i cittadini consumano ogni anno quasi 26 chilogrammi di prodotti tessili e ne smaltiscono 11. Sono stime che riguardano la moda in generale, ma la componente principale è imputabile al fast fashion.

Che fine fanno i capi da smaltire?

fast fashion maggiori garanzie in termini di impatto sulle risorse ambientali e di sicurezza dei capi, ad esempio domandando che non vengano impiegati materiali tossici per il corpo. Gli operatori con una tradizione più consolidata stanno dunque rivedendo i processi produttivi e le modalità di smaltimento. Abbracciando anche fenomeni di circolarità e dunque incentivando la restituzione dei capi in negozio.

Ad esempio?

Inditex si è impegnata a eliminare la plastica monouso e a utilizzare l’80% di energia da fonti rinnovabili per i propri magazzini e uffici. A ciò si aggiunge l’obiettivo di promuovere il riciclo degli indumenti usati.

Le forme di “second hand market” rappresentano un aiuto in questo senso?

Sicuramente si stanno cominciando a sviluppare anche nel fast fashion. Operatori come Vinted e Depop cominciano a introdurre dimensioni di circolarità che si sono affermate con modelli come Vestiaire Collective in segmenti di mercato di fascia più alta. Questi meccanismi danno la possibilità di estendere la vita di prodotti che troppo spesso vengono concepiti secondo logiche di consumo quasi istantaneo e usa e getta.

Ma la crescente attenzione per l’ambiente riguarda anche le aziende del super fast fashion?

La ricerca del basso costo non è solo sulla produzione, ma anche sullo smaltimento emanuela prandelli

La ricerca del basso costo non è solo sulla produzione, ma anche sullo smaltimento: grandissime quantità di abiti vengono trasportate in Paesi come il Bangladesh e il Cile, dove si vanno ad accumulare e attendono di essere smaltite in modi più o meno leciti.

Ma esistono aziende attente alla questione dell’impatto ambientale?

Nel mondo della moda esistono alcune best practice, ma sono soprattutto brand di lusso come Brunello Cucinelli: aziende che si distinguono per il rispetto di tutte le dimensioni Esg, cioè Environmental, social and governance” (ndr. i tre aspetti da prendere in considerazione per valutare l’impegno in termini di sostenibilità). La loro attenzione non è dunque solo ambientale, ma anche sociale: interessa la qualità di vita dei lavoratori, gli stipendi, la gestione del tempo. Nel fast fashion è più difficile parlare di “aziende virtuose”, però oggi comincia a imporsi un certo ripensamento delle pratiche: i player più tradizionali hanno iniziato a rivedere le loro strategie e i loro modelli di produzione.

È l’effetto di una nuova sensibilità, più attenta alle tematiche ambientali?

È un tentativo di intercettare un’esigenza che comincia a emergere nei consumatori target, ossia le generazioni più giovani, che mostrano una certa consapevolezza sulla scia di movimenti come i Fridays for Future di Greta Thunberg. Di conseguenza, oggi chiedono alle catene del

Questi operatori mostrano comportamenti più aggressivi e forse devono compiere ancora qualche passo per avvicinarsi a questo nuovo tipo di sensibilità.

La cosiddetta “moda sostenibile” è una mera opera di greenwashing?

Bisognerebbe disporre di dati che consentano di stimare qual è la percentuale effettiva di capi immessi sul mercato che rientra in un meccanismo di circolarità.

Comunque l’intenzione è buona, la direzione è corretta, ma bisogna ancora lavorarci, anche dal punto di vista dell’education del consumatore. Qui bisogna fare una distinzione.

Ovvero?

Sicuramente c’è un consumatore più evoluto, anche nella generazione Z, che ha cominciato a prestare attenzione alle questioni ambientali e a prendere le distanze da fenomeni come Shein. Ma è altrettanto vero che ci sono Paesi a basso reddito pro-capite dove la generazione Z, grazie a Internet, è molto sensibile ai trend: pur di avere capi alla moda è ancora disposta a chiudere un occhio sulle implicazioni ambientali.

E come si sta muovendo il legislatore nazionale ed europeo?

Le Nazioni Unite hanno messo a punto un programma ambientale per sensibilizzare sul tema delle emissioni e del consumo di acqua. L’Italia sta rivedendo la propria normativa e in generale l’Unione europea è particolarmente attenta su questo fronte.

Alla luce di tutto ciò come cambieranno le nostre scelte di acquisto?

Al netto di un ripensamento dei modelli di business, questa crescente sensibilità nei confronti dell’ambiente rappresenta un’opportunità per il mondo del lusso, per riappropriarsi di un terreno che il fast fashion aveva in qualche misura cercato di scalfire. E poi, l’attenzione per l’ambiente comporterà una maggiore consapevolezza nella scelta dei capi che entrano nel guardaroba del consumatore.

DISCARICA.

La montagna di vestiti nel deserto di Atacama, in Cile

EMANUELA PRANDELLI

Insegna Fashion and Luxury Management all’Università Bocconi di Milano. È direttrice del Master in Fashion, Experience & Design Management. Ha vinto premi internazionali, tra cui l’Accenture Award 2001

FRA TERRA E CIELO

Da sinistra: un autoblindo B1 Centauro, che resterà in servizio ancora molti anni; il prototipo dell’AW-249 Fenice durante il primo volo nel 2022; alcuni mezzi abbandonati nel deposito di Lenta

Armi, terapia antirugg

Mentre il mondo militare spinge verso il rinnovamento, le armi italiane invecchiano. Ma la loro dismissione è la strada giusta da seguire?

Di Umberto Cascone

L’Italia, nel 2024, investirà 8,16 miliardi di euro in armamenti. È questo il dato che emerge dal Documento Programmatico Pluriennale 2023-2025 del Ministero della Difesa. I progetti militari del nostro Paese procedono a pieno regime, accompagnati dal tifo da stadio di chi li ritiene uno spreco di risorse umane ed economiche e di chi, invece, vorrebbe vederli aumentare sempre di più. Ma scostando il sipario delle contrapposte propagande ideologiche e politiche si scopre uno scenario assai complesso, fatto soprattutto di programmi vecchi mantenuti in servizio con ingenti spese.

Possibile che, in un mondo sempre più teso, i vertici politici e militari non sappiano evitare la dispersione di risorse già scarse?

la forza dei numeri

In realtà, se è vero che ci sono armi e veicoli vecchi che ci ostiniamo a mantenere in servizio, questo non è per forza un male. «Nello sce-

nario odierno non ci possiamo permettere di buttare via nulla», sostiene Pietro Batacchi, direttore di RID (Rivista Italiana Difesa). «Oggi il focus deve essere la sostenibilità di uno strumento militare che, accanto all’iper-sofisticazione, deve fare molto affidamento anche sulla massa. Ecco perché gli armamenti più vecchi, se mantenuti efficienti e modificati in maniera opportuna, possono rivelarsi determinanti». La guerra in Ucraina, in questo senso, ci fornisce una lezione chiarissima.

Il semplice ricorso alla forza bruta, alla quantità, da parte della Russia non è stato sufficiente a spezzare gli alti livelli di tecnologia e specializzazione ucraini. E viceversa. Anche il nostro Paese, secondo Batacchi, dovrebbe tenerne conto. Fino a pochi anni fa, quando un determinato sistema veniva ritirato dal servizio, era abbandonato in deposito in attesa di demolizione o vendita a Paesi terzi. Emblematico è il centro di stoccaggio dell’Esercito a Lenta (Vercelli), che nei primi anni 2000 conservava quasi tremila veicoli militari dismessi, condannati alla ruggine e alla pioggia. Oggi questa dottrina non è più sostenibile.

zione e sviluppo procedono bene – continua Batacchi – stiamo portando avanti una serie di progetti che vanno nella giusta direzione». Il riferimento è alla prevista sostituzione di equipaggiamenti antiquati con altri più all’avanguardia. In primis per l’Esercito, che tra tutte le forze armate soffre da anni un’eccessiva usura delle dotazioni e dei veicoli. Il 2023 è stato uno spartiacque, con l’invio ai reparti dei primi blindati pesanti Centauro II e grandi passi nello sviluppo di nuove piattaforme, dai carri armati Ariete ammodernati al futuro elicottero da combattimento AW-249 Fenice.

Gli armamenti più vecchi, se modificati in modo opportuno, possono rivelarsi determinanti

Per arrivare alla piena operatività dei nuovi sistemi, però, occorrono anni. Anni in cui il Paese è costretto a cavarsela con ciò che ha. Questi periodi dovrebbero essere sfruttati per accelerare i processi di progettazione e sviluppo, così da ottimizzare tempi e costi. Ma in Italia una certa miopia programmatica rischia di generare sprechi enormi. Batacchi è lapidario: «Mi continuano a preoccupare le bassissime spese di esercizio del bilancio della Difesa».

In fondo, guardando ai dati, quegli 8,16 miliardi di investimenti sono la somma complessiva.

tecnologia e carenza di fondi È pur vero che la sola quantità non basta. A fronte di armi obsolete, l’Italia sta spingendo per un lungo e complicato processo di modernizzazione. «I nostri programmi di acquisi-

La cifra per l’avvio di nuovi programmi è molto inferiore: 444 milioni di euro nel 2024, poco più del 5% del totale dei finanziamenti. Il disagio è evidente soprattutto ai militari, costretti a cavarsela con sistemi e armamenti

ine cercasi

ormai superati.

Il caso esemplare è il veicolo da combattimento per la fanteria VCC-80 Dardo.

Della sua inadeguatezza ai moderni scenari bellici si parla da almeno 15 anni, eppure il progetto per il suo successore (denominato A2CS, Army Armored Combat System) sembra aver ingranato davvero solo nel 2023, dopo diversi rinvii.

Se i fondi non mancheranno, i primi esemplari dovrebbero entrare in servizio attorno al 2035. Fino ad allora dovremo fare leva su altre capacità.

rinnovamento industriale

Ma dallo spreco apparente può sgorgare nuova linfa vitale. Nell’ultimo anno si è molto parlato dell’acquisizione, al modico prezzo di 8 miliardi di euro, di 135 carri armati Leopard 2 A8. Il veicolo, studiato in Germania, doveva essere prodotto su suolo italiano, prima che in giugno saltasse l’accordo con la casa madre. Ora la scelta potrebbe ricadere sul KF-51 Panther. Da più parti, anche in Parlamento, si è gridato allo scandalo. Non solo il mezzo non è al 100% made in Italy, ma addirittura servirà solo a colmare gli organici dei reggimenti corazzati fino al 2040, quando dovrebbe entrare in linea il nuovo MGCS (Main Ground Combat System, progetto congiunto franco-tedesco a cui Roma vuole aggregarsi).

Nello stesso periodo resterà operativo il vecchio Ariete, da molti considerato superato e obsoleto. È vero, il nostro carro armato ha i suoi anni e non regge il confronto con altri sistemi occidentali, ma dal 2019 è in corso un

intenso rinnovamento: 90 veicoli saranno aggiornati alla nuova variante C2, più adatta ad affrontare i campi di battaglia contemporanei. Il vero vantaggio di questo programma è però un altro: «La modernizzazione dell’Ariete –spiega Batacchi – ha permesso di riattivare tutta una serie di capacità e di competenze fondamentali nel settore terrestre. Senza questo investimento, anche economico, ci si dovrebbe accontentare della mera produzione su licenza di mezzi altrui».

Dunque non si tratta di soldi buttati. Tenere in vita piattaforme anziane garantisce costanti capacità operative e fornisce stimoli all’industria. Alla fine dei giochi, dice Batacchi, «con ogni progetto, vecchio o nuovo, si fa un investimento in tecnologia che avrà dei ritorni». Questo vale, come già ricordato, solo in presenza di una buona programmazione a lungo termine.

È qui, secondo il direttore di RID, che il nostro Paese sembra avere ancora dei problemi: «La guerra in Ucraina non ci ha insegnato nulla. Lo si vede anche nei piani di approvvigionamento. Non ci sono contratti a lungo termine con grosse componenti logistiche, pezzi di ricambio e assistenza».

Il motivo? Miopia, forse. O mancanza di fondi. L’obiettivo del 2% del Pil in spese militari, richiesto dalla Nato e che garantirebbe maggiori spazi di manovra, è ancora lontano. Forse in questo si annida il nostro spreco.

Uno spreco non economico, ma mentale: non ci si vuole arrendere alla fine definitiva della pace che sembrava aver permeato il mondo negli ultimi 30 anni.

I CASI Quelle vecchie armature per nuove sfide

1. UN DARDO ORMAI SPUNTATO

Il VCC-80 Dardo, entrato in servizio nel 2002, è da sempre oggetto di aspre critiche per la sua arretratezza e scarsa protezione. In attesa che venga sostituito dal programma A2CS, alcuni analisti propongono la conversione dei veicoli attuali in lanciatori di droni kamikaze o in “esche” radiocomandate (Israele lo ha già fatto con i vecchi M-113).

2. A COLPI DI ARIETE

In linea dal 1995, il carro armato made in Italy è ormai superato. Dei 200 prodotti, meno della metà sono ancora operanti. Eppure il programma di ammodernamento, iniziato nel 2019, ha generato un veicolo in grado di resistere ancora alcuni anni, aiutando anche l’industria a riprendere confidenza con questo genere di armamenti.

3. IL TYPHOON BATTE IL FULMINE F-35

Spina dorsale dell’Aeronautica Militare, l’Eurofighter rischiava di essere spodestato dal modernissimo F-35 Lightning. Ma nonostante le innovazioni, all’assai costoso velivolo americano l’Italia continua a preferire il nostrano Typhoon. Al punto che ne ha ordinati altri 24. Segno che l’anzianità non è sempre un difetto.

UN MONDO A FERRO E FUOCO

1

MALESIA

Il denaro dalla spazzatura

Da fine 2017 – quando la Cina ha vietato l’import di rifiuti grezzi esteri – Kuala Lumpur è il principale porto di attracco per l’immondizia di tutto il mondo. Da sola la Malesia avrebbe raccolto il 20% di tutti i rifiuti plastici provenienti dai principali Paesi mondiali. Con enormi danni per la salute: +30% di malattie respiratorie in soli sette anni. Ma immondizia equivale a denaro, per questo proliferano attività non autorizzate di riciclo.

2

GHANA

La più grande discarica di Raee al mondo

Ad Agbogbloshie, nelle periferie della capitale Accra, sorge la più grande discarica al mondo di Raee. Raccoglie quasi 250 milioni di tonnellate di rifiuti. Quasi il 90% viene dall’Europa,

FINLANDIA

nonostante i divieti imposti dalla Convenzione di Basilea all’export di immondizia nei Paesi in via di sviluppo. Ci vivono e lavorano oltre 70mila persone, per lo più minori e pagati 3 dollari al giorno.

3

HAITI

Uno dei luoghi più pericolosi del globo

Si estende per 100 ettari e ingoia 100mila tonnellate di nuovi rifiuti al mese. La discarica di Trutier, nei pressi di Portau-Prince, è tra i luoghi più pericolosi al mondo. I fumi, l’umidità e le piogge la rendono ambiente perfetto per epidemie di colera, infezioni e problemi respiratori cronici. Gli incendi

Radiazioni nascoste sotto le onde Cemento-metallo-cemento. Una tripla matrioska per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Fino al 2023. Poi la novità dalla Finlandia. Sotto la roccia dell’isola di Olkiluoto sorgerà il primo deposito in profondità. Si chiamerà Onkalo (“cavità”) e i suoi 50 km di tunnel correranno a quasi 500 metri sotto la superficie. Qui le scorie saranno protette da fusti in rame e ghisa e dalla betonite. Elementi che – almeno in teoria – dovrebbero garantire una conservazione sicura per 100mila anni.

divampano 24 ore su 24. Per cancellare tracce di qualunque attività e per far spazio ad altra immondizia.

4

ITALIA - CAMPANIA

La “Terra dei fuochi originale” Oltre 2 milioni di persone e 57 comuni tra Napoli e Caserta sono colpiti. Interramento, discariche abusive e roghi per un totale di circa 3mila siti. È questa l’originale Terra dei fuochi.

Nel 2024 il Viminale ha messo a disposizione dell’area 1,5 milioni di euro per «rafforzare la tutela dell’ambiente».

Una goccia nell’oceano dei 20mila reati ambientali che avvengono ogni anno nello Stivale.

5

ITALIA - LOMBARDIA

Una pianura non troppo verde Fiamme e veleni trovano ampio spazio anche al Nord. L’autostrada A4 Torino-Venezia e la capillare rete ferroviaria fungono da bretella per lo spostamento dei container. In Lombardia sono 1.800 i siti contaminati, molti dei quali nel bresciano. Nella zona di Montichiari si parla di oltre 30 milioni di tonnellate di scorie, che talvolta arrivano fin dall’Australia. Ma non è risparmiato neanche l’hinterland di Milano.

TUNISIA

Il colonialismo dei rifiuti

Sousse, sulla costa est del Paese, è meta prediletta per il traffico illecito di rifiuti. Sei elettrodomestici su dieci vengono caricati su navi e trasportati nel continente africano. Solo in Italia, ogni anno sono sequestrate più di 7mila tonnellate di metalli pesanti, mercurio e piombo diretti oltre il Mediterraneo. È il concetto di waste colonialism: esportare gli scarti nei Paesi più poveri con meno legislazioni e regolamenti.

7

INDONESIA

Immondizia multicolore

Una collina a terrazzamenti, ma di verde neanche l’ombra. Al contrario, un ammasso multicolore di immondizia di ogni genere che arriva a sfiorare i 50 metri di altezza. La discarica di Bantergebang, a Giava, è ritenuta la più estesa al mondo. Grande come 200 campi da calcio, riceve 7mila tonnellate di rifiuti ogni giorno. E ci lavorano oltre 350mila raccoglitori, per dirla in indonesiano pemulung

8

SVEZIA

Un fuoco... ma non per riscaldare

Tutto parte da un’indagine durata tre anni. Think Pink, azienda di smaltimento dell’ex star a luci rosse Bella Nilsson, è smascherata: 200mila tonnellate di rifiuti cui veniva sistematicamente dato fuoco in 21 località della Svezia centrale. In più, il sospetto che altre 10mila tonnellate siano interrate non si sa dove. Nelle parole del procuratore capo Anders Gustafsson: «Il più grande crimine ambientale del Paese».

9

EGITTO

Una città di spazzatura

Nei quartieri ovest del Cairo sorgono le palazzine di Manshiyat Nasser. Il sobborgo è noto per la sua baraccopoli all’estremo meridionale. In Garbage city – così è soprannominata –sono processate oltre 14mila tonnellate di immondizia ogni giorno, la quasi totalità dei rifiuti della capitale. Un meccanismo portato avanti da 60mila zabbalin, la minoranza cristiana copta ghettizzata in quelle zone.

1� TURCHIA

Uno scalo per la Cina Dal 2017 tappa fondamentale per raffinare le scorie plastiche prima di spedirle negli inceneritori cinesi. Centinaia di roghi nei dintorni della città di Adana bruciano 700mila tonnellate di plastica, che ogni anno il Regno Unito spedisce. E mentre le norme stabiliscono che quei rifiuti non dovrebbero essere esportati se non per essere riciclati, il tasso di riutilizzo nella penisola anatolica (12%) è il più basso tra i membri OCSE.

CRIMINE Ecomafie: il business dei rifiuti

A cura di Filippo di Chio

Montichiari, Capriano del Colle, Caserta. Fino al triangolo della morte Acerra-Nola-Marigliano.

L’Italia è punteggiata di località dove immondizia e criminalità organizzata si incrociano a formare le cosiddette “ecomafie”. Per loro la gestione dei rifiuti è la quarta fonte di reddito dopo il traffico di droga, la contraffazione e la tratta di umani. Ed è facile capire il perché. Basti pensare che, secondo la World Bank, nell’anno 2050 l’intero pianeta produrrà 4 miliardi di tonnellate di immondizia. Il concetto è abbastanza semplice. Un’organizzazione malavitosa si presenta come ditta specializzata in smaltimento e offre prezzi vantaggiosi a un imprenditore: 40-60% in meno rispetto al costo del procedimento regolare. Da qui le opzioni sono svariate. Accumulo, interramento e roghi senza la minima attenzione agli standard di sicurezza. Fino all’esportazione in Paesi del terzo mondo. I rifiuti pericolosi sono mescolati con immondizia regolare per rendere quasi impossibile il tracciamento. Una situazione win-win per l’imprenditore (che risparmia) e per la mafia (che ci guadagna a rischio nullo). E le istituzioni, regionali e centrali, non riescono ad arginare il problema. O non vogliono. Sembra quasi che a ogni sequestro segua l’apertura di una nuova discarica illegale in mano a chissà quale clan. Il più delle volte, però, ai danni ambientali ci si limita a voltare le spalle.

VITTORIE
Là dove c’era cenere ora ci sono i pioppi

A cura di Filippo di Chio

Mille chilometri quadrati di terra malata. Avvelenata da fumi, fanghi, veleni e gas. La Terra dei fuochi non è che una lontanissima parente di quei colli che erano dolce dimora della ricca latinità. Il verde si è trasformato in nero, i profumi in puzzo. Ma nel podere di San Giuseppiello, a Giugliano in Campania, c’è chi tenta di voltare pagina. Il progetto arriva direttamente dall’università Federico II di Napoli: bonificare quei 60mila metri quadri che fino a poco tempo prima erano stati usati dal clan dei Casalesi come sversatoio illegale di liquami industriali. L’area è stata prima mappata grazie alla fluorescenza ai raggi X, poi studiata nei suoi componenti chimici. E infine riabitata grazie a 20mila pioppi, una specie arborea che estrae i metalli pesanti come il cadmio. Le radici li assorbono e il tronco li conserva. In più sono stati sfruttati batteri in grado di biodegradare gli idrocarburi presenti nella terra. Il risultato è il dimezzamento della concentrazione di metalli pesanti.

Un bosco vivo, punteggiato da fauna e flora, sta al posto di un mostro in mano alle ecomafie. «Abbiamo trasformato un simbolo di degrado in un bosco, ricostruendo un ecosistema che sta generando biodiversità», esulta il docente universitario Massimo Fagnano. Il progetto è costato circa un milione di euro a fronte dei 20 milioni richiesti per metodi “tradizionali”. Una vittoria economica e ambientale.

Edifici (riciclati) e cultura

Tre miliardi e mezzo di euro per riqualificare 529 edifici abbandonati in Italia. A Milano un vecchio deposito ferroviario è diventato un “tempio” culturale under 35

milioni di euro, cifra destinata a raggiungere quota 126 milioni nel 2026.

Un esempio di come gli edifici abbandonati possano essere riqualificati e trasformati in luoghi culturali vitali è il Tempio del Futuro Perduto a Milano. E non solo per iniziativa dello Stato, ma anche per volere dei cittadini. L’idea nasce nel 2018 dalle rovine del lotto 2 della Fabbrica del Vapore, situata tra via Giulio Cesare Procaccini e via Luigi Nono, a fianco del Cimitero Monumentale.

eco-sostenibili.

Al momento la sua gestione è affidata a un collettivo di giovani sotto i 35 anni. L’area include anche un giardino pubblico di 1.000 metri quadrati, aperto alla comunità circostante.

Burocrazia, un percorso a ostacoli

Il progetto è stato formalizzato attraverso una “call cittadina”, coinvolgendo l’intero territorio.

In Italia, nel 2023, sono stati avviati 529 interventi di riqualificazione, per un totale di 3,6 miliardi di euro. È quanto emerge dal rapporto pubblicato lo scorso anno dall’Agenzia del Demanio sull’attività di gestione del patrimonio immobiliare dello Stato.

Queste azioni sono distribuite in modo equilibrato sul territorio nazionale: 181 al Nord per un valore di 1,2 miliardi di euro, 169 al centro per oltre un miliardo e 179 al Sud per 1,3 miliardi.

nuovi progetti per un nuovo futuro

Dal 2021 al 2023 sono stati avviati 130 nuovi progetti, che hanno portato a una crescita degli investimenti dell’84%. Percentuale che si traduce in un valore complessivo di 1,9 miliardi di euro. Inoltre, grazie alle nuove attività, nel 2022 il Demanio ha risparmiato 30

La storia del Tempio inizia con l’occupazione dello spazio da parte di un gruppo di giovani artisti e attivisti. Tommaso Dapri, ideatore del progetto, racconta: «È nato da me, dal mio percorso artistico e da un bisogno inespresso della città. Vengo dal mondo dei centri sociali, dell’antagonismo anni ’90-2000, ho avuto la fortuna di girare il mondo facendo il DJ e mi sono reso conto che negli altri Paesi la riqualificazione e la rigenerazione urbana erano molto più avanzate rispetto all’Italia. In questo scenario serviva un nuovo modello che prendesse esempio dai centri culturali berlinesi».

da deposito a centro culturale

Il Tempio occupa 900 metri quadrati di un vecchio deposito ferroviario in disuso che è stato trasformato in uno spazio indipendente per eventi culturali, artistici e musicali. Non si tratta di una discoteca, ma di un luogo in cui svolgere attività umanitarie, creative ed

Nuova vita

A sinistra in alto, l’ex stazione di Milano Bullona trasformata in un locale. A destra in alto, il Tempio del Futuro Perduto in via Luigi Nono a Milano. A sinistra in basso, il Cinema Embassy di Bologna abbandonato.

A destra in basso, il rendering del progetto di recupero del Cinema Embassy di Bologna realizzato dall’Agenzia del Demanio. Foto grande: l’entrata del Tempio del Futuro Perduto

Nonostante gli iniziali ostacoli burocratici e la mancanza di percorsi normativi adeguati, alla fine il Tempio ha visto la luce: «La Fabbrica del Vapore era un’area abbandonata, come molte altre gestite dalle istituzioni. Ho provato a chiedere legalmente i permessi, ma non esistevano procedure per farlo. Tutti gli assessori che contattavo passavano la palla a quello successivo - precisa Dapri - A livello normativo non ci sono percorsi burocratici che consentano di lasciare spazi pubblici in mano ai cittadini proattivi. Il Comune di Milano poteva dire sì subito, ma mi ha denunciato. Ho occupato senza clandestinità, senza nascondermi, ho comunicato in un’assemblea pubblica quali sarebbero state le mie intenzioni».

Nel 2022 il tribunale ha dichiarato che non c’era reato di occupazione abusiva e la struttura è stata ufficialmente riconosciuta come istituzione culturale dal Comune di Milano. Così è diventato il primo centro indipenden-

Di Letizia Triglione

(nuova)...

te e multidisciplinare in Italia a ottenere tale status legale.

la riqualificazione grazie ai privati

Gli investimenti necessari per la ristrutturazione, che nel complesso è costata circa 250mila euro, sono stati generati dagli eventi culturali organizzati al Tempio. «Sono entrato qui con 300 euro e il necessario per pulire. Il luogo era interamente abbandonato, porte e finestre erano divelte e i cavi degli impianti elettrici rubati. È probabile che prima ci dormissero i senzatetto o anche degli spacciatori», spiega Dapri.

L’intero piano di lavoro è stato realizzato senza alcun fondo comunale o statale: «Non abbiamo mai ricevuto finanziamenti pubblici o sponsorizzazioni private, solo qualche donazione dalla Chiesa per comprare gli strumenti per allestire uno studio musicale per disabili. Abbiamo investito tutto ciò che guadagnavamo per migliorare l’area e i servizi, rendendo lo spazio autonomo dal punto di vista energetico e conforme alle norme di sicurezza», spiega il fondatore.

Dopo anni in stato di abbandono, il lotto 2 ha finalmente una nuova identità. Ma secondo Dapri: «La rigenerazione vera e propria la fanno le persone. Bisogna rendere il territorio fruibile a tutti e responsabilizzare i cittadini a prendersi cura di un bene comune, soprattutto se in degrado. Gli spazi abbandonati sono risorse gigantesche».

... per rivivere nella storia d’Italia

Sono circa 43mila gli edifici statali italiani inutilizzati a cui

potrebbe essere dato nuovo impiego per un valore di 62,5 miliardi di euro. Ma ci sono molti progetti per recuperarli

In Italia esistono circa 43mila immobili di proprietà statale, per un valore complessivo di 62,5 miliardi di euro.

Tuttavia, molti di questi edifici sono attualmente abbandonati o non utilizzati in modo ottimale, generando costi di mantenimento significativi senza apportare alcun beneficio alla collettività.

nuove opportunità per gli edifici

Questo patrimonio, se adeguatamente gestito, potrebbe essere trasformato in una risorsa utile per la comunità.

Ad esempio, molti di questi immobili potrebbero essere destinati a nuove funzioni, come scuole, centri culturali, abitazioni, uffici pubblici, spazi per start-up e imprese innovative. Nel resoconto pubblicato dall’Agenzia del Demanio sono presenti alcune idee per la loro riqualificazione, con l’obiettivo di offrire aree efficienti alla Pubblica Amministrazione.

due miliardi di spese di manutenzione

Le spese di manutenzione, vigilanza e sicurezza di queste strutture hanno un peso significativo sui bilanci pubblici. Inoltre, il degrado fisico degli edifici non utilizzati potrebbe comportare ulteriori costi di ristrutturazione in futuro.

Un rapporto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 2022 ha stimato che la spesa annuale per il loro mantenimento supera

i due miliardi di euro. Per affrontare questo problema, l’Agenzia del Demanio ha adottato un Piano Strategico Industriale della durata di cinque anni (2022-2026) che prevede investimenti per 2,1 miliardi di euro da realizzare entro il 2026 e 3,4 miliardi per interventi da avviare entro la stessa data. Questo piano mira a riqualificare almeno 5 milioni di metri quadrati di patrimonio immobiliare, con tre pilastri fondamentali: centralità dell’utenza, innovazione e digitalizzazione.

azioni per riconvertire gli immoBili

Tra le iniziative, il progetto “Valore PaeseFari”, che punta a recuperare e riqualificare le strutture costiere inutilizzate, trasformandole in mete turistiche e ricettive.

L’idea ha riscosso un notevole successo, con numerosi fari già assegnati a soggetti privati per essere convertiti in alberghi, ristoranti e centri culturali.

O ancora l’iniziativa “Cammini e Percorsi”, che mira a valorizzare edifici storici lungo itinerari turistici e culturali.

Questo progetto prevede il recupero di caselli ferroviari, case cantoniere e altre strutture storiche messe a disposizione di associazioni, cooperative e imprese per sviluppare attività turistiche e culturali.

Per quanto riguarda la rigenerazione urbana, invece, sono stati ideati alcuni progetti come le “Cittadelle della Giustizia” e i “Piani Città”, che prevedono la trasformazione di grandi complessi immobiliari in disuso in poli multifunzionali.

BRESCIA. Un ex casello ferroviario è ora una casa GIGLIO. Il faro di Capel Rosso diventato un albergo

Assenze alle stelle

Le elezioni europee del 2024 passano alla storia come le meno partecipate di sempre in Italia.

Ma non è che stiamo sprecando la democrazia?

«I giovani sono troppo occupati a stare al telefono per interessarsi alla vita pubblica», «Queste generazioni non capiscono l’importanza del voto», «I ragazzi non si intendono di politica». Scommettiamo che tutti, almeno una volta, abbiamo sentito una di queste frasi da un genitore, un nonno o uno zio, spesso accompagnata da un sospiro e dalla classica affermazione «Io alla vostra età, scendevo in piazza per i miei diritti».

astensione, una questione europea Non è sempre vero, ma è una dura realtà: molti giovani sono sfiduciati nei confronti della politica, spesso a causa di una formazione inadeguata o di un disinteresse per la vita pubblica. In Italia, l’astensionismo giovanile è un fenomeno particolarmente grave e, indipendentemente da chi ne sia la causa, la situazione rischia di compromettere la rappresentatività del nostro sistema politico e di favorire l’evoluzione di partiti in una direzione non sempre liberale. Il tutto si traduce in un vero e proprio spreco di democrazia.

L’assenza di giovani alle urne favorisce l’inerzia politica e il perpetuarsi di azioni che non rispondono alle loro necessità, generando un circolo vizioso che si ripercuote su tutte le generazioni a venire. Questo scenario preoccu-

pante è stato al centro del dibattito pubblico che ha preceduto le elezioni europee 2024, tenutesi l’8 e il 9 giugno in Italia.

Si trattava di una preoccupazione fondata perché, a prescindere dalla presenza di giovani, sono state le elezioni meno partecipate in Italia: le aree con più astensionisti sono state quelle meridionali e insulari. Si è registrata un’affluenza del 49,69%, dato in calo rispetto al 50,6% del 2019.

chi votano i giovani, fuorisede e non

Per quanto riguarda le preferenze degli under 30, secondi i dati elaborati da YouTrend, al primo posto c’è il Partito Democratico che ha ottenuto il 18% dei voti, seguito a stretto giro dal Movimento 5 Stelle con il 17% e da Alleanza Verdi e Sinistra con il 16%.

A destra invece, i voti sono andati principalmente al partito della premier Giorgia Meloni,

STUDENTI

La carica dei giovani fuorisede

19mila studenti fuorisede si sono recati alle urne per votare il Parlamento europeo senza dover tornare nel loro comune di residenza. Pari all’80,8% di coloro che ne avevano fatto richiesta. Erano 24mila gli studenti interessati ma per diversi motivi, tra cui la complessità delle procedure burocratiche, non tutti si sono presentati ai seggi. Nonostante questi dati, sembra che le strategie attuate dall’Unione Europea e dall’Italia per coinvolgere le nuove generazioni nella vita politica siano state un buon banco di prova.

Fratelli d’Italia e alla Lega con rispettivamente il 14% e il 9%.

Le questioni ambientali, l’uguaglianza e la giustizia sociale sono state invece le tematiche che hanno portato gli studenti fuorisede italiani a votare a larga maggioranza Avs che ha raggiunto il 40,4% delle preferenze, seguita da Pd con il 25,5% e Azione con il 10,2%.

un appello “al contrario”

Per combattere il fenomeno dell’astensionismo alle europee in Italia, erano stati proprio i giovani a mettersi in gioco. Prima dei seggi, infatti, l’associazione 20e30 aveva invitato tutti coloro che non avevano intenzione di recarsi alle urne nel fine settimana, e soprattutto i giovani, a iscriversi al “partito del non voto”. Non si è trattato però di un invito ad astenersi, tutto il contrario. Rappresentava invece «L’sos di una generazione che naviga a vista» si leggeva sul sito della raccolta firme. In pochi giorni l’iniziativa ha ottenuto 37.171 firme, la quasi totalità di cittadini under 35.

Ma non solo provocazioni.

un podcast per favorire la partecipazione

Un altro prodotto da e per i giovani pensato proprio per le scorse europee, era stato il podcast di Generazione Europa, realizzato in collaborazione con la rappresentanza della Commissione europea e dell’Ufficio del Parlamento europeo in Italia e la media partnership con Cnc media.

Cinque puntate in cui una speaker radiofonica dialogava con cinque diversi content creator e influencer popolari tra la generazione Z dei temi più caldi per i giovani: salute mentale, ambiente, social media e intelligenza artificiale. Ogni creator si soffermava sul tema che lo riguardava senza riferirsi direttamente al voto dell’8 e 9 giugno, ma facendo leggere tra le righe l’importanza di combattere alcune battaglie sociali e politiche a livello comunitario.

Di
STRASBURGO. Le bandiere all’esterno del Parlamento europeo
GIOVANI EUROPEI. I voti di molti under 30 sono andati ai partiti di sinistra
STUDENTI. 19mila fuorisede hanno votato senza dover tornare nel loro comune di residenza

VISTO DA

I VOTANTI NELL’UNIONE

Una crescita europea

Tra il 2004 e il 2024, al contrario del caso italiano, l’affluenza ai seggi delle elezioni europee è aumentata nonostante l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue

I VOTANTI IN ITALIA

Il calo italiano

Negli ultimi 20 anni la diminuzione di elettori che si sono recati alle urne per rinnvovare il Parlamento europeo è stata di 23 punti percentuali

«Non votare è una scelta che merita rispetto»

I giovani sono sempre al centro delle polemiche politiche, economiche e sociali, diventando il capro espiatorio di ogni evento negativo. Ma anche quando le nuove generazioni si impegnano per ottenere risultati reali, come nel caso delle europee, nessuno sembra dargli il giusto peso.

Ce ne parla il professor Alberto Mingardi, politologo, scrittore e giornalista.

«I giovani tendono a essere meno interessati alla politica rispetto agli anziani ed è abbastanza normale. In più, le elezioni europee sono un caso particolare: non è ben chiaro per che cosa si stia votando. C’è da dire che i partiti non hanno aiutato: in pochissimi hanno discusso di cose concrete, la maggior parte ha cercato di mobilitare i propri militanti che, a oggi, tendono a essere anziani».

Perché la maggior parte dei giovani italiani ha orientato il proprio voto a sinistra rispetto al resto d’Europa?

In questo momento storico, la causa giovanile più importante, assieme all’ambiente, è il movimento “pro-pal” e la destra italiana oggi è fortemente filo-israeliana. Inoltre, una battaglia come quella per il voto ai fuorisede è stata fortemente voluta dai giovani più attenti alla politica, che a loro volta tendono a essere di sinistra.

La candidatura di personaggi controversi come Ilaria Salis e Roberto Vannacci ha avuto un impatto positivo sui giovani?

Sicuramente ha accresciuto la consapevolezza diffusa sulle elezioni, quindi ha portato al seggio qualcuno (giovane o no) che altrimenti non ci sarebbe andato. È evidente che quei “testimonial” hanno canalizzato un grande entusiasmo. Del resto, la nostra vita è segnata dal rapporto con le celebrities, grazie ai social, più di quanto non lo sia mai stata. Anche in politica, le celebrità sono la luce che attrae le falene.

Le strategie adottate dall’Unione Europea per avvicinare i giovani al voto sono state utili o si sarebbe potuto sperimentare altro?

È difficile dirlo perché non sappiamo cosa sarebbe avvenuto altrimenti. Personalmente trovo fastidiosi gli appelli al voto. Anche

non votare è una scelta che merita rispetto. Il diritto di voto è un diritto, non un obbligo. Diversi studenti mi hanno detto di non sentirsi sufficientemente informati o preparati per andare a voto. Questa non è disaffezione: è una prova di maturità.

Esiste una distanza tra giovani e politica?

A parte alcuni, molti non si interessano fino a un’età più avanzata. Non è per forza un male: fare esperienza della vita è anche pagare le imposte sul reddito o i contributi per la pensione. Chi sviluppa un’opinione su questi temi sulla base della sua esperienza tende a essere meno ideologico di chi sguaina la scimitarra delle questioni di principio. In genere, anche il virus dell’interesse per la politica si sviluppa perché qualcosa di esterno alla politica stessa accende la nostra attenzione. La guerra in Ucraina o il conflitto israelo-palestinese sono due esempi.

Pensa che il poco coinvolgimento dei giovani nella politica sia anche causa della poca attenzione che i leader hanno nei confronti di alcune tematiche care alle nuove generazioni?

Sì e no. Sì perché nessuno ha provato a costruire consenso su cause che dovrebbero essere di interesse dei giovani. No perché si tratta di argomenti difficili ed elettoralmente poco sapidi. Mario Monti ha detto più volte che dovrebbe esistere una Greta Thunberg del debito pubblico ed è vero: si tratta di un peso caricato sulle spalle delle giovani generazioni.

Ma la Greta del debito non c’è ed Elsa Fornero non è diventata l’idolo dei ragazzi per averli alleggeriti dal fardello delle pensioni delle generazioni precedenti. Non è detto che i temi potenzialmente interessanti per i giovani siano facilmente declinabili nel loro linguaggio.

Queste elezioni hanno registrato il record di astensionismo. Crede che si verificherà un’inversione di tendenza?

È difficile fare previsioni. La gente va a votare se viene posta loro una domanda chiara o se ha la percezione che sia importante dire la sua. Non aiuta il fatto che la politica diventi sempre più aggrovigliata. Un grande evento potrebbe accrescere la partecipazione politica, ma siccome i grandi eventi sono di solito terribili, non è il caso di augurarselo.

Quello che l’acqua sradica

I fenomeni atmosferici estremi affamano sempre di più il nostro pianeta. Si stima che il 30% del cibo prodotto a livello mondiale venga perduto a causa di eventi naturali

«Non ti alzi da tavola senza aver prima finito tutto quello che c’è nel piatto». Quante volte abbiamo sentito questa frase. E quante volte, da piccoli, eravamo infastiditi perché volevamo alzarci per andare a giocare. Eppure in queste semplici parole c’è un insegnamento fondamentale: non bisogna sprecare il cibo. Molto probabilmente le mamme e le nonne di tutto il mondo non potevano immaginare quanto il cambiamento climatico e tutti gli eventi naturali catastrofici avrebbero inciso sulla filiera alimentare.

Secondo la FAO – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura – circa il 30% del cibo prodotto a livello mondiale ogni anno viene perso o sprecato a causa dei fenomeni climatici.

camBiamento climatico e agricoltura

Le catastrofi naturali hanno un impatto significativo sia sulla produzione, sia sulla disponibilità di cibo determinando, come diretta conseguenza, un aumento delle spreco alimentare. È difficile quantificare effettivamente quanto cibo si butta via per colpa di questi eventi. Sicuramente le inondazioni, la siccità, gli uragani e gli incendi boschivi sono fenomeni in grado di distruggere interi raccolti, per esempio l’uragano Maria del 2017 che ha devastato pesantemente l’agricoltura di Porto Rico, distruggendo circa l’80% delle colture dell’isola. Gli eventi di questa portata sono in grado, ol-

tre che di rovinare un intero raccolto, anche di danneggiare strade e ponti interrompendo il trasporto degli alimenti dalla zona di produzione al luogo di vendita. Durante il terremoto di Tohoku del 2011 in Giappone, molte aree agricole a causa dei danni alle infrastrutture sono rimaste isolate, non potendo procedere con la spedizione dei prodotti alimentari ai consumatori.

non solo trasporti

Anche i magazzini e le strutture di conservazione possono essere coinvolti, rendendo impossibile mantenere in buone condizioni il cibo e determinando, così, un ulteriore motivo di spreco.

L’alluvione del 2010 in Pakistan ne è un esempio perfetto. La potenza dell’acqua ha distrutto tantissimi magazzini con all’interno enormi quantità di cereali e altre riserve alimentari che sono andate perse.

In molti Paesi in via di sviluppo, i fenomeni naturali hanno un impatto maggiore perché la distruzione dei raccolti, la mancanza di collegamenti per il trasporto e i danneggiamenti alle strutture di conservazione incidono pesantemente su tutta la produzione. Le perdite rappresentano una significativa percentuale del cibo prodotto, mettendo in grave difficoltà tutta la filiera alimentare. Per

cercare di limitare il fenomeno sarebbe opportuno introdurre delle misure di mitigazione, come il miglioramento delle infrastrutture, l’adozione di tecnologie di conservazione avanzate e la pianificazione di interventi in caso di emergenza. Se si adottassero effettivamente queste azioni, si potrebbe ridurre l’impatto delle catastrofi sullo spreco alimentare.

i metodi per contrastare lo spreco

La FAO ha dichiarato che le perdite si distribuiscono per il 54% nelle fasi iniziali della catena produttiva e per il 46% in quelle finali.

Partendo da questa consapevolezza, l’organizzazione ha proposto una serie di strategie per ridurre lo spreco alimentare: migliorare la comunicazione lungo la filiera e ottimizzare le pratiche post-raccolta.

Anche se, per poterle applicare, è richiesto uno sforzo a livello globale visto che il cambiamento climatico sta mettendo a dura prova la sicurezza alimentare influenzando ogni singolo aspetto della filiera.

Non bisogna, però, pensare che il problema tocchi soltanto il settore secondario dal punto di vista produttivo. I cambiamenti a lungo termine stanno condizionando anche la qualità nutritiva delle colture. La sensibilità dei germi, dei microrganismi potenzialmente tossici, dimostrano come il cambiamento climatico è in grado di influenzare sia la comparsa, sia l’intensità di alcune malattie veicolate da alimenti.

clima e organismi invasivi

Condizioni climatiche così mutevoli possono favorire l’insediamento di specie esotiche invasive e dannose per la salute delle piante e degli animali. Il riscaldamento del mare in superficie, per esempio, può generare una proliferazione di alghe tossiche provocando una contaminazione dei frutti di mare che, ormai, fanno parte del nostro regime alimentare.

Sembra, quindi, sempre più necessario riscoprire gli insegnamenti di mamme e nonne adottando a tavola abitudini più consapevoli. In fondo il rispetto per il cibo significa rispettare sia il nostro pianeta, sia tutti quelli che lo abitano.

CAMBIAMENTO CLIMATICO. Una pianta di pomodori distrutta da una grandinata nella Val Tidone, tra Pavia e Piacenza

Non tappiamo un tubo!

Il 42% dell’acqua viene persa prima che arrivi ai rubinetti italiani. In Europa, solo Irlanda e Bulgaria hanno un tasso di dispersione più alto. La situazione peggiore è al Sud

Immaginate una cisterna d’acqua, costruita per soddisfare le esigenze di una città intera, che perde più della metà del suo contenuto prima di raggiungere le case. Sembra un incubo, vero? Eppure, è la realtà. O almeno lo è per molte regioni italiane. L’Italia è tra i Paesi europei con il più alto tasso di dispersione idrica. Una perdita media pari al 42% secondo l’Istat. Un dato che testimonia un sistema infrastrutturale obsoleto. Il 60% delle reti idriche italiane è entrato in funzione oltre 30 anni fa, mentre il 25% supera i 50 anni. È necessario un rinnovo delle infrastrutture, supportato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che riduca la dispersione.

cause ed effetti di infrastrutture vecchie Uno dei principali fattori che contribuiscono a questa inefficienza è la frammentazione della gestione idrica. L’Italia conta 2.400 gestori sul territorio nazionale, una divisione che complica il miglioramento degli impianti e la capacità di modernizzarli.

Le perdite d’acqua non solo rappresentano uno spreco di risorse vitali, ma aggravano anche la situazione idrica del Paese, già messa a dura prova dai cambiamenti climatici. Sempre secondo l’Istat, nel 2020 sono stati immessi nelle reti comunali 81 miliardi di metri cubi d’acqua per uso potabile, ma solo 47 miliardi di metri cubi sono stati effettivamente erogati. Quindi, quasi la metà dell’acqua viene persa

lungo il tragitto. Non a caso a livello europeo, l’Italia è il terzo peggior Paese per dispersione idrica. Solo Irlanda (54%) e Bulgaria (64%) sprecano più acqua, mentre Paesi Bassi (5%), Germania (6%) e Danimarca (8%) sono le nazioni più virtuose. La zona d’Italia più colpita è il Sud. In Basilicata, Abruzzo, Sicilia e Molise più del 60% dell’acqua viene perso. Al contrario, la Valle d’Aosta è la regione con i tassi più bassi. Questa disparità riflette non solo la condizione delle infrastrutture, ma anche le differenti capacità gestionali delle regioni. Ma quali sono le attività in cui lo spreco d’acqua è maggiore?

cola consuma fino al 70% delle risorse d’acqua dolce disponibili sul pianeta e l’acqua attinta dalle falde viene persa per circa il 50%, a una velocità superiore a quella con la quale è sostituita. Questo per via di perdite nelle tubazioni, di sistemi di irrigazione inefficienti o antiquati e di tempi di inaffiamento eccessivi. C’è poi il consumo casalingo. Lavare i piatti a mano, fare il bagno in vasca, lasciare i rubinetti aperti e utilizzare scaldabagno obsoleti provoca perdite cospicue. Secondo l’Istat, l’utilizzo della lavastoviglie abbatte il consumo d’acqua fino all’80-90%. Installare rubinetti frangiflutto e miscelatori favorisce un risparmio idrico di oltre il 50%. Ma anche la produzione di cibo contribuisce notevolmente allo spreco. Per esempio, per produrre un chilo di carne di manzo occorrono circa 15mila litri d’acqua.

cittadini consapevoli

L’irrigazione consuma fino al 70% delle risorse di acqua dolce

attività ad alto consumo I guasti agli impianti di distribuzione sono una delle principali cause. Secondo il report Acqua 2019 dell’Istat, solo cinque province italiane (Pordenone, Mantova, Lodi, Monza e Macerata) disperdono meno del 15% d’acqua nel passaggio dalla fonte al rubinetto, mentre quasi la metà (47 su 106) lascia per strada più del 35%. Palermo è la città peggiore in questo senso, seguita da Catania e Bari. Ma il settore in cui lo spreco è più alto è l’agricoltura. Come si legge nel libro Goccia a Goccia di Florencia Ramirez, pubblicato nel 2020, a livello mondiale le falde acquifere sotterranee calano ogni anno di oltre 370 miliardi di litri. L’irrigazione agri-

Da un’indagine Ipsos è emerso che la crescente consapevolezza della crisi idrica ha portato il 94% degli italiani a modificare le proprie abitudini domestiche per risparmiare acqua e energia. Tuttavia, il problema strutturale persiste. Il 29% delle famiglie non si fida a bere l’acqua del rubinetto, il che ne aumenta il consumo in bottiglia e aggrava la situazione. Secondo il World Resources Institute, l’approvvigionamento idrico in Italia entrerà in uno stato critico entro il 2040. Sono necessari un rinnovo delle infrastrutture, una gestione più centralizzata e coordinata delle risorse e una continua sensibilizzazione dei cittadini sull’importanza del risparmio. I fondi forniti dal Pnrr sono un passo importante in questa direzione. A oggi il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti ha distribuito 1,9 miliardi di euro per realizzare 103 interventi sul territorio nazionale. Il programma è ambizioso: costruire almeno 45mila km di rete idrica entro il 31 marzo 2026, che equivale al 10% delle tubature che attualmente si estendono in tutto il Paese. Ridurre le perdite idriche significa combattere il cambiamento climatico, prevenire la dispersione di risorse e salvaguardare le fonti d’acqua dolce. Obiettivi fondamentali per l’Italia e per il mondo che verrà.

RISORSE BUTTATE. Le infrastrutture vecchie aggravano la situazione idrica in Italia, già messa a dura prova dai cambiamenti climatici

Tic tac: fermate quelle lancette

Quando è poco è la risorsa che ci manca più di tutte, quando non lo sfruttiamo è perduto per sempre, quando si misura è rapidissimo. Cos’è? Il tempo

«Stavo andando a prendere la metro. Ero in ritardo. All’ingresso della stazione c’era un ragazzo che disegnava graffiti. All’inizio ho pensato ‘deve avere tanto tempo libero se alle 4 di pomeriggio scarabocchia su un muro’. Poi mi sono resa conto che la mia era soltanto invidia». Una studentessa è seduta su una panchina. In mano, una schiscetta. Manca poco più di un’ora al suo primo esame della sessione estiva e la pausa pranzo deve essere veloce. A lei è sembrato che quel ragazzo avesse tempo da perdere, ma la verità è che, semplicemente, lo stava impiegando meglio. «Avevo fretta di tornare a casa per ripassare, ma mi sono fermata a chiacchierare con un’amica in università. Così ho perso tempo e ho rischiato di perdere anche il treno. Mentre correvo pensavo ‘perché non riesco mai a fare con calma?’».

siamo padroni del nostro tempo?

Le risposte possono essere diverse. «Una giornata dura 24 ore. A volte, però, ne servirebbero di più», commenta l’amico seduto sulla stessa panchina, anche lui con una schiscetta in mano e un esame imminente. «Mi piacerebbe avere due ore in più al giorno per dedicarmi a quello che davvero mi piace, come lo street artist che disegna graffiti». Il ragazzo guarda per qualche secondo la pasta fredda che ha davanti, girandola con la forchetta come se stesse cercando tra i fusilli le parole giuste per con-

tinuare il discorso. «Se penso a quanto tempo perdo, per esempio, sui mezzi… Tra gli scioperi e i ritardi c’è sempre un problema. E anche quando prendo la macchina la situazione non migliora, mi blocco nel traffico». Insomma, essere padroni del nostro tempo sembra complicato. L’amica che ci ferma per chiacchierare, l’inconveniente sulla metro, l’incidente stradale: tutti fattori che non dipendono da noi e che ci impediscono di utilizzare il nostro tempo come meglio crediamo. Ci sembra di non controllare le nostre giornate, con una routine modellata su doveri e imprevisti. Non su piaceri e impegni ben organizzati.

un passo alla volta

facile, perché posticipare di qualche mese la laurea mi sembrava una perdita di tempo. Poi ho capito che mettendoci un po’ di più ci avrei guadagnato in salute mentale», racconta la ragazza mentre si gode qualche sprazzo di sole. Per molti, impiegare più tempo del previsto per raggiungere un obiettivo significa sprecarlo. Per altri, invece, è un modo per ricaricare le energie e, soprattutto, per non impazzire cercando di dividersi fra mille impegni e attività. Perché il multitasking, tanto decantato nella società attuale, non è sempre la soluzione.

multitasking come i computer (o forse no)

Il termine deriva dall’informatica e indica la capacità di un sistema operativo di eseguire più programmi in contemporanea. Essere multitasking, quindi, significa comportarsi come delle macchine, ma anche loro hanno una debolezza.

Il cervello di un computer, il processore, svolge i diversi compiti che noi umani gli chiediamo. Se, per esempio, selezioniamo due programmi, il brevissimo tempo che passa tra l’avvio del primo e quello del secondo ci dà l’impressione che si siano aperti nello stesso momento. In realtà, però, il singolo processore può concentrarsi su un input alla volta, eseguendo per qualche istante la prima applicazione e per qualche istante successivo la seconda. Anche la mente del computer quindi, per quanto efficiente e veloce sia, può fare soltanto una cosa per volta.

Anche il computer più veloce può fare una sola cosa per volta

Su una panchina poco più in là, un’altra ragazza è in pausa pranzo. Lei, però, il primo esame della sessione l’ha già dato. «Me ne mancano ancora due, poi mi dedicherò solo alla tesi. All’inizio dell’università pensavo che mi sarei laureata subito dopo aver finito gli esami, ma mi sono resa conto che studiare e scrivere la tesi contemporaneamente era troppo per me. Ho deciso di concentrarmi su una cosa alla volta». Un passo dopo l’altro, senza fretta. Anche se, in alcuni casi, l’impressione è che qualcuno ci rincorra. «Non è stata una scelta

Molti si chiedono se sia possibile essere davvero multitasking e se questo permetta di impiegare in modo più efficace il proprio tempo. Secondo la maggior parte degli studiosi, però, il multitasking non esiste, perché dividere l’attenzione tra compiti diversi mina la qualità delle prestazioni.

E allora come possiamo non perdere tempo?

Una risorsa che si può annoverare fra quelle non rinnovabili, quelle che una volta utilizzate non si rigenerano. A ogni risveglio abbiamo 24 ore nuove, ma quelle del giorno prima non possiamo più recuperarle. Ci sarebbe da chiedersi, allora, se non sia il caso di istituire una Cop per il tempo, al pari di quella dell’Onu per il clima.

Di Erica Vailati
LA MEMORIA RESTA, IL TEMPO NO. La persistenza della memoria, quadro di Salvador Dalì con cui il pittore riflette sulla relatività del tempo

I semi dell’odio

Una rassegna cinematografica promossa da IULM per invitare a una riflessione su come cultura e arte possano dare il loro contributo alla risoluzione degli scenari di guerra

La violenza che ci circonda, amplificata e diffusa dai mezzi di comunicazione, sembra testimoniare un bisogno antropologico di odiare, che spesso si declina in forme di prevaricazione e sopruso, non solo tra individui, ma anche e soprattutto tra popoli. Il desiderio di discutere le radici di questa irresistibile tensione umana al massacro è ciò che ha indotto il Professor Gianni Canova, Rettore dell’Università IULM, a proporre una rassegna cinematografica, simbolicamente intitolata I semi dell’odio, «per alzare il livello della riflessione rispetto alla drammatica situazione geopolitica in cui ci troviamo» e offrire, attraverso il cinema, degli spunti per un dialogo più approfondito su questi temi. L’occasione per farlo è stata fornita da quattro appuntamenti, ogni martedì dall’11 giugno al 2 luglio, per interrogarsi su «dove, come e perché nasce il bisogno di odiare». Sono stati scelti quattro film che possano dare qualche contributo utile alla riflessione su quello che sta accadendo. Tre delle quattro proposte (Civil War di Alex Garland, As Bestas di Rodrigo Sorogoyen e L’insulto di Ziad Doueiri) appartengono all’ultimo decennio e offrono certamente delle chiavi di lettura contemporanee della questione, pur non trattando direttamente i conflitti in corso. Il quarto titolo, Furia di Fritz Lang, uscito nel 1936, rappresenta invece una virtuosa eccezione.

«Spesso è l’inattuale che entra più radicalmente nell’attuale». spiega il Professor Canova, Le proiezioni hanno avuto luogo in due spazi molto differenti tra loro. I primi due appuntamenti sono stati ospitati dal Palazzo del Cinema Anteo, Le altre due serate si sono tenute invece al Memoriale della Shoah, che ha aperto le sue porte a quella che è da subito parsa una bella iniziativa di promozione del dialogo e della cultura della pace. «Noi del Memoriale da tanti anni facciamo iniziative che non riguardano solo la Shoah e la storia e la memoria ebraica - osserva Marco Vigevani, presidente del comitato eventi della Fondazione Memoriale - ma ci siamo occupati del Mediterraneo, dei migranti, del genocidio armeno, del genocidio dei rom e dei sinti».

A presentare i titoli quattro ospiti d’eccezione, figure importanti della cultura milanese: oltre a Canova, Antonio Scurati, Benedetta Tobagi e Paolo Mereghetti. Le loro interpretazioni, unite alla visione dei film, hanno stimolato gli spettatori a ricostruire che cosa spinge a odiare “l’altro”, per capire come estirpare “i semi dell’odio”. Non abbastanza, forse, per parlare di catarsi, ma senz’altro «un tentativo di guardare i film e poi di guardarsi dentro e di capire quanto anche noi forse siamo, anche non volendolo, corresponsabili di quanto accade», auspica il Professor Canova, che, citando Susan Sontag, ricorda come «la compassione, o lo schierarsi dalla parte ritenuta “giusta”, spesso ci esoneri dall’obbligo di interrogarci su quanto anche noi siamo corresponsabili».

INCONTRI

Fondamenta 2, lezioni aperte a tutti

Dopo il successo della prima edizione, l’Università torna a proporre Fondamenta, 15 lezioni sugli imprescindibili della cultura. Un insegnamento online, gratuito e aperto alla cittadinanza, che l’Ateneo articola nella duplice forma di corso universitario ma anche di materiale a disposizione del pubblico. L’approccio di questa edizione è ancora più biografico, motivato dalla convinzione che la cultura e le idee non possano che essere approcciate in relazione alla vita vissuta. Con l’aiuto di esperti, gli studenti e i cittadini possono mettersi in cammino alla scoperta di grandi protagonisti della storia e della cultura, da Cicerone a Machiavelli, da Manzoni a Freud, fino ad arrivare a figure quasi contemporanee, come Walt Disney e Rita Levi Montalcini.

TEATRO

Cala il sipario su IULM On Stage 2024

A cura di Alessandro Dowlatshahi

Lunedì 3 giugno al Teatro Lirico Giorgio Gaber, la Compagnia del Centro Universitario Teatrale della IULM ha messo in scena gli spettacoli I fratelli di Argo e Shakespeare, o l’avventura delle passioni. L’evento, realizzato in collaborazione con la compagnia di produzioni teatrali Stage Entertainment, ha chiuso l’edizione 2024 di IULM On Stage. Lo spettacolo è stato un’occasione per raccontare la passione degli studenti per il teatro, per la creatività e le relazioni dal vivo. La rappresentazione si è inserita nelle iniziative dedicate alla Word of the Year, la parola dell’anno, che nel 2024 è “Avventura”.

VIOLENZA. Quattro appuntamenti per interrogarsi sul perché nasce il bisogno di odiare

rifiuti generati nell’edizione 2015 per creare due sale introduttive all’evento di architettura.

Junk art, trash art, waste art, recycled art

Il termine “Junk art” risale al 1961 ed è stato coniato dal critico d’arte britannico Lawrence Alloway in occasione della mostra The Art of Assemblage, al MOMA di New York. Ma già dai primi decenni del ‘900 numerosi artisti avevano adottato la strategia di creare opere d’arte a partire da materiali considerati “rifiuti”, “scarti”, “spazzatura”: dalla Ruota di bicicletta di Duchamp, del 1913, alla Testa di toro di Picasso, del 1942, ricavata da una sella e un manubrio di bicicletta, passando per le Accumulazioni di Arman, degli anni ’60, e i quadri-trappola di Daniel Spoerri, in cui i resti di un pranzo venivano incollati sul tavolo e appesi al muro. E poi l’Arte Povera, con Michelangelo Pistoletto e, via via, in anni più recenti, le opere dell’artista brasiliano Vik Muniz e le monumentali opere di Ha Schult, esposte in tutto il mondo, dalla Grande Muraglia alle piramidi di Giza, dalla Piazza Rossa al Ponte di Brooklyn.

Marco Capovilla - docente del Master in Giornalismo IULM

Biennale di Venezia 2016: l’architetto cileno Alejandro Aravena ha utilizzato oltre 90 tonnellate di
Jurassic Plastic: l’artista giapponese Hiroshi Fuji ha creato un una mostra d’arte con sculture di dinosauri costruite utilizzando vecchi giocattoli provenienti da Giappone e Thailandia.
One After The Others: Khalil Chishtee, visual artist pakistano, ha realizzato una scultura che rappresenta cinque persone a grandezza naturale composte interamente da sacchetti di plastica.
Plastic Ocean: l’installazione dell’artista di Singapore Tan Zi Xi vuole trasformare le persone in pesci per sensibilizzare sull’enorme quantità di plastica che inquina gli oceani della Terra.
Due ore in spiaggia: l’artista Susan Lenz ha raccolto rifiuti su una spiaggia e li ha uniti.
I quadri-trappola di Daniel Spoerri: i residui di un pranzo venivano incollati sul tavolo.
Cycle and Recycle: il fotografo Paul Bulteel vuole incoraggiare il riciclo dei rifiuti.
7 days of garbage: dalla serie di Gregg Segal due persone nei rifiuti prodotti in sette giorni.
Trash People: l’artista tedesco Ha Schult ha realizzato centinaia di figure umane a grandezza naturale realizzate comprimendo rifiuti urbani e materiali di scarto.

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